31 dicembre 2010

L'avvio della transizione verso una nuova economia

Il 2010 si conclude lasciando qualche barlume di speranza per la soluzione dei pesanti problemi sociali, ambientali ed economici che le nostre società hanno continuato a sottovalutare per decenni e che oggi si stanno palesando in tutta la loro gravità.
La drammatica crisi economica e finanziaria dal 2008 ci sta dimostrando che non è possibile proseguire su di una strada veramente insostenibile, sotto tutti i punti di vista, per il futuro dell'intera umanità. E' giusto quindi valutare quel poco che di positivo è scaturito nelle due Conferenze delle Parti di due importanti Convenzioni internazionali destinate ad ottenere risultati concreti nel governo dei nostri "beni comuni", quella sulla Biodiversità (tenutasi a Nagoya in Giappone lo scorso ottobre) e la Convenzione quadro sui Cambiamenti Climatici (tenutasi a Cancun agli inizi di dicembre).

Il 2010 è stato l'anno internazionale dedicato dalle Nazioni Unite alla Biodiversità e il piano di azione scaturito dalla 10° Conferenza delle Parti di Nagoya della Convenzione sulla Biodiversità, come abbiamo già analizzato nelle pagine di questa rubrica, va considerato una buona base di impegni per cercare di frenare la perdita della ricchezza della vita sulla Terra nell'arco dei prossimi dieci anni. Anche la Conferenza delle Parti sul clima di Cancun è riuscita nell'intento di rivitalizzare il negoziato internazionale che sembrava destinato all'estinzione dopo la conferenza dello scorso anno a Copenaghen e quindi vi sono buone speranze di chiudere un accordo internazionale entro il 2011.

Certamente tutte queste iniziative della diplomazia internazionale si scontrano duramente con il fattore più critico che dobbiamo affrontare, costituito dal tempo. Il fattore "tempo" non gioca certo a nostro favore e i ritardi, i rimandi, l'inazione, le deroghe tanto care al mondo della politica non fanno altro che peggiorare la situazione. Domani sarà sempre più difficile risolvere problemi che, con il passare del tempo e la mancanza di interventi concreti e decisivi, non potranno che aggravarsi.

Oggi una vera priorità sta diventando sempre di più quella di modificare l'impianto di base della nostra economia che promuove un meccanismo di crescita continua, materiale e quantitativa. E' francamente impossibile salvare la biodiversità del pianeta, ristabilire i complessi equilibri dinamici del sistema climatico, affrontare tutte le notevoli problematiche di insostenibilità della nostra pressione crescente sui sistemi naturali della Terra, sui suoli, sui cicli idrici, sui grandi cicli biogeochimici dell'azoto, del carbonio, del fosforo ecc., senza intervenire significativamente sui meccanismi fondanti dell'attuale sistema economico e finanziario.

Ecco perché sta diventando di grande importanza tutto il lavoro internazionale interdisciplinare di tantissimi esperti che lavorano alacremente per impostare una nuova economia ecologica, che consenta alle nostre società di imboccare strade più sostenibili dal punto di vista ambientale e sociale.

Proprio nel 2010 è stato reso noto un altro importantissimo tassello di questo nuovo mosaico, il rapporto finale della grande iniziativa internazionale TEEB, The Economics of Ecosystems and Biodiversity (vedasi www.teebweb.org).

Il TEEB, diretto dall'economista indiano Pavan Sukhdev e lanciato dalla Germania e dalla Commissione Europea nel 2007 è stato sostenuto dal Programma Ambiente delle Nazioni Unite (UNEP, vedasi il sito www.unep.org ) e da Regno Unito, Norvegia, Olanda e Svezia.
Il TEEB mira a comporre tutte le esperienze, le conoscenze, i know-how esistenti in tutte le regioni del pianeta per rendere sempre più la nostra economia, sia nella teoria che nella pratica, basata sui fondamenti biofisici dei sistemi naturali che la supportano. Il TEEB dimostra il fallimento dei mercati nel considerare adeguatamente il valore degli ecosistemi e dell'intera biodiversità del pianeta. Il TEEB dimostra proprio come le attività mirate alla conservazione, ripristino e razionale gestione delle risorse e dei sistemi naturali costituisce un autentico investimento economico.

La mancanza di un prezzo di mercato per i servizi offerti dagli ecosistemi e per la biodiversità dimostra che i fondamentali benefici derivanti da questi beni (in molti casi beni pubblici e collettivi) sono quasi sempre negletti o sottovalutati nelle decisioni politiche. Gli effetti di queste sottovalutazioni si riverberano non solo nel peggioramento continuo e progressivo dello stato di salute degli ecosistemi del mondo intero che oggi sono sottoposti ad una pressione umana senza precedenti, ma anche sullo stato di salute dell'umanità e del benessere umano nel suo complesso.

Il valore degli ecosistemi e della biodiversità è oggi paradossalmente invisibile all'economia che guida le scelte politiche nel mondo intero. Le conoscenze scientifiche acquisite ci dimostrano che il capitale naturale, gli ecosistemi, la biodiversità e le risorse naturali, sono la base del benessere delle economie, delle società e degli individui. Il valore della miriade di benefici che derivano dalla ricchezza della natura presente sul nostro pianeta è ignorata e non presa in considerazione dal mondo politico-economico che, quotidianamente, decide ciò che condiziona la nostra esistenza.

Stiamo drammaticamente distruggendo le basi del nostro stock di capitale naturale e lo facciamo prima ancora di riconoscere il valore che stiamo perdendo. Il persistente degrado dei suoli, dell'acqua, delle risorse biologiche impatta negativamente sulla nostra salute, sulla nostra sicurezza alimentare, sulle scelte dei consumatori e sulle opportunità delle attività imprenditoriali.

In questo ambito è fondamentale modificare i grandi indicatori della performance economica, come il PIL. Una interessante speranza anche per il nostro paese nasce dalla recentissima costituzione presso il Cnel, di un "Gruppo di indirizzo sulla misura del progresso della società italiana", composto da rappresentanze delle parti sociali e della società civilee fortemente voluto dall'ottimo presidente dell'ISTAT, Enrico Giovannini. L'obiettivo del Gruppo, come ricorda lo stesso ISTAT, è proprio quello di sviluppare un approccio multidimensionale del "benessere equo e sostenibile" (Bes), che integri l'indicatore dell'attività economica, il Pil, con altri indicatori, ivi compresi quelli relativi alle diseguaglianze (non solo di reddito) e alla sostenibilità (non solo ambientale).

La misurazione del progresso passa attraverso l'analisi di due componenti: la prima, prettamente politica, la seconda di carattere tecnico-statistico. Come ormai appare evidente dall'ampio ed articolato dibattito internazionale sull'argomento, non è possibile sostituire il Pil con un indicatore singolo del benessere di una società. Quindi, si tratta di selezionare un insieme di indicatori e fare ciò richiede il coinvolgimento di tutti i settori della società, nonché degli esperti di misurazione. Ecco perché il Cnel e l'Istat hanno deciso di avviare questa iniziativa, in analogia a quanto sta avvenendo in altri paesi.

Il Gruppo lavorerà quindi nel corso dei prossimi 18 mesi con l'obiettivo di:
- sviluppare una definizione condivisa del progresso della società italiana, definendo gli ambiti economici, sociali ed ambientali di maggior rilievo (salute, lavoro, benessere materiale, inquinamento, ecc.);
- selezionare un set di indicatori di elevata qualità statistica rappresentativi dei diversi domini. Tale insieme di indicatori dovrà essere limitato in termini numerici, così da favorire la sua comprensione anche ai non esperti;
- comunicare ai cittadini il risultato di questo processo, attraverso la diffusione il più capillare possibile dell'andamento degli indicatori selezionati.
Inoltre, l'Istat costituirà una Commissione Scientifica che avrà il compito di svolgere il lavoro preparatorio per lo sviluppo degli indicatori statistici più appropriati per misurare il progresso della società italiana, anche alla luce delle raccomandazioni internazionali.

In particolare, nella prima fase (prima metà del 2011), si procederà allo svolgimento di una consultazione pubblica online aperta agli esperti, alla società civile ed ai singoli cittadini per raccogliere i loro contributi sull'importanza delle singole dimensioni del benessere maggiormente rilevanti per la società italiana. Inoltre, l'Istat ha inserito nella propria indagine multiscopo alcuni quesiti sull'importanza che i cittadini danno alle singole "dimensioni" del benessere, utilizzando le categorie suggerite dell'Ocse e dalla Commissione Stiglitz, Sen, Fitoussi (voluta dal presidente francese Nicholas Sarkozy e che ha concluso i suoi lavori con la pubblicazione del rapporto finale nel settembre 2009), alla definizione, sulla base di tali risultati, delle macrodimensioni del benessere da porre sotto osservazione. La proposta del Gruppo verrà poi presentata alle diverse Commissioni ed all'Assemblea del Cnel per approvazione.

