05 novembre 2012

Chi possiede il mondo?

AMY GOODMAN: Siamo a Portland, Oregon, perché facciamo parte del giro in 100 città organizzato dalla Maggioranza ridotta al silenzio. Questa settimana in cui il presidente Obama e l’aspirante alla presidenza, Mitt Romney hanno fatto un dibattito su problemi di politica estera, e sull’economia, noi ci rivolgiamo a Noam Chomsky, dissidente politico famoso in tutto il mondo, linguista, scrittore, e professore al MIT. In un recente discorso, il professor Chomsky ha esaminato argomenti in gran parte ignorati o soltanto accennati durante la campagna elettorale, dalla Cina alla Primavera Araba, al riscaldamento globale e alla minaccia nucleare posta da Israele contro l’Iran. Ha parlato il mese scorso all’Università del Massachusetts ad Amherst a un evento sponsorizzato dal Center for Popular Economics. La sua conferenza era intitolata. “Chi possiede il mondo?” NOAM CHOMSKY: quando pensavo a queste osservazioni, avevo in mente due argomenti, non riuscivo a decidere quale dei due scegliere, in effetti molto ovvii. Uno è: quali sono i problemi più importanti che dobbiamo affrontare? Il secondo è: quali problemi non si stanno trattando seriamente – o per nulla – in questa follia quadriennale in corso che si chiama elezione? Mi sono però reso conto che non c’è un problema; non è una scelta difficile: sono lo stesso argomento. E ci sono delle ragioni che sono di per se stesse molto significative. Mi piacerebbe tornare su questo punto fra un momento. Prima dirò alcune parole sul contesto, iniziando dal titolo che è stato annunciato: “Chi possiede il mondo?” In realtà, una bella risposta a questa domanda è stata data tanti anni fa da Adam Smith, una persona che ci si aspetta che adoriamo, ma che non leggiamo. Era un po’ sovversivo quando lo si legge. Si riferiva alla nazione che era la più potente del mondo ai suoi tempi, e, naturalmente, era la nazione che lo interessava, cioè l’Inghilterra. E ha fatto notare che in Inghilterra gli architetti della politica sono coloro che possiedono la nazione: e che ai suoi tempi erano i mercanti e i produttori di merci. E ha detto che essi si assicurano di disegnare le linee politiche, in modo che i loro interessi vengano seguiti in modo particolare. La politica è al servizio dei loro interessi, per quanto sia doloroso l’impatto sugli altri, compreso il popolo inglese. Smith era, però un conservatore vecchia maniera con principi morali, quindi ha aggiunto le vittime dell’Inghilterra, le vittime di quella che chiamava “l’ingiustizia selvaggia degli Europei”, dimostrata specialmente in India. Ebbene, non aveva illusioni su chi fossero i proprietari, quindi, per citarlo di nuovo, “Tutto per noi stessi e nulla per le altre persone, sembra, in ogni età del mondo, essere stata la ignobile massima dei padroni del genere umano.” Era vero allora; è vero adesso. La Gran Bretagna ha mantenuto la sua posizione come potenza mondiale dominante quando il ventesimo secolo era già cominciato da un pezzo, malgrado il suo declino progressivo. Alla fine della seconda guerra mondiale, il dominio si era spostato rapidamente nelle mani dell’ultimo arrivato al di là del mare, gli Stati Uniti, di gran lunga la società più potente e ricca nella storia del mondo. La Gran Bretagna poteva aspirare soltanto ad essere il suo socio meno anziano, come aveva mestamente riconosciuto il Foreign Office britannico (il mistero degli esteri). In quel momento, il 1945, gli Stati Uniti possedevano letteralmente la metà della ricchezza mondiale, incredibile sicurezza, controllavano l’intero emisfero occidentale, entrambi gli oceani, le sponde opposte di entrambi gli oceani. Non c’è nulla, non c’è mai stato nulla del genere nella storia. E i pianificatori lo hanno capito. I pianificatori di Roosvelt si incontravano durante la Seconda guerra mondiale per disegnare il mondo del dopo guerra. Erano molto sofisticati al riguardo, e i loro piani sono stati abbastanza messi in pratica. Volevano assicurarsi che gli Stati Uniti avrebbero controllato quella che chiamavano una “grande area” che avrebbe incluso, sistematicamente l’intero emisfero occidentale, tutto l’Estremo Oriente, l’ex Impero britannico, di cui gli Stati Uniti avrebbero preso il controllo, e il più possibile dell’Eurasia – cosa di importanza cruciale – i suoi centri di commercio e di industria in Europa occidentale. E nell’ambito di questa area, dicevano, gli Stati Uniti avrebbero mantenuto un potere indiscutibile con una supremazia militare ed economica, assicurando nello stesso tempo la limitazione di qualunque esercizio di sovranità da parte di stati che potessero interferire con questi disegni globali. Quelli erano piani piuttosto realistici a quell’epoca, data l’enorme disparità di potere. Gli Stati Uniti erano stati di gran lunga il più ricco paese del mondo perfino prima della Seconda Guerra mondiale, sebbene non ne fossero ancora i principali protagonisti mondiali. Durante la Seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti avevano guadagnato moltissimo. La produzione industriale era quasi quadruplicata, e ci aveva fatto uscire dalla depressione economica. I rivali nell’industria sono stati rovinati o seriamente indeboliti. Era dunque un sistema di potere incredibile. In effetti, le politiche che erano state delineate sono ancora valide. Si possono leggere nelle dichiarazioni del governo. E’ diminuita, però, in modo significativo la capacità di attuarle. In realtà c’è un tema importante nelle discussioni di politica estera, nel giornalismo e così via. Il tema si chiama “declino americano.” Quindi, per esempio, sul più prestigioso giornale di relazioni internazionali dell’establishment, il Foreign Affairs, (Affari esteri), un paio di mesi fa, c’era un argomento che aveva sulla prima pagina in grandi lettere in neretto la domanda: “L’America è finita?” Questo annunciava il tema della questione. E c’è un corollario standard a riguardo: il potere si sta spostando verso occidente, verso la Cina e l’India, che sono le due potenze in ascesa e che saranno gli stati egemonici del futuro. In effetti penso che il declino sia piuttosto reale, ma si richiedono alcuni seri requisiti. Prima di tutto, il corollario è altamente improbabile, almeno nell’immediato futuro. La Cina e l’India sono paesi molto poveri. Date soltanto un’occhiata, per esempio, all’Indice di sviluppo umano delle Nazioni Unite: quei due paesi sono molto in basso. La Cina è circa novantesima. Penso che l’India sia intorno al centoventesimo posto, l’ultima volta che ho guardato l’indice. E hanno anche terribili problemi interni: problemi demografici, povertà estrema, disuguaglianza terribile, problemi ecologici. La Cina è un grande centro manifatturiero, ma in realtà è soprattutto un impianto di assemblaggio. Assembla quindi parti e componenti, frutto di un’alta tecnologia che arriva dai suoi centri industriali più avanzati: il Giappone, Taiwan, la Corea del sud, Singapore, gli Stati Uniti, l’Europa – e fondamentalmente si limita a un lavoro di assemblaggio. E così comprate una di queste cose che iniziano con la -i, un ipod della Cina – si chiama prodotto di esportazione cinese, ma le parti, i componenti, e la tecnologia vengono da fuori. E il valore aggiunto in Cina è pochissimo: è stato calcolato. Saliranno nella scala della tecnologia, ma sarà una salita difficile, per l’India ancora di più. Si dovrebbe quindi essere scettici riguardo al corollario. C’è però un altro requisito che è più serio. Il declino è reale, ma non è un fatto nuovo. Va avanti dal 1945, ed è avvenuto molto rapidamente. Alla fine degli anni 40, c’è un avvenimento che è noto qui come “la perdita della Cina”. La Cina diventava indipendente. Era la perdita di un enorme pezzo della vasta area asiatica, ed è diventata un problema fondamentale nella politica interna americana. Chi è responsabile della perdita della Cina? Ci sono state un sacco di recriminazioni, ecc. In effetti l’espressione è piuttosto interessante. Per esempio, io non posso perdere il tuo computer, giusto? perché non lo possiedo. Posso perdere il mio computer. Ebbene, la locuzione “perdita della Cina” presuppone in un certo quale modo un principio profondamente rispettato del tipo di consapevolezza dell’elite americana: noi possediamo il mondo e se qualche suo pezzo diventa indipendente, lo abbiamo perduto. E quella è una perdita terribile; dobbiamo fare qualche cosa al riguardo. Non si mette mai in dubbio, e questo è di per sé interessante. Ebbene, circa nello stesso periodo, intorno al 1950, cominciarono a sorgere preoccupazioni sulla perdita del Sud est asiatico. Questo ha portato gli Stati Uniti alle guerre in Indocina, alle peggiori atrocità del dopo guerra – in parte vinte in parte no. Un avvenimento molto significativo nella storia moderna è avvenuto nel 1965, quando in Indonesia, che era il punto di maggiore preoccupazione – infatti essa è la nazione del Sud est asiatico con la maggior parte della ricchezza e delle risorse – c’è stato un colpo di stato militare, quello di Suharto. Ha portato a un incredibile massacro, che il New York Times ha chiamato una “sconvolgente strage di massa,” che ha ucciso centinaia di migliaia di persone, per lo più contadini senza terra; ha distrutto l’unico partito politico di massa; ha aperto il paese allo sfruttamento dell’Occidente. L’euforia in occidente era così enorme, che non si poteva contenere. E così sul New York Times , quando ha descritto la “sconvolgente strage di massa”, la ha chiamata “un barlume di luce in Asia.” Quell’ articolo è stato scritto da James Reston, il principale intellettuale liberale del Times. E lo stesso è accaduto altrove -in Europa, in Australia. E’ stato considerato un avvenimento fantastico. Anni dopo, McGeorge Bundy, che era il consigliere per la sicurezza nazionale di Kennedy e Johnson, a posteriori ha fatto notare che sarebbe stata una buona idea porre fine alla guerra del Vietnam, a quel punto, e ritirarsi. Contrariamente a tante illusioni, la Guerra del Vietnam è stata combattuta principalmente per assicurarsi che un Vietnam indipendente non si sarebbe evoluto con successo e non sarebbe diventato un modello per altre nazioni di quella area. Per prendere a prestito la terminologia di Henry Kissinger usata per il Cile, dobbiamo impedire che quello che chiamava il “virus” dello sviluppo indipendente diffondesse il contagio altrove. Questa è una parte critica della politica estera americana fin dalla Seconda guerra mondiale: la Gran Bretagna, la Francia e altri paesi in grado minore. E nel 1965, era finito. Il Vietnam del sud era praticamente distrutto. Si sparse la voce rivolta al resto dell’Indocina che esso non doveva essere il modello per nessuno e il contagio è stato contenuto. Il regime di Suharto si era assicurato di non venire contagiato. E abbastanza presto gli Stati Uniti hanno avuto dittature in ogni nazione di quella zona: Marcos nelle Filippine, una dittatura in Tailandia, Park Chun nella Corea meridionale. Non c’erano problemi per l’infezione. Pensava che sarebbe quindi stato un buon periodo per mettere fine alla Guerra del Vietnam. Ebbene questo è il Sudest asiatico. Il declino però continua. Negli ultimi 10 anni, c’è stato un avvenimento molto importante: la perdita del Sud America. Per la prima volta in 500 anni, dall’epoca dei conquistatori spagnoli, i paesi sudamericani hanno cominciato a muoversi verso l’indipendenza e verso un certo grado di integrazione. La struttura tipica di uno dei paesi Sudamericani era costituita da una piccola elite ricca, occidentalizzata, spesso bianca o per lo più bianca, e da una massa enorme di poveri; paesi separati tra l’uno dall’altro, ciascuno orientato verso l’Europa o, più di recente, verso gli Stati Uniti. Negli ultimi 10 anni, questo aspetto è stato superato in maniera significativa, c’è stato un inizio importante di integrazione, cioè il presupposto dell’indipendenza, e i paesi hanno cominciato ad affrontare alcuni dei loro spaventosi problemi interni. Questa è la perdita del Sud America. Un segno è che gli Stati Uniti sono stati cacciati via da ogni singola base militare del Sud America. stiamo cercando di ripristinarne alcune, ma proprio adesso non ce ne è nessuna. AMY GOODMAN : il Professore Noam Chomsky del MIT, discute del riscaldamento globale, della guerra nucleare e della Primavera Araba. NOAM CHOMSKY: Passando a parlare dell’anno scorso, la Primavera Araba è proprio una di queste minacce. Minaccia di eliminare quella grande regione dalla grande zona più grande E’ molto più importante del Sudest asiatico e del Sud America. Torniamo agli anni ’40, quando il dipartimento di stato aveva riconosciuto che le risorse energetiche del Medio Oriente sono ciò che chiamavano “uno dei maggiori tesori materiali nella storia del mondo,” una fonte spettacolare di potere strategico; se possiamo controllare l’energia del Medio Oriente, possiamo controllare il mondo. E questo è un tema che pervade tutte le decisioni politiche. Non se ne discute molto, ma è molto importante avere il controllo, proprio come i consulenti del Dipartimento di stato hanno fatto notare negli anni ’40. Se si controlla il petrolio, si controlla la maggior parte del mondo. E va ancora avanti così. Finora, la minaccia della Primavera Araba è stata abbastanza ben contenuta. Nelle dittature del petrolio, che sono le più importanti per l’Occidente, ogni tentativo di unirsi alla Primavera Araba, è stato stroncato con la forza. L’Arabia Saudita è stata così eccessiva, che quando c’erano tentativi di scendere in piazza, la presenza della sicurezza era così enorme, che la gente aveva perfino paura di uscire. C’è poco da discutere di quello che succede in Bahrein, dove la rivolta è stata soffocata, ma l’Arabia Saudita orientale ha fatto di molto peggio. Gli Emirati hanno il controllo totale e quindi tutto va bene. Siamo riusciti ad assicurare che la minaccia di democrazia venisse schiacciata nei luoghi più importanti. L’Egitto è un caso interessante. E’ un paese importante, è soltanto un piccolo produttore di petrolio. In Egitto gli Stati Uniti hanno però seguito una procedura operativa standard. Se qualcuno di voi entrerà in diplomazia, dovreste comunque impararla. C’è una procedura standard quando uno dei vostri dittatori preferiti si mette nei guai. Prima lo si appoggia il più a lungo possibile, ma se diventa davvero impossibile, diciamo che l’esercito si rivolti contro di lui, per esempio, allora gli si dà il ben servito e si fa in modo che la classe degli intellettuali rilasci risonanti dichiarazioni sul proprio amore per la democrazia, e poi si cerca di restaurare il vecchio sistema il più possibile. Ci sono una serie di casi di questa strategia: Somoza in Nicaragua, Duvalier ad Haiti, Marcos nelle Filippine, Chun nella Corea del sud, Mobutu in Congo. Ci vuole del genio per non accorgersi di tutto ciò. Ed è esattamente ciò che si è fatto in Egitto, e ciò che ha cercato di fare la Francia in Tunisia non proprio con lo stesso successo. Ebbene, il futuro è incerto, ma la minaccia della democrazia fin ora è stato contenuta. E’ una minaccia seria. Tornerò sull’argomento in seguito. E’ anche importante riconoscere che il declino negli ultimi 50 anni ce lo siamo inflitto da soli in misura significativa, specialmente a partire dagli anni ’70. Tornerò anche su questo argomento. Prima però fatemi dire un paio di cose sui problemi più importanti oggi e che vengono ignorati oppure non trattati seriamente – intendo dire trattati seriamente nelle campagne elettorali, per buone ragioni. Fatemi cominciare con gli argomenti più importanti. Ce ne sono due tra questi: Sono di importanza assoluta, perché da questi dipende il destino della nostra specie. Uno è il disastro ambientale, e l’altro è la guerra nucleare. Non dedicherò molto tempo a esaminare le minacce del disastro ambientale. In realtà, sono in prima pagina tutti i giorni. Per esempio, la settimana scorsa il New York Times aveva una notizia in prima pagina intitolata: “Alla fine dello scioglimento estivo, il ghiaccio del Mare Artico stabilisce un nuovo record negativo che provoca allarme.” Lo scioglimento questa estate è stato molto più rapido di quanto era stato predetto dai sofisticati modelli informatici e dal più recente rapporto delle Nazioni Unite. Si prevede ora che forse il ghiaccio scomparirà entro il 2020. Secondo la precedente previsione la data doveva essere il 2050. Hanno citato scienziati che hanno detto che questo è “un primo esempio del conservatorismo intrinseco delle [nostre] previsioni metereologiche. Per quanto terribili [siano le previsioni] sulle conseguenze a lungo termine delle emissioni che intrappolano il calore….molti [di noi] temono che forse si stanno sottostimando la velocità e la gravità dei cambiamenti impellenti.” In realtà, c’è un programma di studio sui cambiamenti del clima al MIT (Massachusetts Institute of Technology) dove lavoro. Hanno avvertito di questo fenomeno da anni e ripetutamente si è dimostrato che avevano ragione. Il servizio del Times discute brevemente il grave attacco, il grave impatto di tutto questo sul clima del mondo, e aggiunge: “I governo non hanno però replicato al cambiamento con nessuna maggiore urgenza per limitare le emissioni di gas serra. Al contrario, la loro principale replica è stata quella di programmare lo sfruttamento di minerali di recente accessibili nell’Artico, e le trivellazioni per cercare altro petrolio.” Questo vuol dire accelerare la catastrofe. E’molto interessante. Dimostra una straordinaria volontà di sacrificare la vita dei nostri figli e nipoti a favore di guadagni a breve termine, o forse una volontà ugualmente notevole di chiudere gli occhi in modo da non vedere il pericolo incombente – queste cose talvolta si notano nei bambini piccoli; una cosa sembra pericolosa, alloara chiudo gli occhi e non voglio guardarla. C’è un’altra possibilità, intendo dire che forse glie esseri umani stano in qualche modo cercando di far avverare alla previsione di un grande biologo americano scomparso di recente, Ernst Mayr. Sosteneva, anni fa, che l’intelligenza pare che sia una mutazione letale, e ne aveva delle buone prove. C’è una nozione di successo biologico, che vuol dire che ci sono tantissimi esseri umani sulla terra. Questo è il successo biologico. E ha fatto notare che se si guarda alle diecine di miliardi di specie nella storia del mondo, quelle che sono riuscite bene sono quelle che mutano molto rapidamente, come i batteri, o quelle che hanno una nicchia ecologia fissa, come gli scarafaggi. Sembra che se la cavino bene. Se però ci si sposta in alto sulla scala di quella che chiamiamo intelligenza, il successo diminuisce nettamente. Quando si arriva ai mammiferi, è molto bassa. Ne esistono pochi. Cioè, ci sono un sacco di mucche, soltanto perché le addomestichiamo. Quando parliamo degli umani, è la stessa cosa. Fino a tempi recenti, troppo recenti per comparire in qualsiasi spiegazione di tipo evoluzionistico, gli esseri umani erano molto sparsi. C’erano tantissimi altri ominidi che però sono scomparsi, probabilmente perché gli umani li hanno sterminati, ma nessuno lo sa di sicuro. Comunque forse stiamo cercando di dimostrare che gli esseri umani si inseriscono bene in un modello generale. Possiamo anche sterminare noi stessi e anche il resto del mondo insieme a noi, e noi siamo fortemente determinati a farlo proprio adesso. Bene, passiamo alle elezioni. Entrambi i partiti politici ci chiedono di peggiorate questo problema. Nel 2008 entrambe le piattaforme dedicavano un certo spazio ai modi in cui il governo avrebbe dovuto occuparsi dei cambiamenti climatici. Attualmente, nella piattaforma repubblicana, l’argomento è essenzialmente scomparso. La piattaforma, domanda, però, che il Congresso agisca rapidamente per impedire che l’Agenzia di protezione dell’ambiente regoli i gas serra. Assicuriamoci, quindi, di peggiorare la situazione. E chiede anche di aprire la zona dove dell’Arctic Refuge alle trivellazioni – per trarre (adesso riporto le parole) “vantaggio da tutte le risorse americane che Dio ci ha concesso.” Dopo tutto, non si può disobbedire a Dio. Riguardo alla politica ambientale il programma dice: “Dobbiamo ripristinare l’integrità scientifica nelle istituzioni pubbliche per la ricerca e eliminare gli incentivi politici dalla ricerca finanziata con il denaro pubblico.” Tutto questo è una parola in codice rivolta al mondo della scienza climatica che significa:smettetela di finanziare le ricerche scientifiche sul clima. Lo stesso Romney dice che non c’è consenso tra gli scienziati, e quindi si dovrebbero sostenere altri dibattiti e ricerche all’interno della comunità scientifica, ma nessuna azione, tranne quella destinata a peggiorare il problema. Ebbene, e i Democratici? Ammettono che ci sia un problema e sostengono che dovremmo operare per arrivare a un’intesa che stabilisca i limiti delle emissioni [di gas serra], di comune accordo con altre potenze emergenti. Ma non è così. Nessuna azione. E infatti, come ha sottolineato Obama, dobbiamo lavorare duramente per guadagnare quello che chiama cento anni di indipendenza energetica ottenuta sfruttando le risorse nazionali o quelle canadesi per mezzo della fratturazione o di altre tecnologie elaborate. Non si chiede come cosa sarà il mondo fra cento anni. Ci sono, quindi delle differenze che riguardano il livello di entusiasmo con cui i pecoroni dovranno marciare verso il precipizio. Passiamo adesso al secondo problema principale: la guerra nucleare. Anche questo argomento è sulle prime pagine ogni giorno, ma in un modo che sembrerebbe stravagante a un osservatore indipendente che consideri che cosa sta accadendo sulla terra, e infatti sembra stravagante a una notevole maggioranza di nazioni del mondo. L’attuale minaccia è ora, e non per la prima volta, in Medio Oriente ed è incentrata sull’Iran. Il quadro generale in occidente è chiaro: è di gran lunga troppo pericoloso permettere che l’Iran ottenga quella che si chiama “potenziale nucleare”, cioè il potenziale che hanno a disposizione molte potenze, dozzine di potenze, per produrre armi nucleari se decidono di farlo. In quanto a dire se lo hanno deciso, i servizi segreti statunitensi dicono di non saperlo. L’Agenzia internazionale per l’energia atomica ha appena fornito il suo rapporto più recente due settimane fa e conclude che non può dimostrare – “l’assenza di materiale nucleare non dichiarato e di attività nucleari in Iran.” Ora, vuol dire che non può dimostrare qualche cosa, una condizione che non può essere soddisfatta. Non c’è modo di dimostrare l’assenza dell’azione -questo è utile – perciò all’Iran deve essere negato il diritto dia arricchire l’uranio, il che è garantito a ogni potenza che ha firmato il Trattato di non-proliferazione. Bene, questo è il quadro dell’occidente, che non è come quello che c’è nel resto del mondo. Sono sicuro che sapete che a Teheran c’è stato da poco (in agosto, n.d.t.) un incontro dei Paesi non-allineati – cioè una grande maggioranza delle nazioni del mondo che rappresentano la maggior parte della popolazione mondiale. E ancora una volta, e non è stata la prima, hanno rilasciato una risonante dichiarazione per sostenere il diritto dell’Iran ad arricchire l’uranio, diritto che ha ogni nazione che ha firmato il trattato di non-proliferazione [nucleare]. La stessa cosa è abbastanza vera anche nel mondo arabo. E’ interessante e ci tornerò tra poco. C’è un motivo fondamentale di preoccupazione che è stato espresso in maniera concisa dal generale Lee Butler, ex capo deo Commando strategico degli Stati Uniti che controlla le armi nucleari e la strategia nucleare. ha scritto che “E’ estremamente pericoloso che nel calderone di animosità che chiamiamo Medio Oriente” una nazione debba avere armamenti nucleari, poiché potrebbe ispirare altre nazioni a fare lo stesso. Il generale Butler non si riferiva però all’Iran; si riferiva a Israele, il paese che è ai primi posti nei sondaggi europei come nazione più pericolosa del mondo – appena sopra l’Iran – e, non a caso, al mondo arabo, dove il pubblico considera gli Stati Uniti come la seconda nazione più pericolosa, subito dopo Israele. Nel mondo arabo l’Iran, anche se non è amato, è considerato inferiore come minaccia dalle popolazioni, cioè, non dalle dittature. Per quanto riguarda le armi nucleari dell’Iran, nessuno vuole che quel paese le abbia, ma in molti sondaggi, maggioranze di persone, spesso notevoli maggioranze, hanno detto che la regione sarebbe più sicura se l’Iran possedesse armi nucleari, per bilanciare quelle delle loro maggiori minacce. Ci sono un sacco di commenti sui mezzi di informazione occidentali sugli atteggiamenti arabi verso l’Iran, e quello che si legge, normalmente, è che gli Arabi vogliono un’azione decisa contro l’Iran che è vero se parliamo di dittatori, non delle popolazioni. Ma chi si preoccupa delle popolazioni che vengono chiamate, in modo dispregiativo, la strada araba? Non ce ne importa. Questo è un riflesso del disprezzo estremamente profondo rispetto alla democrazia esistente nelle elite occidentali; è così profondo che non si può neanche percepire. Lo studio degli atteggiamenti popolari nel mondo arabo – e al riguardo esiste un ampio studi delle agenzie occidentali di sondaggi – rivela rapidamente perché gli Stati Uniti e i loro alleati si preoccupano così tanto delle minacce della democrazia e fanno quello che possono per evitarla. Certamente non vogliono che atteggiamenti come quelli che ho appena indicato diventino politica, naturalmente, ma allo stesso pubblicano calorose affermazioni sulla nostra appassionata dedizione alla democrazia. E queste vengono trasmesse con obbedienza dai giornalisti e dagli opinionisti. Ebbene, al contrario dell’Iran, Israele rifiuta assolutamente le ispezioni, rifiuta di aderire al Trattato di non-proliferazione, ha sistemi avanzati di lancio. Inoltre ha un lungo curriculum di violenza e repressione. Si è annessa e si è istallata in territori conquistati in modo illegale, in violazione degli ordini del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, ha fatto molte azioni di aggressione – cinque volte soltanto contro il Libano, senza alcun pretesto plausibile. Sul New York Times di ieri, si può leggere che le Alture del Golan siriano sono territorio disputato. C’è una risoluzione del Consiglio nazionale di sicurezza dell’ONU, la 497, che è stata presa all’unanimità, che dichiara illegale l’annessione delle alture del Golan da parte di Israele e chieda che venga annullata. E infatti se ne discute soltanto a Israele e sul New York Times che infatti riflette la reale politica degli Stati Uniti, non quella formale. Il curriculum di aggressioni dell’Iran in varie centinaia di anni recenti comprende l’invasione e la conquista di un paio di isole arabe. Questo è accaduto quando regnava lo Scià, il dittatore imposto dagli Stati Uniti. Questo è in realtà l’unico caso in varie centinaia di anni. Nel frattempo, – le avete da poco sentite all’ONU – continuano le gravi minacce di attacchi da parte degli Stati Uniti, ma specialmente da Israele. Ora c’è una reazione a questo ad altissimo livello negli Stati Uniti. Leon Panetta, segretario alla Difesa, ha detto che noi non vogliamo attaccare l’Iran, speriamo che Israele non attacchi l’Iran, ma Israele è un paese sovrano e devono prendere da soli le loro decisioni su che cosa fare. Potreste chiedervi quale sarebbe la reazione se ribaltassimo il cast dei protagonisti. E chi di voi ha interessi di argomenti “antiquari” potrebbe ricordare che c’è un documento che si chiama Carta (statuto) delle Nazioni Unite, il fondamento della moderna legge internazionale, che proibisce la minaccia o l’uso della forza negli affari internazionali. Ci sono due stati canaglia – gli Stati Uniti e Israele – per i quali ciò che riguarda la Carta e la legge internazionale come soltanto un’inezia noiosa, quindi fate come volete. E questo atteggiamento viene accettato. Ebbene, queste non sono soltanto parole; c’è una guerra in corso, che include terrorismo, uccisione di scienziati nucleari, una guerra economica. Le minacce degli Stati Uniti, non quelle internazionali, hanno tagliato fuori l’Iran dal sistema finanziario internazionale. Gli analisti militari occidentali identificano quelle che chiamano ” armi della finanza” con atti di guerra che giustificano una replica violenta – quando, cioè, sono diretti contro di noi. Tagliare fuori l’Iran dai mercati finanziari internazionali è diverso. Gli Stati Uniti stanno attuando apertamente una vasta guerra cibernetica contro l’Iran, cosa molto lodata. Il Pentagono la considera equivalente a un attacco armato che giustifica una reazione militare, ma questo, naturalmente, quando è diretto contro di noi. Il principale personaggio liberale del Dipartimento di stato, Harold Koh – è consulente legale di massimo livello del Dipartimento di stato - dice che la guerra cibernetica è un’azione bellica se provoca distruzioni significative come l’attacco contro le installazioni nucleari iraniane, e tali azioni, dice, giustificano la forza come autodifesa. Naturalmente intende soltanto attacchi contro gli Stati Uniti o i loro clienti. L’arsenale letale di Israele che è enorme, comprende sottomarini all’avanguardia, forniti di recente dalla Germania. Questi sono in grado di trasportare i missili a testata nucleare di Israele, che di sicuro saranno dislocati in nel Golfo Persico o nei pressi se Israele procederà nei suoi piani di bombardare l’Iran, o, più probabilmente, sospetto, per cercare di creare condizioni per le quali gli Stati Uniti lo faranno. E gli Stati Uniti, naturalmente, hanno un vasto arsenale di armi nucleari in tutto il mondo, ma anche intorno a quella zona, dal Mediterraneo all’Oceano indiano, compresa una potenza di fuoco nel Golfo Persico che basta distruggere la maggior parte del mondo. Un’altra storia che è nei notiziari proprio adesso è il bombardamento da parte di Israele del reattore nucleare di Osirak che viene indicato come modello per il bombardamento israeliano dell’Iran. Si dice raramente, tuttavia, che il bombardamento del reattore di Osirak non ha posto fine al programma di Saddam Hussein per le armi nucleari. Lo ha iniziato. Prima di quelle evento non c’era nessun programma. E il reattore di Osirak non era in grado di produrre l’uranio per le armi nucleari. Naturalmente, però, dopo i bombardamenti, Saddam si è immediatamente dedicato a sviluppare un programma di armi nucleari. E se l’Iran sarà bombardato, quasi sicuramente procederà proprio come ha fatto Saddam Hussein dopo il bombardamento di Osirak. Fra poche settimane, commemoreremo il 50°anniversario “del momento più pericoloso nella storia umana.” Queste sono le parole dello storico e consigliere di Kennedy, Arthur Schlesinger. Si riferiva, naturalmente, alla crisi dei missili dell’ottobre 1962, “il momento più pericoloso nella storia umana.” Altri sono d’accordo. In quel periodo, Kennedy aveva portato l’allerta nucleare al secondo più alto livello, quasi al punto di lanciare delle armi. Aveva autorizzato i velivoli della NATO, con piloti turchi o altri piloti, a decollare, a volare a Mosca, e buttare delle bombe, cosa che avrebbe forse scatenato una probabile conflagrazione nucleare. Al culmine della crisi dei missili, Kennedy aveva valutato la possibilità di una guerra nucleare forse al 50 per cento. E’ una guerra che distruggerebbe l’emisfero settentrionale, aveva avvertito il presidente Eisenhower. E di fronte a quel rischio, Kennedy rifiutò di accettare pubblicamente un’offerta da parte di Kruschev di porre fine alla crisi con il contemporaneo ritiro dei missili russi da Cuba e quelli degli Stati uniti dalla Turchia. Erano già stati sostituiti con sottomarini Polaris inattaccabili, ma si era sentita la necessità di stabilire con fermezza il principio che la Russia non ha alcun diritto di avere alcuna arma di offesa in nessun luogo che sia al di là dei confini dell’Unione Sovietica neanche per difendere un alleato da un attacco degli Stati Uniti. Si è ora riconosciuto che questa era il motivo principale per schierare là i missili, in realtà un motivo plausibile. Nel frattempo, gli Stati Uniti devono conservare il diritto di averli in tutto il mondo, puntati contro la Russia o la Cina o qualsiasi altro nemico. Infatti, abbiamo saputo di recente, che nel 1962 gli Stati Uniti avevano in segreto dislocato missili nucleari a Okinawa, puntati sulla Cina. Quello era stato un momento di alte tensioni nella regione. Tutto ciò è coerente con concezioni di grandi quelle che avevo detto essere state sviluppate dai pianificatori di Roosevelt. Ebbene, fortunatamente, nel 1962, Krushev si tirò indietro. Ma il mondo non può essere sicuro che questa ragionevolezza ci sia per sempre. E, secondo me, è particolarmente pericoloso il fatto che gli intellettuali e perfino il mondo della cultura acclamino il comportamento di Kennedy come il momento più bello della sua vita. Il mio punto di vista è che è stato uno dei peggiori momenti della storia. L’incapacità di affrontare la realtà di noi stessi è una caratteristica fin troppo comune della cultura intellettuale, e ha implicazioni inquietanti anche per la vita personale. Ebbene, 10 anni più tardi, durante la guerra arabo-israeliana, Henry Kissinger alzò al massimo il livello di allarme nucleare.. Lo scopo era di avvertire i Russi mentre (così abbiamo saputo da poco) informava in segreto Israele che avevano autorizzato di violare il cessate il fuoco che era stato imposto congiuntamente dagli Stati Uniti e dalla Russia. Quando Reagan assunse la carica un paio di anni dopo, gli Stati Uniti avviarono operazioni per indagare sulle difese russe, volando in Russia a questo scopo, simulando attacchi aerei e navali e allo stesso tempo piazzando in Germania missili Perishing che in 5 minuti di volo raggiungevano i bersagli russi. Stavano fornendo quello che la CIA chiamava la capacità di “un primo attacco super-improvviso”. I Russi, non c’è da meravigliarsi, erano profondamente preoccupati. In realtà questo portò a una importante allerta di guerra nel 1983. Ci sono statti centinaia di casi quando l’intervento umano ha sospeso il lancio per un primo attacco a pochi minuti prima del lancio. Questo dopo che sistemi automatici avevano dato un falso allarme. Non abbiamo rapporti dei Russi, ma non c’è dubbio che i loro sistemi sono molto più soggetti a incidenti. In realtà è un miracolo che finora sia stata evitata una guerra nucleare. Nel frattempo, India e Pakistan sono arrivati vicino a una guerra nucleare varie volte e le situazioni di crisi che hanno portato a questo punto, specialmente quella per il Kashmir, restano. Sia l’India che il Pakistan hanno rifiutato di firmare il Trattato di non-proliferazione, insieme a Israele, ed entrambi i paesi hanno ricevuto appoggio di Stati Uniti per sviluppare i loro programmi nucleari fino a oggi, nel caso dell’India, che è ora alleato del nostro paese. Le minacce di guerra in Medio Oriente che potrebbero diventare una realtà molto presto, ancora una volta aumentano i pericoli. Per fortuna c’è un modo per uscirne, un modo semplice. C’è un modo di attenuare,forse anche di porre fine a qualunque minaccia si presuma che l’Iran possa porre.E’ semplicissimo: andare verso la creazione di una zona libera da armi nucleari in Medio Oriente. L’occasione si presenterà di nuovo questo dicembre. C”è in programma una conferenza internazionale per trattare questa proposta che ha un appoggio internazionale entusiasta, compresa, per inciso, una maggioranza della popolazione di Israele, fortunatamente. Sfortunatamente è bloccata dagli Stati Uniti e da Israele. Un paio di giorni fa, Israele ha annunciato che non parteciperà, e che non considererà la questione fino a quando non ci sarà una pace generale nella regione. Obama prende la stessa posizione. Insiste anche che qualsiasi accordo deve escludere Israele e deve perfino escludere le richieste ad altre nazioni perché forniscano informazioni circa le attività nucleari di Israele. Gli Stati Uniti e Israele possono rimandare indefinitamente la pace nella regione. Lo hanno fatto per 35 anni per la situazione di Israele e Palestina, praticamente l’isolamento internazionale. E’ una storia lunga, importante, che non ho tempo di approfondire qui. Non c’è quindi speranza di trovare un modo facile per porre fine a quello che l’Occidente considera la crisi attuale più grave – nessun modo a meno che ci sia una pressione pubblica su vasta scala. Non può però esserci, questo tipo di pressione a meno che la gente ne sappia qualche cosa. E i mezzi di informazione hanno fatto un lavoro stupendo allontanando quel pericolo: nulla è stato riferito sulla conferenza o su qualche cosa del contesto, nessuna discussione, a parte i giornali specialisti sul controllo delle armi dove si possono leggere delle notizie al riguardo. E’ questo quindi che blocca il modo facile per mettere fine alla peggiore crisi che esiste attualmente a meno che la gente non trovi una maniera di aprirsi varco perverso la soluzione. di Noam Chomsky AMY GOODMAN : Il professore del MIT, Noam Chomsky, ha parlato il 27 settembre di questo anno all’Università del Massachusetts, a Amherst. La sua conferenza era intitolata “Chi possiede il mondo?” Originale: Democracy Now! Traduzione di Maria Chiara Starace

