10 ottobre 2013

La decadenza della menzogna




I politici non si ergono mai oltre il livello della falsa  dichiarazione, ed effettivamente si accordano a dimostrare, a discutere, ad argomentare… Se un uomo è sufficientemente privo di immaginazione per produrre una evidenza a supporto di una menzogna, tanto vale che dica la verità subito (O. Wilde)

Anche la menzogna è decaduta in questo Paese, insieme a tutto il resto.Dall’economia alla società, ogni cosa si è sfatta e decomposta, sotto l’effetto di frottole di corto respiro e di fandonie con le gambe corte, che da quanto più in alto provengono, tanto più scadono. Fole senza stile che segnalano l’insulsaggine dei nostri governanti.
La democrazia italiana non si fonda, come dovrebbe, sulla normale insincerità per superiori fini politici, i quali restano noti unicamente a pochi serbatoi di pensiero e ambiti di elaborazione strategica all’interno degli apparati statali, ma sulla disonestà “eticheggiante” e sul perbenismo doppiogiochista che richiama l’ipocrita trasparenza civile per celare la propria inconsistenza servile.
La bugia ad uso politico, quando è elemento mimetizzante della strategia complessiva di gruppi dirigenti nazionali, consci dei tempi nei quali sono costretti ad operare, è necessaria a tenere riservati piani e finalità, che per essere realizzati devono restare coperti, almeno per l’essenziale. Non stiamo parlando, dunque, delle finte promesse a scopo elettorale dei partiti per guadagnarsi un posto in Parlamento, ma della dissimulazione comportamentale che una élite mette in atto per raggiungere i suoi scopi, in un contesto di conflittualità e concorrenza globale molto accese, in cui le alleanze sono sempre transitorie ed abbondano i colpi bassi di amici e nemici.
Dunque, si può mentire senza ingannare, per proteggere o allargare gli interessi nazionali, oppure si può alterare la realtà per frodare, cioè per sfruttare a proprio limitato vantaggio le sventure di un popolo intero. La scelta dei nostri screditati rappresentanti parlamentari è ricaduta, ovviamente, sulla seconda opzione. Per questo diciamo che anche le menzogne sono degnerate  in questa vile provincia colonizzata, qual è diventata la nostra povera Repubblica.
I tanti pinocchi del sistema, che ricomprende mass media, istituzioni, organizzazioni intra e para statali, hanno fatto fronte comune per raggirare i connazionali, i quali sono sempre più umiliati e tartassati da una classe politica che ha barattato il Paese per la propria sopravvivenza corporativa.
Chi è stato il garante indiscusso di questo pantano che sta portando all’esproprio del popolo italiano? Chi ha messo in sella, negli ultimi due governi, aggirando le elezioni e rinnegando la sovranità popolare, personaggi addestrati nei centri finanziari internazionali dove si parla soltanto l’inglese con accento americano? Chi ci ha costretti a sottostare, senza protestare, ai diktat di Bruxelles, di Berlino e del FMI?
Non è un rebus, ma un Re autoproclamatosi tale. Stiamo parlando del “peggiorista atlantista”, l’ex piccìsta convertitosi al capitalismo e al liberalismo, dopo un viaggio a Washington nel 1978. Costui è il responsabile dell’attuale cancrena italiana e ci sarebbero alcuni buoni motivi (dall’alto tradimento dello Stato all’attentato alla Costituzione) per chiederne l’impeachment all’istante.
Ma il Parlamento è diventato il suo bivacco di manipoli, un ricettacolo di manigoldi, di rinnegati e di crapuloni a spese della collettività che temono le urne come la peste perché non vogliono perdere i loro privilegi. Il recente ed ennesimo voltafaccia, quello dei vertici del Pdl che hanno girato le spalle al loro capo storico, non lascia ulteriori speranze di scampo al Belpaese.

Gli allarmismi sullo stato dei conti pubblici ed il caos istituzionale che ne è seguito servivano proprio a mettere Roma con le spalle al muro.L’obiettivo, ormai scoperto, era quello di costringerci a liquidare i tesori di Stato, soprattutto gli asset pubblici dei settori avanzati, ancora in nostro possesso, che facevano gola ai competitors stranieri. Anche l’ultimo baluardo dell’industria strategica nazionale cadrà a breve. Nemmeno più un diodo ci potrà salvare.
di Gianni Petrosillo 

09 ottobre 2013

Oltre l'euro e l'era (anti)berlusconiana




OLTRE L’EURO E L’ERA (ANTI)BERLUSCONIANA
Mentre va in scena l’ultimo (?) atto di “Finale di partita all’italiana”, una commedia dell’assurdo che rischia di finire in tragedia per milioni di italiani, si moltiplicano gli articoli e le prese di posizione contro l’Eurozona (e non solo in rete). Su questo argomento, se particolare importanza hanno le analisi di Alberto Bagnai o Bruno Amoroso, si deve a Jacques Sapir l’aver fatto, con grande chiarezza e semplicità, il punto della situazione nel suo recente articolo “Lo scioglimento dell’euro, un’idea che si imporrà nei fatti”. (1) Sapir infatti dimostra che, mentre i media per ragioni politiche e ideologiche cercano di mettere in evidenza il fatto che la cosiddetta “ripresa” dovrebbe essere già cominciata, in realtà tutti gli indicatori economici provano il contrario.

Invero ciò non dovrebbe stupire granché gli italiani che vivono quotidianamente gli effetti della crisi sula loro pelle. Con l’indice della produzione industriale che ha perso ben venti punti percentuali dal 2007 (2), con il tasso di disoccupazione giovanile che ha superato addirittura il 40% (3), con una pressione tributaria simile a quella dei Paesi scandinavi ma con servizi da “terzo mondo”, (4) resi ancora più inefficienti o carenti dalla “macelleria sociale” degli ultimi governi, con il potere d’acquisto delle famiglia diminuito del 4,7% (5) e con il diffondersi della povertà in ampi strati della popolazione, anche a causa di una continua redistribuzione della ricchezza verso l’alto, pare ovvio che a un numero crescente di italiani non possa sfuggire quale sia la reale condizione del nostro Paese.

D’altronde, sarebbe difficile mettere in dubbio i vantaggi che l’euro ha arrecato alla Germania, la quale, grazie ad una politica (che alcuni hanno definito “clandestina” o anche “beggar the neighbour”, ossia “frega il tuo vicino”) incentrata sulle riforme del lavoro firmate da Peter Hartz (già capo del personale della Volkswagen), ha “esportato” tra i quattro e cinque milioni di disoccupati nei Paesi più “deboli” dell’Eurozona e incrementato enormemente il surplus della propria bilancia commerciale. In sostanza, fruendo di un cambio favorevole (l’euro di fatto è un “marco leggero”) e aumentando i profitti delle imprese a scapito del reddito dei lavoratori, la Germania, dopo l’inizio della crisi, ha triplicato il saldo positivo della bilancia commerciale con l’Italia, la Francia e la Spagna, che è passato dall’8,44% alla cifra stratosferica del 26,03%.
Un costo pagato anche da molti tedeschi, dato che il 10% della popolazione tedesca possiede il 53% della ricchezza nazionale (cresciuta tra il 2001 e il 2012 di circa 1400 miliardi di euro), mentre i “mini jobs”, contratti iperflessibili da circa 20 ore settimanali con uno stipendio di 450 euro netti, ormai riguardano 7,3 milioni di persone (il 70% delle quali non ha alcun altro reddito). (6) Eppure in Germania – in cui comunque vi è ancora uno Stato sociale tutt’altro che insignificante o inefficiente (non si deve dimenticare che la Germania ha potuto fare certe scelte partendo da posizioni di altissimo livello per quanto concerne la politica sociale) – è ampiamente diffusa dai media (che possono far leva su alcuni noti pregiudizi che caratterizzano la cultura tedesca) la concezione secondo cui i sacrifici dei tedeschi dipenderebbero dai danni compiuti delle “cicale” mediterranee. Un quadro ben distante dalla realtà, nonostante non si possano ignorare le gravi responsabilità delle classi dirigenti dell’Europa del sud.
Tra l’altro non è nemmeno vero che gli europei con l’introduzione dell’euro starebbero meglio o che la Germania sia la locomotiva d’Europa. Come scrive Bagnai, i dati provano che l’Eurozona si sta rivelando una sorta di gioco a somma zero in cui la Germania tira da una parte e gli altri da quella opposta. Inevitabile quindi ritenere che «la leadership tedesca abbia portato il nostro subcontinente alla catastrofe, allontanandoci in modo persistente e, nel prossimo futuro, irreversibile, dal tenore di vita dei paesi avanzati ai quali avremmo la legittima aspettativa di appartenere». (7)
Tuttavia, quel che più rileva non è tanto la valutazione dei costi economici e sociali derivanti dall’introduzione dell’euro quanto piuttosto il fatto che non è possibile porre rimedio agli squilibri che si sono generati nell’Eurozona finché si continuerà a difendere la moneta unica europea. Al riguardo, si deve tener presente che il “federalismo europeo” (“bandiera” di quegli europeisti che non sanno neppure distinguere l’Europa dall’Eurozona), oltre ai problemi politici che presenta (com’è noto un buon numero di Paesi dell’Ue, tra cui la Gran Bretagna, la Danimarca, la Svezia e la Polonia, non hanno alcuna intenzione di rinunciare alla propria sovranità nazionale – ma in realtà ciò vale anche per la Francia e la stessa Germania), implicherebbe un gigantesco trasferimento di ricchezza dall’Europa del nord a quella del sud. E la Germania dovrebbe sopportare il 90 % del finanziamento di questa operazione, equivalente a circa 230 miliardi di ​​euro all’anno (circa 2.300 miliardi in dieci anni), ossia tra l’8 % e il 9 % del suo Pil (altre stime arrivano perfino al 12,7 % del suo Pil). Chiunque può pertanto rendersi conto che sarebbe assai più facile che un cammello passasse attraverso la cruna di un ago.
Logico dunque che Jacques Sapir ritenga inevitabile l’abbandono della moneta unica europea e che, dopo aver preso in esame i possibili scenari che possono derivare dalla fine di Eurolandia, concluda: «Lo scioglimento dell’euro, in queste condizioni, non segnerebbe la fine dell’Europa, come si pretende, ma al contrario la sua rimonta nell’economia globale, e per di più una rimonta da cui potrebbero trarre beneficio in maniera massiccia, sia per la crescita che la nascita nel tempo di uno strumento di riserva, i paesi in via di sviluppo dell’Asia e dell’Africa». (8)
Considerazioni e conclusioni – quelle di Sapir e Bagnai – che nella sostanza, a nostro giudizio, non si possono non condividere, anche perché fondate su analisi rigorose, nonché sull’ovvia constatazione che una moneta senza uno Stato è nel migliore dei casi un’assurdità (si badi che buona parte degli economisti che oggi difendono l’euro a spada tratta prima dell’introduzione dell’euro erano decisamente contrari alla moneta unica europea), così com’è assurdo pensare che sia possibile costruire il “federalismo europeo” tramite scelte politiche ed economiche del tutto contrarie agli interessi “reali” di chi dovrebbe compierle. E se ciò non bastasse si potrebbe pure ricordare che senza un “federalismo europeo” nulla o quasi si potrebbe fare contro la “speculazione finanziaria”.
Nondimeno, è palese che non è sufficiente, per comprendere la crisi di Eurolandia, considerare solo le questioni attinenti all’economia e alla finanza. Come spiegare altrimenti il fatto che una classe dirigente come quella italiana non cerchi in alcun modo di contrastare ma anzi favorisca una politica che sta devastando il nostro Paese? Per quale motivo cioè i nostri politici o meglio quei membri della nostra classe dirigente – politici o tecnocrati che siano – che tirano effettivamente le fila della politica italiana non si sono opposti né si oppongono nemmeno adesso a decisioni le cui conseguenze disastrose per l’Italia ormai sono evidenti a tutti coloro che hanno occhi per vedere? Insomma è certo che la Germania riesce a trarre il massimo profitto da una situazione geopolitica estremamente favorevole per la sua economia e che quindi l’euro è solo un aspetto, benché non marginale, del problema che si dovrebbe risolvere.
Non è certo un caso che l’introduzione dell’euro sia avvenuta il più rapidamente possibile dopo il crollo del Muro di Berlino e la riunificazione della Germania, il cui significato politico può sfuggire solo a coloro che non conoscono (o fanno finta di non conoscere) gli ultimi centocinquanta anni della storia europea. In definitiva, è lecito affermare che la soluzione della “questione tedesca” era e rimane ancora il principale obiettivo dei “circoli euroatlantisti”, i quali non potrebbero tollerare che Eurolandia si sfasci e la Germania venga tentata – anche solo seguendo delle “direttrici geoeconomiche” – di “sbilanciarsi” dalla parte dei Brics (soprattutto in una fase storica in cui l’America, oltre ad avere serie difficoltà economiche, sembra priva di “iniziativa strategica” e incapace di contrastare con successo la crescita di altre potenze o di altri “poli geopolitici”, che cominciano pure a “fare pressione” per una radicale ridefinizione degli equilibri mondiali).
Da qui la necessità, secondo le “direttive strategiche” d’oltreoceano, per la classe dirigente italiana – che a partire dagli anni Novanta ha consapevolmente scelto di “liquidare” il patrimonio strategico nazionale a vantaggio dei “mercati” – di contribuire a qualsiasi costo alla soluzione della “questione tedesca”. E il compito fondamentale dell’Italia, secondo gli “strateghi euroatlantisti” consiste proprio nel favorire il più possibile la Germania (onde “saldarla” all’Atlantico), cedendo la propria sovranità non all’Europa (come invece molti intellettuali e giornalisti italiani affermano, scagliandosi contro gli italiani “brutti, sporchi e cattivi” ma “ignorando” che per milioni di italiani è un problema perfino, come si suol dire, mettere il pranzo insieme con la cena o che parecchie scuole non solo hanno”lesioni strutturali” ma hanno perfino problemi per acquistare la carta igienica), bensì ai tecnocrati di Bruxelles e alla Bce (la cui vera funzione non è un mistero per nessuno, tanto è vero che non occorre precisare a quali poteri la Bce debba rispondere).
Peraltro, si deve tener presente che non si tratta solo di “tradimento” del proprio Paese da parte della nostra classe dirigente (o almeno dei suoi membri più importanti), dato che quest’ultima condivide valori e stili di vita che la portano ad anteporre il cosiddetto ”mondo occidentale” all’Italia (problema estremamente serio se si considera pure l’americanizzazione della nostra società, in specie delle nuove generazioni). Inoltre la nostra classe dirigente e, in generale, le classi sociali più abbienti sono perfettamente consapevoli che mettere in discussione l’euro, rebus sic stantibus, comporterebbe anche mettere in discussione quei meccanismi di redistribuzione della ricchezza e quella “riforma” dello Stato sociale in base ai quali sarebbe assai poco significativa per le fasce sociali più deboli (ceti medio-bassi inclusi) perfino una crescita del Pil (che in ogni caso sarebbe assai modesta).
Ma appunto per questo l’euro costituisce quell’anello debole su cui bisognerebbe premere per poter spezzare la “catena geopolitica” che lega il nostro Paese a scelte e decisioni strategiche del tutto opposte a quelle che si dovrebbero prendere se si avesse veramente di mira l’interesse dell’Italia (e di conseguenza della stragrande maggioranza degli italiani), mentre continuando di questo passo tra qualche anno si rischia di non poter nemmeno più difendere alcuna sovranità nazionale, semplicemente perché con ogni probabilità non vi sarà più alcuno Stato italiano, ma solo un territorio deindustrializzato, utile come riserva di manodopera qualificata a basso costo.
E’ indubbio allora che prendere posizione contro l’Eurozona e le misure d’austerità imposte dalla Bce e dai tecnocrati di Bruxelles (indipendentemente dalla questione se sia meglio optare per due euro o tornare alla lira o scegliere altre soluzioni) sia essenziale per recuperare quella sovranità che è il presupposto necessario di ogni autentica politica (antiatlantista) che abbia come scopo quello di sottrarre lo Stato alla morsa dei “mercati”. Questo però è possibile – vale la pena di rimarcarlo – solo a patto che non si perdano di vista i reali rapporti di forza tra gli Stati Uniti e l’Ue e si comprenda qual è la vera posta in gioco sotto il profilo geopolitico e geoeconomico, tanto più adesso che in Europa si sta facendo strada la proposta statunitense di creare un “mercato transatlantico”, che renderebbe impossibile una autentica unione politica europea, trasformando l’intera Europa in una “appendice occidentale” degli Usa – ad ulteriore conferma del ruolo determinante del “politico” se non lo si intende come sinonimo di “politica” ma (correttamente) come strategia per la soluzione dei conflitti tra diversi attori (geo)politici e/o sociali.
Si può pertanto ritenere che l’attuale crisi politica italiana possa influire ben poco sulle sorti del nostro Paese, mentre decisivo sarebbe sfruttare la (probabile) fine dell’era (anti)berlusconiana, mettendo da parte lo spirito di fazione, al fine di dar vita ad una nuova forza politica di tipo “nazional-popolare” (che tenga conto cioè anche dei codici culturali ancora, nonostante tutto, condivisi da non pochi italiani), il cui compito principale dovrebbe essere quello di impedire il declino dell’Italia (le cui conseguenze sarebbero gravissime, in primo luogo, proprio per i ceti popolari e medio-bassi). In quest’ottica si dovrebbero cercare collegamenti con altre forze politiche europee, anch’esse interessate ad un rifondazione dell’Europa che non implichi la dissoluzione della identità nazionale nel “mercato globale”, ossia evitando gli eccessi del nazionalismo e di qualsiasi forma di narcisismo identitario, e promuovendo invece sia la nascita di un “polo geopolitico e geoeconomico mediterraneo” distinto da (non opposto a) un “polo baltico” sia una alternativa alle dissennate politiche liberiste. Certo oggi la politica italiana non offre nulla di questo genere, ma una volta che si sia compresa la necessità di difendere le ragioni del cosiddetto “sovranismo” (che pure Jacques Sapir difende) non dovrebbe essere particolarmente arduo poter valutare e giudicare la situazione politica italiana ed europea sulla base di una coerente e “corretta” visione geopolitica, senza lasciarsi fuorviare da “ottusi” schemi concettuali economicistici.