Nella seconda fase del progetto (seconda metà del 2011) l'Istat proporrà al Gruppo di Indirizzo i possibili indicatori da adottare per misurare i diversi aspetti del benessere equo e sostenibile, il quale cercherà di pervenire, previa consultazione dei portatori di interesse, ad una proposta condivisa da sottoporre, per approvazione finale, alle diverse Commissioni ed all'Assemblea del Cnel.

Infine, a metà del 2012 si procederà alla predisposizione di un Rapporto Cnel-Istat sulla misura del progresso della società italiana, il quale verrà reso disponibile in diverse forme e promosso attraverso i mezzi di comunicazione, così da assicurarne una conoscenza il più diffusa possibile tra la popolazione.

L'iniziativa Cnel-Istat pone l'Italia nel gruppo dei paesi (Francia, Germania, Regno Unito, Stati Uniti, Australia, Irlanda, Messico, Svizzera, Olanda) che hanno recentemente deciso di misurare il benessere della società attraverso un insieme selezionato di indicatori statistici di qualità, alla cui selezione partecipano rappresentanti delle parti sociali e della società civile. Tale approccio, suggerito dall'Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (Ocse) e dalla già citata"Commissione Stiglitz" , alla quale abbiamo dedicato diverse pagine di questa rubrica, fornirà al paese una quadro condiviso dell'evoluzione dei principali fenomeni
economici, sociali ed ambientali.

Il miglior augurio per il nuovo anno è proprio quello di sperare che si avvii finalmente una transizione concreta verso una nuova economia. E' la migliore prospettiva che abbiamo per tutta l'umanità.
di Gianfranco Bologna

30 dicembre 2010

E se il club delle nove banche globali colpisse l 'Italia?

La tempesta perfetta è sostanzialmente un fenomeno che riguarda l’indebitamento in senso lato, indebitamento dei privati per il credito al consumo o per i mutui, delle imprese, degli Stati e delle banche per la montagna di titoli più o meno tossici della finanza strutturata con i quali hanno ricoperto il pianeta.

Molti di questi debiti sono in default, molti non sono ancora giunti a questa situazione ma vi sono vicini, altri titoli tossici vengono ritenuti buoni soltanto a causa di una modifica alle regole di rappresentazione di bilancio, ma buoni non sono.

La crisi del debito sovrano in Europa aggiunge un altro tassello a questo quadro, ma il problema non riguarda solo Grecia e Irlanda, riguarda un buon numero dei paesi del Vecchio Continente, Italia inclusa, riguarda l’euro, ma, dall’altra parte dell’Oceano Atlantico, riguarda i titoli di stato statunitensi e il dollaro, nonché lo stato delle banche che hanno l’etichetta del too big to fail (troppo grandi per fallire).

Come si esce da una crisi del debito? Le strade sono diverse, ma la più semplice la ha indicata la cancelliera Angela Merkel, la quale ha sostenuto che anche i creditori, i possessori cioè dei titoli, devono fare la loro parte, accettando di incassare quanto il Mercato valuta quei pezzi di carta da loro sottoscritti quando ben altra era la solidità degli emittenti.

Quello che propone oggi la Merkel è stato già vissuto sulla loro pelle dagli obbligazionisti della Chrysler e della General Motora, mentre poco si sa di quanto è accaduto ai possessori di obbligazioni emesse da entità minori e i cui default non hanno guadagnato le prime pagine dei giornali finanziari, ma non è azzardato ritenere che in molti casi non sia rimasto in mano a questi creditori molto più del classico pugno di mosche.

Per quanto riguarda l’area dell’euro, finora i creditori non sono stati toccati dal crollo dei titoli sul mercato secondario se hanno deciso di portare a scadenza i loro titoli, ma dopo Grecia e Irlanda, e forse nei prossimi giorni il Portogallo, la speculazione guidata dal club delle nove banche globali potrebbe toccare Spagna e Italia, non in questo ordine necessariamente, e allora ci sarebbe il rischio concreto di una ristrutturazione del debito che potrebbe anche colpire pesantemente i detentori dei titoli di Stato.

Ma cos’è questo club delle nove banche globali di cui ha parlato per primo il New York Times? Si tratta di sei banche statunitensi, le più grandi, tra cui Goldman Sachs, Citigroup, J.P. Morgan-Chase, Bank of America, ma anche svizzere, inglesi e tedesche che da tempo usano riunirsi in un giorno fisso della settimana per discutere di materie prime, azioni e titoli di Stato e per decidere linee guida di azione, riuscendo a influenzare l’andamento dei mercati grazie al volume di fuoco che possono scatenare.

Si tratta di volumi che possono mandare alle stelle o agli inferi il valore della moneta di un paese di medie dimensioni, o i titoli rappresentativi del debito dello stesso malcapitato paese, ma grande influenza hanno anche sui mercati delle materie prime, in particolare di quelle energetiche.

Le difese contro queste banche sono molto scarse, anche perché gli altri operatori tendono ad accodarsi ai loro movimenti, restando spesso bruciati quando i grandi decidono repentinamente di cambiare strategia.

Le stesse banche centrali e i governi dei paesi maggiormente industrializzati poco possono contro una coalizione di entità così potenti, vere e proprie multinazionali del credito che hanno in gestione quantità di denaro pari a multipli del prodotto interno lordo di questi paesi, possono al massimo esercitare una morali suasion affinché non eccedano nell’influenzare i mercati valutari e quello dei titoli di Stato e, anche in questo caso, non sempre con successo.
di Marco Sarli

29 dicembre 2010

Scuola pubblica: chi l'ha uccisa ?







Coloro che, come il sottoscritto, si trovano a lavorare nel mondo della scuola, provano spesso la sensazione di essere capitati all’interno di una istituzione sopravvissuta alla propria funzione e al proprio ruolo. Si viene a scuola tutte le mattine, da insegnanti o da allievi, come ci si recherebbe al tempio di una divinità antica, di cui sacerdoti e fedeli ricordano le prescrizioni rituali, ma non le promesse di crescita spirituale, né il significato che la partecipazione al rito garantiva un tempo di donare alla vita individuale e collettiva. Si tengono ore di lezione, si programmano obiettivi didattici e prove in itinere, si celebrano solenni messe pomeridiane di classe e d’istituto in cui si valutano virtù e peccati dei fedeli (i quali saranno comunque tutti assolti nel Giorno del Giudizio, poiché la scuola è una divinità infinitamente misericordiosa), si tiene viva la sacra fiamma delle attività integrative e dei recuperi pomeridiani, si verbalizzano scrupolosamente le proposte e le valutazioni del sinedrio e si lotta quotidianamente contro la perdita di fede che la seduzione del maligno tenta di indurre nei docenti timorati di Dio. L’opera del Nemico dell’Uomo si manifesta, nel sacerdote che vede indebolirsi le proprie certezze, attraverso la sgradevole sensazione di stare officiando una cerimonia funebre piuttosto che un rito della fertilità; come avviene nel meraviglioso libro di Gianni Celati, Fata Morgana, in cui il misterioso popolo dei Gamuna utilizza le aule scolastiche per i riti funebri collettivi.

“Arrivati alla scuola, in un’aula hanno visto il morto sulla cattedra e i maschi adulti del suo gruppo familiare seduti nei banchi. Erano seduti nei banchi come scolari che ripassino una lezione, e tutti recitavano litanie di nomi degli antenati. Ma quelli nelle prime file, con l’aria di scolari più bravi e più studiosi, correggevano spesso le litanie degli altri. Allora gli altri reagivano, e scoppiavano litigi, volavano insulti e minacce”.