04 novembre 2012

Fed, banche, Wall Street: il trio vincente della finanza speculativa

Osservare attentamente i comportamenti economici e finanziari in atto negli Stati Uniti ci consente di comprendere la ratio di alcune decisioni e di prevedere alcuni andamenti dell’economia globale. Ciò non significa distogliere l’attenzione dalle serie questioni europee. Serve per non essere sopraffatti ne sorpresi da certi eventi internazionali. C’è anzitutto una domanda pressante. Come è possibile che i listini di borsa di Wall Street ( e anche della City) siano ritornati ai livelli dell’ottobre 2007 nonostante la crisi e la caduta delle produzioni e delle ricchezze negli ultimi 5 anni? Il Dow Jones Industrial Index allora era intorno ai 14.000 punti circa, oggi è di poco inferiore. Il Nasdaq, che raccoglie le corporation del settore industriale, era poco più di 2200 punti mentre oggi supera i 3.000 punti. Lo stesso vale per l’indice Standard & Poor’s 500 che si è riportato più o meno sui livelli ante crisi. Anche l’indice FTSE 100 di Londra, che nel 2007 aveva raggiunto il livello di circa 6.600 punti, oggi è risalito a 5.800 punti rispetto ai 3.600 dell’ottobre 2008. Nell’Europa continentale, invece, tutte le Borse, tranne quella tedesca, registrano delle perdite pesantissime. Il nostro indice Mib per esempio si è più che dimezzato. L’indice Dax tedesco è l’unico che ha riguadagnato quasi tutte le posizioni e potrebbe raggiungere la quota massima di 8.000 punti entro la fine dell’anno. Ciò è evidenziato dal fatto che l’industria tedesca è l’unica che ha saputo mantenere alti sia le produzioni industriali che l’export di prodotti ad alta tecnologia. La singolarità e la eccezionalità anglo-americana stanno nel “quantitative easing”, cioè nella decisione della Federal Reserve e della Bank of England di creare nuova massiccia liquidità da riversare nel proprio sistema bancario. Si ricordi che finora la Fed è intervenuta con oltre 4.000 miliardi di dollari. Con uno spregiudicato gioco di prestigio ha acquistato dalle banche titoli di stato e mortgage backed securities (mbs), derivati emessi su mutui subprime e altre ipoteche di basso valore, rimpiazzandoli con dollari “elettronici” inseriti nei bilanci delle banche come se fossero riserve extra, ma non destinabili a sostegno delle attività produttive dell’economia reale. Possono soltanto essere prestati ad altre banche bisognose di aumentare le loro riserve oppure per ottenere altri assets, altre attività patrimoniali (come obbligazioni, azioni, ecc.). Questa è la ragione per cui, nonostante la tanta liquidità, i canali del credito restano chiusi e anche negli Usa i settori produttivi lamentano un “credit crunch”. Così si spiega perché Wall Street sia cresciuta Infine ciò spiega anche perché una tale massa di liquidità non abbia ancora creato un effetto iperinflattivo. Infatti, l’unico vero aumento di prezzo ha riguardato i listini della borsa americana creando una nuova bolla finanziaria “artificiale”. Oltre agli enormi giochi speculativi con i prodotti derivati, questa bolla è anche la base principale di molti profitti riportati dalle banche. Tale processo ha favorito e favorisce la crescente concentrazione di ricchezza in poche mani. Ad esempio, nel 2009 i 400 cittadini americani più ricchi detenevano una ricchezza pari a 1,27 trilioni di dollari, mentre adesso ne detengono 1,7 trilioni di dollari. Secondo l’Economic Policy Institute di Washington il salario medio di un alto dirigente delle 350 maggiori corporation americane è stato pari a 10, 36 milioni di dollari nel 2009, a 12,04 milioni nel 2010 e a 12,14 milioni nel 2011. Ciò nonostante il tanto predicare contro i bonus mlionari! In quest’ottica va letta la decisione della Fed di acquistare dalla banche mbs e altri titoli tossici per 40 miliardi di dollari al mese e per un periodo indefinito, facendo così un grande favore al sistema bancario americano rendendolo di fatto più aggressivo sui mercati internazionali. Come da tempo sosteniamo l’operato della Fed non può che scaricare i propri effetti negativi sull’euro, sull’Europa e sul resto del mondo. Purtroppo in Europa si sottovaluta la portata di tali decisioni mentre, per fortuna, i paesi Brics cominciano a contestare. Da ultimo lo ha fatto il ministro delle Finanze brasiliano, Guido Mantega, che ha parlato di “guerra monetaria” e di “misure protezionistiche”. La stessa Banca Centrale della Cina denuncia il fatto che le continue iniezioni di liquidità non funzionano, a scapito dello sviluppo. di Mario Lettieri e Paolo Raimondi

03 novembre 2012

I giovani non bastano per la rivoluzione

Bastano la giovinezza e le facce pulite dei giovani “grillini” siciliani (un’antropologia che si riproporrà, e probabilmente con numeri ancor più consistenti, alle prossime elezioni politiche) per sperare in un futuro migliore? In linea di massima direi di no. Nei dintorni del Sessantotto, quando imperversava il più spudorato giovanilismo (il modo migliore per inculare i giovani è farli sentire protagonisti, portarli in palmo di mano – allora, nella società che assaporava il benessere, c’era anche, e forse soprattutto, una ragione economica: i giovani erano diventati un settore di mercato appetibile) scrissi per Linus un articolo intitolato: “Basta con i giovani” che concludeva così: “La cosa migliore, modesta ma onesta, che possono fare i giovani è una sola: invecchiare”. È VERO CHE QUELLI DEL SESSANTOTTO non fanno testo, erano giovani fuori ma già marci dentro. Erano figli della borghesia e della borghesia avevano preso tutti i notori vizi: il cinismo e l’opportunismo. Non volevano cambiare il mondo ma semplicemente sostituirsi ai loro padri nell’esercizio del potere, con metodi, se possibile, ancora più trucidi. Il viso di Paolo Mieli (militante, assieme ad altri rampolli dell’alta borghesia e dell’aristocrazia romana, di PotOp, “molotov e champagne”) diceva, già allora, tutto: non voleva fare nessuna rivoluzione ma diventare, per vie scorciatoie, direttore del Corriere della Sera. Avranno la stessa sorte i giovani “grillini” una volta preso il potere o una sua fetta? È probabile. Il Tempo, padrone assoluto delle nostre vite, ci logora, affievolisce i nostri entusiasmi, spegne le nostre speranze. Ci si adegua. In C’eravamo tanto amati, un bel film del 1974, con Gassman, Manfredi, la Sandrelli che, passati i tempi spavaldi della giovinezza si ritrovano nei loro quarant’anni, uno dei protagonisti dice, amaramente: “Volevamo cambiare il mondo, ma è il mondo che ha cambiato noi”. “Ci vuole del talento per invecchiare senza diventare adulti” canta Franco Battiato. I giovani “grillini” hanno però qualche vantaggio rispetto alle generazioni che li hanno preceduti. Per quanto possono invecchiare, incarognire e i loro volti deformarsi è difficile che finiscano per omologarsi totalmente ai mascheroni che sono in circolazione attualmente. Gasparri, Berlusconi, Cicchitto sono dei “top ten” dell’orrore, fisico e morale, e pare impossibile scalzarli da questa speciale classifica. E POI I GIOVANI “grillini” hanno un guru, un capo, un padre-padrone ultrasessantenne, che li sorveglia, li tartassa, li bacchetta, li punisce, li espelle e che è uno dei pochissimi che “è invecchiato senza diventare adulto”. Non si tratta però di un endorsement: per il quotidiano della City londinese, il Movimento Cinque Stelle non offre “una coerente soluzione” ai problemi dell’Italia. Sta quindi ai partiti politici riprendere in mano la partita avviando una stagione di riforme, in primis una nuova legge elettorale e nuovi standard etici per i futuri deputati. In caso contrario le élite politiche dell’Italia resteranno le migliori “piazziste” per il “buffone che tanto disprezzano”. di Massimo Fini

18 ottobre 2012

Ribellarsi è un diritto. Cominciamo?

“Chi uccide il tiranno è lodato e merita un premio” san Tommaso d’Aquino “L’albero della libertà deve essere annaffiato di tanto in tanto dal sangue dei patrioti e dei tiranni. E’ il suo concime naturale”. Thomas Jefferson Signori, abbiamo dato come “diritto acquisito” la libertà dall’oppressione. Invece , si tratta di una conquista che si deve strappare agli oppressori, facendo loro paura. Ed anche peggio: Tommaso d’Aquino, un santo, non considera omicidio l’uccisione del tiranno. Oggi, i tiranni e oppressori sono numerosissimi e insaziabili del nostro denaro: sono i politici che abbiamo votato e i loro compari imbucati nel settore pubblico. con mezzi legali non è possibile cacciarli dal poteere, perchè costoro hanno “occupato” la legalità: si aumentano gli stipendi “per legge” (la votano loro), rigettano i tagli “per legge”, tormentano noi cittadini con la burocrazia, ci perseguitano chiamandoci evasori, ed è tutto legale. Noi cittadini, che li paghiamo, siamo sottoposti a soprusi, punizioni arbitrarie intollerabili. Equitalia può bloccarci i conti correnti e le carte di credito, sequestrarci automezzi ed altri beni, senza nemmeno avvertirci: non esiste più il diritto di proprietà in Italia. Le pubbliche persecuzioni hanno portato al suicidio decine di imprendotori, e tutto “legalmente”. La democrazia di fatto non esiste più: i nostri politici hanno ceduto la sovranità popolare che gli avevamo delegato, all’eurocrazia di Bruxelles e alla Bce, entrambi organi non-eletti, fattidi individui coooptati non sappiamo come. E alla fine hanno ceduto il loro “dovere” di governare ad un gruppo di “tecnici” guidati da un presidente della Commissione Trilaterale e da banchieri, a loro volta agli ordini di uno speculatore di Goldman Sachs, Mario Draghi, e di governi stranieri (Berlino). Logica e giustizia voleva che i nostri politici, dopo aver così auto-certificato la loro nullità e inutilità, se ne tornassero a casa. Invece, hanno mantenuto per sé una sola “sovranità”: quella di aumentarsi gli emolumenti a piacere, e di arraffare “contibuti elettorali” e “ai gruppi” che costano miliardi. Con voto unanime, quindi del tutto “legale”. Il supremo tempio del diritto, la Corte Costituzionale, come abbiamo visto, ha dichiarato incostituzionale il taglio degli stipendi loro (400-600 mila euro annui) e degli altri miliardari di stato. La magistratura gode di una totale impunità, e può commettere gravissimi soprusi contro la libertà dei cittadini. Ne elenco tre: intercettare chiunque in qualunque momento, come il vecchio Kgb sovietico. Incarcerare preventivamente innocenti (Kgb). Scegliere come testimoni privilegiati dei criminali comprovati e già giudicati, i “pentiti” (definiti non a caso “collaboratori di giustizia” e stipenditi: in pratica diventano funzionari ausiliari della magistratura) dando loro la libertà di accusare calunniosamente gli avversari politici dei giudici, senz a obbligo di portare prove oggettive. Basta la parola di criminali, meglio se pluriomicidi mafiosi. La parola di testimoni onesti, invece, non vale nulla senza i “riscontri oggettivi”. Quando la volontà del popolo s’è espressa con inequivocabile chiarezza e con “referendum”, dichiarando sua volontà di votare col sistema di voto maggioritario, la responsabilità civile dei giudici, l’annullamento del finanziamento pubblico dei partiti – tutto il sistema “democratico” e “legale” s’è adoperato per calpestarla. Non abbiamo il voto maggioritario, ma un proporzionale corretto, perchè faceva comodo a loro. I magistrati non pagano i loro errori. I partiti, sappiamo come continuano ad arraffare impunemente. Eppure il referendum è il mezzo più legale e legittimo della volontà popolare, scritto nella Costituzione. Chi doveva farlo rispettare? Il presidente della repubblica, la Corte Costituzionale. Non hanno fatto nulla. LA volontà popolare espressa costituzionalmente è stata calpestata, e loro l’hanno lasciata calpestare. Perchè sono parte del potere occupante, del sistema di Dispotismo che si autonomina “democrazia”. Ebbene: questo avviene perchè siamo stati troppo passivi. Perchè a molti di noi faceva comodo, molti hannno ricevuto qualche beneficio d alla “legalità sequestrata”, la maggioranza per paura: questi oppressori, come tutti gli oppressori, si sono anche accaparrati la forza pubblica ed esercitano la violenza contro di noi. Molti cittadini, probabilmente, pensano sia “illegale” sbattere fuori ccon la forza questi mascalzoni. E’ un dovere. C’era un articolo (art.50 secondo comma) che lo dichiarava, nella bozza della nostra Costituzione: “Quando i poteri pubblici violino le libertà fondamentali ed i diritti garantiti dalla Costituzione, la resistenza all’oppressione è diritto e dovere del cittadino”. Questa frase fu proposta dai democristiani, Dossetti e Moro, nel 1947. Fu in seguito cancellata perchè la guerra fredda infuriava, e si temeva desse un’arma in più al più potente partito comunista dell’Occidente (già allora metà del nostro popolo, della libertà se ne fotteva: era pronta a darla a Mosca). Ma ciò non significa che la resistenza all’oppressione sia diventata illegale. Al contrario, è una conseguenza diretta della sovranità popolare: chi ha “occupato” i poteri pubblici e li gestisce in modo da violare i diritti fondamentali dei cittadini, deve essere cacciato. Noi cittadini viviamo, ormai è chiaro, sotto occupazione. Spogliati da un occupante, che non ha il minimo interesse alla prosperità comune, alla giustizia e all’equità. Bisogna re-imparare a resistere. E’ dura, saremo minoranza, dovremo entrare in clandestinità, rischiamo il carcere (preventivo, ossia la tortura), la persecuzione giudiziaria e fiscale. Ma se non ci ribelliamo, ci faranno sempre eggio. L’albero della libertà deve essere annaffiato di tanto in tanto dal sangue dei patrioti e dei tiranni. E’ il suo concime naturale. di Maurizio Blondet