Fabio Falchi  è redattore di “Eurasia” Rivista di studi geopolitici


08 ottobre 2013

Lo storico Nico Perrone: “Salvare la Repubblica ritrovando la sovranità”







vittorianoEnrico Mattei ricompose – nell’Eni e nella sua galassia, incluso il quotidiano Il Giorno- la frattura del 1943. Fu anche merito suo se la patria, che non stava più tanto bene, sopravvisse fino al 1958, quando le urne dissero che la Dc avrebbe potuto governare solo con maggioranze a sinistra. Infatti era la Dc – non i suoi governi, tanto meno i suoi fatiscenti alleati del centro-destra – a dare il tono alla nazione, per la quale fu fatale la coalizione col Psi, con la conseguente reinvenzione della Resistenza come guerra civile, non come guerra patriottica di liberazione. L’alito letale di quell’operazione tardo-ciellenistica si diffuse con i telegiornali subito dopo il centenario (1961) dell’unità nazionale. Un anno dopo Mattei era morto: la crisi di Cuba, con incombente guerra nucleare, aveva infatti spinto certi Paesi a far pulizia in casa. Dagli spiriti liberi.
Restavano vivi i lacché, ma anche il ricordo dell’“ultimo fascista”, come definisce Mattei un eminente storico della I repubblica. E poi Mattei aveva lasciato allievi, che avevano lavorato con lui all’Eni, dove reduci di Rsi e Resistenza collaboravano come se il 1943 fosse – anche alla Farnesina lo si giudicava così – un incidente di percorso per una grande potenza, quale l’Italia si considerava ancora [quel che per la Francia era il 1940].
nico perroneNico Perrone era uno di loro. Finita quell’esperienza (senza Mattei, presto l’Eni non fu più la stessa cosa), Perrone divenne lo storico di quell’epoca non ancora di benessere, ma ancora certo di dignità, ciò che manca oggi ben più del denaro. Scrisse vite di Mattei in più riprese, per più editori, per più quotidiani, specie Il manifesto. Ogni volta con particolari in più, ogni volta con la stessa determinazione. Divenne docente di Storia dell’America all’Università di Bari. Ancor oggi lui, classe 1935, pubblica uno-due libri l’anno: l’ultimo è Progetto di un impero. 1823:perrone2l’annuncio dell’egemonia americana infiamma la Borsa (La città del sole, pp. 218, euro 20, ma su http://www.amazon.it/Progetto-Lannuncio-dellegemonia-americana-infiamma/dp/888292310X ). E’ la storia della “dottrina Monroe”, o l’America agli americani (degli Stati Uniti, ovviamente) e andrebbe letto insieme a Obama. Il peso delle promesse(edizionisettecolori@gmail.com): definiscono, insieme, le fondamenta teoriche del nostro presente e le sue conseguenze attuali. E ormai non si sa se sia bene superarle, perché ogni nuova egemonia è peggiore della precedente.obama

Signor Perrone, nel 2011 furono 150 anni di Unità; nel 2012 furono 50 anni dalla fine di Mattei; nel 2013 sono 70 anni dalla resa… L’Italia nacque per interessi francesi, s’allargò per interessi inglesi e tedeschi, resse all’irruzione nel Mediterraneo degli Usa, che ora declinano. La Germania li rimpiazza. E noi?
“Concordo in parte che le potenze straniere influirono sulla nascita dell’Italia unita. Ma l’ampliamento del disegno di conquista, fino a comprendere tutti i territori del Regno delle Due Sicilie, avvenne – sorprendendo lo stesso Camillo Benso di Cavour – a opera di Liborio Romano, ministro di polizia dei Borbone”.
Perché nessuno lo dice, tranne lei che gli ha dedicato un libro importante?
“I piemontesi non lo riconobbero – dal diario di Giuseppe Massari, fac totum di Cavour, furono strappate le pagine chiarificatrici di quel passaggio – e non si vuole ancora dirlo. Ma il territorio delle Due Sicilie, enorme, fece lievitare all’improvviso l’intero progetto oltre ogni ipotesi”.
Restiamo a un passato meno remoto.
“Cioè agli ultimi 70 anni, quelli con l’Italia sotto influenza?”.
Sì.
“Quest’epilogo è derivato da una guerra sciagurata e perduta. Col Paese in tali condizioni di dipendenza, le investiture al vertice della politica ne hanno risentito. Una situazione che ancor pesa: lo indicano certe consonanze della presidenza della Repubblica coi ‘consigli’ provenienti da quelle parti. E perfino dalla Germania…”.
… Uscita peggio dell’Italia dalla guerra e che ha rimpiazzato la Gran Bretagna come junior partner degli Usa, verso i quali la nostra sudditanza fu, fino al 1991, arginata da Vaticano e Urss. Come ora lo è da Vaticano e… Russia.
“I ruoli da ascari neo-coloniali, dal 1982 in poi, non ce li hanno imposti: li hanno decisi i politici italiani, con la benedizione dei vari presidenti della Repubblica, che hanno consentito (talora sollecitato) interventi armati che violavano la Costituzione”.
Tasto dolente.
“Il reale ruolo che la Costituzione assegna al presidente della Repubblica andrebbe discusso di fronte al suo superare i limiti costituzionali”.
L’Italia è ora una repubblica ereditaria. Napolitano succede a se stesso, Enrico Letta succede allo zio Gianni come factotum governativo, Marina Berlusconi succederà al padre a capo di un partito determinante. Invece il papato non è più a vita, come del resto le monarchie nordiche, spesso protestanti…
“L’Italia non è divenuta una repubblica ereditaria per il rinnovo del mandato – legittimo e voluto dai partiti – di un presidente. Ma è una repubblica ora politicamente assai povera, incapace di trovare un’altra soluzione al momento del rinnovo di quel presidente: così il suo campo d’azione s’è ampliato oltre i limiti costituzionali. Il caso dei Letta ha invece aspetti ridicoli e ha mostrato l’inconsistenza del nipote, che ha governato su delega di Berlusconi”.
Vanno in tv solo avatar nostrani di repubblicani o democratici degli Usa, e gruppi nati col loro avallo. Morale: prima si poteva dir tutto, perché non serviva a nulla; ora non si può dire nulla, mentre parlare servirebbe.
“Al di là delle grandi aggregazioni, per le altre espressioni politiche ci sono in effetti solo spazi di tolleranza. Attenti però ai grillini, che non si contentano di tolleranza”.
Pseudonimo di Germania & C., l’Ue dovrebbe, per l’attuale capo dello Stato, limare le unghie alla Nato. Ma – s’è visto contro la Serbia – solo per affiancarla come secondario strumento egemonico.
“Dobbiamo badare alla caratteristica fondamentale dell’Ue: l’ anti-democrazia. Proprio così! I controllori generali che essa mette sulla testa degli Stati nazionali non li ha votati nessuno. Questo è il pericolo vero. E non se ne parla quasi mai”.
Impassibili, le Camere approvano ogni direttiva dell’Ue. Con questa passività l’Italia ha smarrito la sovranità, cara a pochi, e il benessere, caro a tutti.

“E qui torniamo al punto di prima: ci hanno tolto la democrazia. La sovranità italiana è perduta: se davvero essa interessa a pochi, la prego di considerarmi fra questi pochi”.
di Maurizio Cabona

07 ottobre 2013

L’altro miracolo italiano



  

Generalmente quando si sente parlare del Miracolo Italiano ci si riferisce ad un periodo storico tra gli anni Cinquanta e Sessanta in cui l'Italia si caratterizzò da una forte crescita economica affiancata da uno straordinario sviluppo tecnologico di profondo rilievo. In sé questa definizione da sussidiario delle scuole elementari di un tempo non aiuta più di tanto a mettere a fuoco il tutto: oggi ad esempio se usassimo gli stessi elementi di definizione potremmo contare almeno una dozzina di miracoli sul fronte economico da parte di altri paesi. Ciò che ha contraddistinto l'eccezionalità del risultato e della performance è infatti il contesto storico in cui tutto questo si è manifestato. Ricordiamo un paese sconfitto e dilaniato dal Secondo Conflitto Mondiale, ancora occupato da eserciti stranieri con  povertà e miseria che in qualche modo erano state mitigate con il programma di aiuto statunitensi, il noto Piano Marshall. Un paese ancora poco industrializzato e tecnologicamente arretrato con una ingente parte della popolazione  ancora a vocazione agricola. Ciò nonostante un insieme di circostanze aiutarono il nostro paese a realizzare quello che tutto il mondo ha prima ammirato e dopo battezzato il Miracolo Italiano. 

Per primo, la genetica italiana degli imprenditori italiani, unica al mondo per spirito di sacrificio e vocazione al rischio imprenditoriale: proprio in quel periodo vengono poste le basi per la nascita e lo sviluppo di grandi attività industriali. In secondo luogo abbiamo l'entrata dell'Italia nella Comunità Economica Europea che consente la rimozione dei vincoli protezionistici in numerosi settori produttivi: l'ingresso nel Mercato Comune genera una significativa spinta alle esportazioni italiani le quali diventano il volano principe di tutta l'economia nazionale. Infine la condizione più unica che rara dell'allora mercato del lavoro italiano costituito per la maggiore da disoccupati, braccianti e manovali dal basso costo di lavoro che rendevano pertanto molto competitiva e redditizia l'attività industriale: considerate che allora i sindacati non avevano un ruolo di ingerenza determinante e controproducente come avviene invece oggi. L'aumento della ricchezza delle famiglie generò un meccanismo virtuoso di ulteriore spinta economica indotta anche dai consumi interni (elettrodomestici, automobili, nuovo arredamento, nuove abitazioni e cosi via). 

Tutti in qualche modo hanno conosciuto il Miracolo Italiano, o sui libri di scuola o ne hanno visto le dimensioni all'interno di qualche videodocumentario storico, persino la stampa ed i media internazionali hanno riferimenti storici e socioeconomici sul Miracolo Italiano. In vero alcune testate giornalistiche sono anche profonde conoscitrici ed ammiratrici dell'Altro Miracolo Italiano, quel secondo miracolo per cui analizzando l'economia italiana non si capisce come mai quest'ultima non sia ancora fallita. Ci pensano e ci riflettono di continuo: qualsiasi altro paese al mondo sarebbe già fallito da anni e anni, ma l'Italia invece no, resiste ancora. Ecco l'Altro Miracolo Italiano. Solo grazie ad un miracolo è possibile spiegare come questa nazione non sia ancora fallita avendo avuto più di sessanta governi in oltre cinquant'anni, un paese in cui l'economia nazionale deve assecondare ed accettare la convivenza quotidiana con sei differenti mafie, un paese in cui i sindacati sono più potenti del governo, un paese in cui la giustizia non garantisce e tutela i creditori e gli investitori, un paese in cui vi sono ormai più di 4.5 milioni di immi-non-grati, un paese in cui gli imprenditori sono continuamente vessati dalla Pubblica Amministrazione. 

L'Altro Miracolo Italiano: come fa a non essere ancora fallito un paese con un sistema scolastico basato su ordinamenti ed insegnamenti medioevali in cui la maggior parte del corpo docente ha una preparazione ed impostazione da rivoluzionario sessantottino, un paese in cui la governance degli istituti bancari è detenuta da bancosauri e dalle fondazioni bancarie, un paese in cui nel panorama politico esistono ancora partiti che hanno come ideale politico il comunismo, un paese che  continua a dedicare attenzione a dismisura ad un decadente Silvio Berlusconi, un paese in cui la maggior parte degli anziani se ne strafegano del futuro di figli e nipoti tanto basta che ci sia la loro pensione e le cure gratis in ospedale, un paese che abroga il Ministero del Turismo avendo le potenzialità che tutto il mondo gli invidia, un paese che anno dopo anno sta subendo una lenta opera di penetrazione da parte dei suoi principali concorrenti ed infine un paese che si permette il lusso negli ultimi dodici mesi di dedicare tempo e riflessione politica per la stesura di leggi sull'omofobia ed il femminicidio al posto di redigere una nuova legge elettorale o un nuovo programma di defiscalizzazione per gli utili delle imprese.

di Eugenio Benetazzo

01 ottobre 2013

La Fed stampa dollari. I Brics comprano oro




Se bastasse creare dal nulla liquidità per rilanciare l’economia e uscire dalla crisi, saremmo da tempo nel paese di bengodi, soprattutto negli Usa. Ma così non è. 
Pertanto la recente decisione assunta della Federal Reserve di continuare ad immettere nel sistema nuova liquidità rivela semplicemente che essa non è più in grado di staccare la spina dell’alimentatore di risorse ad un sistema sempre più “drogato”. Certo le borse hanno risposto in modo vivace con l’aumento dei listini, ma non è detto che ciò sia un reale segnale positivo.
Infatti la stessa Fed, dopo il meeting del suo Open  Market Committee, ha dovuto ammettere che “se dovesse continuare l’irrigidimento delle condizioni finanziarie (con l’aumento dei tassi di interesse), osservato nei mesi recenti, il processo di miglioramento dell’economia e del mercato del lavoro potrebbe rallentare.”
L’inevitabile conseguenza di tale “filosofia”è che negli Usa si proseguirà con la “politica monetaria accomodante”, immettendo 85 miliardi di dollari al mese per comprare nuovi titoli del Tesoro e derivati asset-backed-security. 
Anche il governatore Bernanke, il cui mandato sta per scadere, ha ribadito che i “quantitative easing” continueranno fino a che negli Usa il tasso di disoccupazione non scenderà sotto il 6,5%. E questo si spera avvenga entro la fine del 2014, nel frattempo avremmo però circa 1.500 miliardi di nuovi dollari sui mercati internazionali.
Anche il bollettino trimestrale della Banca dei Regolamenti Internazionali di settembre solleva forti dubbi sugli “effetti benefici” dei “quantitative easing” e dettaglia invece le sue riverberazioni nefaste in particolare nelle economie emergenti. 
La BRI ricorda che quando lo scorso maggio la Fed ventilò appena l’ipotesi di un cambiamento di politica monetaria, gli interessi obbligazionari ebbero un’impennata con effetti negativi in molti settori finanziari e in varie parti del mondo. Vi fu una “corsa alla svendita” di titoli con una conseguente caduta dei prezzi. Il ritiro di capitali dai mercati emergenti provocò, come noto, una forte svalutazione di alcune loro monete. 
L’analisi della Bri sottolinea che, anche dopo le assicurazioni date dalla Fed, dalla Bce e dalla Bank of England lo scorso luglio, l’aumento dei tassi di interesse di lungo periodo è continuato in quanto i mercati si attendevano una stretta nelle condizioni finanziarie a livello mondiale.
La situazione è estremamente volatile. Nonostante questo aumento già di per sé destabilizzante, gli interessi a lungo termine restano comunque bassi e spingono la finanza a cercare prodotti e operazioni ad alto rischio. Di conseguenza è cresciuta l’immissione di bond e di prestiti nei settori finanziari più esposti e rischiosi. Proprio come accadde subito prima dell’esplosione della crisi finanziaria globale. Ad esempio, la percentuale dei “leveraged loans”, crediti molto simili ai subprime, e cioè quelli concessi a creditori già altamente indebitati e di dubbia affidabilità, ha già raggiunto il 45% del mercato dei “finanziamenti in pool” (quelli elargiti da un gruppo di banche). Si noti che tale percentuale è superiore del 10% rispetto ai precedenti massimi registrati prima del crac della Lehman. 
In contro tendenza, in verità bisogna osservare che le politiche monetarie dei Paesi del Brics e di altri importanti Paesi emergenti mirano ad aumentare le proprie riserve auree.
Si stima che nel 2013 la sola Cina dovrebbe comprare almeno 1.000 tonnellate di oro. Cina, Russia e India assieme potrebbero quindi acquistare circa il 70% di tutto l’oro prodotto nel 2013. Si rammenti che già nel 2012 la Russia ha aumentato le sue riserve aure dell’8,5% portandole ad un totale di circa 1.000 tonnellate. 
Non si tratta di una strana infatuazione per il metallo prezioso, ma di una coerente strategia monetaria e geo-economica. La maggioranza dei Paesi del mondo sa che il dollaro diventa ogni giorno più debole e instabile proprio per la continua creazione di nuovi biglietti verdi.
Siamo alla resa dei conti? Si arriverà in tempi brevi al famoso paniere di monete e di oro proposto dai Brics in sostituzione del dollaro? E l’Europa cos’ha da dire? 