Lo spirito ingannatore viene comunemente raffigurato dall’iconografia ecclesiale con fattezze di lugubre materialità economica, contrapposta alla spiritualità della cultura, che rappresenta la cifra distintiva della mistica scolastica. Il maligno compie la sua opera devastatrice preferenzialmente attraverso i tagli all’istruzione pubblica, fonte di falcidia d’insegnanti e bidelli e di razionamento delle fotocopie e della carta igienica. Non è chiaro cosa abbia a che fare la carta igienica con la spiritualità dell’istruzione. I frequenti richiami a questo emblema della trivialità corporea nelle invettive dei padri della Chiesa denotano probabilmente eventi di possessione demoniaca, simili a quelli che costringevano gli antichi anacoreti dei deserti della Palestina a prodursi in orribili bestemmie e imprecazioni da taverna mentre lottavano per liberare la propria carne dall’abbraccio tentatore di satanasso. Altri deprecano lo slittamento progressivo dell’istruzione verso le mani dei privati, adducendo diverse e contrastanti giustificazioni circa i motivi per cui tale passaggio di mano risulterebbe indesiderabile. Si invoca, a seconda dei casi, il pericolo di una scuola classista, di alto livello per i ricchi (quella privata) e di infimo livello per i poveri (quella pubblica); oppure, al contrario, si fanno rilevare (forse con un briciolo di realismo in più) le pessime performance delle scuole private – autentiche tipografie di certificati scolastici per analfabeti – a fronte dei risultati leggermente migliori di cui può vantarsi l’istruzione statale. E’ raro trovare qualcuno che osi andare un po’ più a fondo, cioè alla radice della rarefazione di significato che sembra oggi investire la scuola pubblica. Una perdita di significato che ha molto più a che fare con l’obsolescenza dei suoi scopi originari o con l’impossibilità politica di soddisfarli nel perdurare delle attuali contingenze internazionali, che con la decurtazione delle risorse economiche.

Com’è noto, l’edificio dell’istruzione pubblica illuminista era nato con due scopi essenziali. Il primo era quello di indottrinare e ridurre all’obbedienza le masse non acculturate. Attraverso la scuola, il nuovo potere borghese in ascesa intendeva sostituire, per ragioni di controllo delle coscienze, la propria visione del mondo a quella propagandata per secoli dalle istituzioni della Chiesa. Da qui l'introduzione nella prima scuola di stato di una serie di contenuti (esaltazione della scienza e del razionalismo, ridefinizione e ricategorizzazione degli eventi storici, lettura dei fenomeni naturali e finanche di quelli sociali in chiave puramente meccanicistica, ecc.) finalizzata ad inculcare nelle masse una nuova percezione dell'esistente che fosse funzionale agli scopi perseguiti dal nuovo potere costituito. Allo stesso tempo, si mirava attraverso l'istituzione scolastica ad imporre rigidi modelli di comportamento che riducessero al minimo l'eventualità di sollevazioni ed atteggiamenti sediziosi di fronte agli sconvolgimenti politici, sociali ed ambientali con cui la politica di dominio delle nuove élite stava per spazzare via modelli e paradigmi di vita comune consolidati da secoli. Questa prima finalità con cui il modello scolastico dei primordi era stato progettato è divenuta obsoleta da ormai quasi un secolo.

La diffusione dei mezzi di comunicazione di massa e le teorie sul controllo del comportamento e della percezione degli individui attraverso un entertainment e un'informazione manipolati all'uopo (si legga in proposito il fondamentale Propaganda di Edward Bernays), ha permesso alle élite di garantirsi potenzialità di manipolazione percettiva e di gestione del malcontento sociale infinitamente più ampie, stringenti ed efficaci di quelle che l'istruzione pubblica avrebbe mai potuto assicurare. Per trapiantare nella percezione delle moltitudini gli schemi interpretativi voluti dal potere e per rendere gli individui del tutto impotenti e inconsapevoli dei meccanismi politici che stanno alla base delle loro vite, è molto più efficace mezz'ora di rimbecillimento videomusicale su MTV che un decennio di apprendistato condotto sotto la supervisione del più autoritario e manesco degli insegnanti. Il secondo scopo per cui l'istruzione pubblica era stata originariamente ideata era quello di rappresentare un percorso di formazione per una nuova classe dirigente, la quale avrebbe dovuto gestire le istituzioni del nuovo sistema sociale, nonché le nascenti realtà produttive del modello industriale. La scuola doveva essere dunque un vivaio di professionalità da cui attingere i tecnici, i ricercatori, gli specialisti, i quadri dirigenti, in grado di far funzionare, secondo le direttive determinate dall'élite borghese, il nuovo impianto sociale in formazione. Questa seconda finalità dell'istruzione pubblica non è mai venuta meno ed è oggi più attuale ed urgente che mai; soprattutto in paesi come l'Italia, il cui problema di fondo è sempre stato quello dell'assenza di una classe dirigente, tecnicamente e culturalmente preparata, in grado di guidare le istituzioni politiche, economiche ed industriali del paese. La mancata nascita di una classe dirigente in Italia non è del tutto imputabile a carenze della scuola pubblica nazionale, la quale è stata per lunghi periodi (almeno fino alla fine degli anni '60 del '900) dotata di strutture e metodologie formative di discreto/ottimo livello. E' invece imputabile alla condizione di sudditanza politica internazionale del nostro paese, seguita alla sconfitta nella II Guerra Mondiale.

Per mantenere e rafforzare questa sudditanza, i dominanti statunitensi non hanno esitato a porre in atto strategie atte a distruggere e vanificare i criteri selettivi delle élite dirigenti pensati per la nostra scuola pubblica, fino a ridurre quest'ultima al miserabile caravanserraglio che è oggi. Un informe baraccone dei fenomeni, in cui analfabeti, facinorosi, handicappati e disadattati di varia asocialità sono oggetto delle stesse attenzioni formative spettanti agli allievi eccellenti e destinatari delle stesse certificazioni culturali e professionali, che risultano svuotate pertanto di ogni valore. Nel 1923, avendo ben presente la necessità di formare e selezionare una classe dirigente nazionale, il filosofo Giovanni Gentile aveva introdotto nell'ordinamento normativo quella che resta a tutt'oggi la miglior riforma della scuola mai presentata in Italia. Non era una riforma esente da difetti, né di certo la migliore immaginabile. Semplicemente, per lo spirito nazionalistico che la guidava e per la costruzione teoretica che la sorreggeva, era molte spanne al di sopra di ogni altra normativa della scuola mai varata nel nostro paese negli anni che la precedettero e la seguirono. Anche se Mussolini la definì “la più fascista delle riforme”, difendendola strenuamente contro i suoi numerosi detrattori, la riforma Gentile era tutt'altro che fascista. Gentile era un intellettuale liberale di destra prestato al fascismo, del quale condivideva un certo autoritarismo di fondo, ma non necessariamente l'impostazione sociale e politica. Non è un caso che i principali nemici della riforma furono gli stessi ministri dell'istruzione del fascismo che si alternarono alla Minerva nel corso del Ventennio. Nella concezione gentiliana, l'educazione doveva indirizzarsi, nella sua forma più completa, agli uomini migliori, ai futuri capi e non alle masse. Per questo motivo, il livello secondario era stato nettamente suddiviso in due tronconi: una formazione classico-umanistica per i futuri dirigenti e una formazione professionale per tutti coloro che non avessero raggiunto certi livelli minimi di eccellenza nelle discipline. “La società nostra”, scriveva Gentile nel 19081 , “è zeppa di legisti e medici a spasso, con tanto di laurea incorniciata e appesa nel più onorevole luogo di casa. Essi hanno compiuto pessimamente gli studi universitari, come male hanno fatto i secondari […]. Costoro non sono nati agli studi; anzi, fruges consumere! Sono numero; e non hanno diritto di fare i medici e gli avvocati. […] Alla folla che guasta la scuola classica lo Stato deve assegnare non mezzi di dare comunque la scalata alle università, ma scuole tecniche e commerciali svariate, le quali […] non devono dare adito alle università mai”. Parole che si potrebbero sottoscrivere anche oggi.