17 ottobre 2012

La singolare malattia della Monti-dipendenza

Chissà se gli italiani cominceranno a liberarsi dalla singolare malattia della Monti-dipendenza adesso che con la legge di stabilità il governo tecnico ha palesemente “toppato” o, per dirla altrimenti, è stato colto con le mani nella marmellata per avere fatto ricorso ad uno di quei mezzucci di cattura del consenso che sembravano appannaggio esclusivo di una deteriore classe politica. Che altro è difatti la mini riduzione dell'Irpef per i due scaglioni più bassi se non un tentativo di gettare fumo negli occhi? Il modesto beneficio, che secondo Monti dovrebbe costituire la prova della propensione del governo alla riduzione della pressione fiscale non appena se ne affacci la possibilità, è, difatti, accompagnato dall'aumento di un punto dell'Iva. Un aumento che, secondo i calcoli degli esperti, non solo pareggia, ma supera il beneficio Irpef anche per i contribuenti che ne usufruiscono e, soprattutto, colpisce senza compensi tutta la vasta area esente da Irpef per insufficienza del reddito (circa 8 milioni di cittadini, che è corretto definire “poveri”). Intendiamoci; la recessione economica non è colpa di Monti e va attribuita a fattori (la globalizzazione anzitutto) di molto anteriori alla intronizzazione per mano di Napolitano del governo tecnico. Monti e i suoi ministri hanno soltanto la funzione di fare accettare, se non con gradimento, con rassegnazione, provvedimenti che avrebbero provocato ben più dure reazioni in caso di varo da parte del governo Berlusconi e, in realtà, di qualunque governo politico (di qui la decisione di non sostituirlo immediatamente con un governo Bersani). Questo in realtà l'hanno capito tutti, ma non tutti (anzi pochi) sembrano rendersi conto che nulla cambierà in meglio quando Monti passerà la mano (se pure lo farà) a un politico, perché le cause della crisi economica sono tuttora vigorosamente all'opera. Mi auguro di essere cattivo profeta, ma in fondo al tunnel non s'intravede affatto la luce vagheggiata (o vaneggiata) da Monti, ma una situazione destinata a divenire per lungo o lunghissimo tempo la nuova realtà dell'Italia e dell'Europa: una realtà che fino a pochi anni fa avremmo definito da “terzo mondo”. Prendiamo la riforma delle pensioni, adesso calcolate e liquidate per rendere il sistema sostenibile sulla base dei contributi versati, il che già di per sé comporta una netta riduzione degli importi rispetto al precedente sistema retributivo. Non per nulla già da qualche anno i lavoratori vengono sollecitati a munirsi di forme integrative di previdenza e a tal fine si sono proposte varie forme volontarie di fondi-pensione. Purtroppo è fin d'ora certo che, per effetto della crisi e della conseguente difficoltà di trovare un lavoro stabile (o, peggio, una qualunque occupazione remunerata), in particolare le giovani generazioni (ma non solo loro) avranno pensioni al limite del livello di sopravvivenza, che in nessun modo potranno integrare. Difatti i lunghi periodi di disoccupazione da un lato incidono negativamente sull'importo dei contributi versati, dall'altro non consentono di destinare parte dei propri guadagni alla previdenza alternativa. Insomma il cane si morde la coda e non ci prova gusto. Al momento la situazione sociale è (quasi) sotto controllo non per merito di Monti, che anzi con il continuo aumento del costo della vita gioca all'amico del giaguaro, ma perché le generazioni da poco approdate alla pensione o sul punto di farlo hanno avuto la possibilità di risparmiare e possono dare una mano a chi il lavoro lo sta ancora cercando (e non lo trova o ha rinunciato). Tuttavia questi “anziani” relativamente fortunati non dureranno in eterno e in ogni caso la loro capacità economica e, quindi, di sostegno ai giovani, già intaccata da una esorbitante pressione fiscale, è destinata a diminuire di anno in anno, perché le pensioni, d'oro o di rame che siano, non vengono adeguate ai reali aumenti del costo della vita. L'inevitabile approdo è una generalizzata carenza di mezzi (vogliamo chiamarla col suo nome: povertà?), nella quale quasi per tutti diviene essenziale, in particolare nei momenti difficili (malattie, vecchiaia ecc.), il ricorso ai servizi pubblici, invece a loro volta oggetto di provvedimenti incidenti in negativo sul numero e l'efficienza delle prestazioni (si pensi ai continui tagli alla Sanità). Scarse le speranze di un'inversione di tendenza, dal momento che alla recessione economica si accompagna (l'ha anzi preceduta e si pone come una delle sue cause) la crisi della società civile che, malata di individualismo amorale, si mostra incapace di reagire e assiste immobile e passiva alla disgregazione di se stessa. di Francesco Mario Agnoli

16 ottobre 2012

La banca centrale pubblica argentina è un faro per la democrazia nel mondo

Quando l’equipaggio di una nave si trova in mare aperto, nel mezzo di una tempesta, e di una Tempesta Perfetta per giunta, l’unica cosa che vorrebbe disperatamente scorgere all’orizzonte è la luce di un faro. La salvezza, la terraferma. In Argentina, all’estremità sud del paese, poco più a est della Terra del Fuoco, si trova una piccola isola, quasi uno scoglio in verità, dove c’è un antico faro dal nome evocativo: il Faro della Fine del Mondo. Poco più in là c’è l’Antartide, con le sue immense distese di ghiaccio, voltandosi indietro si intravedono invece le sconfinate e rigogliose praterie argentine. E in mezzo il Faro. Un luogo magnifico ai confini del mondo, che non a caso lo scrittore francese di romanzi d’avventura Jules Verne, l’autore di “Ventimila leghe sotto i mari”, ha utilizzato per ambientare uno dei suoi libri meno conosciuti: “Il faro in capo al mondo”. In effetti a partire dal 1991, il faro argentino ha perso il primato di essere quello più a sud del mondo, perché né è stato costruito uno a Capo Horn in Cile, ma rimane sicuramente il monumento più antico e famoso, che oggi più che mai rappresenta un vero spartiacque simbolico di civiltà. Una speranza per tutti i naviganti che transitano da quelle parti e sono sommersi e travolti dalle onde della Tempesta Perfetta globale, senza sapere ancora come venirne fuori e quali strumenti utilizzare per domarla. In perfetta analogia, l’Argentina guidata dalla presidentessa Cristina Kirchner, così come il Venezuela di Chavez, l’Ecuador di Correa, la Bolivia di Evo Morales, è diventato un faro, una speranza per quei popoli del mondo, dall’Europa alla Cina passando per gli Stati Uniti, che oggi aspirano a ripristinare un regime democratico al servizio dei cittadini e dei diritti umani, dopo essere stati soppressi e repressi dall’occupazione quasi militare dei tecnocrati, dei faccendieri, dei politicanti, degli elefantiaci apparati dirigisti che lavorano alacremente soltanto per tutelare gli interessi delle lobbies finanziarie, dei comitati d’affari, delle corporazioni multinazionali. Un abisso di distanza in termini di cammino evolutivo della civiltà, che è ancora più accentuato dal fatto che la censura della propaganda di regime dilagante in Europa impedisce a noi cittadini di sapere cosa stia accadendo esattamente in Sudamerica, visto che gli organi di informazione su ordine preciso dei loro potenti committenti hanno completamente tagliato fuori dai circuiti della stampa e della televisione le notizie provenienti da quei paesi. Senza andare troppo per il sottile, il continente sudamericano è stato letteralmente cancellato dalle carte geografiche del mondo, perché i cittadini lobotomizzati e teleguidati d’Europa e degli Stati Uniti non devono sapere nulla dei cambiamenti che stanno avvenendo laggiù. I drastici mutamenti di paradigma rispetto al dogmatismo medievale dell’Occidente, con il loro cattivo esempio, potrebbero infatti spezzare di colpo la catena psicologica su cui si fonda gran parte dell’egemonia totalitarista che ci governa: TINA, There Is No Alternative, non c’è nessuna alternativa alla tecnocrazia neoliberista, si fa come dicono loro e basta. E invece, al pari di ogni altra questione che coinvolge la vita umana, l’alternativa c’è, eccome se c’è. E si chiama Argentina. La storia della crisi e successiva rinascita dell’Argentina è abbastanza nota e per certi versi, soprattutto nelle caratteristiche della fase di declino, molto simile a ciò che sta accedendo oggi nell’eurozona. Con il pretesto di creare maggiore stabilità nei rapporti commerciali con l’estero e in particolare con gli Stati Uniti, nel 1991 il governo Menem decide di ancorare il cambio del peso al dollaro, con una scellerata parità fissa di 1:1 che ovviamente apprezzava troppo la moneta argentina rispetto alla valuta statunitense. Il risultato è stato che per un certo periodo di tempo per gli argentini è stato molto conveniente importare prodotti dall’estero prezzati in dollari e questo eccessivo ricorso alle importazioni ha creato un deficit permanente nella bilancia commerciale, che è stato inizialmente compensato dal notevole afflusso di capitali e investimenti esteri. Sull’onda di questa maggiore fiducia e apertura del governo alle imprese straniere, le multinazionali americane ed europee strapparono facilmente diverse concessioni per gestire i servizi essenziali un tempo pubblici, dagli acquedotti all’energia, dall’industria estrattiva e mineraria alle telecomunicazioni, esportando i profitti in patria, lontano dall’Argentina, e ponendo le basi per un maggiore indebitamento estero del paese. Sia i titoli finanziari privati che quelli pubblici argentini, i famigerati Tango Bonds, venivano piazzati in tutto il mondo assicurando alti rendimenti agli investitori e fornendo un’illusoria parvenza di stabilità economica del paese. Si trattava però di un equilibrio molto precario e sono bastati gli effetti di contagio della crisi delle borse asiatiche del 1997 per mettere in ginocchio il paese e svelare al mondo la reale insostenibilità del suo straordinario sviluppo economico. I capitali esteri sui quali si fondava il sostanziale equilibrio contabile della bilancia dei pagamenti cominciano a fuggire dal paese, gli investitori più accorti vendono in fretta i titoli argentini per limitare le perdite e il governo si vede costretto a bruciare notevoli quantità di riserve di moneta estera per mettere in condizione i debitori di rimborsare i debiti contratti, ad imporre riforme di austerità per rastrellare liquidità dal basso e ad aumentare i tassi di interesse a livelli non più credibili, per favorire l’arrivo di nuovi capitali dall’estero. Questo circolo vizioso dura fino a dicembre del 2001 quando, sulla spinta delle proteste popolari, il governo decide di dichiarare default sul debito estero denominato in dollari, che ammontava a circa $95 miliardi, e i suoi maggiori rappresentanti sono costretti a scappare in elicottero dal paese per evitare il linciaggio. Da quel momento in poi si apre una pagina del tutto nuova nella storia dell’Argentina. Nel maggio 2003, dopo la parentesi della presidenza di Eduardo Duhalde durata due anni, viene eletto a capo del paese Nestor Kirchner, che comincia fin da subito un lungo braccio di ferro con il Fondo Monetario Internazionale per rinegoziare le condizioni di rimborso del debito: l’Argentina vuole ripagare i debiti ma secondo le sue modalità e i suoi tempi e non accettando passivamente le severe scadenze imposte dai creditori. In secondo luogo, con un piano progressivo di ristrutturazione il governo argentino si riappropria della gestione dei servizi pubblici essenziali, estromettendo le multinazionali, per consentire innanzitutto un maggior controllo sui prezzi di erogazione, e questo atteggiamento contrario agli interessi privati dei grandi colossi internazionali inasprisce i rapporti con il FMI, che delle loro logiche predatorie e parassitarie è il tutore a livello globale. A peggiorare ancora di più la situazione, Kirchner avvia politiche sociali per ridurre la povertà e la disoccupazione, cosa anche questa che fa infuriare il FMI, che proprio sulle ampie sacche di povertà e disoccupazione prodotte dalle sue stesse ricette di austerità crea i presupposti per fornire manovalanza a buon mercato per le multinazionali. Mentre continua senza sosta il duello frontale a distanza fra governo argentino e FMI, la rapida svalutazione del peso rispetto al dollaro seguita al default, che si aggira intorno al 200% con un rapporto di cambio ora più realistico e aderente alle esigenze dell’economia argentina di circa 3 pesos per un dollaro, fornisce intanto un doppio beneficio per la bilancia commerciale del paese: da un lato favorisce le esportazioni e dall’altro rende più costose le importazioni, a tutto vantaggio delle produzioni locali. Lentamente l’Argentina riesce a rimettere ordine nei suoi conti disastrati, anche se bisogna subito sottolineare, come già evidenziato in uno splendido articolo pubblicato sul blog Voci dall’Estero, che non è affatto basata sulle esportazioni la grande ripresa economica dell’Argentina, la quale dura inarrestabilmente dal 2° trimestre del 2002 fino ad oggi. Durante il periodo che va dal 2002 al 2011, lo stesso FMI certifica una crescita cumulata del PIL argentino del 94%, che equivale esattamente ad una straordinaria media annua del 9,4% (al pari se non più della stessa Cina), mentre il contributo delle esportazioni sul PIL cumulato nella fase più forte di espansione (2002-2008) si limita ad un modesto 7,6%, cioè solo il 12% del totale. Troppo poco per essere un fattore realmente decisivo e determinante. Se esaminiamo il grafico sotto possiamo in effetti notare che le esportazioni sono cresciute in valore, ma in relazione al ritmo travolgente di aumento del PIL l’apporto dell’export è diventato sempre più marginale e decrescente e se consideriamo infine il saldo netto fra export ed import avremo addirittura un risultato negativo (importazioni di poco superiori alle esportazioni). Ciò significa che la violenta accelerazione del PIL argentino è dovuta evidentemente ad altri fattori e in particolar modo proprio ai due elementi che vengono sempre ignorati nei programmi di “austerità espansiva” (un imbarazzante e assurdo ossimoro che circola impunemente nei messaggi rassicuranti della propaganda asservita, perché come stiamo sperimentando sulla nostra pelle, nel mondo reale non ci può essere mai crescita economica quando si tagliano le spese e si aumentano le tasse) promossi in Europa, negli Stati Uniti e nel mondo dalle orde oscurantiste e dogmatiche di neoliberisti al governo: l’aumento dei consumi e degli investimenti interni (rispettivamente il 45,4% e il 26,4% del totale). Entrambi questi obiettivi sono i più abbordabili da raggiungere per un governo che ha piena disponibilità della sua moneta e di tutte le leve di politica economica, a dimostrazione ancora del fatto che per avvicinare traguardi importanti e ambiziosi spesso bisogna seguire le vie più semplici e dirette, senza complicarsi la vita con gli inutili e pretestuosi tecnicismi inventati di sana piana per confondere le acque e i malsani suggerimenti di cattedratici ampollosi, arroganti, autoreferenziali, corrotti e distanti anni luce dalla realtà della vita quotidiana e dalle esigenze materiali di milioni di individui. Se vuoi aumentare i livelli di spesa, la crescita economica di un paese, devi mettere in condizione cittadini e aziende di spendere e di investire. Chi non capisce questo semplice concetto o è stupido o è stato pagato a sufficienza per far finta di essere stupido. Ma come si è potuta ottenere in Argentina un’esplosione così travolgente e rapida di tali fattori? Semplice, lo Stato argentino, sotto la guida di Nestor Kirchner prima e della moglie Cristina Fernandez a partire dal 2006, ha ricominciato ad attuare normalissime politiche economiche attive a sostegno della popolazione senza trincerarsi più dietro il vile arretramento imposto dalle cure indigeste del FMI e soci. Un esempio evidente è il programma di inserimento “Jefes de Hogar” (Capi Famiglia), tramite il quale sono stati messi a lavorare nel settore pubblico, in impieghi socialmente utili e spesso part-time, ben 2 milioni di disoccupati in un solo anno (il 13% della forza lavoro attiva), che dall’assenza di mezzi monetari hanno adesso un salario minimo garantito con cui potere soddisfare i bisogni primari del proprio nucleo familiare e programmare gli investimenti futuri. Il governo argentino ha poi direttamente organizzato progetti a livello federale, statale e locale e tra questi: grandi investimenti infrastrutturali e iniziative di riciclaggio, progetti di irrigazione e rinnovamento del suolo, assistenza sanitaria e centri diurni, pasti e rifugi per i senzatetto, biblioteche pubbliche e programmi ricreativi, agricoltura di sussistenza e programmi di assistenza agli anziani, centri contro la violenza in famiglia, e molte altre attività sociali. I posti di lavoro così creati nel settore pubblico non solo hanno prodotto reddito, occupazione, rilancio dei consumi e dell'attività produttiva, ma anche qualificazione, istruzione e formazione per tutti i partecipanti, credenziali queste che possono essere rivendute in futuro anche nel settore privato. Ma come ha potuto il governo argentino finanziare tutte queste attività? Anche in questo caso la risposta è abbastanza semplice: la banca centrale, il Banco Central de la Republica Argentina, ha rinunciato al dogma inutile e controproducente dell’autonomia e indipendenza e si è messa al servizio del governo argentino, finanziando la sua spesa pubblica tramite emissioni di nuova base monetaria (riserve bancarie elettroniche, banconote, monete metalliche). Analizzando i contributi netti al PIL cumulato nel periodo 2002-2011, avremo così che la spesa pubblica si aggira intorno alla considerevole quota del 35%: una cifra importante ma in verità molto inferiore rispetto per esempio alla spesa pubblica annuale in Italia, che supera spesso il 50% del PIL complessivo della nazione. Tuttavia, essendo stata convogliata verso finalità utili e redditizie e avendo messo soprattutto nuovi mezzi monetari nelle mani di chi per ovvi motivi ha più tendenza a spendere e consumare rispetto alla sterile tesaurizzazione precauzionale dei risparmi, la spesa pubblica argentina ha subito prodotto effetti positivi di espansione economica a tutti i livelli. Da notare anche che l’Argentina non si è volontariamente ingabbiata in frustranti vincoli di pareggio di bilancio, potendo quindi modulare il regime di tassazione progressiva e indiretta in base a quelle che sono le reali esigenze di contenimento dell’inflazione e mantenimento nel tempo del potere di acquisto del peso. In Italia invece non solo la spesa pubblica è sproporzionata e spesso inefficiente, ma i cittadini e le aziende sono pure gravati da un prelievo fiscale tra i più alti del mondo, che annulla sul nascere qualsiasi tentativo di mettere in atto politiche espansive. Mentre in Argentina si creano soldi dal nulla e questi soldi vengono spesi nell’economia reale, in Italia si prendono in prestito soldi dai mercati finanziari da spendere spesso in modo dissennato e a vantaggio di una ristretta casta di privilegiati e questi soldi più gli interessi devono essere poi prelevati dalle tasche dei comuni cittadini, dei lavoratori e delle aziende, con tutte le nefaste e inesorabili conseguenze che ciò comporta in termini di riduzione dei consumi e degli investimenti. Preso atto di queste circostanze più politiche che strettamente tecniche e della scelta suicida di sottostare ai mercati finanziari, non esiste allora alcun motivo per stupirsi o meravigliarsi se in Argentina l’economia continua a crescere mentre in Italia siamo in profonda recessione. E così strano che scelte tanto distanti fatte a monte dai rispettivi governi si riflettano poi a valle in effetti altrettanto divergenti e contrastanti? Non dovrebbe essere la semplice matematica a suggerirci che sarebbe andata a finire così? Fra l’altro il sostegno della banca centrale argentina non si limita soltanto al finanziamento dei piani di spesa pubblica del governo, ma anche ai programmi di ristrutturazione dell’intero sistema economico nazionale, avendo l’istituto appoggiato le iniziative di nazionalizzazione del settore pensionistico (niente di eccessivamente anormale o sconvolgente perché anche in Italia o in Germania gli enti di previdenza, l’INPS e il Deutsche Rentenversicherung, sono pubblici e nessuno hai mai gridato allo scandalo, accusandoci di statalismo) e delle maggiori imprese di estrazione petrolifera, come nel caso della YPF che prima era in mano alla spagnola Repsol. Queste operazioni del governo argentino sono state necessarie non solo per garantire ai cittadini l’erogazione dei servizi essenziali e la proprietà pubblica delle risorse strategiche, ma anche e soprattutto per difendersi dall’ostilità dei mercati finanziari e dal mancato afflusso di capitali esteri: se i profitti delle multinazionali straniere della finanza e del petrolio se ne vanno all’estero e contemporaneamente nessuno porta nuovi capitali, è chiaro che in assenza di queste drastiche scelte di riappropriazione a tappe forzate delle primarie risorse finanziarie e naturali, l’Argentina sarebbe stata stretta in breve tempo in una nuova morsa dell’indebitamento estero. A parte che bisogna ancora capire cosa ci sia di tanto immorale e sacrilego (agli occhi dei funzionari del FMI e degli squali di Wall Street naturalmente, non dei nostri) nel garantire ai cittadini di uno stato democratico e civile la continuità di erogazione della pensione, dell’elettricità, del gas, del carburante, visto che le privatizzazioni hanno storicamente arrecato più abusi, inefficienze e rendite di posizione, che reali vantaggi per i consumatori. E poi, non è umanamente più giusto e razionale che i profitti ricavati dalle risorse naturali di un territorio vengano redistribuiti tra i cittadini di quel paese, invece di arricchire i forzieri di pochi soggetti privati e persino stranieri? Domande davvero pesanti e improrogabili, a cui l’Argentina ha già risposto con fermezza, mentre i nostri governanti farlocchi e mercenari si ostinano ad abbozzare risposte approssimative e balbettanti, non più accettabili come chiusura definitiva e conclusiva del discorso. Si tratta dunque di quel radicale cambio storico di paradigma di cui abbiamo accennato all’inizio, che l’Argentina sta perseguendo con coraggio e determinazione e ha già messo in crisi parecchie volte le vecchie e sclerotizzate plutocrazie occidentali, che ancora hanno in patria la necessaria forza politica e finanziaria per tenere sotto scacco interi governi, sindacati, mezzi di informazione, opinione pubblica. Ma probabilmente il ribaltamento più interessante e rivoluzionario riguarda appunto lo stesso ruolo della banca centrale, che in Occidente riveste obblighi di tutela degli interessi privati e di stabilità dei prezzi, mentre in Argentina ha più decisamente intrapreso la strada della lotta alla disoccupazione e alla povertà, del sostegno all’economia reale, della stabilità finanziaria nel suo complesso, di cui il contenimento dell’inflazione rappresenta solo un tassello importante ma non prioritario. E i risultati raggiunti sembrano fino ad oggi premiare tutte le scelte fatte dalla banca centrale argentina perché la disoccupazione è scesa dal devastante 54% del 2001 all’8,3% (meno di Italia e Stati Uniti, e nulla in confronto ai livelli occupazionali e ai disagi sociali di Spagna e Grecia), il salario minimo garantito è cresciuto di ben otto volte, il PIL è in continua ascesa, il debito pubblico è diminuito dal 166% al 48%, gli interessi sul debito sono passati dal 21,9% al 6% del bilancio, il tasso di povertà è crollato dal 45% al 14%, con la povertà estrema ben inferiore al 7% (vedi grafico sotto). Dati entusiasmanti che fanno impallidire gli inqualificabili governi del rigore e dell’austerità disseminati in tutta Europa, in cui questi indici di prestazione economica e sociale sono tutti inesorabilmente e drammaticamente in caduta libera. L’unica vera incognita in questa carrellata di successi di politica economica è il dato sull’inflazione che secondo fonti governative sarebbe intorno al 10% annuo, mentre secondo i calcoli degli analisti del FMI avrebbe già sforato il 25%. Ed è proprio su questa interminabile diatriba riguardo ai tassi di inflazione e di crescita che è nato l’acceso scontro al vertice fra le due Cristine (descritto magistralmente dal grande Sergio di Cori Modigliani sul blog Libero Pensiero). La battagliera presidentessa argentina risponde colpo su colpo all’algida e inflessibile direttrice del FMI Christine Lagarde, che proprio in questi giorni ha estratto il primo cartellino giallo nei confronti dell’Argentina in attesa di ricevere dati economici più affidabili entro dicembre, ottenendo in tutta risposta la pronta replica di Cristina Kirchner: "il mio paese non è una squadra di calcio. È un paese sovrano e, come tale, non ha intenzione di accettare una minaccia". La situazione insomma è abbastanza compromessa e surriscaldata, ma in questa contesa cruciale per il destino e il significato stesso della sovranità democratica di una nazione, l’Argentina per nostra fortuna non intende arretrare di un passo, potendo contare sull’appoggio degli altri paesi sudamericani alleati e facendo da apripista per tutti quegli stati non più sovrani che vorrebbero magari in un prossimo futuro svincolarsi dalla stretta mortale del FMI e dell’Unione Europea (sono la stessa cosa, perché uno è il corollario dell’altra e viceversa), come la Grecia, la Spagna e la stessa Italia. In effetti, numeri alla mano, basterebbe solo mettersi d’accordo su quali beni e servizi considerare all’interno del paniere come base di calcolo dell’inflazione e il discorso sarebbe chiuso univocamente, anche se rimarrebbe ancora aperta la questione dell’aumento fittizio dei prezzi di alcuni prodotti agricoli ed alimentari dovuto alla speculazione finanziaria e alle scommesse sui derivati future. Fra l’altro, come ha già dimostrato l’ottimo Giovanni Zibordi sul sito Cobraf, si potrebbe procedere anche ad un calcolo indiretto dell’inflazione tramite il tasso di cambio delle valute nazionali in un regime di cambi flessibili, dato che tale rapporto riflette più o meno i livelli relativi dei prezzi interni ai due paesi presi in esame. A parte infatti le compravendite di moneta che avvengono a titolo puramente speculativo sui mercati valutari, un residente di un paese cambia la sua valuta in una valuta estera solo quando deve comprare dei prodotti da importare da quel dato paese e quindi lo stesso tasso di cambio delle due divise si allineerà in un certo senso al prezzo dei prodotti che verranno scambiati nei flussi incrociati fra i due paesi: più alto sarà il differenziale di inflazione del primo paese rispetto al secondo e maggiore sarà la svalutazione della sua moneta rispetto alla moneta del secondo paese, perché a parità di volumi di merci scambiate sarà più elevata l’offerta di moneta del paese più inflativo rispetto a quella del paese meno inflativo. Utilizzando questo semplice meccanismo, se confrontiamo il valore iniziale di cambio nel 2002 di 3 pesos per 1 dollaro con quello attuale di 4,7 pesos per un 1 dollaro avremo una svalutazione complessiva del peso del 56% rispetto al dollaro, e ricavando nel periodo considerato un’inflazione media negli Stati Uniti pari al 2,5%, avremo che l’inflazione media annua in Argentina in questi ultimi dieci anni sarebbe stata intorno all’8,1%, ben lontana dai picchi del 25% annui stimati dal FMI. Questo è lo stesso motivo per cui oggi possiamo dire con pochi margini di errore che l’uscita dall’euro della Grecia comporterebbe una svalutazione del 70% della nuova dracma nei confronti dell’euro, perché la somma dei suoi differenziali di inflazione rispetto alla media europea porterebbe a questo risultato. Mentre per la medesima ragione, a prescindere dai numeri catastrofici e dagli allarmismi ingiustificati sparsi a caso dalla propaganda per terrorizzare la gente, la svalutazione della lira sarebbe intorno al 20%. I numeri non sbagliano, mentre le voci di popolo sono e rimarranno sempre voci di popolo. Ma a parte i semplici strumenti analitici dell’economia che porterebbero a smontare la tesi del FMI e tralasciando per il momento il fatto che questi conteggi manterrebbero sempre un certo grado di approssimazione per la solita storia della differenza sostanziale di calcolo dell’inflazione negli Stati Uniti e in Argentina, la faccenda è più prettamente politica, morale, filosofica che tecnica. Quello che l’Argentina sta cercando di dimostrare al mondo intero è che l’inflazione non può essere considerato l’unico parametro di valutazione dello stato di salute e benessere di un paese, perché ne esistono molti altri, primi fra tutti i dati sull’occupazione e la povertà, e su questo versante non ci sono dubbi che l’Argentina sia un paese virtuoso perché sta utilizzando tutti gli strumenti fiscali e monetari a disposizione nel solo interesse del bene del suo popolo. Mentre al contrario, l’Europa con la sua maniacale e ossessiva fissazione sul dogma della bassa inflazione di derivazione monetarista e neoliberista, sta portando alla deriva la stabilità sociale, inasprendo i conflitti e creando immense sacche inferocite di disoccupati e nuovi poveri. Per capire meglio questo concetto, sarebbe opportuno rileggere con molta attenzione le parole del giovane economista argentino Ivan Heyn, morto suicida in un albergo a Montevideo a dicembre scorso in circostanze sospette, dopo aver partecipato “guarda caso” ad un turbolento incontro con i funzionari del FMI: “Che cosa me ne importa a me di avere un’inflazione al 3% come avete voi in Europa essendo infelici tutti, se io posso dare felicità alla mia nazione con un’inflazione al 30%? Lo so da me che va abbassata, ho studiato economia anch’io. Lo faremo. Ma lo faremo soltanto quando ci saremo ripresi tutti. Non prima. La felicità ha valore soltanto se può essere condivisa collettivamente, è una teoria economica, questa, e mi meraviglio che lei che viene dal Primo Mondo non lo sappia. La felicità per pochi privilegiati, non è vera felicità, è avidità bulimica. E’ un peccato mortale. Lo sa anche il papa. E noi siamo cattolici” (frase tratta sempre dal blog di Sergio di Cori Modigliani, che conosce molto bene come vanno realmente le cose in Argentina avendoci vissuto per parecchi anni). Una dichiarazione molto simile per certi versi agli illuminanti e memorabili discorsi dell’indimenticato presidente partigiano Sandro Pertini, quando diceva che un popolo povero, affamato, poco istruito, privo di giustizia sociale non può essere libero e la libertà è il maggiore valore fondante di una democrazia. E’ chiaro che in una fase di crescita economica tumultuosa come questa, il dato secco dell’inflazione passa in secondo piano rispetto ai parametri da cui può eventualmente scaturire un’impennata improvvisa dell’inflazione, che malgrado tutti i tentativi diffamatori e lesivi in Argentina non c’è ancora stata: livello di piena occupazione, saturazione della capacità produttiva, politiche salariali troppo espansive, aumento della domanda aggregata non più corrisposto da un contemporaneo aumento dell’offerta aggregata, mancanza di controllo sui prezzi, squilibri permanenti nelle partite correnti con l’estero. Siccome l’Argentina è ancora ben lontana dal raggiungimento di questi traguardi o fenomeni tipici della fase finale di un ciclo economico, ecco che il problema dell’inflazione per tutti i funzionari del governo e della banca centrale è in realtà un falso problema. E la grintosa governatrice del Banco Central Mercedes Marco del Pont (foto sopra: ogni paese ha le donne di potere che si merita, noi purtroppo abbiamo la Bindi, la Santanchè, la Tarantola e la Fornero) può orgogliosamente dichiarare che approvando ad aprile scorso la nuova Carta Organica, l’istituto sarà legato a doppio filo con le politiche del governo rinunciando alla pretesa di autonomia che non porta a nulla, tranne alla deflazione e recessione perenne. E secondo il nuovo statuto la missione primaria e fondamentale della banca centrale argentina non sarà soltanto “preservare il valore della moneta ma includerà anche lo sviluppo economico con giustizia ed equità sociale, l’occupazione e la stabilità finanziaria”. Un vero schiaffo di sfida nei confronti di tutti i principi antidemocratici e i valori antiumani su cui si è fondata nel tempo la supremazia schiacciante e scriteriata della finanza rispetto alle istanze razionali ed etiche degli stati ancora sovrani di gestire l’economia in modo sostenibile e solidale: 1) Lo sviluppo economico non piace alla finanza, perché quando i redditi si espandono, gli affari vanno bene, i debitori pagano i creditori, è difficile mettere in atto strategie di espropriazione di ricchezza ed estrazione di valore dal basso verso l’alto 2) La giustizia e l’equità sociale è una vera bestemmia per la finanza, che ha costruito le sue fortune sulla più diseguale redistribuzione e concentrazione di ricchezze nelle mani di pochi oligarchi che il mondo abbia mai conosciuto 3) L’occupazione non è mai stato un reale obiettivo della finanza, visto che, a parte gli istantanei guadagni speculativi sulle aspettative e sui dati forniti periodicamente dal governo, produce una maggiore spinta al rialzo dei salari dei lavoratori e minori rendimenti e profitti per gli investitori 4) La stabilità finanziaria non è mai stata una condizione propizia per chi vive di rendita e di speculazione, dato che riduce la volatilità dei titoli e la possibilità di fare grandi profitti in poco tempo. Non ci stupisce quindi tutta questa ostilità nei confronti dell’Argentina, sospinta e sobillata dagli ambienti che contano di Wall Street, della City di Londra, di Berlino, di Parigi, di Hong Kong, di Tokyo. Una carta di intenti di questo tipo avrà fatto sussultare sulla sedia migliaia di manager e dirigenti di grandi gruppi finanziari, che credono ancora per abitudine e convenienza che la banca centrale sia soltanto un ente privato al loro servizio, il cui unico scopo sia quello di fornire quantità illimitate di liquidità a comando e di mantenere nel contempo un alto valore e potere di acquisto degli immensi patrimoni accumulati. Un’istituzione chiusa e relegata al solo settore bancario e finanziario, come un vero e proprio Fortino Militarizzato di Ricchezze, che ha l’obbligo categorico di frenare qualunque assalto della società civile, dello Stato e della cosiddetta economia reale, ogni volta che questi ultimi rivendicano il sacrosanto diritto di avere i mezzi di pagamento necessari per una corretto funzionamento dei flussi commerciali e una migliore redistribuzione delle risorse finanziarie. Non a caso le riviste patinate più vicine al mondo finanziario hanno subito inserito la governatrice argentina Del Pont nella lista dei 10 peggiori banchieri centrali del mondo, basandosi evidentemente soltanto su preconcetti, pregiudizi o semplice antipatia personale perché in verità dati reali che confermino inconfutabilmente l’incompetenza e inefficienza della funzionaria ancora non ne esistono. La solita accusa meccanica e infondata che l’eccessivo ricorso alla creazione di nuova base monetaria, volgarmente chiamata “stampa di moneta”, porterà prima o dopo all’iperinflazione della Repubblica di Weimar o dello Zimbabwe dimostra invece una totale ignoranza dei meccanismi moderni di circolazione della stessa base monetaria (formata per il 97% da riserve bancarie elettroniche e solo per il restante 3% da banconote e monete metalliche), che è praticamente tutta interna al circuito interbancario, emergendo in superficie soltanto quando le banche concedono prestiti ai clienti o i clienti stessi prelevano allo sportello questi soldi virtuali ottenendo in cambio banconote. Solo così le famose banconote, che passando rapidamente di mano in mano farebbero aumentare la velocità di circolazione del denaro e innalzare di conseguenza l’indice dei prezzi al consumo, avrebbero un reale effetto inflativo, mentre in caso contrario l’unico modo in cui un banchiere centrale potrebbe assumersi la diretta responsabilità di aumentare la quantità di moneta circolante e produrre inflazione è quello di lanciare banconote da un elicottero. Con buona pace di tutti gli incalliti e retrogradi monetaristi, neoliberisti, devoti della sacralità dell’autonomia, della bassa inflazione e della rarefazione monetaria, il sistema monetario moderno funziona così e prima o dopo dovranno farsene una ragione. E’ l’inflazione a trainare la maggiore offerta di moneta da parte della banca centrale e non viceversa, così come è sempre l’inflazione ad influenzare in prima battuta la svalutazione della moneta e non viceversa (in seconda e terza battuta rientrano invece gli squilibri delle partite correnti con l’estero e le compravendite di moneta sui mercati valutari). L’esperienza del Canada, che ha una banca centrale simile a quella argentina autorizzata a supportare direttamente il governo e a partecipare alle aste primarie di collocamento dei titoli di stato (come accadeva in Italia prima del divorzio fra Ministero del Tesoro e Banca d'Italia del 1981), è abbastanza emblematica: malgrado la banca centrale abbia da sempre “stampato” moneta in accordo con il governo, in Canada, dal dopoguerra ad oggi, non abbiamo mai assistito a fenomeni iperinflazionistici. In sistemi invece meno solidali nella collaborazione con i governi e più orientati a foraggiare illimitatamente i circuiti bancari privati, come quello degli Stati Uniti, Gran Bretagna, Giappone, le rispettive banche centrali hanno allagato il mercato interbancario con immense iniezioni di liquidità, attraverso le cosiddette operazioni di quantitative easing, senza che questo diluvio abbia aumentato di un centesimo di punto percentuale l’inflazione percepita. Una simile circostanza è giustificata dalla semplice considerazione che queste quantità incalcolabili di riserve bancarie elettroniche sono appunto riserve e a parte l'irrisoria percentuale di richieste di conversione in banconote circolanti da parte dei clienti delle banche, il loro destino è già segnato: vengono custodite gelosamente nei conti di deposito dei singoli istituti presso la banca centrale in qualità di asset infinitamente negoziabile e liquido, trasferite senza sosta da un conto all’altro in cambio di titoli, utilizzate per compensare i pagamenti incrociati fra una banca e l’altra, senza mai vedere la luce del sole. L’unico modo, ripetiamo, per aumentare la massa di moneta circolante, ovvero i nostri depositi bancari e le banconote, è una maggiore attività creditizia delle banche commerciali, che come sappiamo può avvenire solo quando esiste una reale domanda di prestiti del mercato, sono verificate le garanzie fornite e i parametri di rischio del debitore, sono rispettati i requisiti patrimoniali della banca come richiesto dagli accordi bancari internazionali di Basilea. E sappiamo purtroppo per esperienza che quando l’attività creditizia delle banche è fuori controllo (boom), non solo ci sono rischi incombenti di inflazione (magari limitati ad un solo settore, come quello immobiliare), ma anche reali possibilità di nascita di bolle speculative che coinvolgono a cascata tutti gli altri settori, gli altri paesi fino a creare le premesse di interminabili crisi finanziarie globali. Così come sappiamo che quando l’attività creditizia si riduce drasticamente (crunch), la scarsità di moneta circolante che ne deriva può creare disastrosi effetti di deflazione dei prezzi, dei salari e depressione di un’intera economia. Gli enti governativi di vigilanza, in perfetta sintonia con le politiche monetarie di controllo dei tassi di interessi della banca centrale, dovrebbero essere efficienti e tempestivi abbastanza per mantenere un dosaggio equilibrato e stabile dell'attività creditizia, intervenendo direttamente solo in caso di evidenti deviazioni sia nell'uno che nell'altro verso. L’Argentina quindi, alla faccia di tutti i suoi detrattori, parte avvantaggiata sul versante della prevenzione dell’inflazione (e deflazione) anche per questo motivo: ha un settore bancario molto ridotto e in gran parte nazionalizzato, un’attività creditizia scarsa e frammentaria, un controllo di vigilanza molto preciso e puntuale da parte della sua banca centrale. Con queste premesse, è difficile che ci possano essere nell'immediato aumenti imprevisti di moneta circolante, eccessi di debito privato e quindi eventuali pericoli di inflazione, che non siano direttamente collegabili alla sola spesa pubblica dello stato, ed è forse questo il maggiore fattore che ha determinato il successo economico dell’Argentina: non la statalizzazione massiccia, ma la concentrazione dei flussi finanziari all’interno di canali molto esegui, visibili e facilmente controllabili. Al contrario di ciò che accade in Europa, negli Stati Uniti, in Giappone, non esistono in Argentina grandi gruppi finanziari e gigantesche corporazioni predatorie, fondi pensioni privati, banche ombre (shadow banks), banche d’affari, banche d’investimento specializzate in strumenti derivati, che possono soggiogare lo stato, orientare le scelte politiche e reprimere a loro vantaggio le richieste dell’economia reale sempre più allo sbando. Come dimostrato in un recente studio dal titolo già di per sé molto eloquente “Too much finance?”, scritto da tre importanti economisti, tra cui l’italiano Ugo Panizza, per conto dello stesso FMI, non esiste un collegamento diretto fra le dimensioni del settore finanziario e la crescita economica di un paese, anzi i dati dimostrano che aree con imprese finanziarie molto sviluppate, aggregate e ramificate spesso soffrono di prolungati periodi di recessione, mentre regioni in cui il settore finanziario è trascurabile, limitato e controllato sono protagoniste di altrettanti fasi di espansione economica. Un'evidenza empirica che ancora una volta da ragione alle scelte intraprese dall’Argentina e dovrebbe mettere in guardia tutti i ministeri dell’economia e delle finanze, gli enti di vigilanza e le banche centrali sparse nel mondo. L’unico serio rischio che corre l’Argentina è quello dell’isolamento, promosso dallo stesso FMI e dal boicottaggio delle nazioni neoliberiste europee, asiatiche, americane, che a lungo termine può compromettere la stabilità dei conti esteri. Ma anche qui la combattività del governo e della banca centrale, ispirata forse dal temperamento delle due donne al comando, non mostra segni di cedimento e in questi ultimi anni l’Argentina ha addirittura raddoppiato le sue riserve monetarie in valuta estera, che saranno utili per difendere o allentare in via preventiva la forza di cambio della valuta nazionale in caso di attacchi speculativi e per evitare ulteriori fughe di capitali all’estero, dovute principalmente ai timori di eccessiva fragilità della divisa nazionale. Considerando l’attuale situazione di equilibrio delle partite correnti della bilancia dei pagamenti, l’Argentina può dormire ancora sonni tranquilli, anche se prima o dopo parte delle sue riserve valutarie dovranno essere destinate al pagamento delle rate del debito estero congelato alle fasi immediatamente successive la dichiarazione di default del 2001. Nonostante però tutte le cupe previsioni di crollo imminente, l’ ultimo avviso ai naviganti potrebbe essere questo: non abbiate paura, panico, timore di osare, di capire, il Faro argentino rimane sempre lì, invisibile soltanto agli occhi di chi non lo vuole vedere. E un giorno non tanto lontano, se non verremo sospinti dalla tempesta sulle terre gelide dell’Antartide, è possibile che la sua luce intensissima indichi la via agli sparuti naufraghi dell’Occidente e a tutti coloro che sono ancora accecati dai bagliori fatui della propaganda di regime. In fondo, come dicono i Maya, il Giorno della Fine del Mondo si sta avvicinando a grandi passi e per evitare strane sorprese, sarebbe meglio prepararsi per tempo, prendendo spunto da chi è già in salvo e al sicuro. di Piero Valerio