di Mario Lettieri e Paolo Raimondi 

30 settembre 2013

Le armi chimiche segrete di Israele







Gli ispettori Onu, che controllano le armi chimiche della Siria, avrebbero molto più da fare se fossero inviati a controllare le armi nucleari, biologiche e chimiche (NBC) di Israele. Secondo le regole del «diritto internazionale», non possono però farlo. Israele non ha firmato il Trattato di non-proliferazione nucleare, né la Convenzione che vieta le armi biologiche, e ha firmato ma non ratificato quella che vieta le armi chimiche. Secondo «Jane's Defense Weekly», Israele - l'unica potenza nucleare in Medio Oriente - possiede da 100 a 300 testate e relativi vettori (missili balistici e da crociera e cacciabombardieri). Secondo stime Sipri, Israele ha prodotto 690-950 kg di plutonio, e continua a produrne tanto da fabbricare ogni anno 10-15 bombe tipo quella di Nagasaki. Produce anche trizio, gas radioattivo con cui si fabbricano testate neutroniche, che provocano minore contaminazione radioattiva ma più alta letalità. Secondo diversi rapporti internazionali, citati anche dal giornale israeliano «Haaretz», armi biologiche e chimiche vengono sviluppate all'Istituto per la ricerca biologica, situato a Ness-Ziona presso Tel Aviv. Ufficialmente fanno parte dello staff 160 scienziati e 170 tecnici, che da cinque decenni compiono ricerche di biologia, chimica, biochimica, biotecnologia, farmacologia, fisica e altre discipline scientifiche . L'Istituto, insieme al Centro nucleare di Dimona, è «una delle istituzioni più segrete di Israele» sotto la giurisdizione del primo ministro. La massima segretezza copre la ricerca sulle armi biologiche: batteri e virus che, disseminati nel paese nemico, possono scatenare epidemie. Tra questi il batterio della peste bubbonica (la «morte nera» del Medioevo) e il virus Ebola, contagioso e letale, per il quale non è disponibile alcuna terapia. Con la biotecnologia si possono produrre nuovi tipi di agenti patogeni verso i quali la popolazione bersaglio non è in grado di resistere, non disponendo del vaccino specifico. Vi sono anche seri indizi su ricerche per lo sviluppo di armi biologiche in grado di annientare nell'uomo il sistema immunitario. Ufficialmente l'Istituto israeliano compie ricerche su vaccini contro batteri e virus, come quelle sull'antrace finanziate dal Pentagono, ma è evidente che esse permettono di sviluppare nuovi agenti patogeni per uso bellico. Lo stesso espediente viene usato negli Stati uniti e in altri paesi per aggirare le Convenzioni che vietano le armi biologiche e chimiche. In Israele il manto di segretezza è stato in parte squarciato dall'inchiesta compiuta, con l'aiuto di scienziati, dal giornalista olandese Karel Knip. È emerso inoltre che sostanze tossiche sviluppate dall'Istituto sono state usate dal Mossad per assassinare dirigenti palestinesi. Testimonianze mediche indicano che, a Gaza e in Libano, le forze israeliane hanno usato armi di nuova concezione: lasciano intatto il corpo all'esterno ma, penetrandovi, devitalizzano i tessuti, carbonizzano il fegato e le ossa, coagulano il sangue. Ciò è possibile con la nanotecnologia, la scienza che progetta strutture microscopiche costruendole atomo per atomo. Allo sviluppo di tali armi contribuisce anche l'Italia, legata a Israele da un accordo di cooperazione militare e suo primo partner europeo nella ricerca & sviluppo. Nella finanziaria è previsto uno stanziamento annuo di 3 milioni di euro per progetti di ricerca congiunti italo-israeliani. Come quello, contenuto nell'ultimo bando della Farnesina, su «nuovi approcci per combattere gli agenti patogeni trattamento-resistenti». Così l'Istituto israeliano per la ricerca biologica potrà rendere gli agenti patogeni ancora più resistenti. 
di Manlio Dinucci 

29 settembre 2013

La verità sull'Euro






Euro si o euro no? Anche in Italia, dopo anni di passività e di fede cieca nelle virtù taumaturgiche della moneta unica, si è aperto il dibattito sull’euro. Ma la diatriba ha preso presto una brutta piega, tanto che sarebbe meglio chiuderla seduta stante, per non sprecare altro tempo prezioso inseguendo fantasmi verdi come bigliettoni.
Da un lato, il partito degli euro-faziosi sostiene che se l’Italia non avesse abbondonato la liretta per la valuta comune adesso avremmo un sistema allo sfascio, con i conti perennemente in rosso, senza competitività, in preda alla recessione e corroso dall’inflazione. In sostanza, è proprio quello che sta accadendo attualmente con l’euro imperante, anche se fingono di non vedere.
I “negazionisti”, invece, ritengono che laddove abbandonassimo la banconota forte e riadottassimo la divisa debole saremmo in grado di agire efficacemente sulla politica economica, stampando moneta quando occorre e svalutando quando serve, per non scaricare sull’economia reale gli imprevisti di quella di carta, ottenendo margini più ampi di correzione che adesso ci sono preclusi dai parametri di Maastricht. Così dichiarano ma non c’è la controprova. Soprattutto, manca una classe dirigente coraggiosa capace di prendere decisioni ardite. Lasciare l’euro per affidare i destini di una possibile transizione ad altro scenario agli stessi che ci sgovernano adesso non è garanzia di alcun mutamento. Ugualmente, nessun riscontro ci è dato circa gli scenari apocalittici disegnati dagli euro-convinti, i quali cercano di dissuadere la pubblica opinione dallo sposare simili idee antieuropeiste, paventando fame e miseria.
Probabilmente, hanno ragione entrambi, o, meglio, hanno tutti torto alla stessa maniera, perché il fulcro del problema, da loro nemmeno sfiorato, se ne sta ben coperto, sotto una coltre di fumo ideologico, in tutt’altro luogo analitico, ad un livello differente della realtà sociale che pertiene alla sfera politica e non a quella economica (se non liminarmente). Di fatti, alla base di qualsiasi decisione finanziaria c’è, o almeno dovrebbe esserci, una valutazione precisa da parte di tutta la classe dirigente, circa i pro e i contro che operazioni di questo tipo potrebbero generare, tenendo conto delle traiettorie geopolitiche mondiali e regionali e dei rapporti di forza internazionali. Senza una visione più complessiva dei fenomeni sociali e storici si finisce nella rete della “legisimilità” indiscutibile dei mercati la quale, dietro la  sua apparente neutralità, cela articolati piani politici, elaborati e studiati dagli Stati più attrezzati alle sfide dei tempi.
La verità è che quando il nostro Paese è entrato nell’euro ha scelto di non scegliere e di farsi trascinare dagli eventi che in quel momento erano favorevoli alla “corrente unionista”, supportata da una utopia falsamente globalista che sarebbe stata successivamente smentita dai fatti. Anzi, i fautori nostrani dell’ingresso dell’Italia nell’euro, i vari Amato, Ciampi, Prodi, erano superburocrati collegati ai centri finanziari sovranazionali (ma con base fissa oltreoceano) i quali, pur di legare lo Stivale alle consorterie che spingevano le loro carriere, accettarono un cambio estremamente svantaggioso per la nostra nazione. Quindi, l’errore fu fatto a monte e, forse, se si fosse contrattato adeguatamente il prezzo della nostra adesione alla moneta comune, non avremmo mai subito uno scossone così devastante per il sistema-paese. Dico forse perché anche questa ipotetica capacità concertativa non sarebbe stata bastevole senza una adeguata progettualità politica portata avanti da una élite direttiva gelosa della sua sovranità politica e del funzionamento non eterodiretto dell’intera macchina statale. E’ accaduto il contrario di quel che era saggio fare ed abbiamo ceduto potere a Bruxelles senza contropartite proporzionate.
Gli euro-partigiani, quantunque il fallimento delle loro idee sia palese, continuano a premere sull’acceleratore europeo senza alcun ravvedimento. Ancora ieri, in una trasmissione televisiva su LA7, Piazza Pulita, trattando della questione, veniva ripetuta la solita tiritera sull’euro che ci avrebbe salvati da danni ancor maggiori. Presente in studio un mio concittadino che si chiama come me, imprenditore nel settore dei velivoli ultraleggeri, il quale s’improvvisava storico ed economista, commettendo un grave e comune strafalcione. Costui asseriva che fuori dall’euro avremmo patito la medesima sorte della Repubblica di Weimar, costretti a trasportare il denaro con il carrello della spesa per comprare beni di prima necessità.  Al mio omonimo vorrei rammentare che semmai è vero il contrario, cioè che la Germania weimariana si ritrovò in quelle condizioni catastrofiche proprio a causa di vincoli vessatori esterni, tra esorbitanti riparazioni di guerra, imposizione di tagli alla spesa pubblica per la sostenibilità del bilancio e la solvibilità dei debiti contratti, nonché per le  scorrerie della finanza internazionale che speculava e si ingrassava a spese dei tedeschi. Vi ricorda qualcosa? La decadenza si arrestò con la nomina di Hitler a Cancelliere. Hitler compì il miracolo, impensabile solo qualche mese prima, contravvenendo a quasi tutti gli obblighi imposti a Berlino dalle Potenze vincitrici della I guerra mondiale e ripristinando la struttura politica-militare del Reich (rimando, per una miglior comprensione di queste circostanze, ad un ottimo articolo di Sylos Labini). Il rilancio dell’economia nazista seguì questi atti d’imperio politico e non viceversa.
Ribadire, pertanto, anche al cospetto delle innumerevoli smentite portate dai fatti e dalla storia, siffatte bizzarre teoresi che si fondano sull’incoscienza, o, peggio, sulla menzogna, ovverosia che l’Italia ha bisogno di vincoli esterni per rimettersi in marcia, vuol dire consegnarsi mani e piedi a chi ci vuole ancor più sfiancati e dipendenti, al fine di derubarci anche di quel poco che ci resta di buono.
Le terapie d’urto hanno un senso quando sono brevi e mirate, se si protraggono a lungo possono sortire l’effetto opposto. Come per il nostro Paese che ormai stordito non ha quasi più la capacità di rialzarsi. Gli euro-settari si mettano l’anima in pace e non persistano in questo assurdo malinteso che ci condurrà alla completa rovina. Forse, al Belpaese serviva effettivamente un elettrochoc per recuperare lucidità ma gli elettrodi sono stati applicati sul posto sbagliato da persone senza nessuna competenza. Questi andavano messi sulla testa e non sui coglioni, perciò il trattamento da curativo è diventato semplicemente una tortura menomante.
C’è però da dire che le banalità si sprecano anche sull’altro versante,quello degli euro-contrari. Sempre su La7, nel programma del pur bravoGianluigi Paragone, una specie di filosofo, uno dei nouveaux “filosofessophes” di questa fase senza speranza, ha dichiarato che il nuovo nazismo è l’egemonia della moneta e che i teologi della globalizzazione sono i nazisti del nostro tempo. Bella stupidaggine e le motivazioni che dovrebbero allontanare da noi simili sciocchezze  sono le medesime del discorso fatto sopra, ben chiarite anche nell’articolo di Sylos Labini. Il nazismo non c’entra proprio niente con quello che sta accadendo oggi, anzi questo fu proprio una reazione verso umiliazioni geopolitiche intollerabili, condotte con strumenti differenziati, compresi quelli finanziari. Un presunto intellettuale che usa le parole così a cazzo di cane per ottenere un’eco mediatica non è un pensatore ma, appunto, un cazzone.
Sono convinto che la rilevanza data dal circuito mainstream alla controversia pro e contro l’euro è qualificabile come un tentativo di saturare surrettiziamente la scena pubblica con dispute di secondo e terzo grado, apposta per togliere spazio al tema dirimente, quello della sovranità politica vietata all’Italia da una sordida sottomissione alle grandi capitali atlantiche ed europee, dalla quale discendono a cascata tutti i nostri casini. Sicuramente, non saranno i filosofi che frequentano l’accademia, né gli economisti che se la intendono col Financial Times (leggi qui), a tirarci fuori dai guai, perché il guaio è che il loro naso è il punto più lontano dove riescono a guardare.

I difetti dell’euro – che sono un effetto di ciò che ci sta capitando ma non la causa primigenia delle nostre sventure – sono i difetti della nostra mancanza di sovranità. Senza recupero d’indipendenza e di autonomia nazionale, attraverso nuove alleanze geopolitiche che ci sottraggano all’influenza atlantica  e ci spalanchino il subrecinto europeo, non avremo nessuna via di scampo. Se le cose stanno in questi termini, come credo, dobbiamo prendercela con noi stessi e con chi ci sgoverna, non con la Germania che fa il suo sporco lavoro e non fa le nostre stesse sporche figure  in campo mondiale, dove riusciamo sempre a rinnegare i nostri interessi ed a tradire i patti con i partner. Nessuna critica alla nazione tedesca sarà mai accettabile se chi lamenta le chiusure e le rigidità teutoniche non avrà prima detto, chiaro e tondo, qual è l’Amministrazione (per antonomasia) che ci sta tenendo, da lustri, sotto il suo tallone di ferro politico e militare (servendosi anche dei nostri vicini e degli organi burocratici dell’UE da essa controllati) e chi sono i suoi complici interni. Nessuna disapprovazione della speculazione finanziaria avrà per noi valore scientifico e veritativo se questa verrà fondata su presupposti moralistici e umanitaristici (vedi le campagne contro i banchieri deviati, per il  recupero dell’onestà negli affari), o astratti  e metafisici (vedi le crociate contro il globalismo disantropomorfizzante, il capitalismo assoluto ed altre baggianate del tipo), anzichè sulla denuncia dei reali manovratori, governi organizzati in apparati e uomini  in carne ed ossa, che si muovono alle sue spalle. Speriamo con ciò, finalmente, di esserci capiti. Le querelles che ho descritto sono tutte interne allo stato di cose presente, non c’è nulla di meglio al mondo di una finta opposizione per puntellare un sistema. Pro-euristi e anti-euristi sono due facce della stessa medaglia.
di Gianni Petrosillo 

24 settembre 2013

L’Europa e la politica ancella della finanza



Alain_De_BenoistAdesso ci sono arrivati in tanti alla «decrescita» e allo scetticismo nei confronti della religione europeista che impazzava negli Anni 90 e all’ inizio del Duemila. Ma si tratta di idee e atteggiamenti che Alain De Benoist aveva teorizzato e coltivato già negli ultimi 40 anni. Critico (con argomenti precisi) nei confronti dell’Europa, diffidente (in maniera articolata) verso il dio mercantilista, il politologo francese fondatore della Nouvelle Droite era stato per anni relegato, in maniera liquidatoria, nella casella dei pensatori di estrema destra.
Ora che la contrapposizione ideologica destra-sinistra che ha segnato il ’900 non sembra più in grado di orientare le visioni politiche in maniera ferma e forte, e soprattutto ora che che la crisi economica sembra inverare timori e tremori per un tramonto d’Occidente, le riflessioni che De Benoist aveva disseminato riemergono come una trama nascosta, dietro le considerazioni di tanti, sempre più accreditati, maestri di pensiero.

 Friedrich Nietzsche scrisse “L’Europa si farà sull’orlo di una tomba”. Scusi l’inizio “a lutto”, ma le sembra che, su quest’orlo finalmente ci siamo arrivati?
Non ci siamo molto lontani. Alla crisi economica e sociale (tutti gli indicatori sono in rosso) si aggiungono ormai una crisi morale e un’evidente allontanamento del popolo nei confronti della classe politica. Tutti i sondaggi di cui disponiamo confermano delle tendenze “pesanti”, che rivelano una sfiducia generalizzata che va ben al di là delle istituzioni. Ora, la fiducia sociale è il fondamento della coesione sociale. Lo sprofondare della fiducia va di pari passo con l’aumento dell’amarezza e della delusione, della frustrazione e del rancore, cose che possono generare un’ondata di collera.Ciò non vuol dire che si va “a fare l’Europa” (non farò l’errore di confondere con l’Unione Europea), ma che un ciclo sta per terminare. 
Decrescita. Per lei, come per altri (vedi Serge Latouche) è un imperativo motivato dalla finitezza delle risorse. Ma, osservando la situazione europea, più che un modello etico sembra un dato di fatto. Forse si tratta solo di prendere atto che l’Europa non potrà più vivere un periodo di prosperità economica paragonabile a quello dei decenni passati? 
Nel 19 simo secolo si credeva ancora che le risorse naturali fossero gratuite e inesauribili. Adesso sappiamo che non lo sono. Prima di essere una teoria la decrescita è una constatazione: non ci può essere crescita materiale infinita in uno spazio finito. In altri termini, gli alberi non possono crescere fino al cielo. Questo fatto ci colpisce, perché noi abbiamo preso l’abitudine di considerare la crescita economico come qualcosa di naturale. In realtà questa idea è recente. Storicamente è legata all’ideologia del progresso, che, anch’essa, al giono d’oggi è in crisi. Ma la decrescita non significa l’arresto di ogni attività economica, il ritorno indietro, o la fine della storia. Bisogna soltanto abituarsi a moderare i nostri modi di vita. Cioè capire che “più” non è sempre sinonimo di “meglio”.L’austerità al giorno d’oggi messa in atto dai governi europei per soddisfare le esigenze delle banche e dei mercati finanziari si traduce in un abbassamento del potere d’acquisto e in un aumento della disoccupazione, cioè in risultati inversi a quello che si pensava.Provoca l’impoverimento delle classi medie e  di quelle popolari, ma non impedisce che i più ricchi si arricchiscano sempre più. Tutto questo, evidentemente, non ha nulla a che vedere con la decrescita.