Gentile aveva voluto una costruzione fortemente meritocratica, che metteva da parte il vecchio favoritismo clientelare e sanciva che ai migliori fossero riservati i posti di maggiore responsabilità. Per questo motivo era stato istituito un limitato numero di scuole elitarie, particolarmente quelle a indirizzo classico, che dovevano servire alla formazione della nuova classe dirigente. Alle altre scuole, in particolare a quelle tecniche e commerciali, era affidato il compito di fungere da canali di scolmatura che evitassero l’intasamento dei corsi privilegiati. Sempre con questo obiettivo elitario, la riforma aveva previsto l’esame di Stato, aveva limitato il numero di ore di ripetizione impartite dai professori (non più di una al giorno, come previsto dal R. D. 27-11-1924, n. 2367, art. 47) e “moralizzato” i concorsi pubblici. Ma ad essere scontenta dell’elitarismo della riforma, che la escludeva dall'accesso alle cariche di maggior rilievo, era la stessa piccola borghesia che aveva appoggiato l’ascesa del fascismo e che ne costituiva il nerbo sociale. Inoltre, la selettività di Gentile lasciava fuori dalla scuola ampi settori della realtà giovanile, sottraendoli al controllo politico del fascismo. La scuola così concepita risultava comunque insufficiente ai fini totalitari del regime: Augusto Turati, segretario del Pnf, dichiarava nell’aprile 1927 che la fascistizzazione della scuola era impossibile senza la fascistizzazione degli insegnanti. E poiché il fascismo non possedeva le necessarie leve culturali per la sostituzione degli insegnanti, l’unica via era quella d’imporre d’autorità l’adesione agli ideali fascisti utilizzando presidi e direttori didattici come organi di controllo poliziesco. Gentile aveva assegnato un posto di netto rilievo all’autonomia didattica del docente, progettando una scuola che fosse posta al di sopra delle fazioni politiche. Ma già con la legge del 24 dicembre 1925, il fascismo introdusse il licenziamento per insegnanti e funzionari che avessero professato idee vicine all’opposizione, anche al di fuori dal servizio. La sorveglianza dirigenziale era integrata dall’ampio credito offerto alle denunce di scandali pervenute tramite lettere anonime. Con il regio decreto del 28 agosto 1931, il ministro dell’istruzione Balbino Giuliano introdusse poi per i docenti universitari il giuramento di fedeltà al regime, che solo una dozzina di docenti rifiutarono di sottoscrivere. A queste problematiche vanno aggiunte le critiche portate avanti da alcune riviste scolastiche d’impostazione bottaiana (in particolare “La Pedagogia italiana”, diretta da Salvatore Talia e “I Diritti della Scuola”, diretta da Luigi Volpicelli), le quali polemizzavano con l’impostazione idealistica gentiliana, ritenendola controproducente per lo sviluppo economico del paese, vista la marginalizzazione in cui essa relegava il settore della professionalità, della tecnica e del lavoro per privilegiare l’attività intellettuale. Nonostante l'avversione dello stesso regime fascista, il progetto gentiliano, pur stravolto e svuotato di contenuti in molti suoi punti, restò l'unico punto di riferimento possibile per la formazione di nuove leve dirigenti nell'arco di tutto il Ventennio.

I suoi effetti benefici continuarono a prodursi nel dopoguerra, quando le nuove generazioni, formatesi grazie all'impostazione meritocratica gentiliana, iniziarono a guidare il “boom” economico e industriale che doveva condurre l'Italia fuori dalla tragedia della guerra e verso la riacquisizione di una sovranità nazionale fondata su una riconquistata posizione di forza sullo scenario degli scambi internazionali. Fu allora che, negli Stati Uniti, i responsabili della nostra colonia iniziarono a preoccuparsi. Non si poteva permettere all'Italia di acquisire spazi troppo ampi di sovranità, che avrebbero rischiato di renderla una pedina pericolosamente autonoma nello scacchiere europeo e perfino di trascinarla, sul medio periodo, fuori dall'alleanza atlantica. Ogni velleità di espansione commerciale, di autonomia nella politica estera e nazionale, di crescita industriale, di tutela e recupero dell'identità culturale – tutte cose che l'impianto educativo di Gentile, in modo diretto o indiretto, consentiva di attuare – doveva essere stroncata sul nascere. Una colonia le cui strutture educative siano in grado di produrre una classe dirigente, di alto o medio livello, che si ponga a capo delle strutture politiche, economiche e finanziarie, nonché di garantire la refrattarietà della cultura nazionale alla penetrazione dei nuovi modelli di pensiero imposti dai dominanti attraverso i mezzi di comunicazione di massa, non resterà una colonia per molto tempo. Tutto questo doveva essere fermato. Com'è noto, l'ostracismo al boom economico che avrebbe potuto sollevare l'Italia dal suo giogo iniziò fin da subito e si indirizzò su diverse linee d'azione. Il 27 ottobre 1962 venne assassinato, tramite un finto incidente aereo, il presidente dell'Eni Enrico Mattei, l'uomo che rischiava di dare all'Italia l'autosufficienza energetica necessaria per sostenere la sua crescita industriale indipendente. Mattei aveva iniziato a stringere accordi con paesi petroliferi come l'Egitto di Nasser, l'Iran, il Sudan, restituendo all'Italia una politica estera mediterranea e mediorientale di grande prestigio che ampliava a dismisura gli ambiti d'iniziativa della politica nazionale. I proventi dell'ENI avrebbero potuto inoltre finanziare una classe politica autoctona del tutto slegata dalle logiche neocoloniali imposte dai dominanti.

A piazzare la bomba sull'aereo di Mattei furono gli uomini di Giuseppe di Cristina, capo di una famiglia mafiosa manovrata, come molte altre, dagli interessi statunitensi. Successivamente la battaglia per privare l'Italia di una classe politica autonoma si servì della “strategia della tensione”, durata quasi un ventennio e culminata nel rapimento e nell'assassinio di Moro. Essa doveva servire a tenere sotto costante minaccia la politica nazionale, allo scopo di chiudere all'Italia, con il ricatto e gli omicidi politici, ogni spazio di trattativa con l'estero che rischiasse di allentare i legami con la NATO. Tutte le strategie terroristiche e le bombe di quegli anni, pur diramate in mille rivoli di connessioni, collusioni, depistaggi, strumentalizzazioni e partecipazioni di agenzie d'intelligence nazionale e internazionale di varia provenienza ed estrazione, puntano decisamente ad una regia di marca statunitense che ideò e diresse le linee portanti dell'operazione. Ma tra l'assassinio di Mattei e l'avvio della strategia della tensione, vi fu un altro evento, che servì a distruggere definitivamente alla radice ogni possibilità che una nuova classe dirigente italiana potesse rinascere dalle ceneri del terrorismo. Tale evento fu la contestazione studentesca del '68, che spazzò via per sempre dall'impianto educativo italiano ogni forma di selettività e meritocrazia, eliminando una volta per tutte l'idea stessa che scopo e funzione primaria della scuola di Stato sia quello di garantire ad una nazione un'élite di “optimates” capaci di assicurarne la guida e i necessari spazi di sovranità.

Quest'idea squisitamente gentiliana è stata sradicata non solo dalle normative scolastiche, ma dalle stesse teorizzazioni sulla funzione della scuola – falansteri “pedagogici”, la maggior parte dei quali sono, manco a dirlo, di provenienza statunitense – e rappresenta oggi, per chi osa riproporla, l'equivalente ideologico di una bestemmia in chiesa. Il 68 seppellì l'ovvio concetto che una scuola viene finanziata dallo Stato anche – e soprattutto – affinché serva a garantire allo Stato il necessario ricambio di leve dirigenziali, sotto un fiume in piena di chiacchiere “egualitariste”, sotto una valanga di piagnucoloso pietismo per gli “svantaggiati”, sotto un'eruzione poderosa di “nuove teorie” sullo sviluppo della relazionalità del fanciullo (“comportamentismo”, “cognitivismo”, “costruttivismo” e via delirando) che risultano astruse e difficilmente comprensibili a chi è costretto a studiarle sul piano teorico nei corsi di abilitazione e di aggiornamento e del tutto risibili a chi ne osserva, sul piano pratico, i risultati applicativi concreti nella quotidianità scolastica. Con il Sessantotto, le scuole secondarie e le università divennero “di massa”, il che, già sul piano etimologico rappresenta una contraddizione in termini. L'università è il “luogo di studio pubblico in cui s'insegna l'universalità delle scienze”, cioè un'istituzione preordinata all'ampliamento e al perfezionamento delle competenze, cui solo i più dotati – coloro che hanno già acquisito competenze di alto livello che vanno ampliate e perfezionate – dovrebbero poter accedere.