15 ottobre 2012

Domare i banchieri non è facile come domare i tori

Ovviamente tutti sanno che in nessun caso è facile domare un toro, anzi, è del tutto impossibile. È vero che qui in Texas, nei numerosi rodei che vengono organizzati un po’ ovunque, diversi cow boys si cimentano nella gara a chi resiste di più in groppa ad un toro inferocito, ma solo i campioni resistono più di una dozzina di secondi, e molti finiscono a terra molto prima, qualcuno con un po’ di ossa rotte. Quindi quello che voglio dire è che, se domare i tori è impossibile, anche sperare di piegare i banchieri a fare ciò che non vogliono lo è in uguale misura. Loro sono troppo più forti di quelli che vorrebbero cavalcarli per accettare di essere cavalcati. Perché ho fatto questa similitudine? Perché proprio in questi giorni qualcuno in Europa ha finalmente avanzato una proposta, pur piccola ma seria, per risolvere il problema delle banche europee diventate troppo grosse. Essere grosse fa bene alle banche (finché non arrivano le crisi) ma fa male alla gente, perché quando le banche sono troppo grosse fanno quello che vogliono limitandosi (più o meno) a rispettare ciò che impongono le leggi. Includendo però in questo assunto anche il potere occulto di ottenere dai Parlamenti le leggi che fanno loro comodo. Ma quanto sono grandi queste banche per riuscire ad imporre a nazioni intere, e persino a grandi federazioni di Stati, come gli USA e l’Europa, i loro interessi? Lo dice, con una semplice comparazione, Jan Pieter Krahnen professore di Scienza delle Finanze all’Università di Francoforte (Germania): l’insieme di tutto il patrimonio delle banche europee è pari al 350% il volume di tutto il Prodotto Lordo della Comunità Europea. Vale a dire che le banche europee amministrano un patrimonio (cioè capitale proprio + debiti) che è tre volte e mezzo il valore di tutto quello che si produce in Europa. Ciò può significare due cose: o che hanno molte operazioni sull’estero, o che hanno in deposito nel patrimonio molta aria fritta (leggi: crediti inesigibili). Probabilmente sono vere un po’ entrambe le cose. Ma per capire l’entità, e l’anomalia, di questa cifra, basta fare il raffronto con lo stesso parametro calcolato sugli Stati Uniti: l’insieme patrimoniale di tutte le banche USA è pari all’80% del volume di tutto il Prodotto Lordo statunitense. Quindi si capisce agevolmente che le banche europee sono largamente sottocapitalizzate e pertanto sottoposte ad un livello del rischio di default (fallimento) molto più elevato. Si capisce altrettanto bene però che con queste dimensioni patrimoniali nessun paese si può permettere di far fallire le proprie banche e pertanto... “a mali estremi, estremi rimedi”, si salvano le banche sostenendole con aiuti di Stato (in inglese il “bailout”), oppure con le nazionalizzazioni (sempre più rare però, perché non conviene ai banchieri). Quindi il famoso “too big to fail” (troppo grandi per fallire) pronunciato nel 2008 come motivo per salvare con denaro pubblico le grandi banche americane, è tuttora in piena applicazione anche in Europa, soltanto che, visto cosa stava per succedere negli USA, gli europei non si azzardano a lasciarne fallire nemmeno una (di quelle molto grosse). Fino a circa metà degli anni 90 esisteva sia in Europa che in America una legge che teneva nettamente separata l’attività delle banche ordinarie da quella delle banche d’affari o d’investimenti (dette anche di medio-termine). Per effetto di questa legge in Italia le banche ordinarie potevano fare solo operazioni ordinarie con durata fino a 18 mesi, gli Istituti di credito a medio termine potevano fare solo operazioni con durata da 18 mesi in su. La differenza sostanziale però era nella forma di approvvigionamento dei capitali necessari a finanziare queste attività. Le prime (le banche ordinarie) si finanziavano massimamente con i depositi dei correntisti e con i depositi del risparmio a breve. Le seconde (gli Istituti di medio termine), non avendo sportelli per i conti correnti, si dovevano finanziare con l’emissione di certificati di deposito, perlopiù vincolati fino a scadenza, superiore ai 18 mesi. In questo modo veniva evitato che il denaro depositato a breve andasse a finanziare prestiti a scadenza lontana. Con l’invenzione della “cartolarizzazione” del debito, cioè la trasformazione di un debito a scadenza lunga (per es. i mutui) in titoli a risparmio trattati quotidianamente in borsa, si è pensato che quella prudenza non fosse più necessaria (Greenspan convinse Clinton in questo senso) e la legge venne abolita prima negli USA e poi in tutta Europa. Ma nel 2008 si è visto che quell’assunto era solo un illusione. Il mercato non si regola da solo, compete e basta. Lo squilibrio che si era formato tra un debito di durata ultradecennale (i mutui di 20 o 30 anni) e il loro derivato finanziario, trasformato in titoli al portatore che possono essere messi all’incasso tutti insieme nella stessa giornata, ha funzionato finché il mercato delle case e quello dei mutui è stato in crescita, ma quando è crollato e tutti (o buona parte) di quei possessori dei derivati finanziari hanno cercato tutti assieme di rientrare in possesso del loro credito, la crisi di liquidità è esplosa repentinamente, e le banche hanno rischiato tutte di fare la fine che ha fatto la Lehman Brother, cioè fallire. Allora qualcuno, tra i pochi nelle stanze dei bottoni che sembrano non del tutto legati al grande carrozzone, ha pensato che, non riuscendo a imporre legislativamente il ritorno della vecchia legge che separava le banche (negli Usa era la Glass-Steagall, in Italia il DPR 601), si sarebbe potuto ottenere più o meno lo stesso risultato separando quelle diverse attività all’interno della stessa banca. In Europa è stato in questi giorni Erkky Liikanen, delegato Europeo per la Banca Centrale Finlandese, a proporre ufficialmente di intervenire con la nuova regola sulle banche mettendo un differente parametro di capitalizzazione per i due comparti al fine di limitare il rischio proveniente dall’esagerata esposizione proveniente dalle operazioni sui derivati finanziari. Ovviamente, poiché il capitale proprio della banca è uno solo, il parametro diverso funzionerebbe per stabilire l’ammontare massimo delle operazioni sui derivati, che dovrebbe essere più rigido rispetto all’altro parametro, rivolto invece ad operazioni ordinarie molto meno rischiose. Questa proposta, che per le banche sarebbe certamente il male minore rispetto a quella di ripristinare le leggi anni ‘90, si scontra però con la già annunciata opposizione dei grandi banchieri, i quali lamentano che costringerebbe le loro banche a sostenere un grande onere amministrativo per creare all’interno della stessa banca due separate contabilità. Questo appare palesemente come un grande pretesto per non fare niente, dato che ogni grande banca ha già separate contabilità per ogni comparto di attività, ci mancherebbe altro! Il tutto si riunisce poi nel bilancio aggregato e consolidato. Quello che le banche non riuscirebbero a fare non è la separata contabilità, ma la capitalizzazione per mantenere adeguato il volume di attività rischiose. Questo è il principale motivo, insieme alla completa avversione per le “ingerenze” dei politici, per cui la proposta non piace e viene già contestata. Riusciranno i nostri baldi politici a fargliela digerire? È quasi impossibile. Io prevedo che il destino del povero Liikanen e dei suoi (pochi) alleati, sia lo stesso di quei cow boy che pretendono di cavalcare i tori. di Roberto Marchesi

05 novembre 2012

Chi possiede il mondo?