L’idea di Europa che a un certo punto ci è stata presentata come ineludibile, in realtà storicamente e culturalmente non ha avuto una gran consistenza. Dalla battaglia di Teutoburgo in poi, tentativi imperiali compresi, l’Europa è stata quasi sempre divisa almeno in due aree culturali, quella mediterranea e quella “nordica” (tedesca e anglosassone). Cosa ne pensa? 
Ma si potrebbe anche parlare di un’Europa divisa in tre, che corrispondono ad antiche zone di influenza religiosa (cattolicesimo al Sud, protestantesimo al Nord, Ortodossia all’Est). Personalmente non ho mai pensato che queste “divisioni” fossero un ostacolo all’unificazione politica dell’Europa. Esse confermano solamente la grande diversità dei popoli e delle culture europee, diversità che deve essere preservata e non soppressa.Quello che è in realtà sorprendente è che l’UE merita ogni giorno un po’ meno il suo nome.L’introduzione dell’euro, che doveva fare convergere le economie europee in realtà ha aggravato le loro divergenze.L’attuale costruzione europea si è infatti effettuata fin dall’inizio contro il buon senso. Si è dapprima scommesso sul commercio e l’industria anziché sulla politica e la cultura. Dopo la caduta del sistema sovietico, anziché cercare di approfondire le sue strutture politiche l’EU ha scelto di allargarsi a paesi desiderosi soprattutto di entrare nella Nato, ciò che ha portato alla sua impotenza e alla sua paralisi. I popoli non sono mai stati realmente associati alla costruzione europea. Infine, le finalità di questa costruzione non sono mai state chiaramente definite. Si tratta di creare un’Eu-Mercato o un’Eu-Potenza? La domanda è questa. 
Il caso del Belgio, per 540 giorni senza governo, ma con buoni risultati economici, non le sembra un gigantesco, epocale, esperimento che dimostra, in maniera quasi beffarda e umoristica, l’irrilevanza della politica nel contesto contemporaneo? 
Il Belgio ha fatto a meno del Governo, ma l’assenza del Governo non ha prodotto la sparizione delle amministrazioni! Non dimentichi neanche che il Belgio è un piccolo paese, che non ha reali ambizioni internazionali. Quello che succede in tutti gli altri paesi d’Europa, toccati in pieno dalla crisi (Grecia, Portogallo, Italia, Spagna) mostra al contrario quello che succede quando la politica capitola davanti alle esigenze della finanza. La crisi attuale, da questo punto di vista, non dimostra l’insignificanza della polutica, ma al contrario la sua importanza essenziale. 
E’ uno dei fondatori della Nouvelle droite, e, conoscendola da lontano, qualcuno la ha associata a Le Pen. Ma pare che i punti di disaccordo tra lei e quest’ultimo siano diversi. Quali sono, in estrema sintesi? 
Le posizioni del Fronte Nazionale hanno subito molte variazioni nel corso della sua storia, cosa particolarmente evidente in ambito economico. Trent’anni fa il FN si definiva volentieri liberale e reaganiano. Al giorno d’oggi, dopo che Marine Le Pen è succeduta a suo padre, lo stesso movimento milita contro il libero scambio, reclama l’introduzione di un  certo protezionismo, e denuncia con vigore la deregulation economica, che ha dato libero corso alle esigenze dei mercati. Personalmente io sono d’accordo con con questa opinione, che spiega, d’altronde, come una grande parte dell’elettorato frontista provenga, ormai, dalla classe operaia. Resto invece in disaccordo con il “giacobinismo” repubblicano del Fronte Nazionale, con la sua ostilità di principio verso il regionalismo e le “comunità” e col suo laicismo islamofobo. 
La perdita di significato delle categorie novecentesche di destra e sinistra è un fatto evidente. Ma, almeno in Italia, si continua a ragionare secondo quei parametri. 
In Italia come in Francia le parole destra e sinistra continuano a essere impiegate in riferimento al gioco politico parlamentare. Ma nello stesso tempo la gente vede bene che i governi di “destra” e “di sinistra” fanno più o meno la stessa politica. E’ il sistema dell’”alternanza unica” (Jean-Claude Michéa) cioè dell’alternanza senza alternativa. La verità è che la destra e la sinistra sono oggi arrivate a una crisi di identità profonda, tantopiù che i grandi avvenimenti creano delle fratture inedite che attraversano la famiglie politiche tradizionali. Penso che le contrapposizioni destra-sinistra non siano più adeguate per analizzare i problemi attuali, che siano divenute obsolete.Una nuovo contrasto, molto più reale, è quello che ormai oppone le classi popolari (di destra e di sinistra) a una “nuova classe” mondializzata oggi totalmente distaccata dal popolo.Sul piano intellettuale è ancora più evidente. La distinzione destra-sinistra non permette assolutamente più di definire degli autori come: Régis Debray, Jean Baudrillard, Serge Latouche, Emmanuel Todd, etc., in Francia, o come Massimo Cacciari, Danilo Zolo, Marco Tarchi o Costanzo Preve in Italia.

E’ un sostenitore di un modello politico federalista, ma non nazionale. Piuttosto “imperiale”. In che senso? 
L’Europa ha conosciuto, nel corso della sua storia, due grandi modelli politici: quello dello stato-nazione, di cui la Francia è l’esempio più tipico, e quello dell’Impero, che è stato prevalentemente quello della Germania e dell’Italia (impero Romano, Sacro romano impero, impero autro ungarico). Il modello stato nazionale è caratterizzato dal centralismo e dal “giacobinismo”, mentre il modello imperiale poggia sul rispetto dei diversi componenti, che possono eventualmente beneficiare di una certa autonomia. Il federalismo mi sembrerebbe il sistema politico che ha maggiormente recepito le caratteristiche del modello imperiale, nella misura in cui oppone il principio di una sovranità condivisa al principio della sovranità una e indivisibile, teorizzata da Jean Bodin, e anche nella misura in cui si fonda sul principio di competenza sufficiente, detto anche principio di sussidiarietà. L’UE, che certi qualificano talvolta come “federale”, da questo punto di vista è perfettamente giacobina, perché è diretta dall’altro verso il basso, da una commissione di Bruxelles che si ritiene onnicompetente. Una vera Europa federale dovrebbe funzionare dalla base verso l’alto, nel rispetto dell’autonomia delle nazioni e delle regioni. 
La tutela delle “piccole patrie” locali come potrebbe avvenire, nei fatti? 
I piccoli paesi potrebbero federarsi tra di loro, mentre i grandi potrebbero federalizzarsi. Un posto tutto particolare dovrebbe anche essere attribuito alle regioni di frontiera. Che sono “vocate” a trasformarsi in euroregioni. Ma come precedente tutto questo suppone un’azione di base che privilegi il localismo e la vita comunitaria locala al fine di favorire la democrazia partecipativa (dem di base, diretta) di rimediare allo scollamento sociale e di creare una nuova forma di vita pubblica, cioè di cittadinanza. 
Lei ha parlato di una “rivoluzione interiore”, come rimedio al capitalismo finanziario e deterritorializzato. Ma come è possibile questa prospettiva se manca un forte indirizzo culturale/ ideale? Oggi viviamo nella cosiddetta “società liquida”. 
In effetti viviamo in una “società liquida” (Baumann) cioè una società dove tutto ciò che un tempo era stabile e durevole tende a essere sostituito dall’instabile e dall’effimero. Simao ormai entrati nel mondo dei flussi e dei riflusso. Questa evoluzione va di pari passo con un “presentismo” che tende a svuotare le dimensioni storiche dell’avvenire e del passato, impedendo nel medesimo tempo di mettere in prospettiva il presente. Questa società liquida è anche per riprendere la formula di Cornelus Castoriadis, una “società delle acque basse”. Il tipo umano che vi predomina è quello dell’homo oeconomicus (individuo consumatore che cerca continuamente di massimizzare il suo miglior interesse materiale), associato a quello del narcisista immaturo. Da questo punto di vista una vera “riforma intellettuale e morale” esigerebbe già una “decolonizzazione” dell’immaginario simbolico, oggi quasi totalmente assoggettato all’immaginario del mercato. Per adesso le condizioni non sembrano in effetti concrete. Ma quello che si vede oggi non ci dice niente di ciò che succederà domani. La grande caratteristica della storia umana è di essere imprevedibile, la storia, per definizione è sempre aperta. 
Chiarisco la domanda: i modelli su cui si appoggiavano le società pre-capitalistiche avevano spesso una forte impronta metafisica e religiosa, che le indirizzava anche socialmente e politicamente. Com’è possibile ottenere una decrescita e una rivoluzione interiore nell’era del nichilismo e del postmoderno? 
A mio avviso è un errore opporre senza sfumature antiche società in cui l’influenza religiosa era forte a società moderne o postmoderne dove la religione è quasi scomparsa. Le cose sono più complicate di così. Il fenomeno della secolarizzazione, che ha segnato tutta la modernità, è da considerare esso stesso come una dialettica. Da un lato le chiese istituzionali hanno finito di dirigere i valori sociali e le istituzioni politiche; ma dall’altro le grandi tematiche religiose che erano formulate un tempo in maniera teologica sono state trasposte nella vita secolare sotto una forma profana. L’ideologia del progresso riprende la parte sua la concezione biblica di una storia lineare, ma orientata verso il meglio. La “felicità” si sostituisce alla salute, la “mano invisibile” sostituisce la Provvidenza. L’ideologia dei diritti dell’uomo ha acquistato la dignità di una religione civile.D’altra parte il bisogno che l’uomo ha di riferirsi a qualcosa di più alto di lui è secondo me una costante antropologica. Appartiene alla natura umana. Ciò non significa che solo le religioni tradizionali possano rispondere a quest’esigenza. Io penso soltanto che il sacro risorge in generale dove uno non se l’aspetta, e che l’uomo ha sempre bisogno di superare se stesso per dare un senso alla sua esistenza. Quanto al nichilismo contemporaneo mi sembra soprattutto il risultato di una scomparsa generale dei riferimenti che fa ritenere una qualsiasi opinione o un qualsiasi desiderio come dotato di ugual valore. Non dimentichiamo, infine, che per Heidegger il nichilismo non è altro che il compimento stesso della metafisica.

Tra l’altro lei non è né un nostalgico, né un tradizionalista. 
Il passato è sempre ricco di insegnamenti, ma  “Non faremo tornare gli antichi greci” diceva Nietszche. Io condivido quest’opinione: è per questo che ho sempre rifiutato il “restaurazionismo” che sostengono gli autori reazionari. Gli ambienti reazionari sono ambienti in cui il riferimento al passato serve da rifugio o da consolazione. Ma la nostalgia (“era meglio prima”!) non è un programma…A meno che non sia la nostalgia dell’avvenire. Penso d’altronde che il passato non può essere definito soltanto come qualche cosa che è successo “prima di noi”. Esso costituisce invece, piuttosto, una dimensione del presente. D’altronde se ci si riflette bene, è soltanto nel presente che il passato può essere percepito come passato. E’ questo che permette di capire e lezioni che possiamo trarre da questo passato. Heidegger per il quale i greci rappresentavano l’inizio della nostra storia, diceva che noi dovremmo essere “più greci dei greci”. Voleva dire con ciò che noi non dobbiamo cercare di rifare quello che hanno fatto i greci, ma ispirarci al loro esempio per mettere in atto un nuovo inizio. 
Con la questione Corea del Nord-Usa molta dell’informazione torna al tema dei cosiddetti “stati canaglia”. La sua opinione riguardo a questo caso specifico? 
C’è poco da dire sul regime nordcoreano, che mette insieme  la dittatura familiare, il dispotismo asiatico, e una forma caricaturale di stalinismo. Ma per qualificare la Corea del Nord piuttosto di “stato canaglia” sarei tentato di parlare di “stato surrealista”. La definizione di stato canaglia in realtà non vuol dire granché. E’ stata impiegata soprattutto dagli Stati Uniti per squalificare i paesi che contrariano la loro politica. Ora, quando si guarda da vicino quello che gli americani rimproverano agli stati canaglia, ci accorgiamo subito che gli stessi rimproveri potrebbero essere rivolti a loro stessi. 
Come giudica il movimento di Beppe Grillo? Sembrate avere in comune diversi temi, a prima vista: reddito minimo, attenzione al locale, decrescita…. 
Guardo il recente successo del movimento Cinque stelle come un sintomo rivelatore dello stato dell’opinione pubblica, e specialmente del discredito in cui è caduta la classe politica.  Il fossato che si è scavato tra la gente e i partiti di governo classici è ormai tale che le persone si volgono a torto o a ragione verso tutto quello che sembra loro non inquadrato e diverso. E’ per questo che il loro voto ha valore di sintomo. Quanto a quelli che si limitano ad agitare lo spettro del “populismo” è facile rispondere loro che le elité in carica non sono meno demagogiche dei populisti e soprattutto che sono le parti del sistema i primi responsabili della comparsa e dello sviluppo dei movimenti populisti. Se gli elettori si sentissero rappresentati da quelli che hanno eletto o incaricati a questo fine, non si rivolgerebbero ai populisti! Quello che Beppe Grillo  e i suoi amici potranno fare dal loro successo, evidentemente è un’altra faccenda.
 Ma da Parte di Grillo, poi, c’è anche il tema della democrazia “diretta” via Internet, che finora sembra dare risultati disastrosi: i rappresentanti e gli elettori che dialogano via blog generano una confusione impressionante. E molti hanno il sospetto che si tratti di una “democrazia diretta”, sì ma da Casaleggio, il guru politico-mediatico di Grillo. Da studioso di politica, che ne pensa di questa idea di democrazia 2.0? Ci sono dei precedenti o dei paragoni storici che ci possono aiutare a illuminarla? 
Internet gioca oggi un ruolo insostituibile nel campo dell’informazione “alternativa”. E grazie a lui che si può sperere di sbriciolare il conformismo mediatico, o anche di far nascere delle vere discussioni. Sono molto scettico sulla possibilità di sviluppare su questo mezzo una vera democrazia diretta. La democrazia diretta esige un confronto diretto nello spazio pubblico. Gli internauti possono anche connettersi fra loro a migliaia, ma restano nella sfare del privato. Non è soltanto diventando degli addict dello schermo, dipendenti da un telecomando o da uno smartphone, che possiamo rimediare alla scomparsa del legame sociale. La socialità implica anch’essa l’esperienza diretta, il contatto diretto. Internet non può svolgere questo ruolo. Ne dà solo l’illusione, proprio come Facebook dà l’illusione di avere degli “amici”. E’ questa la ragione per cui mi rifiuto di figurare sui social network, ma è vero che non ho neanche il telefono portatile!
di Alain de Benoist 

* Intervista a cura di  Bruno Giurato pubblicata su Lettera43

23 settembre 2013

Germania, la ricchezza dai lavoratori alle imprese. Così nasce la "locomotiva


La Germania ha fatto le riforme, ha saputo tenere i conti in ordine, è la locomotiva d’Europa. In Germania un operaio guadagna il doppio del suo collega italiano. Nella mitopoiesi europea del nuovo millennio, la nazione che Angela Merkel si appresta a governare per altri quattro anni è divenuta una sorta di Eldorado in cui i fannulloni mediterranei dovrebbero specchiarsi per impararne le straordinarie virtù. Quanto ai conti pubblici non tutto è come sembra (per il Fmi il Pilfarà solo +0,3% quest’anno).
All’inizio dell’epoca dell’euro, Berlino era “la grande malata d’Europa”. La reazione al declino è stata improntata a un unico obiettivo: comprimere i salari per spingere le esportazioni. Ha spiegato Roland Berger, uno dei consulenti economici di Angela Merkel: “Le riforme tedesche hanno avuto successo: iniziate nel 2003 con una liberalizzazione del mercato del lavoro e un aumento degli stipendi reali inferiore all’incremento della produttività. Poi è seguito il taglio dei costi del sistema sociale (sanità, sussidio di disoccupazione, ndr), l’aumento dell’età pensionabile a 67 anni, la creazione di un segmento di bassi salari. Nel frattempo la Germania ha ridotto le imposte all’industria ma aumentato quelle indirette”. Risultato: “Fra il 2000 e il 2010 i costi del lavoro per unità di prodotto in Germania sono aumentati del 3,9%, in Italia del 32,5%. I costi dei prodotti tedeschi così sono diminuiti del 18,2 % rispetto agli altri Paesi dell’euro”.
Strana locomotiva. La politica scelta da Berlino ha un nome: si chiama beggar thy neighbour, “frega il tuo vicino”. La compressione dei salari tedeschi ha segnato la “vittoria” della Germania non tanto nei confronti di concorrenti tipo Cina (con la quale la bilancia commerciale resta negativa), ma verso i partner dell’Eurozona: nonostante la crescita asfittica di Italia, Spagna, Francia, negli anni pre-crisi il saldo tedesco nei confronti di questi paesi è più che triplicato (dall’8,44 al 26,03%), mentre crollavano i consumi privati e gli investimenti. Questa politica ha mandato in deficit i Paesi periferici causando la crisi dell’Eurozona. Lo sostiene, tra gli altri, l’Ilo, l’istituto Onu che si occupa di lavoro: “L’aumento delle esportazioni tedesche è ormai identificato come la causa strutturale dei recenti problemi dell’area euro”.
La svolta tedesca. Agenda 2010 – le riforme del lavoro di Schröder firmate da Peter Hartz, già capo del personale in Volkswagen – ha comportato per la Germania un trasferimento di ricchezza dai lavoratori alla rendita e alle imprese. Scrive l’Ocse: “La diseguaglianza dei redditiin Germania è salita rapidamente dal 2000 in poi”. Secondo una ricerca della Conferenza Nazionale sulla Povertà (Nak) presentata nel dicembre scorso, il 10% della popolazione tedesca possiede oggi il 53% della ricchezza, nel 1998 era il 45% e nel 2003 il 49%. Il patrimonio delle classi medie, negli stessi anni, è diminuito dal 52 al 46%, mentre nel 2010 metà della popolazione si divideva appena l’1% della ricchezza. Strano per una nazione che tra il 2007 e il 2012 ha visto crescere il patrimonio nazionale di 1.400 miliardi di euro.
Mini-job per tutti. Gerhard Schröder si è vantato dei risultati di Agenda 2010: nel 2003 avevamo oltre cinque milioni di disoccupati, ha detto, ora meno di 3 e abbiamo creato 2,6 milioni di posti di lavoro. Vero, ma anche no. Rispondendo a una interrogazione di Die Linke proprio quest’anno, il ministero del Lavoro ha rivelato quanto segue: dal 2000 al 2011 le ore di lavoro sono aumentate soltanto dello 0,3 per cento, mentre i posti di lavoro a tempo indeterminato sono diminuiti di 1,8 milioni di unità. Non è stato creato alcun nuovo lavoro, si è solo diviso in un altro modo quello che c’era: Schröder ha infatti regalato ai tedeschi i “mini jobs”, contratti iperflessibili da circa 20 ore settimanali con uno stipendio di 450 euro netti, cui vanno aggiunti meno di 150 euro di contributi. Con questa cifra non si vive e allora lo Stato tedesco contribuisce all’affitto, alle spese di trasporto, alla scuola dei figli, in un massiccio trasferimento di risorse che tiene il “mini-lavoratore tedesco” appena sopra la linea di galleggiamento. E rappresenta, di fatto, un aiuto di Stato indiretto alle imprese costato almeno un centinaio di miliardi in dieci anni. I mini jobs, al momento, riguardano 7,3 milioni di persone, il 70% delle quali non ha alcun altro reddito, cui andrebbero aggiunti un milione di “contrattini” a termine e altri 1,4 milioni di lavoratori che guadagnano meno di quattro euro l’ora.
I conti (non) tornano. Jürgen Borchert, presidente del VI tribunale sociale del Land Hessen a Darmstadt, ha “denunciato” i mini jobs alla Corte costituzionale: “Quando un’economia non riesce a garantire quanto basta per vivere alle persone che lavorano duramente, mentre una piccola fascia di persone ad alto reddito accumula ricchezze impensabili, siamo alla fine dell’economia sociale di mercato”. L’Università di Duisburg ha calcolato che la quantità di tedeschi sul fondo del mercato del lavoro è passata dai 2,3 milioni del 1995 agli oltre 8 del 2010, il 23% dell’intera forza lavoro. È così che l’indice di disoccupazione scendeva facendo contenti i politici e i salari reali tedeschi (di quasi il 6% dal 2003 al 2008) e facendo contenti gli imprenditori. Questo dato può essere anche chiamato “crescita della produttività”, la stessa cosa che viene richiesto di fare a noi

di Marco Palombi 

10 ottobre 2013

La decadenza della menzogna




I politici non si ergono mai oltre il livello della falsa  dichiarazione, ed effettivamente si accordano a dimostrare, a discutere, ad argomentare… Se un uomo è sufficientemente privo di immaginazione per produrre una evidenza a supporto di una menzogna, tanto vale che dica la verità subito (O. Wilde)