Aprire l'università alla “massa” (cioè a mandrie di semianalfabeti e perdigiorno privi finanche delle competenze minime per la composizione di un testo) non equivale ad accrescere il livello della cultura nazionale, ma ad omologarlo verso il basso, consentendo ai “legisti e medici a spasso” di cui parlava Gentile di fregiarsi di un titolo equivalente a quello acquisito con impegno e fatica dai più preparati. Ciò svuota il titolo stesso di qualunque valore certificativo, costringendo enti ed aziende a creare proprie procedure di selezione dei quadri dirigenti per supplire all'assenza di valutazione oggettiva preliminare, un tempo assicurata dall'istituzione pubblica. Le procedure di valutazione gestite dalle aziende private, pur essendo giustamente e rigorosamente selettive, sono purtroppo anche settoriali: garantiscono cioè l'adeguatezza del candidato al ruolo specifico in cui verrà inserito, ma ignorano e scoraggiano ogni percezione di più ampio respiro, che potrebbe servire a coordinare l'operatività e gli obiettivi della singola struttura pubblica o privata con gli obiettivi di altre strutture, dando vita ad un più esteso progetto finalizzato a costruire e rafforzare un programma di valenza strategica nazionale. La selezione privata costruisce organici che assicurano, al massimo, il profitto e l'efficienza gestionale del singolo ente; per restituire sovranità ed autonomia ad una nazione, occorrerebbero organici dotati di competenze ben più vaste ed ecumeniche (culturali, linguistiche, politiche, intergestionali, ecc.) che l'istruzione di Stato non è più in grado di fornire. Non a caso, la riforma gentiliana aveva assegnato un ruolo preminente alle discipline umanistiche, le quali non forniscono solo nozioni attinenti a a un settore dello scibile, ma anche gli strumenti essenziali (logici, linguistici, critici, ermeneutici, dialettici, relazionali, ecc.) per impadronirsi di qualunque competenza ed integrarla con le altre in una prospettiva universale.

Privata della sua originaria e primaria funzione – quella di plasmare l'élite di una nazione, elevandola al di sopra della massa – la scuola è sopravvissuta ritagliandosi (senza mai ammetterlo) una serie di ruoli posticci: quello di ammortizzatore sociale, per lenire i morsi della disoccupazione che l'aborto prematuro del “boom” industriale ha disastrosamente generato; quello di baby-sitter, per tenere occupati con frizzi e lazzi di lieta ebetudine i figli delle famiglie così fortunate da contare ancora fra i propri membri una pluralità di individui dotati di stabile occupazione; quello di rinforzo all'ordine pubblico, assumendo su di sé il controllo e la parziale “detenzione” coatta giornaliera degli elementi più esagitati, sbandati e criminali del sottobosco giovanile, proliferati a dismisura con l'espansione dello scimunimento televisivo e dell'immigrazione; infine quello di vivaio clientelare che ha garantito per anni la permanenza ai vertici delle istituzioni degli artefici della rivolta sessantottarda. Costoro rappresentano l'élite borghese locale “di sinistra” che, su direttive impartite dall'establishment politico statunitense, si occupò della devastazione della scuola pubblica e della definitiva cancellazione dei criteri meritocratici gentiliani, sopravvissuti per un quarantennio e forieri di rischiose prospettive per i dominatori d'oltreoceano. A compenso dei loro servigi, i guastatori dell'istruzione nazionale ricevettero, com'è noto, una generosa distribuzione di poltrone di potere nel campo dell'informazione, della politica, dell'amministrazione e dell'industria di Stato; poltrone che occupano ancora oggi e che trasmettono per via ereditaria ai propri discendenti, su solenne giuramento di continuare a servire, nei secoli dei secoli, gli interessi contingenti dei loro munifici mecenati. Ottennero anche l'illimitata fiducia degli ambienti statunitensi, che consentì loro, dopo l'ordalia di “mani pulite”, di accreditarsi come successori privilegiati della vecchia classe politica scomparsa e come liquidatori della sovranità italiana a prezzi di realizzo, a favore, inutile dirlo, degli stessi loro burattinai.

Le cose non andarono esattamente come avevano sperato a causa della discesa nell'agone politico di un certo Silvio Berlusconi... ma questa è un'altra storia. Nella scuola pubblica, i guastatori sessantottardi hanno allevato per anni un'abnorme progenie di manutengoli in grado di fungere da serbatoio elettorale e da giustificazione politico-sociale delle loro cariche di potere. Ma questa sciarada volge ormai al termine. La burocrazia nata dal '68 è ormai anagraficamente decrepita e politicamente sfiancata, non tanto dall'inatteso protrarsi del berlusconismo, quanto dalla rivelazione coram populo del suo tradimento e delle sue antiche vergogne. Il vivaio di funzionari della “cultura”, che ha garantito per anni la sua permanenza al potere, non ha più tutori. Si infittiscono i provvedimenti miranti a sfoltire e decurtare senza pietà le schiere di insegnanti, bidelli, dirigenti e rettori che hanno prosperato per decenni sulla devastazione della cultura nazionale, sull'asservimento ad ignobili politiche propagandistiche eterodirette (si pensi all'indecente celebrazione scolastica della “giornata della memoria”), sullo smantellamento sistematico di ogni residuo di sovranità nazionale.

Contestualmente al repulisti, si levano stridule le grida di lesa maestà da parte degli ex intoccabili colpiti dalla falcidia. Che urlino pure. Se una critica (pesantissima) deve essere mossa ai recenti provvedimenti sulla razionalizzazione degli operatori della scuola, essa non sta nella meritoria potatura dei rami secchi che tali provvedimenti perseguono, bensì nel fatto che tali “riforme” non accennano neppure a mettere mano alla questione di base. Che sarebbe quella di estirpare alla radice, con metodi appropriatamente dolorosi, tutta la vanvera pedagogica sull'”egualitarismo”, sulla “valorizzazione delle diversità”, sui “programmi personalizzati”, sulla “didattica del gioco”, sul “cooperative learning”, sul pernicioso antiautoritarismo d'accatto, fonte d'indisciplina generalizzata che ha reso impossibile tanto la didattica quanto l'apprendimento... e su una pletora di altre sesquipedali fesserie con cui la scuola post-sessantottina, perduta la finalità di selezione delle eccellenze per cui era stata istituita, ha cercato di rifarsi un maquillage teorico-funzionale sbarazzandosi del fondamentale “perché” della propria esistenza e concentrandosi sull'abito da indossare nelle feste di società. Del ripristino di una funzione concreta e credibile dell'istruzione pubblica, nelle recenti rattoppature ministeriali non si trova la minima traccia. E' la perdita di un “perché” autentico e veritiero in grado di giustificare e rendere rilevante il suo compito che rende la scuola la città fantasma che è oggi. Un deserto in cui gli spettri di operatori e fruitori dell'insegnamento si aggirano in cerca di un senso, senza più ricordare il significato originario, di nobile e insostituibile pilastro della sovranità nazionale, un tempo assegnato al loro comune lavoro.

Una commedia dell'arte in cui insegnanti ed allievi improvvisano giorno per giorno il proprio singolo ruolo, avendo perso di vista la sceneggiatura e la visione d'insieme della rappresentazione. S'intenda bene: non si tratta affatto di “crisi della scuola” (la scuola, in altre realtà nazionali, produce ben diversi e più preziosi risultati), ma di crisi di un “sistema scolastico”: quello italiano del dopoguerra, annichilito, insieme al resto dell'ossatura culturale del paese, da un asservimento ai vincitori che sembra non lasciare scampo. E invece non si tratta di una dipartita terminale, ma di un semplice, benché funesto, aggiustamento delle strutture locali in funzione delle contingenze storiche. Che sono mutevoli e, come qualche recente avvisaglia lascia sperare, stanno già faticosamente cambiando direzione.
di Gianluca Freda

28 dicembre 2010

Capitalismo e (dis)ordine mondiale?


L’idea di un declino dell’Impero Usa fu formulata dai sociologi (storici) Eric Hobsbawm (inglese) e Immanuel Wallerstein (statunitense) : un pensiero tranciante che richiama molto il crollismo capitalistico di tutto il Novecento, sviluppato però in questo caso da un paese dominante che agisce sui doppi binari (livelli) di una politica di potenza ed in grado perciò di rilasciare continue sorprese prima del riconoscimento di un suo iniziale declino.