AMY GOODMAN: Siamo a Portland, Oregon, perché facciamo parte del giro in 100 città organizzato dalla Maggioranza ridotta al silenzio. Questa settimana in cui il presidente Obama e l’aspirante alla presidenza, Mitt Romney hanno fatto un dibattito su problemi di politica estera, e sull’economia, noi ci rivolgiamo a Noam Chomsky, dissidente politico famoso in tutto il mondo, linguista, scrittore, e professore al MIT. In un recente discorso, il professor Chomsky ha esaminato argomenti in gran parte ignorati o soltanto accennati durante la campagna elettorale, dalla Cina alla Primavera Araba, al riscaldamento globale e alla minaccia nucleare posta da Israele contro l’Iran. Ha parlato il mese scorso all’Università del Massachusetts ad Amherst a un evento sponsorizzato dal Center for Popular Economics. La sua conferenza era intitolata. “Chi possiede il mondo?” NOAM CHOMSKY: quando pensavo a queste osservazioni, avevo in mente due argomenti, non riuscivo a decidere quale dei due scegliere, in effetti molto ovvii. Uno è: quali sono i problemi più importanti che dobbiamo affrontare? Il secondo è: quali problemi non si stanno trattando seriamente – o per nulla – in questa follia quadriennale in corso che si chiama elezione? Mi sono però reso conto che non c’è un problema; non è una scelta difficile: sono lo stesso argomento. E ci sono delle ragioni che sono di per se stesse molto significative. Mi piacerebbe tornare su questo punto fra un momento. Prima dirò alcune parole sul contesto, iniziando dal titolo che è stato annunciato: “Chi possiede il mondo?” In realtà, una bella risposta a questa domanda è stata data tanti anni fa da Adam Smith, una persona che ci si aspetta che adoriamo, ma che non leggiamo. Era un po’ sovversivo quando lo si legge. Si riferiva alla nazione che era la più potente del mondo ai suoi tempi, e, naturalmente, era la nazione che lo interessava, cioè l’Inghilterra. E ha fatto notare che in Inghilterra gli architetti della politica sono coloro che possiedono la nazione: e che ai suoi tempi erano i mercanti e i produttori di merci. E ha detto che essi si assicurano di disegnare le linee politiche, in modo che i loro interessi vengano seguiti in modo particolare. La politica è al servizio dei loro interessi, per quanto sia doloroso l’impatto sugli altri, compreso il popolo inglese. Smith era, però un conservatore vecchia maniera con principi morali, quindi ha aggiunto le vittime dell’Inghilterra, le vittime di quella che chiamava “l’ingiustizia selvaggia degli Europei”, dimostrata specialmente in India. Ebbene, non aveva illusioni su chi fossero i proprietari, quindi, per citarlo di nuovo, “Tutto per noi stessi e nulla per le altre persone, sembra, in ogni età del mondo, essere stata la ignobile massima dei padroni del genere umano.” Era vero allora; è vero adesso. La Gran Bretagna ha mantenuto la sua posizione come potenza mondiale dominante quando il ventesimo secolo era già cominciato da un pezzo, malgrado il suo declino progressivo. Alla fine della seconda guerra mondiale, il dominio si era spostato rapidamente nelle mani dell’ultimo arrivato al di là del mare, gli Stati Uniti, di gran lunga la società più potente e ricca nella storia del mondo. La Gran Bretagna poteva aspirare soltanto ad essere il suo socio meno anziano, come aveva mestamente riconosciuto il Foreign Office britannico (il mistero degli esteri). In quel momento, il 1945, gli Stati Uniti possedevano letteralmente la metà della ricchezza mondiale, incredibile sicurezza, controllavano l’intero emisfero occidentale, entrambi gli oceani, le sponde opposte di entrambi gli oceani. Non c’è nulla, non c’è mai stato nulla del genere nella storia. E i pianificatori lo hanno capito. I pianificatori di Roosvelt si incontravano durante la Seconda guerra mondiale per disegnare il mondo del dopo guerra. Erano molto sofisticati al riguardo, e i loro piani sono stati abbastanza messi in pratica. Volevano assicurarsi che gli Stati Uniti avrebbero controllato quella che chiamavano una “grande area” che avrebbe incluso, sistematicamente l’intero emisfero occidentale, tutto l’Estremo Oriente, l’ex Impero britannico, di cui gli Stati Uniti avrebbero preso il controllo, e il più possibile dell’Eurasia – cosa di importanza cruciale – i suoi centri di commercio e di industria in Europa occidentale. E nell’ambito di questa area, dicevano, gli Stati Uniti avrebbero mantenuto un potere indiscutibile con una supremazia militare ed economica, assicurando nello stesso tempo la limitazione di qualunque esercizio di sovranità da parte di stati che potessero interferire con questi disegni globali. Quelli erano piani piuttosto realistici a quell’epoca, data l’enorme disparità di potere. Gli Stati Uniti erano stati di gran lunga il più ricco paese del mondo perfino prima della Seconda Guerra mondiale, sebbene non ne fossero ancora i principali protagonisti mondiali. Durante la Seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti avevano guadagnato moltissimo. La produzione industriale era quasi quadruplicata, e ci aveva fatto uscire dalla depressione economica. I rivali nell’industria sono stati rovinati o seriamente indeboliti. Era dunque un sistema di potere incredibile. In effetti, le politiche che erano state delineate sono ancora valide. Si possono leggere nelle dichiarazioni del governo. E’ diminuita, però, in modo significativo la capacità di attuarle. In realtà c’è un tema importante nelle discussioni di politica estera, nel giornalismo e così via. Il tema si chiama “declino americano.” Quindi, per esempio, sul più prestigioso giornale di relazioni internazionali dell’establishment, il Foreign Affairs, (Affari esteri), un paio di mesi fa, c’era un argomento che aveva sulla prima pagina in grandi lettere in neretto la domanda: “L’America è finita?” Questo annunciava il tema della questione. E c’è un corollario standard a riguardo: il potere si sta spostando verso occidente, verso la Cina e l’India, che sono le due potenze in ascesa e che saranno gli stati egemonici del futuro. In effetti penso che il declino sia piuttosto reale, ma si richiedono alcuni seri requisiti. Prima di tutto, il corollario è altamente improbabile, almeno nell’immediato futuro. La Cina e l’India sono paesi molto poveri. Date soltanto un’occhiata, per esempio, all’Indice di sviluppo umano delle Nazioni Unite: quei due paesi sono molto in basso. La Cina è circa novantesima. Penso che l’India sia intorno al centoventesimo posto, l’ultima volta che ho guardato l’indice. E hanno anche terribili problemi interni: problemi demografici, povertà estrema, disuguaglianza terribile, problemi ecologici. La Cina è un grande centro manifatturiero, ma in realtà è soprattutto un impianto di assemblaggio. Assembla quindi parti e componenti, frutto di un’alta tecnologia che arriva dai suoi centri industriali più avanzati: il Giappone, Taiwan, la Corea del sud, Singapore, gli Stati Uniti, l’Europa – e fondamentalmente si limita a un lavoro di assemblaggio. E così comprate una di queste cose che iniziano con la -i, un ipod della Cina – si chiama prodotto di esportazione cinese, ma le parti, i componenti, e la tecnologia vengono da fuori. E il valore aggiunto in Cina è pochissimo: è stato calcolato. Saliranno nella scala della tecnologia, ma sarà una salita difficile, per l’India ancora di più. Si dovrebbe quindi essere scettici riguardo al corollario. C’è però un altro requisito che è più serio. Il declino è reale, ma non è un fatto nuovo. Va avanti dal 1945, ed è avvenuto molto rapidamente. Alla fine degli anni 40, c’è un avvenimento che è noto qui come “la perdita della Cina”. La Cina diventava indipendente. Era la perdita di un enorme pezzo della vasta area asiatica, ed è diventata un problema fondamentale nella politica interna americana. Chi è responsabile della perdita della Cina? Ci sono state un sacco di recriminazioni, ecc. In effetti l’espressione è piuttosto interessante. Per esempio, io non posso perdere il tuo computer, giusto? perché non lo possiedo. Posso perdere il mio computer. Ebbene, la locuzione “perdita della Cina” presuppone in un certo quale modo un principio profondamente rispettato del tipo di consapevolezza dell’elite americana: noi possediamo il mondo e se qualche suo pezzo diventa indipendente, lo abbiamo perduto. E quella è una perdita terribile; dobbiamo fare qualche cosa al riguardo. Non si mette mai in dubbio, e questo è di per sé interessante. Ebbene, circa nello stesso periodo, intorno al 1950, cominciarono a sorgere preoccupazioni sulla perdita del Sud est asiatico. Questo ha portato gli Stati Uniti alle guerre in Indocina, alle peggiori atrocità del dopo guerra – in parte vinte in parte no. Un avvenimento molto significativo nella storia moderna è avvenuto nel 1965, quando in Indonesia, che era il punto di maggiore preoccupazione – infatti essa è la nazione del Sud est asiatico con la maggior parte della ricchezza e delle risorse – c’è stato un colpo di stato militare, quello di Suharto. Ha portato a un incredibile massacro, che il New York Times ha chiamato una “sconvolgente strage di massa,” che ha ucciso centinaia di migliaia di persone, per lo più contadini senza terra; ha distrutto l’unico partito politico di massa; ha aperto il paese allo sfruttamento dell’Occidente. L’euforia in occidente era così enorme, che non si poteva contenere. E così sul New York Times , quando ha descritto la “sconvolgente strage di massa”, la ha chiamata “un barlume di luce in Asia.” Quell’ articolo è stato scritto da James Reston, il principale intellettuale liberale del Times. E lo stesso è accaduto altrove -in Europa, in Australia. E’ stato considerato un avvenimento fantastico. Anni dopo, McGeorge Bundy, che era il consigliere per la sicurezza nazionale di Kennedy e Johnson, a posteriori ha fatto notare che sarebbe stata una buona idea porre fine alla guerra del Vietnam, a quel punto, e ritirarsi. Contrariamente a tante illusioni, la Guerra del Vietnam è stata combattuta principalmente per assicurarsi che un Vietnam indipendente non si sarebbe evoluto con successo e non sarebbe diventato un modello per altre nazioni di quella area. Per prendere a prestito la terminologia di Henry Kissinger usata per il Cile, dobbiamo impedire che quello che chiamava il “virus” dello sviluppo indipendente diffondesse il contagio altrove. Questa è una parte critica della politica estera americana fin dalla Seconda guerra mondiale: la Gran Bretagna, la Francia e altri paesi in grado minore. E nel 1965, era finito. Il Vietnam del sud era praticamente distrutto. Si sparse la voce rivolta al resto dell’Indocina che esso non doveva essere il modello per nessuno e il contagio è stato contenuto. Il regime di Suharto si era assicurato di non venire contagiato. E abbastanza presto gli Stati Uniti hanno avuto dittature in ogni nazione di quella zona: Marcos nelle Filippine, una dittatura in Tailandia, Park Chun nella Corea meridionale. Non c’erano problemi per l’infezione. Pensava che sarebbe quindi stato un buon periodo per mettere fine alla Guerra del Vietnam. Ebbene questo è il Sudest asiatico. Il declino però continua. Negli ultimi 10 anni, c’è stato un avvenimento molto importante: la perdita del Sud America. Per la prima volta in 500 anni, dall’epoca dei conquistatori spagnoli, i paesi sudamericani hanno cominciato a muoversi verso l’indipendenza e verso un certo grado di integrazione. La struttura tipica di uno dei paesi Sudamericani era costituita da una piccola elite ricca, occidentalizzata, spesso bianca o per lo più bianca, e da una massa enorme di poveri; paesi separati tra l’uno dall’altro, ciascuno orientato verso l’Europa o, più di recente, verso gli Stati Uniti. Negli ultimi 10 anni, questo aspetto è stato superato in maniera significativa, c’è stato un inizio importante di integrazione, cioè il presupposto dell’indipendenza, e i paesi hanno cominciato ad affrontare alcuni dei loro spaventosi problemi interni. Questa è la perdita del Sud America. Un segno è che gli Stati Uniti sono stati cacciati via da ogni singola base militare del Sud America. stiamo cercando di ripristinarne alcune, ma proprio adesso non ce ne è nessuna. AMY GOODMAN : il Professore Noam Chomsky del MIT, discute del riscaldamento globale, della guerra nucleare e della Primavera Araba. NOAM CHOMSKY: Passando a parlare dell’anno scorso, la Primavera Araba è proprio una di queste minacce. Minaccia di eliminare quella grande regione dalla grande zona più grande E’ molto più importante del Sudest asiatico e del Sud America. Torniamo agli anni ’40, quando il dipartimento di stato aveva riconosciuto che le risorse energetiche del Medio Oriente sono ciò che chiamavano “uno dei maggiori tesori materiali nella storia del mondo,” una fonte spettacolare di potere strategico; se possiamo controllare l’energia del Medio Oriente, possiamo controllare il mondo. E questo è un tema che pervade tutte le decisioni politiche. Non se ne discute molto, ma è molto importante avere il controllo, proprio come i consulenti del Dipartimento di stato hanno fatto notare negli anni ’40. Se si controlla il petrolio, si controlla la maggior parte del mondo. E va ancora avanti così. Finora, la minaccia della Primavera Araba è stata abbastanza ben contenuta. Nelle dittature del petrolio, che sono le più importanti per l’Occidente, ogni tentativo di unirsi alla Primavera Araba, è stato stroncato con la forza. L’Arabia Saudita è stata così eccessiva, che quando c’erano tentativi di scendere in piazza, la presenza della sicurezza era così enorme, che la gente aveva perfino paura di uscire. C’è poco da discutere di quello che succede in Bahrein, dove la rivolta è stata soffocata, ma l’Arabia Saudita orientale ha fatto di molto peggio. Gli Emirati hanno il controllo totale e quindi tutto va bene. Siamo riusciti ad assicurare che la minaccia di democrazia venisse schiacciata nei luoghi più importanti. L’Egitto è un caso interessante. E’ un paese importante, è soltanto un piccolo produttore di petrolio. In Egitto gli Stati Uniti hanno però seguito una procedura operativa standard. Se qualcuno di voi entrerà in diplomazia, dovreste comunque impararla. C’è una procedura standard quando uno dei vostri dittatori preferiti si mette nei guai. Prima lo si appoggia il più a lungo possibile, ma se diventa davvero impossibile, diciamo che l’esercito si rivolti contro di lui, per esempio, allora gli si dà il ben servito e si fa in modo che la classe degli intellettuali rilasci risonanti dichiarazioni sul proprio amore per la democrazia, e poi si cerca di restaurare il vecchio sistema il più possibile. Ci sono una serie di casi di questa strategia: Somoza in Nicaragua, Duvalier ad Haiti, Marcos nelle Filippine, Chun nella Corea del sud, Mobutu in Congo. Ci vuole del genio per non accorgersi di tutto ciò. Ed è esattamente ciò che si è fatto in Egitto, e ciò che ha cercato di fare la Francia in Tunisia non proprio con lo stesso successo. Ebbene, il futuro è incerto, ma la minaccia della democrazia fin ora è stato contenuta. E’ una minaccia seria. Tornerò sull’argomento in seguito. E’ anche importante riconoscere che il declino negli ultimi 50 anni ce lo siamo inflitto da soli in misura significativa, specialmente a partire dagli anni ’70. Tornerò anche su questo argomento. Prima però fatemi dire un paio di cose sui problemi più importanti oggi e che vengono ignorati oppure non trattati seriamente – intendo dire trattati seriamente nelle campagne elettorali, per buone ragioni. Fatemi cominciare con gli argomenti più importanti. Ce ne sono due tra questi: Sono di importanza assoluta, perché da questi dipende il destino della nostra specie. Uno è il disastro ambientale, e l’altro è la guerra nucleare. Non dedicherò molto tempo a esaminare le minacce del disastro ambientale. In realtà, sono in prima pagina tutti i giorni. Per esempio, la settimana scorsa il New York Times aveva una notizia in prima pagina intitolata: “Alla fine dello scioglimento estivo, il ghiaccio del Mare Artico stabilisce un nuovo record negativo che provoca allarme.” Lo scioglimento questa estate è stato molto più rapido di quanto era stato predetto dai sofisticati modelli informatici e dal più recente rapporto delle Nazioni Unite. Si prevede ora che forse il ghiaccio scomparirà entro il 2020. Secondo la precedente previsione la data doveva essere il 2050. Hanno citato scienziati che hanno detto che questo è “un primo esempio del conservatorismo intrinseco delle [nostre] previsioni metereologiche. Per quanto terribili [siano le previsioni] sulle conseguenze a lungo termine delle emissioni che intrappolano il calore….molti [di noi] temono che forse si stanno sottostimando la velocità e la gravità dei cambiamenti impellenti.” In realtà, c’è un programma di studio sui cambiamenti del clima al MIT (Massachusetts Institute of Technology) dove lavoro. Hanno avvertito di questo fenomeno da anni e ripetutamente si è dimostrato che avevano ragione. Il servizio del Times discute brevemente il grave attacco, il grave impatto di tutto questo sul clima del mondo, e aggiunge: “I governo non hanno però replicato al cambiamento con nessuna maggiore urgenza per limitare le emissioni di gas serra. Al contrario, la loro principale replica è stata quella di programmare lo sfruttamento di minerali di recente accessibili nell’Artico, e le trivellazioni per cercare altro petrolio.” Questo vuol dire accelerare la catastrofe. E’molto interessante. Dimostra una straordinaria volontà di sacrificare la vita dei nostri figli e nipoti a favore di guadagni a breve termine, o forse una volontà ugualmente notevole di chiudere gli occhi in modo da non vedere il pericolo incombente – queste cose talvolta si notano nei bambini piccoli; una cosa sembra pericolosa, alloara chiudo gli occhi e non voglio guardarla. C’è un’altra possibilità, intendo dire che forse glie esseri umani stano in qualche modo cercando di far avverare alla previsione di un grande biologo americano scomparso di recente, Ernst Mayr. Sosteneva, anni fa, che l’intelligenza pare che sia una mutazione letale, e ne aveva delle buone prove. C’è una nozione di successo biologico, che vuol dire che ci sono tantissimi esseri umani sulla terra. Questo è il successo biologico. E ha fatto notare che se si guarda alle diecine di miliardi di specie nella storia del mondo, quelle che sono riuscite bene sono quelle che mutano molto rapidamente, come i batteri, o quelle che hanno una nicchia ecologia fissa, come gli scarafaggi. Sembra che se la cavino bene. Se però ci si sposta in alto sulla scala di quella che chiamiamo intelligenza, il successo diminuisce nettamente. Quando si arriva ai mammiferi, è molto bassa. Ne esistono pochi. Cioè, ci sono un sacco di mucche, soltanto perché le addomestichiamo. Quando parliamo degli umani, è la stessa cosa. Fino a tempi recenti, troppo recenti per comparire in qualsiasi spiegazione di tipo evoluzionistico, gli esseri umani erano molto sparsi. C’erano tantissimi altri ominidi che però sono scomparsi, probabilmente perché gli umani li hanno sterminati, ma nessuno lo sa di sicuro. Comunque forse stiamo cercando di dimostrare che gli esseri umani si inseriscono bene in un modello generale. Possiamo anche sterminare noi stessi e anche il resto del mondo insieme a noi, e noi siamo fortemente determinati a farlo proprio adesso. Bene, passiamo alle elezioni. Entrambi i partiti politici ci chiedono di peggiorate questo problema. Nel 2008 entrambe le piattaforme dedicavano un certo spazio ai modi in cui il governo avrebbe dovuto occuparsi dei cambiamenti climatici. Attualmente, nella piattaforma repubblicana, l’argomento è essenzialmente scomparso. La piattaforma, domanda, però, che il Congresso agisca rapidamente per impedire che l’Agenzia di protezione dell’ambiente regoli i gas serra. Assicuriamoci, quindi, di peggiorare la situazione. E chiede anche di aprire la zona dove dell’Arctic Refuge alle trivellazioni – per trarre (adesso riporto le parole) “vantaggio da tutte le risorse americane che Dio ci ha concesso.” Dopo tutto, non si può disobbedire a Dio. Riguardo alla politica ambientale il programma dice: “Dobbiamo ripristinare l’integrità scientifica nelle istituzioni pubbliche per la ricerca e eliminare gli incentivi politici dalla ricerca finanziata con il denaro pubblico.” Tutto questo è una parola in codice rivolta al mondo della scienza climatica che significa:smettetela di finanziare le ricerche scientifiche sul clima. Lo stesso Romney dice che non c’è consenso tra gli scienziati, e quindi si dovrebbero sostenere altri dibattiti e ricerche all’interno della comunità scientifica, ma nessuna azione, tranne quella destinata a peggiorare il problema. Ebbene, e i Democratici? Ammettono che ci sia un problema e sostengono che dovremmo operare per arrivare a un’intesa che stabilisca i limiti delle emissioni [di gas serra], di comune accordo con altre potenze emergenti. Ma non è così. Nessuna azione. E infatti, come ha sottolineato Obama, dobbiamo lavorare duramente per guadagnare quello che chiama cento anni di indipendenza energetica ottenuta sfruttando le risorse nazionali o quelle canadesi per mezzo della fratturazione o di altre tecnologie elaborate. Non si chiede come cosa sarà il mondo fra cento anni. Ci sono, quindi delle differenze che riguardano il livello di entusiasmo con cui i pecoroni dovranno marciare verso il precipizio. Passiamo adesso al secondo problema principale: la guerra nucleare. Anche questo argomento è sulle prime pagine ogni giorno, ma in un modo che sembrerebbe stravagante a un osservatore indipendente che consideri che cosa sta accadendo sulla terra, e infatti sembra stravagante a una notevole maggioranza di nazioni del mondo. L’attuale minaccia è ora, e non per la prima volta, in Medio Oriente ed è incentrata sull’Iran. Il quadro generale in occidente è chiaro: è di gran lunga troppo pericoloso permettere che l’Iran ottenga quella che si chiama “potenziale nucleare”, cioè il potenziale che hanno a disposizione molte potenze, dozzine di potenze, per produrre armi nucleari se decidono di farlo. In quanto a dire se lo hanno deciso, i servizi segreti statunitensi dicono di non saperlo. L’Agenzia internazionale per l’energia atomica ha appena fornito il suo rapporto più recente due settimane fa e conclude che non può dimostrare – “l’assenza di materiale nucleare non dichiarato e di attività nucleari in Iran.” Ora, vuol dire che non può dimostrare qualche cosa, una condizione che non può essere soddisfatta. Non c’è modo di dimostrare l’assenza dell’azione -questo è utile – perciò all’Iran deve essere negato il diritto dia arricchire l’uranio, il che è garantito a ogni potenza che ha firmato il Trattato di non-proliferazione. Bene, questo è il quadro dell’occidente, che non è come quello che c’è nel resto del mondo. Sono sicuro che sapete che a Teheran c’è stato da poco (in agosto, n.d.t.) un incontro dei Paesi non-allineati – cioè una grande maggioranza delle nazioni del mondo che rappresentano la maggior parte della popolazione mondiale. E ancora una volta, e non è stata la prima, hanno rilasciato una risonante dichiarazione per sostenere il diritto dell’Iran ad arricchire l’uranio, diritto che ha ogni nazione che ha firmato il trattato di non-proliferazione [nucleare]. La stessa cosa è abbastanza vera anche nel mondo arabo. E’ interessante e ci tornerò tra poco. C’è un motivo fondamentale di preoccupazione che è stato espresso in maniera concisa dal generale Lee Butler, ex capo deo Commando strategico degli Stati Uniti che controlla le armi nucleari e la strategia nucleare. ha scritto che “E’ estremamente pericoloso che nel calderone di animosità che chiamiamo Medio Oriente” una nazione debba avere armamenti nucleari, poiché potrebbe ispirare altre nazioni a fare lo stesso. Il generale Butler non si riferiva però all’Iran; si riferiva a Israele, il paese che è ai primi posti nei sondaggi europei come nazione più pericolosa del mondo – appena sopra l’Iran – e, non a caso, al mondo arabo, dove il pubblico considera gli Stati Uniti come la seconda nazione più pericolosa, subito dopo Israele. Nel mondo arabo l’Iran, anche se non è amato, è considerato inferiore come minaccia dalle popolazioni, cioè, non dalle dittature. Per quanto riguarda le armi nucleari dell’Iran, nessuno vuole che quel paese le abbia, ma in molti sondaggi, maggioranze di persone, spesso notevoli maggioranze, hanno detto che la regione sarebbe più sicura se l’Iran possedesse armi nucleari, per bilanciare quelle delle loro maggiori minacce. Ci sono un sacco di commenti sui mezzi di informazione occidentali sugli atteggiamenti arabi verso l’Iran, e quello che si legge, normalmente, è che gli Arabi vogliono un’azione decisa contro l’Iran che è vero se parliamo di dittatori, non delle popolazioni. Ma chi si preoccupa delle popolazioni che vengono chiamate, in modo dispregiativo, la strada araba? Non ce ne importa. Questo è un riflesso del disprezzo estremamente profondo rispetto alla democrazia esistente nelle elite occidentali; è così profondo che non si può neanche percepire. Lo studio degli atteggiamenti popolari nel mondo arabo – e al riguardo esiste un ampio studi delle agenzie occidentali di sondaggi – rivela rapidamente perché gli Stati Uniti e i loro alleati si preoccupano così tanto delle minacce della democrazia e fanno quello che possono per evitarla. Certamente non vogliono che atteggiamenti come quelli che ho appena indicato diventino politica, naturalmente, ma allo stesso pubblicano calorose affermazioni sulla nostra appassionata dedizione alla democrazia. E queste vengono trasmesse con obbedienza dai giornalisti e dagli opinionisti. Ebbene, al contrario dell’Iran, Israele rifiuta assolutamente le ispezioni, rifiuta di aderire al Trattato di non-proliferazione, ha sistemi avanzati di lancio. Inoltre ha un lungo curriculum di violenza e repressione. Si è annessa e si è istallata in territori conquistati in modo illegale, in violazione degli ordini del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, ha fatto molte azioni di aggressione – cinque volte soltanto contro il Libano, senza alcun pretesto plausibile. Sul New York Times di ieri, si può leggere che le Alture del Golan siriano sono territorio disputato. C’è una risoluzione del Consiglio nazionale di sicurezza dell’ONU, la 497, che è stata presa all’unanimità, che dichiara illegale l’annessione delle alture del Golan da parte di Israele e chieda che venga annullata. E infatti se ne discute soltanto a Israele e sul New York Times che infatti riflette la reale politica degli Stati Uniti, non quella formale. Il curriculum di aggressioni dell’Iran in varie centinaia di anni recenti comprende l’invasione e la conquista di un paio di isole arabe. Questo è accaduto quando regnava lo Scià, il dittatore imposto dagli Stati Uniti. Questo è in realtà l’unico caso in varie centinaia di anni. Nel frattempo, – le avete da poco sentite all’ONU – continuano le gravi minacce di attacchi da parte degli Stati Uniti, ma specialmente da Israele. Ora c’è una reazione a questo ad altissimo livello negli Stati Uniti. Leon Panetta, segretario alla Difesa, ha detto che noi non vogliamo attaccare l’Iran, speriamo che Israele non attacchi l’Iran, ma Israele è un paese sovrano e devono prendere da soli le loro decisioni su che cosa fare. Potreste chiedervi quale sarebbe la reazione se ribaltassimo il cast dei protagonisti. E chi di voi ha interessi di argomenti “antiquari” potrebbe ricordare che c’è un documento che si chiama Carta (statuto) delle Nazioni Unite, il fondamento della moderna legge internazionale, che proibisce la minaccia o l’uso della forza negli affari internazionali. Ci sono due stati canaglia – gli Stati Uniti e Israele – per i quali ciò che riguarda la Carta e la legge internazionale come soltanto un’inezia noiosa, quindi fate come volete. E questo atteggiamento viene accettato. Ebbene, queste non sono soltanto parole; c’è una guerra in corso, che include terrorismo, uccisione di scienziati nucleari, una guerra economica. Le minacce degli Stati Uniti, non quelle internazionali, hanno tagliato fuori l’Iran dal sistema finanziario internazionale. Gli analisti militari occidentali identificano quelle che chiamano ” armi della finanza” con atti di guerra che giustificano una replica violenta – quando, cioè, sono diretti contro di noi. Tagliare fuori l’Iran dai mercati finanziari internazionali è diverso. Gli Stati Uniti stanno attuando apertamente una vasta guerra cibernetica contro l’Iran, cosa molto lodata. Il Pentagono la considera equivalente a un attacco armato che giustifica una reazione militare, ma questo, naturalmente, quando è diretto contro di noi. Il principale personaggio liberale del Dipartimento di stato, Harold Koh – è consulente legale di massimo livello del Dipartimento di stato - dice che la guerra cibernetica è un’azione bellica se provoca distruzioni significative come l’attacco contro le installazioni nucleari iraniane, e tali azioni, dice, giustificano la forza come autodifesa. Naturalmente intende soltanto attacchi contro gli Stati Uniti o i loro clienti. L’arsenale letale di Israele che è enorme, comprende sottomarini all’avanguardia, forniti di recente dalla Germania. Questi sono in grado di trasportare i missili a testata nucleare di Israele, che di sicuro saranno dislocati in nel Golfo Persico o nei pressi se Israele procederà nei suoi piani di bombardare l’Iran, o, più probabilmente, sospetto, per cercare di creare condizioni per le quali gli Stati Uniti lo faranno. E gli Stati Uniti, naturalmente, hanno un vasto arsenale di armi nucleari in tutto il mondo, ma anche intorno a quella zona, dal Mediterraneo all’Oceano indiano, compresa una potenza di fuoco nel Golfo Persico che basta distruggere la maggior parte del mondo. Un’altra storia che è nei notiziari proprio adesso è il bombardamento da parte di Israele del reattore nucleare di Osirak che viene indicato come modello per il bombardamento israeliano dell’Iran. Si dice raramente, tuttavia, che il bombardamento del reattore di Osirak non ha posto fine al programma di Saddam Hussein per le armi nucleari. Lo ha iniziato. Prima di quelle evento non c’era nessun programma. E il reattore di Osirak non era in grado di produrre l’uranio per le armi nucleari. Naturalmente, però, dopo i bombardamenti, Saddam si è immediatamente dedicato a sviluppare un programma di armi nucleari. E se l’Iran sarà bombardato, quasi sicuramente procederà proprio come ha fatto Saddam Hussein dopo il bombardamento di Osirak. Fra poche settimane, commemoreremo il 50°anniversario “del momento più pericoloso nella storia umana.” Queste sono le parole dello storico e consigliere di Kennedy, Arthur Schlesinger. Si riferiva, naturalmente, alla crisi dei missili dell’ottobre 1962, “il momento più pericoloso nella storia umana.” Altri sono d’accordo. In quel periodo, Kennedy aveva portato l’allerta nucleare al secondo più alto livello, quasi al punto di lanciare delle armi. Aveva autorizzato i velivoli della NATO, con piloti turchi o altri piloti, a decollare, a volare a Mosca, e buttare delle bombe, cosa che avrebbe forse scatenato una probabile conflagrazione nucleare. Al culmine della crisi dei missili, Kennedy aveva valutato la possibilità di una guerra nucleare forse al 50 per cento. E’ una guerra che distruggerebbe l’emisfero settentrionale, aveva avvertito il presidente Eisenhower. E di fronte a quel rischio, Kennedy rifiutò di accettare pubblicamente un’offerta da parte di Kruschev di porre fine alla crisi con il contemporaneo ritiro dei missili russi da Cuba e quelli degli Stati uniti dalla Turchia. Erano già stati sostituiti con sottomarini Polaris inattaccabili, ma si era sentita la necessità di stabilire con fermezza il principio che la Russia non ha alcun diritto di avere alcuna arma di offesa in nessun luogo che sia al di là dei confini dell’Unione Sovietica neanche per difendere un alleato da un attacco degli Stati Uniti. Si è ora riconosciuto che questa era il motivo principale per schierare là i missili, in realtà un motivo plausibile. Nel frattempo, gli Stati Uniti devono conservare il diritto di averli in tutto il mondo, puntati contro la Russia o la Cina o qualsiasi altro nemico. Infatti, abbiamo saputo di recente, che nel 1962 gli Stati Uniti avevano in segreto dislocato missili nucleari a Okinawa, puntati sulla Cina. Quello era stato un momento di alte tensioni nella regione. Tutto ciò è coerente con concezioni di grandi quelle che avevo detto essere state sviluppate dai pianificatori di Roosevelt. Ebbene, fortunatamente, nel 1962, Krushev si tirò indietro. Ma il mondo non può essere sicuro che questa ragionevolezza ci sia per sempre. E, secondo me, è particolarmente pericoloso il fatto che gli intellettuali e perfino il mondo della cultura acclamino il comportamento di Kennedy come il momento più bello della sua vita. Il mio punto di vista è che è stato uno dei peggiori momenti della storia. L’incapacità di affrontare la realtà di noi stessi è una caratteristica fin troppo comune della cultura intellettuale, e ha implicazioni inquietanti anche per la vita personale. Ebbene, 10 anni più tardi, durante la guerra arabo-israeliana, Henry Kissinger alzò al massimo il livello di allarme nucleare.. Lo scopo era di avvertire i Russi mentre (così abbiamo saputo da poco) informava in segreto Israele che avevano autorizzato di violare il cessate il fuoco che era stato imposto congiuntamente dagli Stati Uniti e dalla Russia. Quando Reagan assunse la carica un paio di anni dopo, gli Stati Uniti avviarono operazioni per indagare sulle difese russe, volando in Russia a questo scopo, simulando attacchi aerei e navali e allo stesso tempo piazzando in Germania missili Perishing che in 5 minuti di volo raggiungevano i bersagli russi. Stavano fornendo quello che la CIA chiamava la capacità di “un primo attacco super-improvviso”. I Russi, non c’è da meravigliarsi, erano profondamente preoccupati. In realtà questo portò a una importante allerta di guerra nel 1983. Ci sono statti centinaia di casi quando l’intervento umano ha sospeso il lancio per un primo attacco a pochi minuti prima del lancio. Questo dopo che sistemi automatici avevano dato un falso allarme. Non abbiamo rapporti dei Russi, ma non c’è dubbio che i loro sistemi sono molto più soggetti a incidenti. In realtà è un miracolo che finora sia stata evitata una guerra nucleare. Nel frattempo, India e Pakistan sono arrivati vicino a una guerra nucleare varie volte e le situazioni di crisi che hanno portato a questo punto, specialmente quella per il Kashmir, restano. Sia l’India che il Pakistan hanno rifiutato di firmare il Trattato di non-proliferazione, insieme a Israele, ed entrambi i paesi hanno ricevuto appoggio di Stati Uniti per sviluppare i loro programmi nucleari fino a oggi, nel caso dell’India, che è ora alleato del nostro paese. Le minacce di guerra in Medio Oriente che potrebbero diventare una realtà molto presto, ancora una volta aumentano i pericoli. Per fortuna c’è un modo per uscirne, un modo semplice. C’è un modo di attenuare,forse anche di porre fine a qualunque minaccia si presuma che l’Iran possa porre.E’ semplicissimo: andare verso la creazione di una zona libera da armi nucleari in Medio Oriente. L’occasione si presenterà di nuovo questo dicembre. C”è in programma una conferenza internazionale per trattare questa proposta che ha un appoggio internazionale entusiasta, compresa, per inciso, una maggioranza della popolazione di Israele, fortunatamente. Sfortunatamente è bloccata dagli Stati Uniti e da Israele. Un paio di giorni fa, Israele ha annunciato che non parteciperà, e che non considererà la questione fino a quando non ci sarà una pace generale nella regione. Obama prende la stessa posizione. Insiste anche che qualsiasi accordo deve escludere Israele e deve perfino escludere le richieste ad altre nazioni perché forniscano informazioni circa le attività nucleari di Israele. Gli Stati Uniti e Israele possono rimandare indefinitamente la pace nella regione. Lo hanno fatto per 35 anni per la situazione di Israele e Palestina, praticamente l’isolamento internazionale. E’ una storia lunga, importante, che non ho tempo di approfondire qui. Non c’è quindi speranza di trovare un modo facile per porre fine a quello che l’Occidente considera la crisi attuale più grave – nessun modo a meno che ci sia una pressione pubblica su vasta scala. Non può però esserci, questo tipo di pressione a meno che la gente ne sappia qualche cosa. E i mezzi di informazione hanno fatto un lavoro stupendo allontanando quel pericolo: nulla è stato riferito sulla conferenza o su qualche cosa del contesto, nessuna discussione, a parte i giornali specialisti sul controllo delle armi dove si possono leggere delle notizie al riguardo. E’ questo quindi che blocca il modo facile per mettere fine alla peggiore crisi che esiste attualmente a meno che la gente non trovi una maniera di aprirsi varco perverso la soluzione. di Noam Chomsky AMY GOODMAN : Il professore del MIT, Noam Chomsky, ha parlato il 27 settembre di questo anno all’Università del Massachusetts, a Amherst. La sua conferenza era intitolata “Chi possiede il mondo?” Originale: Democracy Now! Traduzione di Maria Chiara Starace