Anche la menzogna è decaduta in questo Paese, insieme a tutto il resto.Dall’economia alla società, ogni cosa si è sfatta e decomposta, sotto l’effetto di frottole di corto respiro e di fandonie con le gambe corte, che da quanto più in alto provengono, tanto più scadono. Fole senza stile che segnalano l’insulsaggine dei nostri governanti.
La democrazia italiana non si fonda, come dovrebbe, sulla normale insincerità per superiori fini politici, i quali restano noti unicamente a pochi serbatoi di pensiero e ambiti di elaborazione strategica all’interno degli apparati statali, ma sulla disonestà “eticheggiante” e sul perbenismo doppiogiochista che richiama l’ipocrita trasparenza civile per celare la propria inconsistenza servile.
La bugia ad uso politico, quando è elemento mimetizzante della strategia complessiva di gruppi dirigenti nazionali, consci dei tempi nei quali sono costretti ad operare, è necessaria a tenere riservati piani e finalità, che per essere realizzati devono restare coperti, almeno per l’essenziale. Non stiamo parlando, dunque, delle finte promesse a scopo elettorale dei partiti per guadagnarsi un posto in Parlamento, ma della dissimulazione comportamentale che una élite mette in atto per raggiungere i suoi scopi, in un contesto di conflittualità e concorrenza globale molto accese, in cui le alleanze sono sempre transitorie ed abbondano i colpi bassi di amici e nemici.
Dunque, si può mentire senza ingannare, per proteggere o allargare gli interessi nazionali, oppure si può alterare la realtà per frodare, cioè per sfruttare a proprio limitato vantaggio le sventure di un popolo intero. La scelta dei nostri screditati rappresentanti parlamentari è ricaduta, ovviamente, sulla seconda opzione. Per questo diciamo che anche le menzogne sono degnerate  in questa vile provincia colonizzata, qual è diventata la nostra povera Repubblica.
I tanti pinocchi del sistema, che ricomprende mass media, istituzioni, organizzazioni intra e para statali, hanno fatto fronte comune per raggirare i connazionali, i quali sono sempre più umiliati e tartassati da una classe politica che ha barattato il Paese per la propria sopravvivenza corporativa.
Chi è stato il garante indiscusso di questo pantano che sta portando all’esproprio del popolo italiano? Chi ha messo in sella, negli ultimi due governi, aggirando le elezioni e rinnegando la sovranità popolare, personaggi addestrati nei centri finanziari internazionali dove si parla soltanto l’inglese con accento americano? Chi ci ha costretti a sottostare, senza protestare, ai diktat di Bruxelles, di Berlino e del FMI?
Non è un rebus, ma un Re autoproclamatosi tale. Stiamo parlando del “peggiorista atlantista”, l’ex piccìsta convertitosi al capitalismo e al liberalismo, dopo un viaggio a Washington nel 1978. Costui è il responsabile dell’attuale cancrena italiana e ci sarebbero alcuni buoni motivi (dall’alto tradimento dello Stato all’attentato alla Costituzione) per chiederne l’impeachment all’istante.
Ma il Parlamento è diventato il suo bivacco di manipoli, un ricettacolo di manigoldi, di rinnegati e di crapuloni a spese della collettività che temono le urne come la peste perché non vogliono perdere i loro privilegi. Il recente ed ennesimo voltafaccia, quello dei vertici del Pdl che hanno girato le spalle al loro capo storico, non lascia ulteriori speranze di scampo al Belpaese.

Gli allarmismi sullo stato dei conti pubblici ed il caos istituzionale che ne è seguito servivano proprio a mettere Roma con le spalle al muro.L’obiettivo, ormai scoperto, era quello di costringerci a liquidare i tesori di Stato, soprattutto gli asset pubblici dei settori avanzati, ancora in nostro possesso, che facevano gola ai competitors stranieri. Anche l’ultimo baluardo dell’industria strategica nazionale cadrà a breve. Nemmeno più un diodo ci potrà salvare.
di Gianni Petrosillo 

09 ottobre 2013

Oltre l'euro e l'era (anti)berlusconiana




OLTRE L’EURO E L’ERA (ANTI)BERLUSCONIANA
Mentre va in scena l’ultimo (?) atto di “Finale di partita all’italiana”, una commedia dell’assurdo che rischia di finire in tragedia per milioni di italiani, si moltiplicano gli articoli e le prese di posizione contro l’Eurozona (e non solo in rete). Su questo argomento, se particolare importanza hanno le analisi di Alberto Bagnai o Bruno Amoroso, si deve a Jacques Sapir l’aver fatto, con grande chiarezza e semplicità, il punto della situazione nel suo recente articolo “Lo scioglimento dell’euro, un’idea che si imporrà nei fatti”. (1) Sapir infatti dimostra che, mentre i media per ragioni politiche e ideologiche cercano di mettere in evidenza il fatto che la cosiddetta “ripresa” dovrebbe essere già cominciata, in realtà tutti gli indicatori economici provano il contrario.

Invero ciò non dovrebbe stupire granché gli italiani che vivono quotidianamente gli effetti della crisi sula loro pelle. Con l’indice della produzione industriale che ha perso ben venti punti percentuali dal 2007 (2), con il tasso di disoccupazione giovanile che ha superato addirittura il 40% (3), con una pressione tributaria simile a quella dei Paesi scandinavi ma con servizi da “terzo mondo”, (4) resi ancora più inefficienti o carenti dalla “macelleria sociale” degli ultimi governi, con il potere d’acquisto delle famiglia diminuito del 4,7% (5) e con il diffondersi della povertà in ampi strati della popolazione, anche a causa di una continua redistribuzione della ricchezza verso l’alto, pare ovvio che a un numero crescente di italiani non possa sfuggire quale sia la reale condizione del nostro Paese.

D’altronde, sarebbe difficile mettere in dubbio i vantaggi che l’euro ha arrecato alla Germania, la quale, grazie ad una politica (che alcuni hanno definito “clandestina” o anche “beggar the neighbour”, ossia “frega il tuo vicino”) incentrata sulle riforme del lavoro firmate da Peter Hartz (già capo del personale della Volkswagen), ha “esportato” tra i quattro e cinque milioni di disoccupati nei Paesi più “deboli” dell’Eurozona e incrementato enormemente il surplus della propria bilancia commerciale. In sostanza, fruendo di un cambio favorevole (l’euro di fatto è un “marco leggero”) e aumentando i profitti delle imprese a scapito del reddito dei lavoratori, la Germania, dopo l’inizio della crisi, ha triplicato il saldo positivo della bilancia commerciale con l’Italia, la Francia e la Spagna, che è passato dall’8,44% alla cifra stratosferica del 26,03%.
Un costo pagato anche da molti tedeschi, dato che il 10% della popolazione tedesca possiede il 53% della ricchezza nazionale (cresciuta tra il 2001 e il 2012 di circa 1400 miliardi di euro), mentre i “mini jobs”, contratti iperflessibili da circa 20 ore settimanali con uno stipendio di 450 euro netti, ormai riguardano 7,3 milioni di persone (il 70% delle quali non ha alcun altro reddito). (6) Eppure in Germania – in cui comunque vi è ancora uno Stato sociale tutt’altro che insignificante o inefficiente (non si deve dimenticare che la Germania ha potuto fare certe scelte partendo da posizioni di altissimo livello per quanto concerne la politica sociale) – è ampiamente diffusa dai media (che possono far leva su alcuni noti pregiudizi che caratterizzano la cultura tedesca) la concezione secondo cui i sacrifici dei tedeschi dipenderebbero dai danni compiuti delle “cicale” mediterranee. Un quadro ben distante dalla realtà, nonostante non si possano ignorare le gravi responsabilità delle classi dirigenti dell’Europa del sud.
Tra l’altro non è nemmeno vero che gli europei con l’introduzione dell’euro starebbero meglio o che la Germania sia la locomotiva d’Europa. Come scrive Bagnai, i dati provano che l’Eurozona si sta rivelando una sorta di gioco a somma zero in cui la Germania tira da una parte e gli altri da quella opposta. Inevitabile quindi ritenere che «la leadership tedesca abbia portato il nostro subcontinente alla catastrofe, allontanandoci in modo persistente e, nel prossimo futuro, irreversibile, dal tenore di vita dei paesi avanzati ai quali avremmo la legittima aspettativa di appartenere». (7)
Tuttavia, quel che più rileva non è tanto la valutazione dei costi economici e sociali derivanti dall’introduzione dell’euro quanto piuttosto il fatto che non è possibile porre rimedio agli squilibri che si sono generati nell’Eurozona finché si continuerà a difendere la moneta unica europea. Al riguardo, si deve tener presente che il “federalismo europeo” (“bandiera” di quegli europeisti che non sanno neppure distinguere l’Europa dall’Eurozona), oltre ai problemi politici che presenta (com’è noto un buon numero di Paesi dell’Ue, tra cui la Gran Bretagna, la Danimarca, la Svezia e la Polonia, non hanno alcuna intenzione di rinunciare alla propria sovranità nazionale – ma in realtà ciò vale anche per la Francia e la stessa Germania), implicherebbe un gigantesco trasferimento di ricchezza dall’Europa del nord a quella del sud. E la Germania dovrebbe sopportare il 90 % del finanziamento di questa operazione, equivalente a circa 230 miliardi di ​​euro all’anno (circa 2.300 miliardi in dieci anni), ossia tra l’8 % e il 9 % del suo Pil (altre stime arrivano perfino al 12,7 % del suo Pil). Chiunque può pertanto rendersi conto che sarebbe assai più facile che un cammello passasse attraverso la cruna di un ago.
Logico dunque che Jacques Sapir ritenga inevitabile l’abbandono della moneta unica europea e che, dopo aver preso in esame i possibili scenari che possono derivare dalla fine di Eurolandia, concluda: «Lo scioglimento dell’euro, in queste condizioni, non segnerebbe la fine dell’Europa, come si pretende, ma al contrario la sua rimonta nell’economia globale, e per di più una rimonta da cui potrebbero trarre beneficio in maniera massiccia, sia per la crescita che la nascita nel tempo di uno strumento di riserva, i paesi in via di sviluppo dell’Asia e dell’Africa». (8)
Considerazioni e conclusioni – quelle di Sapir e Bagnai – che nella sostanza, a nostro giudizio, non si possono non condividere, anche perché fondate su analisi rigorose, nonché sull’ovvia constatazione che una moneta senza uno Stato è nel migliore dei casi un’assurdità (si badi che buona parte degli economisti che oggi difendono l’euro a spada tratta prima dell’introduzione dell’euro erano decisamente contrari alla moneta unica europea), così com’è assurdo pensare che sia possibile costruire il “federalismo europeo” tramite scelte politiche ed economiche del tutto contrarie agli interessi “reali” di chi dovrebbe compierle. E se ciò non bastasse si potrebbe pure ricordare che senza un “federalismo europeo” nulla o quasi si potrebbe fare contro la “speculazione finanziaria”.
Nondimeno, è palese che non è sufficiente, per comprendere la crisi di Eurolandia, considerare solo le questioni attinenti all’economia e alla finanza. Come spiegare altrimenti il fatto che una classe dirigente come quella italiana non cerchi in alcun modo di contrastare ma anzi favorisca una politica che sta devastando il nostro Paese? Per quale motivo cioè i nostri politici o meglio quei membri della nostra classe dirigente – politici o tecnocrati che siano – che tirano effettivamente le fila della politica italiana non si sono opposti né si oppongono nemmeno adesso a decisioni le cui conseguenze disastrose per l’Italia ormai sono evidenti a tutti coloro che hanno occhi per vedere? Insomma è certo che la Germania riesce a trarre il massimo profitto da una situazione geopolitica estremamente favorevole per la sua economia e che quindi l’euro è solo un aspetto, benché non marginale, del problema che si dovrebbe risolvere.
Non è certo un caso che l’introduzione dell’euro sia avvenuta il più rapidamente possibile dopo il crollo del Muro di Berlino e la riunificazione della Germania, il cui significato politico può sfuggire solo a coloro che non conoscono (o fanno finta di non conoscere) gli ultimi centocinquanta anni della storia europea. In definitiva, è lecito affermare che la soluzione della “questione tedesca” era e rimane ancora il principale obiettivo dei “circoli euroatlantisti”, i quali non potrebbero tollerare che Eurolandia si sfasci e la Germania venga tentata – anche solo seguendo delle “direttrici geoeconomiche” – di “sbilanciarsi” dalla parte dei Brics (soprattutto in una fase storica in cui l’America, oltre ad avere serie difficoltà economiche, sembra priva di “iniziativa strategica” e incapace di contrastare con successo la crescita di altre potenze o di altri “poli geopolitici”, che cominciano pure a “fare pressione” per una radicale ridefinizione degli equilibri mondiali).
Da qui la necessità, secondo le “direttive strategiche” d’oltreoceano, per la classe dirigente italiana – che a partire dagli anni Novanta ha consapevolmente scelto di “liquidare” il patrimonio strategico nazionale a vantaggio dei “mercati” – di contribuire a qualsiasi costo alla soluzione della “questione tedesca”. E il compito fondamentale dell’Italia, secondo gli “strateghi euroatlantisti” consiste proprio nel favorire il più possibile la Germania (onde “saldarla” all’Atlantico), cedendo la propria sovranità non all’Europa (come invece molti intellettuali e giornalisti italiani affermano, scagliandosi contro gli italiani “brutti, sporchi e cattivi” ma “ignorando” che per milioni di italiani è un problema perfino, come si suol dire, mettere il pranzo insieme con la cena o che parecchie scuole non solo hanno”lesioni strutturali” ma hanno perfino problemi per acquistare la carta igienica), bensì ai tecnocrati di Bruxelles e alla Bce (la cui vera funzione non è un mistero per nessuno, tanto è vero che non occorre precisare a quali poteri la Bce debba rispondere).
Peraltro, si deve tener presente che non si tratta solo di “tradimento” del proprio Paese da parte della nostra classe dirigente (o almeno dei suoi membri più importanti), dato che quest’ultima condivide valori e stili di vita che la portano ad anteporre il cosiddetto ”mondo occidentale” all’Italia (problema estremamente serio se si considera pure l’americanizzazione della nostra società, in specie delle nuove generazioni). Inoltre la nostra classe dirigente e, in generale, le classi sociali più abbienti sono perfettamente consapevoli che mettere in discussione l’euro, rebus sic stantibus, comporterebbe anche mettere in discussione quei meccanismi di redistribuzione della ricchezza e quella “riforma” dello Stato sociale in base ai quali sarebbe assai poco significativa per le fasce sociali più deboli (ceti medio-bassi inclusi) perfino una crescita del Pil (che in ogni caso sarebbe assai modesta).
Ma appunto per questo l’euro costituisce quell’anello debole su cui bisognerebbe premere per poter spezzare la “catena geopolitica” che lega il nostro Paese a scelte e decisioni strategiche del tutto opposte a quelle che si dovrebbero prendere se si avesse veramente di mira l’interesse dell’Italia (e di conseguenza della stragrande maggioranza degli italiani), mentre continuando di questo passo tra qualche anno si rischia di non poter nemmeno più difendere alcuna sovranità nazionale, semplicemente perché con ogni probabilità non vi sarà più alcuno Stato italiano, ma solo un territorio deindustrializzato, utile come riserva di manodopera qualificata a basso costo.
E’ indubbio allora che prendere posizione contro l’Eurozona e le misure d’austerità imposte dalla Bce e dai tecnocrati di Bruxelles (indipendentemente dalla questione se sia meglio optare per due euro o tornare alla lira o scegliere altre soluzioni) sia essenziale per recuperare quella sovranità che è il presupposto necessario di ogni autentica politica (antiatlantista) che abbia come scopo quello di sottrarre lo Stato alla morsa dei “mercati”. Questo però è possibile – vale la pena di rimarcarlo – solo a patto che non si perdano di vista i reali rapporti di forza tra gli Stati Uniti e l’Ue e si comprenda qual è la vera posta in gioco sotto il profilo geopolitico e geoeconomico, tanto più adesso che in Europa si sta facendo strada la proposta statunitense di creare un “mercato transatlantico”, che renderebbe impossibile una autentica unione politica europea, trasformando l’intera Europa in una “appendice occidentale” degli Usa – ad ulteriore conferma del ruolo determinante del “politico” se non lo si intende come sinonimo di “politica” ma (correttamente) come strategia per la soluzione dei conflitti tra diversi attori (geo)politici e/o sociali.
Si può pertanto ritenere che l’attuale crisi politica italiana possa influire ben poco sulle sorti del nostro Paese, mentre decisivo sarebbe sfruttare la (probabile) fine dell’era (anti)berlusconiana, mettendo da parte lo spirito di fazione, al fine di dar vita ad una nuova forza politica di tipo “nazional-popolare” (che tenga conto cioè anche dei codici culturali ancora, nonostante tutto, condivisi da non pochi italiani), il cui compito principale dovrebbe essere quello di impedire il declino dell’Italia (le cui conseguenze sarebbero gravissime, in primo luogo, proprio per i ceti popolari e medio-bassi). In quest’ottica si dovrebbero cercare collegamenti con altre forze politiche europee, anch’esse interessate ad un rifondazione dell’Europa che non implichi la dissoluzione della identità nazionale nel “mercato globale”, ossia evitando gli eccessi del nazionalismo e di qualsiasi forma di narcisismo identitario, e promuovendo invece sia la nascita di un “polo geopolitico e geoeconomico mediterraneo” distinto da (non opposto a) un “polo baltico” sia una alternativa alle dissennate politiche liberiste. Certo oggi la politica italiana non offre nulla di questo genere, ma una volta che si sia compresa la necessità di difendere le ragioni del cosiddetto “sovranismo” (che pure Jacques Sapir difende) non dovrebbe essere particolarmente arduo poter valutare e giudicare la situazione politica italiana ed europea sulla base di una coerente e “corretta” visione geopolitica, senza lasciarsi fuorviare da “ottusi” schemi concettuali economicistici.