Secondo tali autori, negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, si delineò la fase conclusiva di una “secolo breve” (1914-1991); il cui collasso finale dei regimi comunisti accelerò la fine di una stabilità internazionale, e con essa gli Stati nazionali, compresa la differenza, tra “Liberalismo” e “Illuminismo”, che aveva campeggiato, con identificazioni statali il vecchio continente europeo, per circa tre secoli a partire dallo storico armistizio europeo di Westfalia del 1648:

Un’ipotesi ripresa da Giovanni Arrighi come si evince nella raccolta dei suoi saggi raccolti in un libro postumo (a cura di Cesarale-Pianta), dal titolo“CAPITALISMO e (DIS)ORDINE MONDIALE”, ed., Il Manifesto Libri,2010; un insieme di scritti (tra i tanti) frutto di una lunga permanenza in Usa dell’autore, dopo aver peregrinato tra università africane e l’università di sociologia di Trento dei primi anni settanta, prima di arrivare al periodo americano, alla “State University” di New York e al “Fernand Braudel Center” (1979)

Le sue indagini sui “Cicli sistemici di Accumulazione” e “Transizioni Egemoniche”, con l’approssimarsi dell’inizio del nuovo secolo, si fecero improvvisamente cupe e gravide di incertezze circa le prospettive storiche del futuro del Terzo Millennio, sempre avvolto secondo l’autore, da una “nebbia totale”; un chiaro richiamo alla centralità del “Capitale Finanziario”, che sovrasta e copre ogni crisi del capitalismo, che ha saputo rappresentare e tenere un insieme ideologico dell’intero Novecento, da cui si sono liberati tutti gli (ister)ismi liberali ed in particolare quelli marxisti che si sono avvalsi, per circa un secolo, della nota formula del “Imperialismo come supremo stadio del capitalismo”.

Una conferma ulteriore, della finanziarizzazione capitalistica arrivò con la cosiddetta “Globalizzazione”, tanto pubblicizzata, nei suoi epigoni democratici del “villaggio globale”, quanto vituperata da tutti i no-global, entrambi concordi sulle cause fondamentali della crisi dell’eccesso di finanza dei rapporti capitalisti; sfuggiva la motivazione principale, di quel surplus finanziario, tesa a nascondere un reale rapporto di dominio globale, come avvenne con l’emersione del monocentrismo Usa, facendo seguito all’implosione dell’Urss (1989): un quindicennio di dominio globale Usa, prima dell’ ingresso del multipolarismo (2002-03).

Non senza dimenticare come l’idea forza della globalizzazione si sia potuta incarnare nelle imprese definite “transnazionali” perché prive (si diceva) di una matrice di interesse nazionale; un viatico fondamentale ad una pervasività finanziaria che si sviluppò con il nascondimento (apparente) di una corposa concretezza di interessi nazionali delle americanissime imprese (Usa) che agirono con caratterizzazioni egemoniche (mondiali), sotto le coperture finanziarie, delle imprese sub–dominanti (agenti mandatari) collocate nei paesi dominati.

Oltre ad un dejà vu ossessivo che identificò, sempre, il Capitalismo finanziario, come la causa di ogni crisi capitalistica: un semplice rapporto di dominio nascosto e trasferito sull’economico e che costrinse il dominato a fare i conti (della serva), entro i vincoli economici assegnatigli; conseguenza fondamentale di una limitazione di autonomia per ciascun paese e finanche di un pensiero depauperato dell’agire politico, in una politica senza vita che, come uno spettro, è capace ancora di irretire i popoli beoti irretiti dai luoghi comuni di un crollo del capitalismo.

L’interesse dell’autore è rivolto principalmente alla crisi del “Washington consensus“ causa fondamentale dell’emergenza della Cina che ha saputo imporre un cambiamento fondamentale nelle relazioni tra il “Nord e il Sud del mondo”; un cambiamento di direzione imposto all’establishment americano, che intende reagire come paese dominante, in grado di nascondere le più profonde ragioni di una politica di potenza in crisi di egemonia, nei cui confronti l’economi(c)a rappresenta l’unico carburante valido per una politica in grado di mettere in movimento “l’insieme di un complesso strategico”.

E’ su questa crisi di una declinante egemonia che si è innestata una corsa strategica Usa mettendo benzina sul fuoco della Centralità Finanziaria ormai alle corde dal multipolarismo che avanza, e da un armamentario ideologico del liberalismo-marxismo in disuso, alle spalle del trascorso Novecento; e con il sostegno ideologico di una ricorsività della finanziarizzazione del capitale, formulata dallo storico Fernand Braudel come “caratteristica ricorrente del capitalismo storico fin dal sedicesimo storico”, che ha dato la stura ad una summa di pensiero “dell’Economia Mondo”(1) ; e ripresa e fatta proprio da Arrighi: “ l’accumulazione di capitale [si realizza] attraverso la compravendita delle merci ….In alcuni periodi anche lunghi il capitalismo sembrò specializzarsi come nel diciannovesimo secolo, quando esso si lanciò in modo tanto spettacolare nell’immensa novità dell’industria. Questa specializzazione indusse molti a presentare l’industria come la realizzazione ultima che avrebbe conferito al capitalismo il suo vero volto. Ma si trattava di una prospettiva di breve termine: dopo il primo boom del macchinismo, il capitalismo più elevato tornò all’eclettismo ad una specie di indivisibilità, come se lo specifico vantaggio di trovarsi in quei punti dominanti consistesse proprio nel non irrigidirsi in una sola scelta: nell’essere eminentemente adattabile e quindi non specializzato”.

Le espansioni finanziarie sono state (secondo l’autore) “ un aspetto integrante delle crisi egemoniche passate e presenti, nonché della loro trasformazione in crolli egemonici. Ma il loro impatto sulla tendenza delle crisi a risolversi in crolli egemonici è ambivalente. Per un verso, infatti, esse tengono la crisi sotto controllo inflazionando temporaneamente il potere dello stato egemonico in declino… Questa reflazione permette allo Stato a egemonia declinante di contenere, almeno per un po’, le forze che sfidano la prosecuzione del suo dominio. Per un altro verso, però, le espansioni finanziarie consolidano queste ultime, ampliando e approfondendo la concorrenza tra Stati e tra imprese e i conflitti sociali, e riallocando il capitale verso strutture emergenti che promettono maggiore sicurezza o rendimenti più alti di quelli garantiti dalla struttura dominante”.

E’ proprio da qui che si può evincere il doppio binario, sopra indicato, dello strumento finanziario dello Stato Usa, divide et impera; una (di)visione realizzata da una politica strategica realmente conflittuale, il cui flusso finanziario è soltanto l’aspetto di un più ampio conflitto strategico; come altrettanto ampio è lo spettro di dominio della potenza egemonica di un paese che intende collocarsi entro uno spazio geopolitico, compreso quello militare.

Il gioco delle apparenze, svolto dal paese dominante Usa, si realizza con una indubbia efficacia persuasiva: una duplicazione infinita del finanziario che si svolge senza alcun riferimento delle economie reali, che continuano a sussistere in immagini riflesse dei valori finanziari, come in una camera di specchi; un gioco delle apparenze che ha portato a uno stato confusionale i dominati europei, così come del resto si è lasciato avvolgere il sistema politico italiano, che, tra destra-sinistra, spazia dal risibile pensiero mercatista tremontiano, al mercato sociale e/o socialismo del mercato della sinistra, ai no global, alla finanza etica…, e “chi più ne ha più ne metta”.

La ricerca sociale prospettata da Arrighi, contiene, come gran parte del mondo accademico, l’idea statica ‘del moto apparente del sole (intorno alla terra); una sorta di ‘pensiero alto’ che tiene costantemente sotto osservazione una ordinaria realtà empirica a copertura di un sottostante movimento tellurico, che trasforma, continuamente, la superficie dell’ oggetto dell’analisi posta in essere.

Le stesse fissità di pensiero sui macrosistemi economici-finanziari hanno prodotto una spessa coltre ideologica al riparo degli ‘squarci di verità’ che hanno saputo imporre i grandi pensatori da Marx, a Husserl…., nel disvelamento delle ideologie, che imbragavano la realtà entro le apparenze dei dominanti.

Una ricerca sociale che possa essere considerata con una sufficiente scientificità, non può fare riferimento ad una realtà statica ( e/o in equilibrio), quanto considerare che ogni mutamento ( sviluppo) è rottura di ogni precedente (apparente) equilibrio, con una posizione da occupare in progressione di un movimento (conflitto) in costante squilibrio (simile alle analisi schumpteriane dei processi innovativi dei prodotti derivati dalla rottura del flusso circolare ).

Oltre alla comprensione che lo svelamento dello squilibrio è il riconoscimento di una realtà in movimento come presupposto fondante di ogni conflitto strategico: i cambiamenti di posizione diventano parte integrante di una stabilizzazione di una nuova formazione economica-sociale ( pars costruens).