04 novembre 2012

Fed, banche, Wall Street: il trio vincente della finanza speculativa

Osservare attentamente i comportamenti economici e finanziari in atto negli Stati Uniti ci consente di comprendere la ratio di alcune decisioni e di prevedere alcuni andamenti dell’economia globale. Ciò non significa distogliere l’attenzione dalle serie questioni europee. Serve per non essere sopraffatti ne sorpresi da certi eventi internazionali. C’è anzitutto una domanda pressante. Come è possibile che i listini di borsa di Wall Street ( e anche della City) siano ritornati ai livelli dell’ottobre 2007 nonostante la crisi e la caduta delle produzioni e delle ricchezze negli ultimi 5 anni? Il Dow Jones Industrial Index allora era intorno ai 14.000 punti circa, oggi è di poco inferiore. Il Nasdaq, che raccoglie le corporation del settore industriale, era poco più di 2200 punti mentre oggi supera i 3.000 punti. Lo stesso vale per l’indice Standard & Poor’s 500 che si è riportato più o meno sui livelli ante crisi. Anche l’indice FTSE 100 di Londra, che nel 2007 aveva raggiunto il livello di circa 6.600 punti, oggi è risalito a 5.800 punti rispetto ai 3.600 dell’ottobre 2008. Nell’Europa continentale, invece, tutte le Borse, tranne quella tedesca, registrano delle perdite pesantissime. Il nostro indice Mib per esempio si è più che dimezzato. L’indice Dax tedesco è l’unico che ha riguadagnato quasi tutte le posizioni e potrebbe raggiungere la quota massima di 8.000 punti entro la fine dell’anno. Ciò è evidenziato dal fatto che l’industria tedesca è l’unica che ha saputo mantenere alti sia le produzioni industriali che l’export di prodotti ad alta tecnologia. La singolarità e la eccezionalità anglo-americana stanno nel “quantitative easing”, cioè nella decisione della Federal Reserve e della Bank of England di creare nuova massiccia liquidità da riversare nel proprio sistema bancario. Si ricordi che finora la Fed è intervenuta con oltre 4.000 miliardi di dollari. Con uno spregiudicato gioco di prestigio ha acquistato dalle banche titoli di stato e mortgage backed securities (mbs), derivati emessi su mutui subprime e altre ipoteche di basso valore, rimpiazzandoli con dollari “elettronici” inseriti nei bilanci delle banche come se fossero riserve extra, ma non destinabili a sostegno delle attività produttive dell’economia reale. Possono soltanto essere prestati ad altre banche bisognose di aumentare le loro riserve oppure per ottenere altri assets, altre attività patrimoniali (come obbligazioni, azioni, ecc.). Questa è la ragione per cui, nonostante la tanta liquidità, i canali del credito restano chiusi e anche negli Usa i settori produttivi lamentano un “credit crunch”. Così si spiega perché Wall Street sia cresciuta Infine ciò spiega anche perché una tale massa di liquidità non abbia ancora creato un effetto iperinflattivo. Infatti, l’unico vero aumento di prezzo ha riguardato i listini della borsa americana creando una nuova bolla finanziaria “artificiale”. Oltre agli enormi giochi speculativi con i prodotti derivati, questa bolla è anche la base principale di molti profitti riportati dalle banche. Tale processo ha favorito e favorisce la crescente concentrazione di ricchezza in poche mani. Ad esempio, nel 2009 i 400 cittadini americani più ricchi detenevano una ricchezza pari a 1,27 trilioni di dollari, mentre adesso ne detengono 1,7 trilioni di dollari. Secondo l’Economic Policy Institute di Washington il salario medio di un alto dirigente delle 350 maggiori corporation americane è stato pari a 10, 36 milioni di dollari nel 2009, a 12,04 milioni nel 2010 e a 12,14 milioni nel 2011. Ciò nonostante il tanto predicare contro i bonus mlionari! In quest’ottica va letta la decisione della Fed di acquistare dalla banche mbs e altri titoli tossici per 40 miliardi di dollari al mese e per un periodo indefinito, facendo così un grande favore al sistema bancario americano rendendolo di fatto più aggressivo sui mercati internazionali. Come da tempo sosteniamo l’operato della Fed non può che scaricare i propri effetti negativi sull’euro, sull’Europa e sul resto del mondo. Purtroppo in Europa si sottovaluta la portata di tali decisioni mentre, per fortuna, i paesi Brics cominciano a contestare. Da ultimo lo ha fatto il ministro delle Finanze brasiliano, Guido Mantega, che ha parlato di “guerra monetaria” e di “misure protezionistiche”. La stessa Banca Centrale della Cina denuncia il fatto che le continue iniezioni di liquidità non funzionano, a scapito dello sviluppo. di Mario Lettieri e Paolo Raimondi

03 novembre 2012

I giovani non bastano per la rivoluzione

Bastano la giovinezza e le facce pulite dei giovani “grillini” siciliani (un’antropologia che si riproporrà, e probabilmente con numeri ancor più consistenti, alle prossime elezioni politiche) per sperare in un futuro migliore? In linea di massima direi di no. Nei dintorni del Sessantotto, quando imperversava il più spudorato giovanilismo (il modo migliore per inculare i giovani è farli sentire protagonisti, portarli in palmo di mano – allora, nella società che assaporava il benessere, c’era anche, e forse soprattutto, una ragione economica: i giovani erano diventati un settore di mercato appetibile) scrissi per Linus un articolo intitolato: “Basta con i giovani” che concludeva così: “La cosa migliore, modesta ma onesta, che possono fare i giovani è una sola: invecchiare”. È VERO CHE QUELLI DEL SESSANTOTTO non fanno testo, erano giovani fuori ma già marci dentro. Erano figli della borghesia e della borghesia avevano preso tutti i notori vizi: il cinismo e l’opportunismo. Non volevano cambiare il mondo ma semplicemente sostituirsi ai loro padri nell’esercizio del potere, con metodi, se possibile, ancora più trucidi. Il viso di Paolo Mieli (militante, assieme ad altri rampolli dell’alta borghesia e dell’aristocrazia romana, di PotOp, “molotov e champagne”) diceva, già allora, tutto: non voleva fare nessuna rivoluzione ma diventare, per vie scorciatoie, direttore del Corriere della Sera. Avranno la stessa sorte i giovani “grillini” una volta preso il potere o una sua fetta? È probabile. Il Tempo, padrone assoluto delle nostre vite, ci logora, affievolisce i nostri entusiasmi, spegne le nostre speranze. Ci si adegua. In C’eravamo tanto amati, un bel film del 1974, con Gassman, Manfredi, la Sandrelli che, passati i tempi spavaldi della giovinezza si ritrovano nei loro quarant’anni, uno dei protagonisti dice, amaramente: “Volevamo cambiare il mondo, ma è il mondo che ha cambiato noi”. “Ci vuole del talento per invecchiare senza diventare adulti” canta Franco Battiato. I giovani “grillini” hanno però qualche vantaggio rispetto alle generazioni che li hanno preceduti. Per quanto possono invecchiare, incarognire e i loro volti deformarsi è difficile che finiscano per omologarsi totalmente ai mascheroni che sono in circolazione attualmente. Gasparri, Berlusconi, Cicchitto sono dei “top ten” dell’orrore, fisico e morale, e pare impossibile scalzarli da questa speciale classifica. E POI I GIOVANI “grillini” hanno un guru, un capo, un padre-padrone ultrasessantenne, che li sorveglia, li tartassa, li bacchetta, li punisce, li espelle e che è uno dei pochissimi che “è invecchiato senza diventare adulto”. Non si tratta però di un endorsement: per il quotidiano della City londinese, il Movimento Cinque Stelle non offre “una coerente soluzione” ai problemi dell’Italia. Sta quindi ai partiti politici riprendere in mano la partita avviando una stagione di riforme, in primis una nuova legge elettorale e nuovi standard etici per i futuri deputati. In caso contrario le élite politiche dell’Italia resteranno le migliori “piazziste” per il “buffone che tanto disprezzano”. di Massimo Fini

18 ottobre 2012

Ribellarsi è un diritto. Cominciamo?

“Chi uccide il tiranno è lodato e merita un premio” san Tommaso d’Aquino “L’albero della libertà deve essere annaffiato di tanto in tanto dal sangue dei patrioti e dei tiranni. E’ il suo concime naturale”. Thomas Jefferson Signori, abbiamo dato come “diritto acquisito” la libertà dall’oppressione. Invece , si tratta di una conquista che si deve strappare agli oppressori, facendo loro paura. Ed anche peggio: Tommaso d’Aquino, un santo, non considera omicidio l’uccisione del tiranno. Oggi, i tiranni e oppressori sono numerosissimi e insaziabili del nostro denaro: sono i politici che abbiamo votato e i loro compari imbucati nel settore pubblico. con mezzi legali non è possibile cacciarli dal poteere, perchè costoro hanno “occupato” la legalità: si aumentano gli stipendi “per legge” (la votano loro), rigettano i tagli “per legge”, tormentano noi cittadini con la burocrazia, ci perseguitano chiamandoci evasori, ed è tutto legale. Noi cittadini, che li paghiamo, siamo sottoposti a soprusi, punizioni arbitrarie intollerabili. Equitalia può bloccarci i conti correnti e le carte di credito, sequestrarci automezzi ed altri beni, senza nemmeno avvertirci: non esiste più il diritto di proprietà in Italia. Le pubbliche persecuzioni hanno portato al suicidio decine di imprendotori, e tutto “legalmente”. La democrazia di fatto non esiste più: i nostri politici hanno ceduto la sovranità popolare che gli avevamo delegato, all’eurocrazia di Bruxelles e alla Bce, entrambi organi non-eletti, fattidi individui coooptati non sappiamo come. E alla fine hanno ceduto il loro “dovere” di governare ad un gruppo di “tecnici” guidati da un presidente della Commissione Trilaterale e da banchieri, a loro volta agli ordini di uno speculatore di Goldman Sachs, Mario Draghi, e di governi stranieri (Berlino). Logica e giustizia voleva che i nostri politici, dopo aver così auto-certificato la loro nullità e inutilità, se ne tornassero a casa. Invece, hanno mantenuto per sé una sola “sovranità”: quella di aumentarsi gli emolumenti a piacere, e di arraffare “contibuti elettorali” e “ai gruppi” che costano miliardi. Con voto unanime, quindi del tutto “legale”. Il supremo tempio del diritto, la Corte Costituzionale, come abbiamo visto, ha dichiarato incostituzionale il taglio degli stipendi loro (400-600 mila euro annui) e degli altri miliardari di stato. La magistratura gode di una totale impunità, e può commettere gravissimi soprusi contro la libertà dei cittadini. Ne elenco tre: intercettare chiunque in qualunque momento, come il vecchio Kgb sovietico. Incarcerare preventivamente innocenti (Kgb). Scegliere come testimoni privilegiati dei criminali comprovati e già giudicati, i “pentiti” (definiti non a caso “collaboratori di giustizia” e stipenditi: in pratica diventano funzionari ausiliari della magistratura) dando loro la libertà di accusare calunniosamente gli avversari politici dei giudici, senz a obbligo di portare prove oggettive. Basta la parola di criminali, meglio se pluriomicidi mafiosi. La parola di testimoni onesti, invece, non vale nulla senza i “riscontri oggettivi”. Quando la volontà del popolo s’è espressa con inequivocabile chiarezza e con “referendum”, dichiarando sua volontà di votare col sistema di voto maggioritario, la responsabilità civile dei giudici, l’annullamento del finanziamento pubblico dei partiti – tutto il sistema “democratico” e “legale” s’è adoperato per calpestarla. Non abbiamo il voto maggioritario, ma un proporzionale corretto, perchè faceva comodo a loro. I magistrati non pagano i loro errori. I partiti, sappiamo come continuano ad arraffare impunemente. Eppure il referendum è il mezzo più legale e legittimo della volontà popolare, scritto nella Costituzione. Chi doveva farlo rispettare? Il presidente della repubblica, la Corte Costituzionale. Non hanno fatto nulla. LA volontà popolare espressa costituzionalmente è stata calpestata, e loro l’hanno lasciata calpestare. Perchè sono parte del potere occupante, del sistema di Dispotismo che si autonomina “democrazia”. Ebbene: questo avviene perchè siamo stati troppo passivi. Perchè a molti di noi faceva comodo, molti hannno ricevuto qualche beneficio d alla “legalità sequestrata”, la maggioranza per paura: questi oppressori, come tutti gli oppressori, si sono anche accaparrati la forza pubblica ed esercitano la violenza contro di noi. Molti cittadini, probabilmente, pensano sia “illegale” sbattere fuori ccon la forza questi mascalzoni. E’ un dovere. C’era un articolo (art.50 secondo comma) che lo dichiarava, nella bozza della nostra Costituzione: “Quando i poteri pubblici violino le libertà fondamentali ed i diritti garantiti dalla Costituzione, la resistenza all’oppressione è diritto e dovere del cittadino”. Questa frase fu proposta dai democristiani, Dossetti e Moro, nel 1947. Fu in seguito cancellata perchè la guerra fredda infuriava, e si temeva desse un’arma in più al più potente partito comunista dell’Occidente (già allora metà del nostro popolo, della libertà se ne fotteva: era pronta a darla a Mosca). Ma ciò non significa che la resistenza all’oppressione sia diventata illegale. Al contrario, è una conseguenza diretta della sovranità popolare: chi ha “occupato” i poteri pubblici e li gestisce in modo da violare i diritti fondamentali dei cittadini, deve essere cacciato. Noi cittadini viviamo, ormai è chiaro, sotto occupazione. Spogliati da un occupante, che non ha il minimo interesse alla prosperità comune, alla giustizia e all’equità. Bisogna re-imparare a resistere. E’ dura, saremo minoranza, dovremo entrare in clandestinità, rischiamo il carcere (preventivo, ossia la tortura), la persecuzione giudiziaria e fiscale. Ma se non ci ribelliamo, ci faranno sempre eggio. L’albero della libertà deve essere annaffiato di tanto in tanto dal sangue dei patrioti e dei tiranni. E’ il suo concime naturale. di Maurizio Blondet