Fabio Falchi  è redattore di “Eurasia” Rivista di studi geopolitici


08 ottobre 2013

Lo storico Nico Perrone: “Salvare la Repubblica ritrovando la sovranità”







vittorianoEnrico Mattei ricompose – nell’Eni e nella sua galassia, incluso il quotidiano Il Giorno- la frattura del 1943. Fu anche merito suo se la patria, che non stava più tanto bene, sopravvisse fino al 1958, quando le urne dissero che la Dc avrebbe potuto governare solo con maggioranze a sinistra. Infatti era la Dc – non i suoi governi, tanto meno i suoi fatiscenti alleati del centro-destra – a dare il tono alla nazione, per la quale fu fatale la coalizione col Psi, con la conseguente reinvenzione della Resistenza come guerra civile, non come guerra patriottica di liberazione. L’alito letale di quell’operazione tardo-ciellenistica si diffuse con i telegiornali subito dopo il centenario (1961) dell’unità nazionale. Un anno dopo Mattei era morto: la crisi di Cuba, con incombente guerra nucleare, aveva infatti spinto certi Paesi a far pulizia in casa. Dagli spiriti liberi.
Restavano vivi i lacché, ma anche il ricordo dell’“ultimo fascista”, come definisce Mattei un eminente storico della I repubblica. E poi Mattei aveva lasciato allievi, che avevano lavorato con lui all’Eni, dove reduci di Rsi e Resistenza collaboravano come se il 1943 fosse – anche alla Farnesina lo si giudicava così – un incidente di percorso per una grande potenza, quale l’Italia si considerava ancora [quel che per la Francia era il 1940].
nico perroneNico Perrone era uno di loro. Finita quell’esperienza (senza Mattei, presto l’Eni non fu più la stessa cosa), Perrone divenne lo storico di quell’epoca non ancora di benessere, ma ancora certo di dignità, ciò che manca oggi ben più del denaro. Scrisse vite di Mattei in più riprese, per più editori, per più quotidiani, specie Il manifesto. Ogni volta con particolari in più, ogni volta con la stessa determinazione. Divenne docente di Storia dell’America all’Università di Bari. Ancor oggi lui, classe 1935, pubblica uno-due libri l’anno: l’ultimo è Progetto di un impero. 1823:perrone2l’annuncio dell’egemonia americana infiamma la Borsa (La città del sole, pp. 218, euro 20, ma su http://www.amazon.it/Progetto-Lannuncio-dellegemonia-americana-infiamma/dp/888292310X ). E’ la storia della “dottrina Monroe”, o l’America agli americani (degli Stati Uniti, ovviamente) e andrebbe letto insieme a Obama. Il peso delle promesse(edizionisettecolori@gmail.com): definiscono, insieme, le fondamenta teoriche del nostro presente e le sue conseguenze attuali. E ormai non si sa se sia bene superarle, perché ogni nuova egemonia è peggiore della precedente.obama

Signor Perrone, nel 2011 furono 150 anni di Unità; nel 2012 furono 50 anni dalla fine di Mattei; nel 2013 sono 70 anni dalla resa… L’Italia nacque per interessi francesi, s’allargò per interessi inglesi e tedeschi, resse all’irruzione nel Mediterraneo degli Usa, che ora declinano. La Germania li rimpiazza. E noi?
“Concordo in parte che le potenze straniere influirono sulla nascita dell’Italia unita. Ma l’ampliamento del disegno di conquista, fino a comprendere tutti i territori del Regno delle Due Sicilie, avvenne – sorprendendo lo stesso Camillo Benso di Cavour – a opera di Liborio Romano, ministro di polizia dei Borbone”.
Perché nessuno lo dice, tranne lei che gli ha dedicato un libro importante?
“I piemontesi non lo riconobbero – dal diario di Giuseppe Massari, fac totum di Cavour, furono strappate le pagine chiarificatrici di quel passaggio – e non si vuole ancora dirlo. Ma il territorio delle Due Sicilie, enorme, fece lievitare all’improvviso l’intero progetto oltre ogni ipotesi”.
Restiamo a un passato meno remoto.
“Cioè agli ultimi 70 anni, quelli con l’Italia sotto influenza?”.
Sì.
“Quest’epilogo è derivato da una guerra sciagurata e perduta. Col Paese in tali condizioni di dipendenza, le investiture al vertice della politica ne hanno risentito. Una situazione che ancor pesa: lo indicano certe consonanze della presidenza della Repubblica coi ‘consigli’ provenienti da quelle parti. E perfino dalla Germania…”.
… Uscita peggio dell’Italia dalla guerra e che ha rimpiazzato la Gran Bretagna come junior partner degli Usa, verso i quali la nostra sudditanza fu, fino al 1991, arginata da Vaticano e Urss. Come ora lo è da Vaticano e… Russia.
“I ruoli da ascari neo-coloniali, dal 1982 in poi, non ce li hanno imposti: li hanno decisi i politici italiani, con la benedizione dei vari presidenti della Repubblica, che hanno consentito (talora sollecitato) interventi armati che violavano la Costituzione”.
Tasto dolente.
“Il reale ruolo che la Costituzione assegna al presidente della Repubblica andrebbe discusso di fronte al suo superare i limiti costituzionali”.
L’Italia è ora una repubblica ereditaria. Napolitano succede a se stesso, Enrico Letta succede allo zio Gianni come factotum governativo, Marina Berlusconi succederà al padre a capo di un partito determinante. Invece il papato non è più a vita, come del resto le monarchie nordiche, spesso protestanti…
“L’Italia non è divenuta una repubblica ereditaria per il rinnovo del mandato – legittimo e voluto dai partiti – di un presidente. Ma è una repubblica ora politicamente assai povera, incapace di trovare un’altra soluzione al momento del rinnovo di quel presidente: così il suo campo d’azione s’è ampliato oltre i limiti costituzionali. Il caso dei Letta ha invece aspetti ridicoli e ha mostrato l’inconsistenza del nipote, che ha governato su delega di Berlusconi”.
Vanno in tv solo avatar nostrani di repubblicani o democratici degli Usa, e gruppi nati col loro avallo. Morale: prima si poteva dir tutto, perché non serviva a nulla; ora non si può dire nulla, mentre parlare servirebbe.
“Al di là delle grandi aggregazioni, per le altre espressioni politiche ci sono in effetti solo spazi di tolleranza. Attenti però ai grillini, che non si contentano di tolleranza”.
Pseudonimo di Germania & C., l’Ue dovrebbe, per l’attuale capo dello Stato, limare le unghie alla Nato. Ma – s’è visto contro la Serbia – solo per affiancarla come secondario strumento egemonico.
“Dobbiamo badare alla caratteristica fondamentale dell’Ue: l’ anti-democrazia. Proprio così! I controllori generali che essa mette sulla testa degli Stati nazionali non li ha votati nessuno. Questo è il pericolo vero. E non se ne parla quasi mai”.
Impassibili, le Camere approvano ogni direttiva dell’Ue. Con questa passività l’Italia ha smarrito la sovranità, cara a pochi, e il benessere, caro a tutti.

“E qui torniamo al punto di prima: ci hanno tolto la democrazia. La sovranità italiana è perduta: se davvero essa interessa a pochi, la prego di considerarmi fra questi pochi”.
di Maurizio Cabona

07 ottobre 2013

L’altro miracolo italiano



  

Generalmente quando si sente parlare del Miracolo Italiano ci si riferisce ad un periodo storico tra gli anni Cinquanta e Sessanta in cui l'Italia si caratterizzò da una forte crescita economica affiancata da uno straordinario sviluppo tecnologico di profondo rilievo. In sé questa definizione da sussidiario delle scuole elementari di un tempo non aiuta più di tanto a mettere a fuoco il tutto: oggi ad esempio se usassimo gli stessi elementi di definizione potremmo contare almeno una dozzina di miracoli sul fronte economico da parte di altri paesi. Ciò che ha contraddistinto l'eccezionalità del risultato e della performance è infatti il contesto storico in cui tutto questo si è manifestato. Ricordiamo un paese sconfitto e dilaniato dal Secondo Conflitto Mondiale, ancora occupato da eserciti stranieri con  povertà e miseria che in qualche modo erano state mitigate con il programma di aiuto statunitensi, il noto Piano Marshall. Un paese ancora poco industrializzato e tecnologicamente arretrato con una ingente parte della popolazione  ancora a vocazione agricola. Ciò nonostante un insieme di circostanze aiutarono il nostro paese a realizzare quello che tutto il mondo ha prima ammirato e dopo battezzato il Miracolo Italiano. 

Per primo, la genetica italiana degli imprenditori italiani, unica al mondo per spirito di sacrificio e vocazione al rischio imprenditoriale: proprio in quel periodo vengono poste le basi per la nascita e lo sviluppo di grandi attività industriali. In secondo luogo abbiamo l'entrata dell'Italia nella Comunità Economica Europea che consente la rimozione dei vincoli protezionistici in numerosi settori produttivi: l'ingresso nel Mercato Comune genera una significativa spinta alle esportazioni italiani le quali diventano il volano principe di tutta l'economia nazionale. Infine la condizione più unica che rara dell'allora mercato del lavoro italiano costituito per la maggiore da disoccupati, braccianti e manovali dal basso costo di lavoro che rendevano pertanto molto competitiva e redditizia l'attività industriale: considerate che allora i sindacati non avevano un ruolo di ingerenza determinante e controproducente come avviene invece oggi. L'aumento della ricchezza delle famiglie generò un meccanismo virtuoso di ulteriore spinta economica indotta anche dai consumi interni (elettrodomestici, automobili, nuovo arredamento, nuove abitazioni e cosi via). 

Tutti in qualche modo hanno conosciuto il Miracolo Italiano, o sui libri di scuola o ne hanno visto le dimensioni all'interno di qualche videodocumentario storico, persino la stampa ed i media internazionali hanno riferimenti storici e socioeconomici sul Miracolo Italiano. In vero alcune testate giornalistiche sono anche profonde conoscitrici ed ammiratrici dell'Altro Miracolo Italiano, quel secondo miracolo per cui analizzando l'economia italiana non si capisce come mai quest'ultima non sia ancora fallita. Ci pensano e ci riflettono di continuo: qualsiasi altro paese al mondo sarebbe già fallito da anni e anni, ma l'Italia invece no, resiste ancora. Ecco l'Altro Miracolo Italiano. Solo grazie ad un miracolo è possibile spiegare come questa nazione non sia ancora fallita avendo avuto più di sessanta governi in oltre cinquant'anni, un paese in cui l'economia nazionale deve assecondare ed accettare la convivenza quotidiana con sei differenti mafie, un paese in cui i sindacati sono più potenti del governo, un paese in cui la giustizia non garantisce e tutela i creditori e gli investitori, un paese in cui vi sono ormai più di 4.5 milioni di immi-non-grati, un paese in cui gli imprenditori sono continuamente vessati dalla Pubblica Amministrazione. 

L'Altro Miracolo Italiano: come fa a non essere ancora fallito un paese con un sistema scolastico basato su ordinamenti ed insegnamenti medioevali in cui la maggior parte del corpo docente ha una preparazione ed impostazione da rivoluzionario sessantottino, un paese in cui la governance degli istituti bancari è detenuta da bancosauri e dalle fondazioni bancarie, un paese in cui nel panorama politico esistono ancora partiti che hanno come ideale politico il comunismo, un paese che  continua a dedicare attenzione a dismisura ad un decadente Silvio Berlusconi, un paese in cui la maggior parte degli anziani se ne strafegano del futuro di figli e nipoti tanto basta che ci sia la loro pensione e le cure gratis in ospedale, un paese che abroga il Ministero del Turismo avendo le potenzialità che tutto il mondo gli invidia, un paese che anno dopo anno sta subendo una lenta opera di penetrazione da parte dei suoi principali concorrenti ed infine un paese che si permette il lusso negli ultimi dodici mesi di dedicare tempo e riflessione politica per la stesura di leggi sull'omofobia ed il femminicidio al posto di redigere una nuova legge elettorale o un nuovo programma di defiscalizzazione per gli utili delle imprese.

di Eugenio Benetazzo

01 ottobre 2013

La Fed stampa dollari. I Brics comprano oro




Se bastasse creare dal nulla liquidità per rilanciare l’economia e uscire dalla crisi, saremmo da tempo nel paese di bengodi, soprattutto negli Usa. Ma così non è. 
Pertanto la recente decisione assunta della Federal Reserve di continuare ad immettere nel sistema nuova liquidità rivela semplicemente che essa non è più in grado di staccare la spina dell’alimentatore di risorse ad un sistema sempre più “drogato”. Certo le borse hanno risposto in modo vivace con l’aumento dei listini, ma non è detto che ciò sia un reale segnale positivo.
Infatti la stessa Fed, dopo il meeting del suo Open  Market Committee, ha dovuto ammettere che “se dovesse continuare l’irrigidimento delle condizioni finanziarie (con l’aumento dei tassi di interesse), osservato nei mesi recenti, il processo di miglioramento dell’economia e del mercato del lavoro potrebbe rallentare.”
L’inevitabile conseguenza di tale “filosofia”è che negli Usa si proseguirà con la “politica monetaria accomodante”, immettendo 85 miliardi di dollari al mese per comprare nuovi titoli del Tesoro e derivati asset-backed-security. 
Anche il governatore Bernanke, il cui mandato sta per scadere, ha ribadito che i “quantitative easing” continueranno fino a che negli Usa il tasso di disoccupazione non scenderà sotto il 6,5%. E questo si spera avvenga entro la fine del 2014, nel frattempo avremmo però circa 1.500 miliardi di nuovi dollari sui mercati internazionali.
Anche il bollettino trimestrale della Banca dei Regolamenti Internazionali di settembre solleva forti dubbi sugli “effetti benefici” dei “quantitative easing” e dettaglia invece le sue riverberazioni nefaste in particolare nelle economie emergenti. 
La BRI ricorda che quando lo scorso maggio la Fed ventilò appena l’ipotesi di un cambiamento di politica monetaria, gli interessi obbligazionari ebbero un’impennata con effetti negativi in molti settori finanziari e in varie parti del mondo. Vi fu una “corsa alla svendita” di titoli con una conseguente caduta dei prezzi. Il ritiro di capitali dai mercati emergenti provocò, come noto, una forte svalutazione di alcune loro monete. 
L’analisi della Bri sottolinea che, anche dopo le assicurazioni date dalla Fed, dalla Bce e dalla Bank of England lo scorso luglio, l’aumento dei tassi di interesse di lungo periodo è continuato in quanto i mercati si attendevano una stretta nelle condizioni finanziarie a livello mondiale.
La situazione è estremamente volatile. Nonostante questo aumento già di per sé destabilizzante, gli interessi a lungo termine restano comunque bassi e spingono la finanza a cercare prodotti e operazioni ad alto rischio. Di conseguenza è cresciuta l’immissione di bond e di prestiti nei settori finanziari più esposti e rischiosi. Proprio come accadde subito prima dell’esplosione della crisi finanziaria globale. Ad esempio, la percentuale dei “leveraged loans”, crediti molto simili ai subprime, e cioè quelli concessi a creditori già altamente indebitati e di dubbia affidabilità, ha già raggiunto il 45% del mercato dei “finanziamenti in pool” (quelli elargiti da un gruppo di banche). Si noti che tale percentuale è superiore del 10% rispetto ai precedenti massimi registrati prima del crac della Lehman. 
In contro tendenza, in verità bisogna osservare che le politiche monetarie dei Paesi del Brics e di altri importanti Paesi emergenti mirano ad aumentare le proprie riserve auree.
Si stima che nel 2013 la sola Cina dovrebbe comprare almeno 1.000 tonnellate di oro. Cina, Russia e India assieme potrebbero quindi acquistare circa il 70% di tutto l’oro prodotto nel 2013. Si rammenti che già nel 2012 la Russia ha aumentato le sue riserve aure dell’8,5% portandole ad un totale di circa 1.000 tonnellate. 
Non si tratta di una strana infatuazione per il metallo prezioso, ma di una coerente strategia monetaria e geo-economica. La maggioranza dei Paesi del mondo sa che il dollaro diventa ogni giorno più debole e instabile proprio per la continua creazione di nuovi biglietti verdi.
Siamo alla resa dei conti? Si arriverà in tempi brevi al famoso paniere di monete e di oro proposto dai Brics in sostituzione del dollaro? E l’Europa cos’ha da dire? 