  1. Il termine “Economia Mondo” fu usato per la prima volta da F. Braudel (ricalcando le analisi di F. Rorig del 1933) e rappresenta un insieme di aree geografiche con diversa specializzazione produttiva e con diversi rapporti di produzione, collegati da relazioni commerciali; una divisione spaziale con un centro ed una periferia collegata secondo una dilatazione di scambi commerciali in una forma di progressiva subordinazione economica.

di Gianni Duchini

27 dicembre 2010

Direttive europee sui prodotti erboristici

Facciamo un po’ di chiarezza nell’ingarbugliato caso della Direttiva europea sugli integratori e farmaci naturali.

Nel web stanno circolando da mesi notizie allarmanti e decisamente inquietanti. Dal primo aprile 2011, cioè tra quattro mesi, spariranno dalla vendita integratori, medicine naturali tradizionali, chiuderanno le scuole di naturopatia e omeopatia, e verranno date alle fiamme tutti i libri su argomenti naturali.
Sinceramente, detto tra noi, con un minimo di buon senso, questi allarmi lasciano il tempo che trovano, anzi, sicuramente rientrano in una strategia ben precisa. Mi spiego meglio.
Veicolare notizie assurde e soprattutto irrealizzabili (almeno nell’immediato) rientra in una vera e propria strategia mediatica di debunking e deviazione delle masse. Chi infatti potrà mai credere che spariranno libri su argomenti di medicina naturale, o addirittura che saranno chiuse le scuole pluridecennali di naturopatia?
Siccome ciò è impossibile (nel breve), il risultato è che tutto perde di significato, per cui si butta via il bambino con l’acqua sporca!
Ma come stanno le cose? Cerchiamo di fare un po’ chiarezza.

Direttiva 2000/13/CE
Prima di affrontare questo importante argomento, è necessario fare alcuni passi indietro e andare a Bruxelles il 20 marzo 2000 quando i burocrati del Parlamento europeo e del Consiglio d’Europa hanno la varato una Direttiva 2000/13/CE “relativa al ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri concernenti l'etichettatura e la presentazione dei prodotti alimentari, nonché la relativa pubblicità”[1]
In questa Direttiva, entrata in vigore il 26 maggio 2000, si parla dell’etichettatura a livello comunitario.

Articolo 2

1. L'etichettatura e le relative modalità di realizzazione non devono:

b) (…) attribuire al prodotto alimentare proprietà atte a prevenire, curare o guarire una malattia umana né accennare a tali proprietà.

Nella presente Direttiva NON si può “attribuire al prodotto alimentare proprietà atte a prevenire, curare o guarire una malattia umana né accennare a tali proprietà”. Cosa i burocrati intendono per “prodotto alimentare” lo troviamo nella Direttiva 2002/46/CE.

Direttiva 2002/46/CE
La Direttiva 2002/46/CE, sancita questa volta in Lussemburgo, “relativa a ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri concernente gli integratori alimentari”[2] è molto interessante!
Entrata in vigore ufficialmente il 12 luglio 2002, gli Stati membri hanno dovuto adottare le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative entro il 31 luglio 2003[3].
In Italia è stata recepita con un Decreto legislativo nr. 169 del 21 maggio 2004 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale nr. 164 del 15 luglio 2004.

Articolo 1
1. La presente direttiva si applica agli integratori alimentari commercializzati come prodotti alimentari e presentati come tali.

All’articolo 1 della Direttiva 2002/46, gli “integratori alimentari”, sono commercializzati come “prodotti alimentari”, e in quanto tali, per la Direttiva 2000/13 vista prima, NON si è possibile attribuire loro alcuna proprietà “atte a prevenire, curare o guarire una malattia umana” .
All’articolo 2, paragrafo b) invece, si specifica che le vitamine e i minerali sono considerati “sostanze nutritive” o “nutrienti”, mentre al paragrafo a) gli “integratori alimentari” possono essere costituiti da una “fonte concentrata di ‘sostanze nutritive’ ”. Si può per tanto concludere che anche le vitamine e i minerali sono considerati “prodotti alimentari”!

Articolo 2

Ai fini della presente direttiva si intende per:

a) "integratori alimentari": i prodotti alimentari destinati ad integrare la dieta normale e che costituiscono una fonte concentrata di sostanze nutritive o di altre sostanze aventi un effetto nutritivo o fisiologico (…);

b) "sostanze nutritive" o "nutrienti": le seguenti sostanze:

i) le vitamine;

ii) i minerali.

Ecco il primo passaggio epocale: trasformare “minerali”, “vitamine” e “piante”, prima in “integratori” e quindi in “prodotti alimentari” (integratori alimentari), specificando anche la dose raccomandata per l’assunzione giornaliera (la ridicola R.D.A.). Dose da non superare, ovviamente!
Non è tutto, perché a corredo di tale direttiva, il Ministero della Salute ha fornito un elenco delle piante permesse (Tabella B: “erbe impiegabili negli integratori alimentari”) e un elenco delle sostanze non permesse (circa 400, Tabella A: “erbe il cui uso deliberato non è ammesso”).
Tutte le piante citate in quest'ultimo elenco, sono state tolte dal commercio, creando confusione tra venditori e consumatori e seri problemi economici ai produttori!
Tanto per capire la situazione, ci sono numerosi casi in cui una medesima pianta figura in entrambi gli elenchi, differenziata solo dalla parte utilizzabile (seme, fiore o corteccia per esempio). Ancora più confusione e danni economici enormi a quelle piccole o medie aziende che magari hanno investito soldi su dei prodotti, piuttosto che su una specifica pianta.

Se teniamo conto che nella Direttiva 90/496/CEE del 24 settembre 1990, “relativa all’etichettatura nutrizionale dei prodotti alimentari[4] i “prodotti alimentari” sono, diciamo erano, da intendere quelli “destinati a ristoranti, ospedali, mense e altre analoghe collettività”[5], cioè solo alimenti!
Specificando subito dopo, all’articolo 1, paragrafo 2) che tale Direttiva (90/496/CEE) non si applica alle acque minerali e agli “integratori di regime/complementi alimentari[6].
E’ la prima volta dal 1990, che vitamine e minerali vengono considerati come “prodotti alimentari”, con le conseguenze che abbiamo visto sopra e che vedremo anche tra breve.
Adesso veniamo alla Direttiva che più ha scatenato le rivolte nel web.

Direttiva 2004/24/CE
A Strasburgo, capoluogo dell’Alsazia (Francia Orientale) e sede del Parlamento europeo e Consiglio d’Europa, il 31 marzo del 2004 è avvenuto qualcosa di interessante.
La prima precisazione è che la Direttiva europea 2004/24/CE, essendo stata pubblicata nella Gazzetta ufficiale n. L 136 il 30/04/2004, non entra in vigore, come viene detto nel web, il primo aprile 2011, ma il mese successivo, e cioè il primo maggio del 2011. Questo elimina dalla testa dei malpensanti un “pesce d’aprile” di catastrofiche dimensioni.
La Direttiva 2004/24 modifica “per quanto riguarda i medicinali vegetali tradizionali, la direttiva 2001/83/CE recante un codice comunitario relativo ai medicinali per uso umano[7].
L’ormai arcinota Direttiva modifica una precedente Direttiva, la 2001/83 del 6 novembre 2001, che definisce “i medicinali per uso umano”, per l’esattezza va a modificare i “medicinali vegetali tradizionali”.

Cosa sono questi medicinali?
La Direttiva è chiara a tal proposito e definisce “medicinale”, “medicinale vegetale tradizionale” e “medicinale vegetale”.
Con il termine generico “medicinale”, la definizione è la seguente:

(Punto 2) comma a) ogni sostanza o associazione di sostanze presentata avente proprietà curative o profilattiche delle umane; o comma b) ogni sostanza o associazione di sostanze che possa utilizzata sull'uomo o somministrata all'uomo allo ripristinare, correggere o modificare funzioni fisiologiche, esercitando un'azione farmacologica, immunologica metabolica, ovvero di stabilire una diagnosi medica.

Permedicinale vegetale tradizionale”:

29) medicinale vegetale che risponda ai requisiti di cui all'articolo 16 bis, paragrafo 1.

Permedicinale vegetale”:

30) ogni medicinale che contenga esclusivamente come principi attivi una o più sostanze vegetali o uno o più preparati vegetali, oppure una o più sostanze vegetali in associazione ad uno o più preparati vegetali.