17 ottobre 2012

La singolare malattia della Monti-dipendenza

Chissà se gli italiani cominceranno a liberarsi dalla singolare malattia della Monti-dipendenza adesso che con la legge di stabilità il governo tecnico ha palesemente “toppato” o, per dirla altrimenti, è stato colto con le mani nella marmellata per avere fatto ricorso ad uno di quei mezzucci di cattura del consenso che sembravano appannaggio esclusivo di una deteriore classe politica. Che altro è difatti la mini riduzione dell'Irpef per i due scaglioni più bassi se non un tentativo di gettare fumo negli occhi? Il modesto beneficio, che secondo Monti dovrebbe costituire la prova della propensione del governo alla riduzione della pressione fiscale non appena se ne affacci la possibilità, è, difatti, accompagnato dall'aumento di un punto dell'Iva. Un aumento che, secondo i calcoli degli esperti, non solo pareggia, ma supera il beneficio Irpef anche per i contribuenti che ne usufruiscono e, soprattutto, colpisce senza compensi tutta la vasta area esente da Irpef per insufficienza del reddito (circa 8 milioni di cittadini, che è corretto definire “poveri”). Intendiamoci; la recessione economica non è colpa di Monti e va attribuita a fattori (la globalizzazione anzitutto) di molto anteriori alla intronizzazione per mano di Napolitano del governo tecnico. Monti e i suoi ministri hanno soltanto la funzione di fare accettare, se non con gradimento, con rassegnazione, provvedimenti che avrebbero provocato ben più dure reazioni in caso di varo da parte del governo Berlusconi e, in realtà, di qualunque governo politico (di qui la decisione di non sostituirlo immediatamente con un governo Bersani). Questo in realtà l'hanno capito tutti, ma non tutti (anzi pochi) sembrano rendersi conto che nulla cambierà in meglio quando Monti passerà la mano (se pure lo farà) a un politico, perché le cause della crisi economica sono tuttora vigorosamente all'opera. Mi auguro di essere cattivo profeta, ma in fondo al tunnel non s'intravede affatto la luce vagheggiata (o vaneggiata) da Monti, ma una situazione destinata a divenire per lungo o lunghissimo tempo la nuova realtà dell'Italia e dell'Europa: una realtà che fino a pochi anni fa avremmo definito da “terzo mondo”. Prendiamo la riforma delle pensioni, adesso calcolate e liquidate per rendere il sistema sostenibile sulla base dei contributi versati, il che già di per sé comporta una netta riduzione degli importi rispetto al precedente sistema retributivo. Non per nulla già da qualche anno i lavoratori vengono sollecitati a munirsi di forme integrative di previdenza e a tal fine si sono proposte varie forme volontarie di fondi-pensione. Purtroppo è fin d'ora certo che, per effetto della crisi e della conseguente difficoltà di trovare un lavoro stabile (o, peggio, una qualunque occupazione remunerata), in particolare le giovani generazioni (ma non solo loro) avranno pensioni al limite del livello di sopravvivenza, che in nessun modo potranno integrare. Difatti i lunghi periodi di disoccupazione da un lato incidono negativamente sull'importo dei contributi versati, dall'altro non consentono di destinare parte dei propri guadagni alla previdenza alternativa. Insomma il cane si morde la coda e non ci prova gusto. Al momento la situazione sociale è (quasi) sotto controllo non per merito di Monti, che anzi con il continuo aumento del costo della vita gioca all'amico del giaguaro, ma perché le generazioni da poco approdate alla pensione o sul punto di farlo hanno avuto la possibilità di risparmiare e possono dare una mano a chi il lavoro lo sta ancora cercando (e non lo trova o ha rinunciato). Tuttavia questi “anziani” relativamente fortunati non dureranno in eterno e in ogni caso la loro capacità economica e, quindi, di sostegno ai giovani, già intaccata da una esorbitante pressione fiscale, è destinata a diminuire di anno in anno, perché le pensioni, d'oro o di rame che siano, non vengono adeguate ai reali aumenti del costo della vita. L'inevitabile approdo è una generalizzata carenza di mezzi (vogliamo chiamarla col suo nome: povertà?), nella quale quasi per tutti diviene essenziale, in particolare nei momenti difficili (malattie, vecchiaia ecc.), il ricorso ai servizi pubblici, invece a loro volta oggetto di provvedimenti incidenti in negativo sul numero e l'efficienza delle prestazioni (si pensi ai continui tagli alla Sanità). Scarse le speranze di un'inversione di tendenza, dal momento che alla recessione economica si accompagna (l'ha anzi preceduta e si pone come una delle sue cause) la crisi della società civile che, malata di individualismo amorale, si mostra incapace di reagire e assiste immobile e passiva alla disgregazione di se stessa. di Francesco Mario Agnoli

16 ottobre 2012

La banca centrale pubblica argentina è un faro per la democrazia nel mondo

Quando l’equipaggio di una nave si trova in mare aperto, nel mezzo di una tempesta, e di una Tempesta Perfetta per giunta, l’unica cosa che vorrebbe disperatamente scorgere all’orizzonte è la luce di un faro. La salvezza, la terraferma. In Argentina, all’estremità sud del paese, poco più a est della Terra del Fuoco, si trova una piccola isola, quasi uno scoglio in verità, dove c’è un antico faro dal nome evocativo: il Faro della Fine del Mondo. Poco più in là c’è l’Antartide, con le sue immense distese di ghiaccio, voltandosi indietro si intravedono invece le sconfinate e rigogliose praterie argentine. E in mezzo il Faro. Un luogo magnifico ai confini del mondo, che non a caso lo scrittore francese di romanzi d’avventura Jules Verne, l’autore di “Ventimila leghe sotto i mari”, ha utilizzato per ambientare uno dei suoi libri meno conosciuti: “Il faro in capo al mondo”. In effetti a partire dal 1991, il faro argentino ha perso il primato di essere quello più a sud del mondo, perché né è stato costruito uno a Capo Horn in Cile, ma rimane sicuramente il monumento più antico e famoso, che oggi più che mai rappresenta un vero spartiacque simbolico di civiltà. Una speranza per tutti i naviganti che transitano da quelle parti e sono sommersi e travolti dalle onde della Tempesta Perfetta globale, senza sapere ancora come venirne fuori e quali strumenti utilizzare per domarla. In perfetta analogia, l’Argentina guidata dalla presidentessa Cristina Kirchner, così come il Venezuela di Chavez, l’Ecuador di Correa, la Bolivia di Evo Morales, è diventato un faro, una speranza per quei popoli del mondo, dall’Europa alla Cina passando per gli Stati Uniti, che oggi aspirano a ripristinare un regime democratico al servizio dei cittadini e dei diritti umani, dopo essere stati soppressi e repressi dall’occupazione quasi militare dei tecnocrati, dei faccendieri, dei politicanti, degli elefantiaci apparati dirigisti che lavorano alacremente soltanto per tutelare gli interessi delle lobbies finanziarie, dei comitati d’affari, delle corporazioni multinazionali. Un abisso di distanza in termini di cammino evolutivo della civiltà, che è ancora più accentuato dal fatto che la censura della propaganda di regime dilagante in Europa impedisce a noi cittadini di sapere cosa stia accadendo esattamente in Sudamerica, visto che gli organi di informazione su ordine preciso dei loro potenti committenti hanno completamente tagliato fuori dai circuiti della stampa e della televisione le notizie provenienti da quei paesi. Senza andare troppo per il sottile, il continente sudamericano è stato letteralmente cancellato dalle carte geografiche del mondo, perché i cittadini lobotomizzati e teleguidati d’Europa e degli Stati Uniti non devono sapere nulla dei cambiamenti che stanno avvenendo laggiù. I drastici mutamenti di paradigma rispetto al dogmatismo medievale dell’Occidente, con il loro cattivo esempio, potrebbero infatti spezzare di colpo la catena psicologica su cui si fonda gran parte dell’egemonia totalitarista che ci governa: TINA, There Is No Alternative, non c’è nessuna alternativa alla tecnocrazia neoliberista, si fa come dicono loro e basta. E invece, al pari di ogni altra questione che coinvolge la vita umana, l’alternativa c’è, eccome se c’è. E si chiama Argentina. La storia della crisi e successiva rinascita dell’Argentina è abbastanza nota e per certi versi, soprattutto nelle caratteristiche della fase di declino, molto simile a ciò che sta accedendo oggi nell’eurozona. Con il pretesto di creare maggiore stabilità nei rapporti commerciali con l’estero e in particolare con gli Stati Uniti, nel 1991 il governo Menem decide di ancorare il cambio del peso al dollaro, con una scellerata parità fissa di 1:1 che ovviamente apprezzava troppo la moneta argentina rispetto alla valuta statunitense. Il risultato è stato che per un certo periodo di tempo per gli argentini è stato molto conveniente importare prodotti dall’estero prezzati in dollari e questo eccessivo ricorso alle importazioni ha creato un deficit permanente nella bilancia commerciale, che è stato inizialmente compensato dal notevole afflusso di capitali e investimenti esteri. Sull’onda di questa maggiore fiducia e apertura del governo alle imprese straniere, le multinazionali americane ed europee strapparono facilmente diverse concessioni per gestire i servizi essenziali un tempo pubblici, dagli acquedotti all’energia, dall’industria estrattiva e mineraria alle telecomunicazioni, esportando i profitti in patria, lontano dall’Argentina, e ponendo le basi per un maggiore indebitamento estero del paese. Sia i titoli finanziari privati che quelli pubblici argentini, i famigerati Tango Bonds, venivano piazzati in tutto il mondo assicurando alti rendimenti agli investitori e fornendo un’illusoria parvenza di stabilità economica del paese. Si trattava però di un equilibrio molto precario e sono bastati gli effetti di contagio della crisi delle borse asiatiche del 1997 per mettere in ginocchio il paese e svelare al mondo la reale insostenibilità del suo straordinario sviluppo economico. I capitali esteri sui quali si fondava il sostanziale equilibrio contabile della bilancia dei pagamenti cominciano a fuggire dal paese, gli investitori più accorti vendono in fretta i titoli argentini per limitare le perdite e il governo si vede costretto a bruciare notevoli quantità di riserve di moneta estera per mettere in condizione i debitori di rimborsare i debiti contratti, ad imporre riforme di austerità per rastrellare liquidità dal basso e ad aumentare i tassi di interesse a livelli non più credibili, per favorire l’arrivo di nuovi capitali dall’estero. Questo circolo vizioso dura fino a dicembre del 2001 quando, sulla spinta delle proteste popolari, il governo decide di dichiarare default sul debito estero denominato in dollari, che ammontava a circa $95 miliardi, e i suoi maggiori rappresentanti sono costretti a scappare in elicottero dal paese per evitare il linciaggio. Da quel momento in poi si apre una pagina del tutto nuova nella storia dell’Argentina. Nel maggio 2003, dopo la parentesi della presidenza di Eduardo Duhalde durata due anni, viene eletto a capo del paese Nestor Kirchner, che comincia fin da subito un lungo braccio di ferro con il Fondo Monetario Internazionale per rinegoziare le condizioni di rimborso del debito: l’Argentina vuole ripagare i debiti ma secondo le sue modalità e i suoi tempi e non accettando passivamente le severe scadenze imposte dai creditori. In secondo luogo, con un piano progressivo di ristrutturazione il governo argentino si riappropria della gestione dei servizi pubblici essenziali, estromettendo le multinazionali, per consentire innanzitutto un maggior controllo sui prezzi di erogazione, e questo atteggiamento contrario agli interessi privati dei grandi colossi internazionali inasprisce i rapporti con il FMI, che delle loro logiche predatorie e parassitarie è il tutore a livello globale. A peggiorare ancora di più la situazione, Kirchner avvia politiche sociali per ridurre la povertà e la disoccupazione, cosa anche questa che fa infuriare il FMI, che proprio sulle ampie sacche di povertà e disoccupazione prodotte dalle sue stesse ricette di austerità crea i presupposti per fornire manovalanza a buon mercato per le multinazionali. Mentre continua senza sosta il duello frontale a distanza fra governo argentino e FMI, la rapida svalutazione del peso rispetto al dollaro seguita al default, che si aggira intorno al 200% con un rapporto di cambio ora più realistico e aderente alle esigenze dell’economia argentina di circa 3 pesos per un dollaro, fornisce intanto un doppio beneficio per la bilancia commerciale del paese: da un lato favorisce le esportazioni e dall’altro rende più costose le importazioni, a tutto vantaggio delle produzioni locali. Lentamente l’Argentina riesce a rimettere ordine nei suoi conti disastrati, anche se bisogna subito sottolineare, come già evidenziato in uno splendido articolo pubblicato sul blog Voci dall’Estero, che non è affatto basata sulle esportazioni la grande ripresa economica dell’Argentina, la quale dura inarrestabilmente dal 2° trimestre del 2002 fino ad oggi. Durante il periodo che va dal 2002 al 2011, lo stesso FMI certifica una crescita cumulata del PIL argentino del 94%, che equivale esattamente ad una straordinaria media annua del 9,4% (al pari se non più della stessa Cina), mentre il contributo delle esportazioni sul PIL cumulato nella fase più forte di espansione (2002-2008) si limita ad un modesto 7,6%, cioè solo il 12% del totale. Troppo poco per essere un fattore realmente decisivo e determinante. Se esaminiamo il grafico sotto possiamo in effetti notare che le esportazioni sono cresciute in valore, ma in relazione al ritmo travolgente di aumento del PIL l’apporto dell’export è diventato sempre più marginale e decrescente e se consideriamo infine il saldo netto fra export ed import avremo addirittura un risultato negativo (importazioni di poco superiori alle esportazioni). Ciò significa che la violenta accelerazione del PIL argentino è dovuta evidentemente ad altri fattori e in particolar modo proprio ai due elementi che vengono sempre ignorati nei programmi di “austerità espansiva” (un imbarazzante e assurdo ossimoro che circola impunemente nei messaggi rassicuranti della propaganda asservita, perché come stiamo sperimentando sulla nostra pelle, nel mondo reale non ci può essere mai crescita economica quando si tagliano le spese e si aumentano le tasse) promossi in Europa, negli Stati Uniti e nel mondo dalle orde oscurantiste e dogmatiche di neoliberisti al governo: l’aumento dei consumi e degli investimenti interni (rispettivamente il 45,4% e il 26,4% del totale). Entrambi questi obiettivi sono i più abbordabili da raggiungere per un governo che ha piena disponibilità della sua moneta e di tutte le leve di politica economica, a dimostrazione ancora del fatto che per avvicinare traguardi importanti e ambiziosi spesso bisogna seguire le vie più semplici e dirette, senza complicarsi la vita con gli inutili e pretestuosi tecnicismi inventati di sana piana per confondere le acque e i malsani suggerimenti di cattedratici ampollosi, arroganti, autoreferenziali, corrotti e distanti anni luce dalla realtà della vita quotidiana e dalle esigenze materiali di milioni di individui. Se vuoi aumentare i livelli di spesa, la crescita economica di un paese, devi mettere in condizione cittadini e aziende di spendere e di investire. Chi non capisce questo semplice concetto o è stupido o è stato pagato a sufficienza per far finta di essere stupido. Ma come si è potuta ottenere in Argentina un’esplosione così travolgente e rapida di tali fattori? Semplice, lo Stato argentino, sotto la guida di Nestor Kirchner prima e della moglie Cristina Fernandez a partire dal 2006, ha ricominciato ad attuare normalissime politiche economiche attive a sostegno della popolazione senza trincerarsi più dietro il vile arretramento imposto dalle cure indigeste del FMI e soci. Un esempio evidente è il programma di inserimento “Jefes de Hogar” (Capi Famiglia), tramite il quale sono stati messi a lavorare nel settore pubblico, in impieghi socialmente utili e spesso part-time, ben 2 milioni di disoccupati in un solo anno (il 13% della forza lavoro attiva), che dall’assenza di mezzi monetari hanno adesso un salario minimo garantito con cui potere soddisfare i bisogni primari del proprio nucleo familiare e programmare gli investimenti futuri. Il governo argentino ha poi direttamente organizzato progetti a livello federale, statale e locale e tra questi: grandi investimenti infrastrutturali e iniziative di riciclaggio, progetti di irrigazione e rinnovamento del suolo, assistenza sanitaria e centri diurni, pasti e rifugi per i senzatetto, biblioteche pubbliche e programmi ricreativi, agricoltura di sussistenza e programmi di assistenza agli anziani, centri contro la violenza in famiglia, e molte altre attività sociali. I posti di lavoro così creati nel settore pubblico non solo hanno prodotto reddito, occupazione, rilancio dei consumi e dell'attività produttiva, ma anche qualificazione, istruzione e formazione per tutti i partecipanti, credenziali queste che possono essere rivendute in futuro anche nel settore privato. Ma come ha potuto il governo argentino finanziare tutte queste attività? Anche in questo caso la risposta è abbastanza semplice: la banca centrale, il Banco Central de la Republica Argentina, ha rinunciato al dogma inutile e controproducente dell’autonomia e indipendenza e si è messa al servizio del governo argentino, finanziando la sua spesa pubblica tramite emissioni di nuova base monetaria (riserve bancarie elettroniche, banconote, monete metalliche). Analizzando i contributi netti al PIL cumulato nel periodo 2002-2011, avremo così che la spesa pubblica si aggira intorno alla considerevole quota del 35%: una cifra importante ma in verità molto inferiore rispetto per esempio alla spesa pubblica annuale in Italia, che supera spesso il 50% del PIL complessivo della nazione. Tuttavia, essendo stata convogliata verso finalità utili e redditizie e avendo messo soprattutto nuovi mezzi monetari nelle mani di chi per ovvi motivi ha più tendenza a spendere e consumare rispetto alla sterile tesaurizzazione precauzionale dei risparmi, la spesa pubblica argentina ha subito prodotto effetti positivi di espansione economica a tutti i livelli. Da notare anche che l’Argentina non si è volontariamente ingabbiata in frustranti vincoli di pareggio di bilancio, potendo quindi modulare il regime di tassazione progressiva e indiretta in base a quelle che sono le reali esigenze di contenimento dell’inflazione e mantenimento nel tempo del potere di acquisto del peso. In Italia invece non solo la spesa pubblica è sproporzionata e spesso inefficiente, ma i cittadini e le aziende sono pure gravati da un prelievo fiscale tra i più alti del mondo, che annulla sul nascere qualsiasi tentativo di mettere in atto politiche espansive. Mentre in Argentina si creano soldi dal nulla e questi soldi vengono spesi nell’economia reale, in Italia si prendono in prestito soldi dai mercati finanziari da spendere spesso in modo dissennato e a vantaggio di una ristretta casta di privilegiati e questi soldi più gli interessi devono essere poi prelevati dalle tasche dei comuni cittadini, dei lavoratori e delle aziende, con tutte le nefaste e inesorabili conseguenze che ciò comporta in termini di riduzione dei consumi e degli investimenti. Preso atto di queste circostanze più politiche che strettamente tecniche e della scelta suicida di sottostare ai mercati finanziari, non esiste allora alcun motivo per stupirsi o meravigliarsi se in Argentina l’economia continua a crescere mentre in Italia siamo in profonda recessione. E così strano che scelte tanto distanti fatte a monte dai rispettivi governi si riflettano poi a valle in effetti altrettanto divergenti e contrastanti? Non dovrebbe essere la semplice matematica a suggerirci che sarebbe andata a finire così? Fra l’altro il sostegno della banca centrale argentina non si limita soltanto al finanziamento dei piani di spesa pubblica del governo, ma anche ai programmi di ristrutturazione dell’intero sistema economico nazionale, avendo l’istituto appoggiato le iniziative di nazionalizzazione del settore pensionistico (niente di eccessivamente anormale o sconvolgente perché anche in Italia o in Germania gli enti di previdenza, l’INPS e il Deutsche Rentenversicherung, sono pubblici e nessuno hai mai gridato allo scandalo, accusandoci di statalismo) e delle maggiori imprese di estrazione petrolifera, come nel caso della YPF che prima era in mano alla spagnola Repsol. Queste operazioni del governo argentino sono state necessarie non solo per garantire ai cittadini l’erogazione dei servizi essenziali e la proprietà pubblica delle risorse strategiche, ma anche e soprattutto per difendersi dall’ostilità dei mercati finanziari e dal mancato afflusso di capitali esteri: se i profitti delle multinazionali straniere della finanza e del petrolio se ne vanno all’estero e contemporaneamente nessuno porta nuovi capitali, è chiaro che in assenza di queste drastiche scelte di riappropriazione a tappe forzate delle primarie risorse finanziarie e naturali, l’Argentina sarebbe stata stretta in breve tempo in una nuova morsa dell’indebitamento estero. A parte che bisogna ancora capire cosa ci sia di tanto immorale e sacrilego (agli occhi dei funzionari del FMI e degli squali di Wall Street naturalmente, non dei nostri) nel garantire ai cittadini di uno stato democratico e civile la continuità di erogazione della pensione, dell’elettricità, del gas, del carburante, visto che le privatizzazioni hanno storicamente arrecato più abusi, inefficienze e rendite di posizione, che reali vantaggi per i consumatori. E poi, non è umanamente più giusto e razionale che i profitti ricavati dalle risorse naturali di un territorio vengano redistribuiti tra i cittadini di quel paese, invece di arricchire i forzieri di pochi soggetti privati e persino stranieri? Domande davvero pesanti e improrogabili, a cui l’Argentina ha già risposto con fermezza, mentre i nostri governanti farlocchi e mercenari si ostinano ad abbozzare risposte approssimative e balbettanti, non più accettabili come chiusura definitiva e conclusiva del discorso. Si tratta dunque di quel radicale cambio storico di paradigma di cui abbiamo accennato all’inizio, che l’Argentina sta perseguendo con coraggio e determinazione e ha già messo in crisi parecchie volte le vecchie e sclerotizzate plutocrazie occidentali, che ancora hanno in patria la necessaria forza politica e finanziaria per tenere sotto scacco interi governi, sindacati, mezzi di informazione, opinione pubblica. Ma probabilmente il ribaltamento più interessante e rivoluzionario riguarda appunto lo stesso ruolo della banca centrale, che in Occidente riveste obblighi di tutela degli interessi privati e di stabilità dei prezzi, mentre in Argentina ha più decisamente intrapreso la strada della lotta alla disoccupazione e alla povertà, del sostegno all’economia reale, della stabilità finanziaria nel suo complesso, di cui il contenimento dell’inflazione rappresenta solo un tassello importante ma non prioritario. E i risultati raggiunti sembrano fino ad oggi premiare tutte le scelte fatte dalla banca centrale argentina perché la disoccupazione è scesa dal devastante 54% del 2001 all’8,3% (meno di Italia e Stati Uniti, e nulla in confronto ai livelli occupazionali e ai disagi sociali di Spagna e Grecia), il salario minimo garantito è cresciuto di ben otto volte, il PIL è in continua ascesa, il debito pubblico è diminuito dal 166% al 48%, gli interessi sul debito sono passati dal 21,9% al 6% del bilancio, il tasso di povertà è crollato dal 45% al 14%, con la povertà estrema ben inferiore al 7% (vedi grafico sotto). Dati entusiasmanti che fanno impallidire gli inqualificabili governi del rigore e dell’austerità disseminati in tutta Europa, in cui questi indici di prestazione economica e sociale sono tutti inesorabilmente e drammaticamente in caduta libera. L’unica vera incognita in questa carrellata di successi di politica economica è il dato sull’inflazione che secondo fonti governative sarebbe intorno al 10% annuo, mentre secondo i calcoli degli analisti del FMI avrebbe già sforato il 25%. Ed è proprio su questa interminabile diatriba riguardo ai tassi di inflazione e di crescita che è nato l’acceso scontro al vertice fra le due Cristine (descritto magistralmente dal grande Sergio di Cori Modigliani sul blog Libero Pensiero). La battagliera presidentessa argentina risponde colpo su colpo all’algida e inflessibile direttrice del FMI Christine Lagarde, che proprio in questi giorni ha estratto il primo cartellino giallo nei confronti dell’Argentina in attesa di ricevere dati economici più affidabili entro dicembre, ottenendo in tutta risposta la pronta replica di Cristina Kirchner: "il mio paese non è una squadra di calcio. È un paese sovrano e, come tale, non ha intenzione di accettare una minaccia". La situazione insomma è abbastanza compromessa e surriscaldata, ma in questa contesa cruciale per il destino e il significato stesso della sovranità democratica di una nazione, l’Argentina per nostra fortuna non intende arretrare di un passo, potendo contare sull’appoggio degli altri paesi sudamericani alleati e facendo da apripista per tutti quegli stati non più sovrani che vorrebbero magari in un prossimo futuro svincolarsi dalla stretta mortale del FMI e dell’Unione Europea (sono la stessa cosa, perché uno è il corollario dell’altra e viceversa), come la Grecia, la Spagna e la stessa Italia. In effetti, numeri alla mano, basterebbe solo mettersi d’accordo su quali beni e servizi considerare all’interno del paniere come base di calcolo dell’inflazione e il discorso sarebbe chiuso univocamente, anche se rimarrebbe ancora aperta la questione dell’aumento fittizio dei prezzi di alcuni prodotti agricoli ed alimentari dovuto alla speculazione finanziaria e alle scommesse sui derivati future. Fra l’altro, come ha già dimostrato l’ottimo Giovanni Zibordi sul sito Cobraf, si potrebbe procedere anche ad un calcolo indiretto dell’inflazione tramite il tasso di cambio delle valute nazionali in un regime di cambi flessibili, dato che tale rapporto riflette più o meno i livelli relativi dei prezzi interni ai due paesi presi in esame. A parte infatti le compravendite di moneta che avvengono a titolo puramente speculativo sui mercati valutari, un residente di un paese cambia la sua valuta in una valuta estera solo quando deve comprare dei prodotti da importare da quel dato paese e quindi lo stesso tasso di cambio delle due divise si allineerà in un certo senso al prezzo dei prodotti che verranno scambiati nei flussi incrociati fra i due paesi: più alto sarà il differenziale di inflazione del primo paese rispetto al secondo e maggiore sarà la svalutazione della sua moneta rispetto alla moneta del secondo paese, perché a parità di volumi di merci scambiate sarà più elevata l’offerta di moneta del paese più inflativo rispetto a quella del paese meno inflativo. Utilizzando questo semplice meccanismo, se confrontiamo il valore iniziale di cambio nel 2002 di 3 pesos per 1 dollaro con quello attuale di 4,7 pesos per un 1 dollaro avremo una svalutazione complessiva del peso del 56% rispetto al dollaro, e ricavando nel periodo considerato un’inflazione media negli Stati Uniti pari al 2,5%, avremo che l’inflazione media annua in Argentina in questi ultimi dieci anni sarebbe stata intorno all’8,1%, ben lontana dai picchi del 25% annui stimati dal FMI. Questo è lo stesso motivo per cui oggi possiamo dire con pochi margini di errore che l’uscita dall’euro della Grecia comporterebbe una svalutazione del 70% della nuova dracma nei confronti dell’euro, perché la somma dei suoi differenziali di inflazione rispetto alla media europea porterebbe a questo risultato. Mentre per la medesima ragione, a prescindere dai numeri catastrofici e dagli allarmismi ingiustificati sparsi a caso dalla propaganda per terrorizzare la gente, la svalutazione della lira sarebbe intorno al 20%. I numeri non sbagliano, mentre le voci di popolo sono e rimarranno sempre voci di popolo. Ma a parte i semplici strumenti analitici dell’economia che porterebbero a smontare la tesi del FMI e tralasciando per il momento il fatto che questi conteggi manterrebbero sempre un certo grado di approssimazione per la solita storia della differenza sostanziale di calcolo dell’inflazione negli Stati Uniti e in Argentina, la faccenda è più prettamente politica, morale, filosofica che tecnica. Quello che l’Argentina sta cercando di dimostrare al mondo intero è che l’inflazione non può essere considerato l’unico parametro di valutazione dello stato di salute e benessere di un paese, perché ne esistono molti altri, primi fra tutti i dati sull’occupazione e la povertà, e su questo versante non ci sono dubbi che l’Argentina sia un paese virtuoso perché sta utilizzando tutti gli strumenti fiscali e monetari a disposizione nel solo interesse del bene del suo popolo. Mentre al contrario, l’Europa con la sua maniacale e ossessiva fissazione sul dogma della bassa inflazione di derivazione monetarista e neoliberista, sta portando alla deriva la stabilità sociale, inasprendo i conflitti e creando immense sacche inferocite di disoccupati e nuovi poveri. Per capire meglio questo concetto, sarebbe opportuno rileggere con molta attenzione le parole del giovane economista argentino Ivan Heyn, morto suicida in un albergo a Montevideo a dicembre scorso in circostanze sospette, dopo aver partecipato “guarda caso” ad un turbolento incontro con i funzionari del FMI: “Che cosa me ne importa a me di avere un’inflazione al 3% come avete voi in Europa essendo infelici tutti, se io posso dare felicità alla mia nazione con un’inflazione al 30%? Lo so da me che va abbassata, ho studiato economia anch’io. Lo faremo. Ma lo faremo soltanto quando ci saremo ripresi tutti. Non prima. La felicità ha valore soltanto se può essere condivisa collettivamente, è una teoria economica, questa, e mi meraviglio che lei che viene dal Primo Mondo non lo sappia. La felicità per pochi privilegiati, non è vera felicità, è avidità bulimica. E’ un peccato mortale. Lo sa anche il papa. E noi siamo cattolici” (frase tratta sempre dal blog di Sergio di Cori Modigliani, che conosce molto bene come vanno realmente le cose in Argentina avendoci vissuto per parecchi anni). Una dichiarazione molto simile per certi versi agli illuminanti e memorabili discorsi dell’indimenticato presidente partigiano Sandro Pertini, quando diceva che un popolo povero, affamato, poco istruito, privo di giustizia sociale non può essere libero e la libertà è il maggiore valore fondante di una democrazia. E’ chiaro che in una fase di crescita economica tumultuosa come questa, il dato secco dell’inflazione passa in secondo piano rispetto ai parametri da cui può eventualmente scaturire un’impennata improvvisa dell’inflazione, che malgrado tutti i tentativi diffamatori e lesivi in Argentina non c’è ancora stata: livello di piena occupazione, saturazione della capacità produttiva, politiche salariali troppo espansive, aumento della domanda aggregata non più corrisposto da un contemporaneo aumento dell’offerta aggregata, mancanza di controllo sui prezzi, squilibri permanenti nelle partite correnti con l’estero. Siccome l’Argentina è ancora ben lontana dal raggiungimento di questi traguardi o fenomeni tipici della fase finale di un ciclo economico, ecco che il problema dell’inflazione per tutti i funzionari del governo e della banca centrale è in realtà un falso problema. E la grintosa governatrice del Banco Central Mercedes Marco del Pont (foto sopra: ogni paese ha le donne di potere che si merita, noi purtroppo abbiamo la Bindi, la Santanchè, la Tarantola e la Fornero) può orgogliosamente dichiarare che approvando ad aprile scorso la nuova Carta Organica, l’istituto sarà legato a doppio filo con le politiche del governo rinunciando alla pretesa di autonomia che non porta a nulla, tranne alla deflazione e recessione perenne. E secondo il nuovo statuto la missione primaria e fondamentale della banca centrale argentina non sarà soltanto “preservare il valore della moneta ma includerà anche lo sviluppo economico con giustizia ed equità sociale, l’occupazione e la stabilità finanziaria”. Un vero schiaffo di sfida nei confronti di tutti i principi antidemocratici e i valori antiumani su cui si è fondata nel tempo la supremazia schiacciante e scriteriata della finanza rispetto alle istanze razionali ed etiche degli stati ancora sovrani di gestire l’economia in modo sostenibile e solidale: 1) Lo sviluppo economico non piace alla finanza, perché quando i redditi si espandono, gli affari vanno bene, i debitori pagano i creditori, è difficile mettere in atto strategie di espropriazione di ricchezza ed estrazione di valore dal basso verso l’alto 2) La giustizia e l’equità sociale è una vera bestemmia per la finanza, che ha costruito le sue fortune sulla più diseguale redistribuzione e concentrazione di ricchezze nelle mani di pochi oligarchi che il mondo abbia mai conosciuto 3) L’occupazione non è mai stato un reale obiettivo della finanza, visto che, a parte gli istantanei guadagni speculativi sulle aspettative e sui dati forniti periodicamente dal governo, produce una maggiore spinta al rialzo dei salari dei lavoratori e minori rendimenti e profitti per gli investitori 4) La stabilità finanziaria non è mai stata una condizione propizia per chi vive di rendita e di speculazione, dato che riduce la volatilità dei titoli e la possibilità di fare grandi profitti in poco tempo. Non ci stupisce quindi tutta questa ostilità nei confronti dell’Argentina, sospinta e sobillata dagli ambienti che contano di Wall Street, della City di Londra, di Berlino, di Parigi, di Hong Kong, di Tokyo. Una carta di intenti di questo tipo avrà fatto sussultare sulla sedia migliaia di manager e dirigenti di grandi gruppi finanziari, che credono ancora per abitudine e convenienza che la banca centrale sia soltanto un ente privato al loro servizio, il cui unico scopo sia quello di fornire quantità illimitate di liquidità a comando e di mantenere nel contempo un alto valore e potere di acquisto degli immensi patrimoni accumulati. Un’istituzione chiusa e relegata al solo settore bancario e finanziario, come un vero e proprio Fortino Militarizzato di Ricchezze, che ha l’obbligo categorico di frenare qualunque assalto della società civile, dello Stato e della cosiddetta economia reale, ogni volta che questi ultimi rivendicano il sacrosanto diritto di avere i mezzi di pagamento necessari per una corretto funzionamento dei flussi commerciali e una migliore redistribuzione delle risorse finanziarie. Non a caso le riviste patinate più vicine al mondo finanziario hanno subito inserito la governatrice argentina Del Pont nella lista dei 10 peggiori banchieri centrali del mondo, basandosi evidentemente soltanto su preconcetti, pregiudizi o semplice antipatia personale perché in verità dati reali che confermino inconfutabilmente l’incompetenza e inefficienza della funzionaria ancora non ne esistono. La solita accusa meccanica e infondata che l’eccessivo ricorso alla creazione di nuova base monetaria, volgarmente chiamata “stampa di moneta”, porterà prima o dopo all’iperinflazione della Repubblica di Weimar o dello Zimbabwe dimostra invece una totale ignoranza dei meccanismi moderni di circolazione della stessa base monetaria (formata per il 97% da riserve bancarie elettroniche e solo per il restante 3% da banconote e monete metalliche), che è praticamente tutta interna al circuito interbancario, emergendo in superficie soltanto quando le banche concedono prestiti ai clienti o i clienti stessi prelevano allo sportello questi soldi virtuali ottenendo in cambio banconote. Solo così le famose banconote, che passando rapidamente di mano in mano farebbero aumentare la velocità di circolazione del denaro e innalzare di conseguenza l’indice dei prezzi al consumo, avrebbero un reale effetto inflativo, mentre in caso contrario l’unico modo in cui un banchiere centrale potrebbe assumersi la diretta responsabilità di aumentare la quantità di moneta circolante e produrre inflazione è quello di lanciare banconote da un elicottero. Con buona pace di tutti gli incalliti e retrogradi monetaristi, neoliberisti, devoti della sacralità dell’autonomia, della bassa inflazione e della rarefazione monetaria, il sistema monetario moderno funziona così e prima o dopo dovranno farsene una ragione. E’ l’inflazione a trainare la maggiore offerta di moneta da parte della banca centrale e non viceversa, così come è sempre l’inflazione ad influenzare in prima battuta la svalutazione della moneta e non viceversa (in seconda e terza battuta rientrano invece gli squilibri delle partite correnti con l’estero e le compravendite di moneta sui mercati valutari). L’esperienza del Canada, che ha una banca centrale simile a quella argentina autorizzata a supportare direttamente il governo e a partecipare alle aste primarie di collocamento dei titoli di stato (come accadeva in Italia prima del divorzio fra Ministero del Tesoro e Banca d'Italia del 1981), è abbastanza emblematica: malgrado la banca centrale abbia da sempre “stampato” moneta in accordo con il governo, in Canada, dal dopoguerra ad oggi, non abbiamo mai assistito a fenomeni iperinflazionistici. In sistemi invece meno solidali nella collaborazione con i governi e più orientati a foraggiare illimitatamente i circuiti bancari privati, come quello degli Stati Uniti, Gran Bretagna, Giappone, le rispettive banche centrali hanno allagato il mercato interbancario con immense iniezioni di liquidità, attraverso le cosiddette operazioni di quantitative easing, senza che questo diluvio abbia aumentato di un centesimo di punto percentuale l’inflazione percepita. Una simile circostanza è giustificata dalla semplice considerazione che queste quantità incalcolabili di riserve bancarie elettroniche sono appunto riserve e a parte l'irrisoria percentuale di richieste di conversione in banconote circolanti da parte dei clienti delle banche, il loro destino è già segnato: vengono custodite gelosamente nei conti di deposito dei singoli istituti presso la banca centrale in qualità di asset infinitamente negoziabile e liquido, trasferite senza sosta da un conto all’altro in cambio di titoli, utilizzate per compensare i pagamenti incrociati fra una banca e l’altra, senza mai vedere la luce del sole. L’unico modo, ripetiamo, per aumentare la massa di moneta circolante, ovvero i nostri depositi bancari e le banconote, è una maggiore attività creditizia delle banche commerciali, che come sappiamo può avvenire solo quando esiste una reale domanda di prestiti del mercato, sono verificate le garanzie fornite e i parametri di rischio del debitore, sono rispettati i requisiti patrimoniali della banca come richiesto dagli accordi bancari internazionali di Basilea. E sappiamo purtroppo per esperienza che quando l’attività creditizia delle banche è fuori controllo (boom), non solo ci sono rischi incombenti di inflazione (magari limitati ad un solo settore, come quello immobiliare), ma anche reali possibilità di nascita di bolle speculative che coinvolgono a cascata tutti gli altri settori, gli altri paesi fino a creare le premesse di interminabili crisi finanziarie globali. Così come sappiamo che quando l’attività creditizia si riduce drasticamente (crunch), la scarsità di moneta circolante che ne deriva può creare disastrosi effetti di deflazione dei prezzi, dei salari e depressione di un’intera economia. Gli enti governativi di vigilanza, in perfetta sintonia con le politiche monetarie di controllo dei tassi di interessi della banca centrale, dovrebbero essere efficienti e tempestivi abbastanza per mantenere un dosaggio equilibrato e stabile dell'attività creditizia, intervenendo direttamente solo in caso di evidenti deviazioni sia nell'uno che nell'altro verso. L’Argentina quindi, alla faccia di tutti i suoi detrattori, parte avvantaggiata sul versante della prevenzione dell’inflazione (e deflazione) anche per questo motivo: ha un settore bancario molto ridotto e in gran parte nazionalizzato, un’attività creditizia scarsa e frammentaria, un controllo di vigilanza molto preciso e puntuale da parte della sua banca centrale. Con queste premesse, è difficile che ci possano essere nell'immediato aumenti imprevisti di moneta circolante, eccessi di debito privato e quindi eventuali pericoli di inflazione, che non siano direttamente collegabili alla sola spesa pubblica dello stato, ed è forse questo il maggiore fattore che ha determinato il successo economico dell’Argentina: non la statalizzazione massiccia, ma la concentrazione dei flussi finanziari all’interno di canali molto esegui, visibili e facilmente controllabili. Al contrario di ciò che accade in Europa, negli Stati Uniti, in Giappone, non esistono in Argentina grandi gruppi finanziari e gigantesche corporazioni predatorie, fondi pensioni privati, banche ombre (shadow banks), banche d’affari, banche d’investimento specializzate in strumenti derivati, che possono soggiogare lo stato, orientare le scelte politiche e reprimere a loro vantaggio le richieste dell’economia reale sempre più allo sbando. Come dimostrato in un recente studio dal titolo già di per sé molto eloquente “Too much finance?”, scritto da tre importanti economisti, tra cui l’italiano Ugo Panizza, per conto dello stesso FMI, non esiste un collegamento diretto fra le dimensioni del settore finanziario e la crescita economica di un paese, anzi i dati dimostrano che aree con imprese finanziarie molto sviluppate, aggregate e ramificate spesso soffrono di prolungati periodi di recessione, mentre regioni in cui il settore finanziario è trascurabile, limitato e controllato sono protagoniste di altrettanti fasi di espansione economica. Un'evidenza empirica che ancora una volta da ragione alle scelte intraprese dall’Argentina e dovrebbe mettere in guardia tutti i ministeri dell’economia e delle finanze, gli enti di vigilanza e le banche centrali sparse nel mondo. L’unico serio rischio che corre l’Argentina è quello dell’isolamento, promosso dallo stesso FMI e dal boicottaggio delle nazioni neoliberiste europee, asiatiche, americane, che a lungo termine può compromettere la stabilità dei conti esteri. Ma anche qui la combattività del governo e della banca centrale, ispirata forse dal temperamento delle due donne al comando, non mostra segni di cedimento e in questi ultimi anni l’Argentina ha addirittura raddoppiato le sue riserve monetarie in valuta estera, che saranno utili per difendere o allentare in via preventiva la forza di cambio della valuta nazionale in caso di attacchi speculativi e per evitare ulteriori fughe di capitali all’estero, dovute principalmente ai timori di eccessiva fragilità della divisa nazionale. Considerando l’attuale situazione di equilibrio delle partite correnti della bilancia dei pagamenti, l’Argentina può dormire ancora sonni tranquilli, anche se prima o dopo parte delle sue riserve valutarie dovranno essere destinate al pagamento delle rate del debito estero congelato alle fasi immediatamente successive la dichiarazione di default del 2001. Nonostante però tutte le cupe previsioni di crollo imminente, l’ ultimo avviso ai naviganti potrebbe essere questo: non abbiate paura, panico, timore di osare, di capire, il Faro argentino rimane sempre lì, invisibile soltanto agli occhi di chi non lo vuole vedere. E un giorno non tanto lontano, se non verremo sospinti dalla tempesta sulle terre gelide dell’Antartide, è possibile che la sua luce intensissima indichi la via agli sparuti naufraghi dell’Occidente e a tutti coloro che sono ancora accecati dai bagliori fatui della propaganda di regime. In fondo, come dicono i Maya, il Giorno della Fine del Mondo si sta avvicinando a grandi passi e per evitare strane sorprese, sarebbe meglio prepararsi per tempo, prendendo spunto da chi è già in salvo e al sicuro. di Piero Valerio