di Mario Lettieri e Paolo Raimondi 

30 settembre 2013

Le armi chimiche segrete di Israele







Gli ispettori Onu, che controllano le armi chimiche della Siria, avrebbero molto più da fare se fossero inviati a controllare le armi nucleari, biologiche e chimiche (NBC) di Israele. Secondo le regole del «diritto internazionale», non possono però farlo. Israele non ha firmato il Trattato di non-proliferazione nucleare, né la Convenzione che vieta le armi biologiche, e ha firmato ma non ratificato quella che vieta le armi chimiche. Secondo «Jane's Defense Weekly», Israele - l'unica potenza nucleare in Medio Oriente - possiede da 100 a 300 testate e relativi vettori (missili balistici e da crociera e cacciabombardieri). Secondo stime Sipri, Israele ha prodotto 690-950 kg di plutonio, e continua a produrne tanto da fabbricare ogni anno 10-15 bombe tipo quella di Nagasaki. Produce anche trizio, gas radioattivo con cui si fabbricano testate neutroniche, che provocano minore contaminazione radioattiva ma più alta letalità. Secondo diversi rapporti internazionali, citati anche dal giornale israeliano «Haaretz», armi biologiche e chimiche vengono sviluppate all'Istituto per la ricerca biologica, situato a Ness-Ziona presso Tel Aviv. Ufficialmente fanno parte dello staff 160 scienziati e 170 tecnici, che da cinque decenni compiono ricerche di biologia, chimica, biochimica, biotecnologia, farmacologia, fisica e altre discipline scientifiche . L'Istituto, insieme al Centro nucleare di Dimona, è «una delle istituzioni più segrete di Israele» sotto la giurisdizione del primo ministro. La massima segretezza copre la ricerca sulle armi biologiche: batteri e virus che, disseminati nel paese nemico, possono scatenare epidemie. Tra questi il batterio della peste bubbonica (la «morte nera» del Medioevo) e il virus Ebola, contagioso e letale, per il quale non è disponibile alcuna terapia. Con la biotecnologia si possono produrre nuovi tipi di agenti patogeni verso i quali la popolazione bersaglio non è in grado di resistere, non disponendo del vaccino specifico. Vi sono anche seri indizi su ricerche per lo sviluppo di armi biologiche in grado di annientare nell'uomo il sistema immunitario. Ufficialmente l'Istituto israeliano compie ricerche su vaccini contro batteri e virus, come quelle sull'antrace finanziate dal Pentagono, ma è evidente che esse permettono di sviluppare nuovi agenti patogeni per uso bellico. Lo stesso espediente viene usato negli Stati uniti e in altri paesi per aggirare le Convenzioni che vietano le armi biologiche e chimiche. In Israele il manto di segretezza è stato in parte squarciato dall'inchiesta compiuta, con l'aiuto di scienziati, dal giornalista olandese Karel Knip. È emerso inoltre che sostanze tossiche sviluppate dall'Istituto sono state usate dal Mossad per assassinare dirigenti palestinesi. Testimonianze mediche indicano che, a Gaza e in Libano, le forze israeliane hanno usato armi di nuova concezione: lasciano intatto il corpo all'esterno ma, penetrandovi, devitalizzano i tessuti, carbonizzano il fegato e le ossa, coagulano il sangue. Ciò è possibile con la nanotecnologia, la scienza che progetta strutture microscopiche costruendole atomo per atomo. Allo sviluppo di tali armi contribuisce anche l'Italia, legata a Israele da un accordo di cooperazione militare e suo primo partner europeo nella ricerca & sviluppo. Nella finanziaria è previsto uno stanziamento annuo di 3 milioni di euro per progetti di ricerca congiunti italo-israeliani. Come quello, contenuto nell'ultimo bando della Farnesina, su «nuovi approcci per combattere gli agenti patogeni trattamento-resistenti». Così l'Istituto israeliano per la ricerca biologica potrà rendere gli agenti patogeni ancora più resistenti. 
di Manlio Dinucci 

29 settembre 2013

La verità sull'Euro






Euro si o euro no? Anche in Italia, dopo anni di passività e di fede cieca nelle virtù taumaturgiche della moneta unica, si è aperto il dibattito sull’euro. Ma la diatriba ha preso presto una brutta piega, tanto che sarebbe meglio chiuderla seduta stante, per non sprecare altro tempo prezioso inseguendo fantasmi verdi come bigliettoni.
Da un lato, il partito degli euro-faziosi sostiene che se l’Italia non avesse abbondonato la liretta per la valuta comune adesso avremmo un sistema allo sfascio, con i conti perennemente in rosso, senza competitività, in preda alla recessione e corroso dall’inflazione. In sostanza, è proprio quello che sta accadendo attualmente con l’euro imperante, anche se fingono di non vedere.
I “negazionisti”, invece, ritengono che laddove abbandonassimo la banconota forte e riadottassimo la divisa debole saremmo in grado di agire efficacemente sulla politica economica, stampando moneta quando occorre e svalutando quando serve, per non scaricare sull’economia reale gli imprevisti di quella di carta, ottenendo margini più ampi di correzione che adesso ci sono preclusi dai parametri di Maastricht. Così dichiarano ma non c’è la controprova. Soprattutto, manca una classe dirigente coraggiosa capace di prendere decisioni ardite. Lasciare l’euro per affidare i destini di una possibile transizione ad altro scenario agli stessi che ci sgovernano adesso non è garanzia di alcun mutamento. Ugualmente, nessun riscontro ci è dato circa gli scenari apocalittici disegnati dagli euro-convinti, i quali cercano di dissuadere la pubblica opinione dallo sposare simili idee antieuropeiste, paventando fame e miseria.
Probabilmente, hanno ragione entrambi, o, meglio, hanno tutti torto alla stessa maniera, perché il fulcro del problema, da loro nemmeno sfiorato, se ne sta ben coperto, sotto una coltre di fumo ideologico, in tutt’altro luogo analitico, ad un livello differente della realtà sociale che pertiene alla sfera politica e non a quella economica (se non liminarmente). Di fatti, alla base di qualsiasi decisione finanziaria c’è, o almeno dovrebbe esserci, una valutazione precisa da parte di tutta la classe dirigente, circa i pro e i contro che operazioni di questo tipo potrebbero generare, tenendo conto delle traiettorie geopolitiche mondiali e regionali e dei rapporti di forza internazionali. Senza una visione più complessiva dei fenomeni sociali e storici si finisce nella rete della “legisimilità” indiscutibile dei mercati la quale, dietro la  sua apparente neutralità, cela articolati piani politici, elaborati e studiati dagli Stati più attrezzati alle sfide dei tempi.
La verità è che quando il nostro Paese è entrato nell’euro ha scelto di non scegliere e di farsi trascinare dagli eventi che in quel momento erano favorevoli alla “corrente unionista”, supportata da una utopia falsamente globalista che sarebbe stata successivamente smentita dai fatti. Anzi, i fautori nostrani dell’ingresso dell’Italia nell’euro, i vari Amato, Ciampi, Prodi, erano superburocrati collegati ai centri finanziari sovranazionali (ma con base fissa oltreoceano) i quali, pur di legare lo Stivale alle consorterie che spingevano le loro carriere, accettarono un cambio estremamente svantaggioso per la nostra nazione. Quindi, l’errore fu fatto a monte e, forse, se si fosse contrattato adeguatamente il prezzo della nostra adesione alla moneta comune, non avremmo mai subito uno scossone così devastante per il sistema-paese. Dico forse perché anche questa ipotetica capacità concertativa non sarebbe stata bastevole senza una adeguata progettualità politica portata avanti da una élite direttiva gelosa della sua sovranità politica e del funzionamento non eterodiretto dell’intera macchina statale. E’ accaduto il contrario di quel che era saggio fare ed abbiamo ceduto potere a Bruxelles senza contropartite proporzionate.
Gli euro-partigiani, quantunque il fallimento delle loro idee sia palese, continuano a premere sull’acceleratore europeo senza alcun ravvedimento. Ancora ieri, in una trasmissione televisiva su LA7, Piazza Pulita, trattando della questione, veniva ripetuta la solita tiritera sull’euro che ci avrebbe salvati da danni ancor maggiori. Presente in studio un mio concittadino che si chiama come me, imprenditore nel settore dei velivoli ultraleggeri, il quale s’improvvisava storico ed economista, commettendo un grave e comune strafalcione. Costui asseriva che fuori dall’euro avremmo patito la medesima sorte della Repubblica di Weimar, costretti a trasportare il denaro con il carrello della spesa per comprare beni di prima necessità.  Al mio omonimo vorrei rammentare che semmai è vero il contrario, cioè che la Germania weimariana si ritrovò in quelle condizioni catastrofiche proprio a causa di vincoli vessatori esterni, tra esorbitanti riparazioni di guerra, imposizione di tagli alla spesa pubblica per la sostenibilità del bilancio e la solvibilità dei debiti contratti, nonché per le  scorrerie della finanza internazionale che speculava e si ingrassava a spese dei tedeschi. Vi ricorda qualcosa? La decadenza si arrestò con la nomina di Hitler a Cancelliere. Hitler compì il miracolo, impensabile solo qualche mese prima, contravvenendo a quasi tutti gli obblighi imposti a Berlino dalle Potenze vincitrici della I guerra mondiale e ripristinando la struttura politica-militare del Reich (rimando, per una miglior comprensione di queste circostanze, ad un ottimo articolo di Sylos Labini). Il rilancio dell’economia nazista seguì questi atti d’imperio politico e non viceversa.
Ribadire, pertanto, anche al cospetto delle innumerevoli smentite portate dai fatti e dalla storia, siffatte bizzarre teoresi che si fondano sull’incoscienza, o, peggio, sulla menzogna, ovverosia che l’Italia ha bisogno di vincoli esterni per rimettersi in marcia, vuol dire consegnarsi mani e piedi a chi ci vuole ancor più sfiancati e dipendenti, al fine di derubarci anche di quel poco che ci resta di buono.
Le terapie d’urto hanno un senso quando sono brevi e mirate, se si protraggono a lungo possono sortire l’effetto opposto. Come per il nostro Paese che ormai stordito non ha quasi più la capacità di rialzarsi. Gli euro-settari si mettano l’anima in pace e non persistano in questo assurdo malinteso che ci condurrà alla completa rovina. Forse, al Belpaese serviva effettivamente un elettrochoc per recuperare lucidità ma gli elettrodi sono stati applicati sul posto sbagliato da persone senza nessuna competenza. Questi andavano messi sulla testa e non sui coglioni, perciò il trattamento da curativo è diventato semplicemente una tortura menomante.
C’è però da dire che le banalità si sprecano anche sull’altro versante,quello degli euro-contrari. Sempre su La7, nel programma del pur bravoGianluigi Paragone, una specie di filosofo, uno dei nouveaux “filosofessophes” di questa fase senza speranza, ha dichiarato che il nuovo nazismo è l’egemonia della moneta e che i teologi della globalizzazione sono i nazisti del nostro tempo. Bella stupidaggine e le motivazioni che dovrebbero allontanare da noi simili sciocchezze  sono le medesime del discorso fatto sopra, ben chiarite anche nell’articolo di Sylos Labini. Il nazismo non c’entra proprio niente con quello che sta accadendo oggi, anzi questo fu proprio una reazione verso umiliazioni geopolitiche intollerabili, condotte con strumenti differenziati, compresi quelli finanziari. Un presunto intellettuale che usa le parole così a cazzo di cane per ottenere un’eco mediatica non è un pensatore ma, appunto, un cazzone.
Sono convinto che la rilevanza data dal circuito mainstream alla controversia pro e contro l’euro è qualificabile come un tentativo di saturare surrettiziamente la scena pubblica con dispute di secondo e terzo grado, apposta per togliere spazio al tema dirimente, quello della sovranità politica vietata all’Italia da una sordida sottomissione alle grandi capitali atlantiche ed europee, dalla quale discendono a cascata tutti i nostri casini. Sicuramente, non saranno i filosofi che frequentano l’accademia, né gli economisti che se la intendono col Financial Times (leggi qui), a tirarci fuori dai guai, perché il guaio è che il loro naso è il punto più lontano dove riescono a guardare.

I difetti dell’euro – che sono un effetto di ciò che ci sta capitando ma non la causa primigenia delle nostre sventure – sono i difetti della nostra mancanza di sovranità. Senza recupero d’indipendenza e di autonomia nazionale, attraverso nuove alleanze geopolitiche che ci sottraggano all’influenza atlantica  e ci spalanchino il subrecinto europeo, non avremo nessuna via di scampo. Se le cose stanno in questi termini, come credo, dobbiamo prendercela con noi stessi e con chi ci sgoverna, non con la Germania che fa il suo sporco lavoro e non fa le nostre stesse sporche figure  in campo mondiale, dove riusciamo sempre a rinnegare i nostri interessi ed a tradire i patti con i partner. Nessuna critica alla nazione tedesca sarà mai accettabile se chi lamenta le chiusure e le rigidità teutoniche non avrà prima detto, chiaro e tondo, qual è l’Amministrazione (per antonomasia) che ci sta tenendo, da lustri, sotto il suo tallone di ferro politico e militare (servendosi anche dei nostri vicini e degli organi burocratici dell’UE da essa controllati) e chi sono i suoi complici interni. Nessuna disapprovazione della speculazione finanziaria avrà per noi valore scientifico e veritativo se questa verrà fondata su presupposti moralistici e umanitaristici (vedi le campagne contro i banchieri deviati, per il  recupero dell’onestà negli affari), o astratti  e metafisici (vedi le crociate contro il globalismo disantropomorfizzante, il capitalismo assoluto ed altre baggianate del tipo), anzichè sulla denuncia dei reali manovratori, governi organizzati in apparati e uomini  in carne ed ossa, che si muovono alle sue spalle. Speriamo con ciò, finalmente, di esserci capiti. Le querelles che ho descritto sono tutte interne allo stato di cose presente, non c’è nulla di meglio al mondo di una finta opposizione per puntellare un sistema. Pro-euristi e anti-euristi sono due facce della stessa medaglia.
di Gianni Petrosillo 

24 settembre 2013

L’Europa e la politica ancella della finanza



Alain_De_BenoistAdesso ci sono arrivati in tanti alla «decrescita» e allo scetticismo nei confronti della religione europeista che impazzava negli Anni 90 e all’ inizio del Duemila. Ma si tratta di idee e atteggiamenti che Alain De Benoist aveva teorizzato e coltivato già negli ultimi 40 anni. Critico (con argomenti precisi) nei confronti dell’Europa, diffidente (in maniera articolata) verso il dio mercantilista, il politologo francese fondatore della Nouvelle Droite era stato per anni relegato, in maniera liquidatoria, nella casella dei pensatori di estrema destra.
Ora che la contrapposizione ideologica destra-sinistra che ha segnato il ’900 non sembra più in grado di orientare le visioni politiche in maniera ferma e forte, e soprattutto ora che che la crisi economica sembra inverare timori e tremori per un tramonto d’Occidente, le riflessioni che De Benoist aveva disseminato riemergono come una trama nascosta, dietro le considerazioni di tanti, sempre più accreditati, maestri di pensiero.

 Friedrich Nietzsche scrisse “L’Europa si farà sull’orlo di una tomba”. Scusi l’inizio “a lutto”, ma le sembra che, su quest’orlo finalmente ci siamo arrivati?
Non ci siamo molto lontani. Alla crisi economica e sociale (tutti gli indicatori sono in rosso) si aggiungono ormai una crisi morale e un’evidente allontanamento del popolo nei confronti della classe politica. Tutti i sondaggi di cui disponiamo confermano delle tendenze “pesanti”, che rivelano una sfiducia generalizzata che va ben al di là delle istituzioni. Ora, la fiducia sociale è il fondamento della coesione sociale. Lo sprofondare della fiducia va di pari passo con l’aumento dell’amarezza e della delusione, della frustrazione e del rancore, cose che possono generare un’ondata di collera.Ciò non vuol dire che si va “a fare l’Europa” (non farò l’errore di confondere con l’Unione Europea), ma che un ciclo sta per terminare. 
Decrescita. Per lei, come per altri (vedi Serge Latouche) è un imperativo motivato dalla finitezza delle risorse. Ma, osservando la situazione europea, più che un modello etico sembra un dato di fatto. Forse si tratta solo di prendere atto che l’Europa non potrà più vivere un periodo di prosperità economica paragonabile a quello dei decenni passati? 
Nel 19 simo secolo si credeva ancora che le risorse naturali fossero gratuite e inesauribili. Adesso sappiamo che non lo sono. Prima di essere una teoria la decrescita è una constatazione: non ci può essere crescita materiale infinita in uno spazio finito. In altri termini, gli alberi non possono crescere fino al cielo. Questo fatto ci colpisce, perché noi abbiamo preso l’abitudine di considerare la crescita economico come qualcosa di naturale. In realtà questa idea è recente. Storicamente è legata all’ideologia del progresso, che, anch’essa, al giono d’oggi è in crisi. Ma la decrescita non significa l’arresto di ogni attività economica, il ritorno indietro, o la fine della storia. Bisogna soltanto abituarsi a moderare i nostri modi di vita. Cioè capire che “più” non è sempre sinonimo di “meglio”.L’austerità al giorno d’oggi messa in atto dai governi europei per soddisfare le esigenze delle banche e dei mercati finanziari si traduce in un abbassamento del potere d’acquisto e in un aumento della disoccupazione, cioè in risultati inversi a quello che si pensava.Provoca l’impoverimento delle classi medie e  di quelle popolari, ma non impedisce che i più ricchi si arricchiscano sempre più. Tutto questo, evidentemente, non ha nulla a che vedere con la decrescita.

L’idea di Europa che a un certo punto ci è stata presentata come ineludibile, in realtà storicamente e culturalmente non ha avuto una gran consistenza. Dalla battaglia di Teutoburgo in poi, tentativi imperiali compresi, l’Europa è stata quasi sempre divisa almeno in due aree culturali, quella mediterranea e quella “nordica” (tedesca e anglosassone). Cosa ne pensa? 
Ma si potrebbe anche parlare di un’Europa divisa in tre, che corrispondono ad antiche zone di influenza religiosa (cattolicesimo al Sud, protestantesimo al Nord, Ortodossia all’Est). Personalmente non ho mai pensato che queste “divisioni” fossero un ostacolo all’unificazione politica dell’Europa. Esse confermano solamente la grande diversità dei popoli e delle culture europee, diversità che deve essere preservata e non soppressa.Quello che è in realtà sorprendente è che l’UE merita ogni giorno un po’ meno il suo nome.L’introduzione dell’euro, che doveva fare convergere le economie europee in realtà ha aggravato le loro divergenze.L’attuale costruzione europea si è infatti effettuata fin dall’inizio contro il buon senso. Si è dapprima scommesso sul commercio e l’industria anziché sulla politica e la cultura. Dopo la caduta del sistema sovietico, anziché cercare di approfondire le sue strutture politiche l’EU ha scelto di allargarsi a paesi desiderosi soprattutto di entrare nella Nato, ciò che ha portato alla sua impotenza e alla sua paralisi. I popoli non sono mai stati realmente associati alla costruzione europea. Infine, le finalità di questa costruzione non sono mai state chiaramente definite. Si tratta di creare un’Eu-Mercato o un’Eu-Potenza? La domanda è questa. 
Il caso del Belgio, per 540 giorni senza governo, ma con buoni risultati economici, non le sembra un gigantesco, epocale, esperimento che dimostra, in maniera quasi beffarda e umoristica, l’irrilevanza della politica nel contesto contemporaneo? 
Il Belgio ha fatto a meno del Governo, ma l’assenza del Governo non ha prodotto la sparizione delle amministrazioni! Non dimentichi neanche che il Belgio è un piccolo paese, che non ha reali ambizioni internazionali. Quello che succede in tutti gli altri paesi d’Europa, toccati in pieno dalla crisi (Grecia, Portogallo, Italia, Spagna) mostra al contrario quello che succede quando la politica capitola davanti alle esigenze della finanza. La crisi attuale, da questo punto di vista, non dimostra l’insignificanza della polutica, ma al contrario la sua importanza essenziale. 
E’ uno dei fondatori della Nouvelle droite, e, conoscendola da lontano, qualcuno la ha associata a Le Pen. Ma pare che i punti di disaccordo tra lei e quest’ultimo siano diversi. Quali sono, in estrema sintesi? 
Le posizioni del Fronte Nazionale hanno subito molte variazioni nel corso della sua storia, cosa particolarmente evidente in ambito economico. Trent’anni fa il FN si definiva volentieri liberale e reaganiano. Al giorno d’oggi, dopo che Marine Le Pen è succeduta a suo padre, lo stesso movimento milita contro il libero scambio, reclama l’introduzione di un  certo protezionismo, e denuncia con vigore la deregulation economica, che ha dato libero corso alle esigenze dei mercati. Personalmente io sono d’accordo con con questa opinione, che spiega, d’altronde, come una grande parte dell’elettorato frontista provenga, ormai, dalla classe operaia. Resto invece in disaccordo con il “giacobinismo” repubblicano del Fronte Nazionale, con la sua ostilità di principio verso il regionalismo e le “comunità” e col suo laicismo islamofobo. 
La perdita di significato delle categorie novecentesche di destra e sinistra è un fatto evidente. Ma, almeno in Italia, si continua a ragionare secondo quei parametri. 
In Italia come in Francia le parole destra e sinistra continuano a essere impiegate in riferimento al gioco politico parlamentare. Ma nello stesso tempo la gente vede bene che i governi di “destra” e “di sinistra” fanno più o meno la stessa politica. E’ il sistema dell’”alternanza unica” (Jean-Claude Michéa) cioè dell’alternanza senza alternativa. La verità è che la destra e la sinistra sono oggi arrivate a una crisi di identità profonda, tantopiù che i grandi avvenimenti creano delle fratture inedite che attraversano la famiglie politiche tradizionali. Penso che le contrapposizioni destra-sinistra non siano più adeguate per analizzare i problemi attuali, che siano divenute obsolete.Una nuovo contrasto, molto più reale, è quello che ormai oppone le classi popolari (di destra e di sinistra) a una “nuova classe” mondializzata oggi totalmente distaccata dal popolo.Sul piano intellettuale è ancora più evidente. La distinzione destra-sinistra non permette assolutamente più di definire degli autori come: Régis Debray, Jean Baudrillard, Serge Latouche, Emmanuel Todd, etc., in Francia, o come Massimo Cacciari, Danilo Zolo, Marco Tarchi o Costanzo Preve in Italia.

E’ un sostenitore di un modello politico federalista, ma non nazionale. Piuttosto “imperiale”. In che senso? 
L’Europa ha conosciuto, nel corso della sua storia, due grandi modelli politici: quello dello stato-nazione, di cui la Francia è l’esempio più tipico, e quello dell’Impero, che è stato prevalentemente quello della Germania e dell’Italia (impero Romano, Sacro romano impero, impero autro ungarico). Il modello stato nazionale è caratterizzato dal centralismo e dal “giacobinismo”, mentre il modello imperiale poggia sul rispetto dei diversi componenti, che possono eventualmente beneficiare di una certa autonomia. Il federalismo mi sembrerebbe il sistema politico che ha maggiormente recepito le caratteristiche del modello imperiale, nella misura in cui oppone il principio di una sovranità condivisa al principio della sovranità una e indivisibile, teorizzata da Jean Bodin, e anche nella misura in cui si fonda sul principio di competenza sufficiente, detto anche principio di sussidiarietà. L’UE, che certi qualificano talvolta come “federale”, da questo punto di vista è perfettamente giacobina, perché è diretta dall’altro verso il basso, da una commissione di Bruxelles che si ritiene onnicompetente. Una vera Europa federale dovrebbe funzionare dalla base verso l’alto, nel rispetto dell’autonomia delle nazioni e delle regioni. 
La tutela delle “piccole patrie” locali come potrebbe avvenire, nei fatti? 
I piccoli paesi potrebbero federarsi tra di loro, mentre i grandi potrebbero federalizzarsi. Un posto tutto particolare dovrebbe anche essere attribuito alle regioni di frontiera. Che sono “vocate” a trasformarsi in euroregioni. Ma come precedente tutto questo suppone un’azione di base che privilegi il localismo e la vita comunitaria locala al fine di favorire la democrazia partecipativa (dem di base, diretta) di rimediare allo scollamento sociale e di creare una nuova forma di vita pubblica, cioè di cittadinanza. 
Lei ha parlato di una “rivoluzione interiore”, come rimedio al capitalismo finanziario e deterritorializzato. Ma come è possibile questa prospettiva se manca un forte indirizzo culturale/ ideale? Oggi viviamo nella cosiddetta “società liquida”. 
In effetti viviamo in una “società liquida” (Baumann) cioè una società dove tutto ciò che un tempo era stabile e durevole tende a essere sostituito dall’instabile e dall’effimero. Simao ormai entrati nel mondo dei flussi e dei riflusso. Questa evoluzione va di pari passo con un “presentismo” che tende a svuotare le dimensioni storiche dell’avvenire e del passato, impedendo nel medesimo tempo di mettere in prospettiva il presente. Questa società liquida è anche per riprendere la formula di Cornelus Castoriadis, una “società delle acque basse”. Il tipo umano che vi predomina è quello dell’homo oeconomicus (individuo consumatore che cerca continuamente di massimizzare il suo miglior interesse materiale), associato a quello del narcisista immaturo. Da questo punto di vista una vera “riforma intellettuale e morale” esigerebbe già una “decolonizzazione” dell’immaginario simbolico, oggi quasi totalmente assoggettato all’immaginario del mercato. Per adesso le condizioni non sembrano in effetti concrete. Ma quello che si vede oggi non ci dice niente di ciò che succederà domani. La grande caratteristica della storia umana è di essere imprevedibile, la storia, per definizione è sempre aperta. 
Chiarisco la domanda: i modelli su cui si appoggiavano le società pre-capitalistiche avevano spesso una forte impronta metafisica e religiosa, che le indirizzava anche socialmente e politicamente. Com’è possibile ottenere una decrescita e una rivoluzione interiore nell’era del nichilismo e del postmoderno? 
A mio avviso è un errore opporre senza sfumature antiche società in cui l’influenza religiosa era forte a società moderne o postmoderne dove la religione è quasi scomparsa. Le cose sono più complicate di così. Il fenomeno della secolarizzazione, che ha segnato tutta la modernità, è da considerare esso stesso come una dialettica. Da un lato le chiese istituzionali hanno finito di dirigere i valori sociali e le istituzioni politiche; ma dall’altro le grandi tematiche religiose che erano formulate un tempo in maniera teologica sono state trasposte nella vita secolare sotto una forma profana. L’ideologia del progresso riprende la parte sua la concezione biblica di una storia lineare, ma orientata verso il meglio. La “felicità” si sostituisce alla salute, la “mano invisibile” sostituisce la Provvidenza. L’ideologia dei diritti dell’uomo ha acquistato la dignità di una religione civile.D’altra parte il bisogno che l’uomo ha di riferirsi a qualcosa di più alto di lui è secondo me una costante antropologica. Appartiene alla natura umana. Ciò non significa che solo le religioni tradizionali possano rispondere a quest’esigenza. Io penso soltanto che il sacro risorge in generale dove uno non se l’aspetta, e che l’uomo ha sempre bisogno di superare se stesso per dare un senso alla sua esistenza. Quanto al nichilismo contemporaneo mi sembra soprattutto il risultato di una scomparsa generale dei riferimenti che fa ritenere una qualsiasi opinione o un qualsiasi desiderio come dotato di ugual valore. Non dimentichiamo, infine, che per Heidegger il nichilismo non è altro che il compimento stesso della metafisica.

Tra l’altro lei non è né un nostalgico, né un tradizionalista. 
Il passato è sempre ricco di insegnamenti, ma  “Non faremo tornare gli antichi greci” diceva Nietszche. Io condivido quest’opinione: è per questo che ho sempre rifiutato il “restaurazionismo” che sostengono gli autori reazionari. Gli ambienti reazionari sono ambienti in cui il riferimento al passato serve da rifugio o da consolazione. Ma la nostalgia (“era meglio prima”!) non è un programma…A meno che non sia la nostalgia dell’avvenire. Penso d’altronde che il passato non può essere definito soltanto come qualche cosa che è successo “prima di noi”. Esso costituisce invece, piuttosto, una dimensione del presente. D’altronde se ci si riflette bene, è soltanto nel presente che il passato può essere percepito come passato. E’ questo che permette di capire e lezioni che possiamo trarre da questo passato. Heidegger per il quale i greci rappresentavano l’inizio della nostra storia, diceva che noi dovremmo essere “più greci dei greci”. Voleva dire con ciò che noi non dobbiamo cercare di rifare quello che hanno fatto i greci, ma ispirarci al loro esempio per mettere in atto un nuovo inizio. 
Con la questione Corea del Nord-Usa molta dell’informazione torna al tema dei cosiddetti “stati canaglia”. La sua opinione riguardo a questo caso specifico? 
C’è poco da dire sul regime nordcoreano, che mette insieme  la dittatura familiare, il dispotismo asiatico, e una forma caricaturale di stalinismo. Ma per qualificare la Corea del Nord piuttosto di “stato canaglia” sarei tentato di parlare di “stato surrealista”. La definizione di stato canaglia in realtà non vuol dire granché. E’ stata impiegata soprattutto dagli Stati Uniti per squalificare i paesi che contrariano la loro politica. Ora, quando si guarda da vicino quello che gli americani rimproverano agli stati canaglia, ci accorgiamo subito che gli stessi rimproveri potrebbero essere rivolti a loro stessi. 
Come giudica il movimento di Beppe Grillo? Sembrate avere in comune diversi temi, a prima vista: reddito minimo, attenzione al locale, decrescita…. 
Guardo il recente successo del movimento Cinque stelle come un sintomo rivelatore dello stato dell’opinione pubblica, e specialmente del discredito in cui è caduta la classe politica.  Il fossato che si è scavato tra la gente e i partiti di governo classici è ormai tale che le persone si volgono a torto o a ragione verso tutto quello che sembra loro non inquadrato e diverso. E’ per questo che il loro voto ha valore di sintomo. Quanto a quelli che si limitano ad agitare lo spettro del “populismo” è facile rispondere loro che le elité in carica non sono meno demagogiche dei populisti e soprattutto che sono le parti del sistema i primi responsabili della comparsa e dello sviluppo dei movimenti populisti. Se gli elettori si sentissero rappresentati da quelli che hanno eletto o incaricati a questo fine, non si rivolgerebbero ai populisti! Quello che Beppe Grillo  e i suoi amici potranno fare dal loro successo, evidentemente è un’altra faccenda.
 Ma da Parte di Grillo, poi, c’è anche il tema della democrazia “diretta” via Internet, che finora sembra dare risultati disastrosi: i rappresentanti e gli elettori che dialogano via blog generano una confusione impressionante. E molti hanno il sospetto che si tratti di una “democrazia diretta”, sì ma da Casaleggio, il guru politico-mediatico di Grillo. Da studioso di politica, che ne pensa di questa idea di democrazia 2.0? Ci sono dei precedenti o dei paragoni storici che ci possono aiutare a illuminarla? 
Internet gioca oggi un ruolo insostituibile nel campo dell’informazione “alternativa”. E grazie a lui che si può sperere di sbriciolare il conformismo mediatico, o anche di far nascere delle vere discussioni. Sono molto scettico sulla possibilità di sviluppare su questo mezzo una vera democrazia diretta. La democrazia diretta esige un confronto diretto nello spazio pubblico. Gli internauti possono anche connettersi fra loro a migliaia, ma restano nella sfare del privato. Non è soltanto diventando degli addict dello schermo, dipendenti da un telecomando o da uno smartphone, che possiamo rimediare alla scomparsa del legame sociale. La socialità implica anch’essa l’esperienza diretta, il contatto diretto. Internet non può svolgere questo ruolo. Ne dà solo l’illusione, proprio come Facebook dà l’illusione di avere degli “amici”. E’ questa la ragione per cui mi rifiuto di figurare sui social network, ma è vero che non ho neanche il telefono portatile!
di Alain de Benoist 

* Intervista a cura di  Bruno Giurato pubblicata su Lettera43

23 settembre 2013

Germania, la ricchezza dai lavoratori alle imprese. Così nasce la "locomotiva


La Germania ha fatto le riforme, ha saputo tenere i conti in ordine, è la locomotiva d’Europa. In Germania un operaio guadagna il doppio del suo collega italiano. Nella mitopoiesi europea del nuovo millennio, la nazione che Angela Merkel si appresta a governare per altri quattro anni è divenuta una sorta di Eldorado in cui i fannulloni mediterranei dovrebbero specchiarsi per impararne le straordinarie virtù. Quanto ai conti pubblici non tutto è come sembra (per il Fmi il Pilfarà solo +0,3% quest’anno).
All’inizio dell’epoca dell’euro, Berlino era “la grande malata d’Europa”. La reazione al declino è stata improntata a un unico obiettivo: comprimere i salari per spingere le esportazioni. Ha spiegato Roland Berger, uno dei consulenti economici di Angela Merkel: “Le riforme tedesche hanno avuto successo: iniziate nel 2003 con una liberalizzazione del mercato del lavoro e un aumento degli stipendi reali inferiore all’incremento della produttività. Poi è seguito il taglio dei costi del sistema sociale (sanità, sussidio di disoccupazione, ndr), l’aumento dell’età pensionabile a 67 anni, la creazione di un segmento di bassi salari. Nel frattempo la Germania ha ridotto le imposte all’industria ma aumentato quelle indirette”. Risultato: “Fra il 2000 e il 2010 i costi del lavoro per unità di prodotto in Germania sono aumentati del 3,9%, in Italia del 32,5%. I costi dei prodotti tedeschi così sono diminuiti del 18,2 % rispetto agli altri Paesi dell’euro”.
Strana locomotiva. La politica scelta da Berlino ha un nome: si chiama beggar thy neighbour, “frega il tuo vicino”. La compressione dei salari tedeschi ha segnato la “vittoria” della Germania non tanto nei confronti di concorrenti tipo Cina (con la quale la bilancia commerciale resta negativa), ma verso i partner dell’Eurozona: nonostante la crescita asfittica di Italia, Spagna, Francia, negli anni pre-crisi il saldo tedesco nei confronti di questi paesi è più che triplicato (dall’8,44 al 26,03%), mentre crollavano i consumi privati e gli investimenti. Questa politica ha mandato in deficit i Paesi periferici causando la crisi dell’Eurozona. Lo sostiene, tra gli altri, l’Ilo, l’istituto Onu che si occupa di lavoro: “L’aumento delle esportazioni tedesche è ormai identificato come la causa strutturale dei recenti problemi dell’area euro”.
La svolta tedesca. Agenda 2010 – le riforme del lavoro di Schröder firmate da Peter Hartz, già capo del personale in Volkswagen – ha comportato per la Germania un trasferimento di ricchezza dai lavoratori alla rendita e alle imprese. Scrive l’Ocse: “La diseguaglianza dei redditiin Germania è salita rapidamente dal 2000 in poi”. Secondo una ricerca della Conferenza Nazionale sulla Povertà (Nak) presentata nel dicembre scorso, il 10% della popolazione tedesca possiede oggi il 53% della ricchezza, nel 1998 era il 45% e nel 2003 il 49%. Il patrimonio delle classi medie, negli stessi anni, è diminuito dal 52 al 46%, mentre nel 2010 metà della popolazione si divideva appena l’1% della ricchezza. Strano per una nazione che tra il 2007 e il 2012 ha visto crescere il patrimonio nazionale di 1.400 miliardi di euro.
Mini-job per tutti. Gerhard Schröder si è vantato dei risultati di Agenda 2010: nel 2003 avevamo oltre cinque milioni di disoccupati, ha detto, ora meno di 3 e abbiamo creato 2,6 milioni di posti di lavoro. Vero, ma anche no. Rispondendo a una interrogazione di Die Linke proprio quest’anno, il ministero del Lavoro ha rivelato quanto segue: dal 2000 al 2011 le ore di lavoro sono aumentate soltanto dello 0,3 per cento, mentre i posti di lavoro a tempo indeterminato sono diminuiti di 1,8 milioni di unità. Non è stato creato alcun nuovo lavoro, si è solo diviso in un altro modo quello che c’era: Schröder ha infatti regalato ai tedeschi i “mini jobs”, contratti iperflessibili da circa 20 ore settimanali con uno stipendio di 450 euro netti, cui vanno aggiunti meno di 150 euro di contributi. Con questa cifra non si vive e allora lo Stato tedesco contribuisce all’affitto, alle spese di trasporto, alla scuola dei figli, in un massiccio trasferimento di risorse che tiene il “mini-lavoratore tedesco” appena sopra la linea di galleggiamento. E rappresenta, di fatto, un aiuto di Stato indiretto alle imprese costato almeno un centinaio di miliardi in dieci anni. I mini jobs, al momento, riguardano 7,3 milioni di persone, il 70% delle quali non ha alcun altro reddito, cui andrebbero aggiunti un milione di “contrattini” a termine e altri 1,4 milioni di lavoratori che guadagnano meno di quattro euro l’ora.
I conti (non) tornano. Jürgen Borchert, presidente del VI tribunale sociale del Land Hessen a Darmstadt, ha “denunciato” i mini jobs alla Corte costituzionale: “Quando un’economia non riesce a garantire quanto basta per vivere alle persone che lavorano duramente, mentre una piccola fascia di persone ad alto reddito accumula ricchezze impensabili, siamo alla fine dell’economia sociale di mercato”. L’Università di Duisburg ha calcolato che la quantità di tedeschi sul fondo del mercato del lavoro è passata dai 2,3 milioni del 1995 agli oltre 8 del 2010, il 23% dell’intera forza lavoro. È così che l’indice di disoccupazione scendeva facendo contenti i politici e i salari reali tedeschi (di quasi il 6% dal 2003 al 2008) e facendo contenti gli imprenditori. Questo dato può essere anche chiamato “crescita della produttività”, la stessa cosa che viene richiesto di fare a noi

di Marco Palombi