15 ottobre 2012

Domare i banchieri non è facile come domare i tori

Ovviamente tutti sanno che in nessun caso è facile domare un toro, anzi, è del tutto impossibile. È vero che qui in Texas, nei numerosi rodei che vengono organizzati un po’ ovunque, diversi cow boys si cimentano nella gara a chi resiste di più in groppa ad un toro inferocito, ma solo i campioni resistono più di una dozzina di secondi, e molti finiscono a terra molto prima, qualcuno con un po’ di ossa rotte. Quindi quello che voglio dire è che, se domare i tori è impossibile, anche sperare di piegare i banchieri a fare ciò che non vogliono lo è in uguale misura. Loro sono troppo più forti di quelli che vorrebbero cavalcarli per accettare di essere cavalcati. Perché ho fatto questa similitudine? Perché proprio in questi giorni qualcuno in Europa ha finalmente avanzato una proposta, pur piccola ma seria, per risolvere il problema delle banche europee diventate troppo grosse. Essere grosse fa bene alle banche (finché non arrivano le crisi) ma fa male alla gente, perché quando le banche sono troppo grosse fanno quello che vogliono limitandosi (più o meno) a rispettare ciò che impongono le leggi. Includendo però in questo assunto anche il potere occulto di ottenere dai Parlamenti le leggi che fanno loro comodo. Ma quanto sono grandi queste banche per riuscire ad imporre a nazioni intere, e persino a grandi federazioni di Stati, come gli USA e l’Europa, i loro interessi? Lo dice, con una semplice comparazione, Jan Pieter Krahnen professore di Scienza delle Finanze all’Università di Francoforte (Germania): l’insieme di tutto il patrimonio delle banche europee è pari al 350% il volume di tutto il Prodotto Lordo della Comunità Europea. Vale a dire che le banche europee amministrano un patrimonio (cioè capitale proprio + debiti) che è tre volte e mezzo il valore di tutto quello che si produce in Europa. Ciò può significare due cose: o che hanno molte operazioni sull’estero, o che hanno in deposito nel patrimonio molta aria fritta (leggi: crediti inesigibili). Probabilmente sono vere un po’ entrambe le cose. Ma per capire l’entità, e l’anomalia, di questa cifra, basta fare il raffronto con lo stesso parametro calcolato sugli Stati Uniti: l’insieme patrimoniale di tutte le banche USA è pari all’80% del volume di tutto il Prodotto Lordo statunitense. Quindi si capisce agevolmente che le banche europee sono largamente sottocapitalizzate e pertanto sottoposte ad un livello del rischio di default (fallimento) molto più elevato. Si capisce altrettanto bene però che con queste dimensioni patrimoniali nessun paese si può permettere di far fallire le proprie banche e pertanto... “a mali estremi, estremi rimedi”, si salvano le banche sostenendole con aiuti di Stato (in inglese il “bailout”), oppure con le nazionalizzazioni (sempre più rare però, perché non conviene ai banchieri). Quindi il famoso “too big to fail” (troppo grandi per fallire) pronunciato nel 2008 come motivo per salvare con denaro pubblico le grandi banche americane, è tuttora in piena applicazione anche in Europa, soltanto che, visto cosa stava per succedere negli USA, gli europei non si azzardano a lasciarne fallire nemmeno una (di quelle molto grosse). Fino a circa metà degli anni 90 esisteva sia in Europa che in America una legge che teneva nettamente separata l’attività delle banche ordinarie da quella delle banche d’affari o d’investimenti (dette anche di medio-termine). Per effetto di questa legge in Italia le banche ordinarie potevano fare solo operazioni ordinarie con durata fino a 18 mesi, gli Istituti di credito a medio termine potevano fare solo operazioni con durata da 18 mesi in su. La differenza sostanziale però era nella forma di approvvigionamento dei capitali necessari a finanziare queste attività. Le prime (le banche ordinarie) si finanziavano massimamente con i depositi dei correntisti e con i depositi del risparmio a breve. Le seconde (gli Istituti di medio termine), non avendo sportelli per i conti correnti, si dovevano finanziare con l’emissione di certificati di deposito, perlopiù vincolati fino a scadenza, superiore ai 18 mesi. In questo modo veniva evitato che il denaro depositato a breve andasse a finanziare prestiti a scadenza lontana. Con l’invenzione della “cartolarizzazione” del debito, cioè la trasformazione di un debito a scadenza lunga (per es. i mutui) in titoli a risparmio trattati quotidianamente in borsa, si è pensato che quella prudenza non fosse più necessaria (Greenspan convinse Clinton in questo senso) e la legge venne abolita prima negli USA e poi in tutta Europa. Ma nel 2008 si è visto che quell’assunto era solo un illusione. Il mercato non si regola da solo, compete e basta. Lo squilibrio che si era formato tra un debito di durata ultradecennale (i mutui di 20 o 30 anni) e il loro derivato finanziario, trasformato in titoli al portatore che possono essere messi all’incasso tutti insieme nella stessa giornata, ha funzionato finché il mercato delle case e quello dei mutui è stato in crescita, ma quando è crollato e tutti (o buona parte) di quei possessori dei derivati finanziari hanno cercato tutti assieme di rientrare in possesso del loro credito, la crisi di liquidità è esplosa repentinamente, e le banche hanno rischiato tutte di fare la fine che ha fatto la Lehman Brother, cioè fallire. Allora qualcuno, tra i pochi nelle stanze dei bottoni che sembrano non del tutto legati al grande carrozzone, ha pensato che, non riuscendo a imporre legislativamente il ritorno della vecchia legge che separava le banche (negli Usa era la Glass-Steagall, in Italia il DPR 601), si sarebbe potuto ottenere più o meno lo stesso risultato separando quelle diverse attività all’interno della stessa banca. In Europa è stato in questi giorni Erkky Liikanen, delegato Europeo per la Banca Centrale Finlandese, a proporre ufficialmente di intervenire con la nuova regola sulle banche mettendo un differente parametro di capitalizzazione per i due comparti al fine di limitare il rischio proveniente dall’esagerata esposizione proveniente dalle operazioni sui derivati finanziari. Ovviamente, poiché il capitale proprio della banca è uno solo, il parametro diverso funzionerebbe per stabilire l’ammontare massimo delle operazioni sui derivati, che dovrebbe essere più rigido rispetto all’altro parametro, rivolto invece ad operazioni ordinarie molto meno rischiose. Questa proposta, che per le banche sarebbe certamente il male minore rispetto a quella di ripristinare le leggi anni ‘90, si scontra però con la già annunciata opposizione dei grandi banchieri, i quali lamentano che costringerebbe le loro banche a sostenere un grande onere amministrativo per creare all’interno della stessa banca due separate contabilità. Questo appare palesemente come un grande pretesto per non fare niente, dato che ogni grande banca ha già separate contabilità per ogni comparto di attività, ci mancherebbe altro! Il tutto si riunisce poi nel bilancio aggregato e consolidato. Quello che le banche non riuscirebbero a fare non è la separata contabilità, ma la capitalizzazione per mantenere adeguato il volume di attività rischiose. Questo è il principale motivo, insieme alla completa avversione per le “ingerenze” dei politici, per cui la proposta non piace e viene già contestata. Riusciranno i nostri baldi politici a fargliela digerire? È quasi impossibile. Io prevedo che il destino del povero Liikanen e dei suoi (pochi) alleati, sia lo stesso di quei cow boy che pretendono di cavalcare i tori. di Roberto Marchesi