All’articolo 16 bis, paragrafo 1 si dice che è istituita una procedura di registrazione semplificata per i medicinali vegetali che soddisfano TUTTI i seguenti requisiti:

a) le indicazioni sono esclusivamente quelle appropriate per i medicinali vegetali tradizionali che, in virtù della loro composizione e del loro scopo, sono destinati ad essere utilizzati senza controllo medico per necessità di diagnosi, di una prescrizione o per il controllo del trattamento;

b) ne è prevista la somministrazione solo in una determinata concentrazione e posologia;

c) si tratta di un preparato per uso orale, esterno e/o inalatorio;

d) è trascorso il periodo di impiego tradizionale di cui all'articolo 16 quater, parag. 1, lettera c);

e) i dati relativi all'impiego tradizionale del medicinale sono sufficienti; in particolare, il prodotto ha dimostrato di non essere nocivo nelle condizioni d'uso indicate e i suoi effetti farmacologici o la sua efficacia risultano verosimili in base all'esperienza e all'impiego di lunga data.

A parte i paragrafi i primi tre, la lettera d) sancisce un periodo di tempo tradizionale stabilito dall’articolo 16 quater, paragrafo 1 lettera c).
Articolo 16 quarter, paragrafo 1 lettera c).

La documentazione bibliografica o le certificazioni di esperti comprovanti che il medicinale in questione o un prodotto corrispondente ha avuto un impiego medicinale per un periodo di almeno trent'anni anteriormente alla data di presentazione della domanda, di cui almeno 15 anni nella Comunità. Su richiesta dello Stato membro in cui è stata presentata la domanda di registrazione per impiego tradizionale, il comitato dei medicinali vegetali esprime un parere sull'adeguatezza della dimostrazione dell'uso di lunga data del medicinale in questione o del prodotto corrispondente. Lo Stato membro presenta la documentazione rilevante a sostegno della richiesta”;[8]

Un prodotto che funziona, se non si riesce a comprovare il suo impiego continuativo per almeno 30 anni, prima della data di presentazione della domanda, rischia di essere messo al bando e tolto dal commercio.
Ma i punti che più c’interessano, scorrendo la Direttiva del 2004, sono il 3 e 5.

Punto 3:

“Nonostante una lunga tradizione d'uso, numerosi medicinali non rispondono ai requisiti relativi all'impiego medicinale ben noto né presentano una riconosciuta efficacia e un livello accettabile di sicurezza e non possono pertanto essere oggetto di un'autorizzazione all'immissione in commercio. (…)”[9]

Punto 5:

“(…) Tuttavia, poiché neppure una lunga tradizione consente di escludere eventuali timori circa la sicurezza del prodotto, le autorità competenti dovrebbero avere la facoltà di richiedere tutti i dati necessari per la valutazione della sicurezza. La qualità di un dato medicinale non è determinata dal suo impiego tradizionale. Pertanto non dovrebbero essere concesse deroghe all'obbligo di effettuare le necessarie prove chimico-fisiche, biologiche e microbiologiche. I prodotti dovrebbero soddisfare le norme di qualità contenute nelle monografie della farmacopea europea pertinenti o in quelle della farmacopea di uno Stato membro”[10]

Qui il caos è voluto. Da una parte dicono che una lunga tradizione di un medicinale vegetale consente di non dover fare la sperimentazione preclinica e dall’altra dicono che tuttavia, poiché “neppure una lunga tradizione consente di escludere eventuali timori circa la sicurezza del prodotto, le autorità competenti dovrebbero avere la facoltà di richiedere tutti i dati necessari per la valutazione della sicurezza”
Ecco il giochetto messo in atto dai burocrati di Strasburgo, Bruxelles e Lussemburgo.
Le autorità di controllo, completamente fagocitate dalle corporation della chimica e farmaceutica, dovrebbero richiedere - avendone la facoltà e autorità - i dati necessari per la valutazione della sicurezza di un prodotto vegetale tradizionale.
Sapete come si valuta la sicurezza di un prodotto per uso umano? Lo spiega la stessa Direttiva 2004/24/CE:

“Le domande di autorizzazione all'immissione in commercio di un medicinale debbano essere corredate di un fascicolo contenente informazioni e documenti relativi in particolare ai risultati delle prove chimico-fisiche, biologiche, microbiologiche, farmacologiche, tossicologiche e delle sperimentazioni cliniche effettuate sul prodotto e comprovanti la sua qualità, sicurezza ed efficacia”

Per tanto, se una azienda vorrà vendere un prodotto erboristico (pianta o parti di pianta) descrivendone però le caratteristiche “terapeutiche” e/o “curative” questo verrà considerato alla stregua di un “farmaco di sintesi”, anche se viene usato da migliaia di anni.
Per una piccola o media azienda questo è praticamente impossibile!
Per produrre rimedi terapeutici naturali, bisognerà fornire alle autorità: prove chimico-fisiche, biologiche, microbiologiche, farmacologiche, tossicologiche e cliniche.
La domanda che sorge spontanea: chi potrà permettersi tutto ciò? E la risposta purtroppo è sempre la stessa: i soliti noti… Solo le aziende del farmaco potranno economicamente registrare un prodotto erboristico per poi tenerlo fermo in un cassetto, oppure guadagnandoci miliardi alla faccia delle piccole aziende che lavorano bene e onestamente.

di Marcello Pamio

26 dicembre 2010

Rapinare i risparmiatori: truffa decisa da banche e governi


Titoli tossici, divenuti carta straccia una volta scoppiata la bolla immobiliare; il bluff di mutui senza copertura, di quote azionarie senza capitali e senza più valore commerciale né relazioni con l’economia reale. Grande crisi? No, grande truffa. Organizzata dagli Stati, con la complicità delle banche centrali. Obiettivo: derubare i cittadini. Letteralmente: espropriarli dei loro risparmi, per alimentare il grande flusso del capitalismoBruno Amoroso, docente all’università danese di Roskilde. finanziario globale: hi-tech e spese militari in primis. Tutto legale, naturalmente. Perché sono stati gli stessi “truffatori” a manipolare le leggi per agevolare il grande saccheggio. Lo afferma un importante economista,

Allievo del professor Federico Caffè, grande economista italiano scomparso nel nulla il 15 aprile 1987, Amoroso è reduce da conferenze e incontri crisi finanziariapubblici nei quali non ha esistato a denunciare il capitalismo finanziario che sta scatenando la più grave crisi sociale nella storia delle democrazie occidentali. «Alla parola crisi, generalmente, diamo questo significato: la crisi è qualcosa di difettoso, legato al non-funzionamento dei meccanismi dell’economia o dei sistemi politici. Qualcosa di non voluto, qualcosa che è sfuggito di mano», premette Amoroso, in una video-intervista girata da “Radio dal basso” e collocata su YouTube. Secondo la tesi corrente, è «come se l’intenzione della finanza e dell’econimia fosse equa e però qualcosa è sfuggito o qualcuno ha imbrogliato. Be’, secondo me non è così».

«Questa che si chiama crisi finanziaria – afferma il professor Amoroso – non è una crisi: è il risultato di politiche programmate per realizzare l’esproprio dei risparmi di milioni di persone, sia nei paesi europei ma anche a livello mondiale». Quindi, aggiunge l’economista, «più che di crisi parlerei appunto di truffa, nel senso dell’esproprio: però non un esproprio fatto da truffatori, cioè in modo illegale, ma di un esproprio organizzato dai sistemi finanziari accompagnati da misure legislative tutte funzionali a questo esproprio». Bruno AmorosoPotrebbe sembrare un paradosso: «Quella che chiamiamo crisi è in realtà una politica che ha avuto un grande successo».

Sarebbe come chiamare “crisi” l’industrializzazione forzata del nord compiuta dalla Fiat o gli stessi disastri ecologici: «Non sono “errori”, niente che sia sfuggito di mano a nessuno. Sono stati il risultato, anzi il successo, di una certa forma di industrializzazione, quindi se vogliamo rapace, di considerare il mercato capitalistico e l’economia per realizzare determinati interessi». Quindi: «Non crisi finanziaria, ma anzi: successo della finanza e della globalizzazione nell’espropriare milioni di cittadini che avevano dei risparmi accumulati». E visto che «ormai sul piano dei salari c’è molto poco da espropriare», ecco che è il risparmio ad essere colpito, «laddove esistono spazi per continuare l’arricchimento e l’esproprio capitalistico».

Per il professor Amoroso, «la crisi finanziaria cosiddetta è questo: è il successo delle politiche del neo-liberismo e della globalizzazione». Vie d’uscita? Solo se i consumatori, «che sono le vittime», decidessero di «abolire quei sistemi bancari e finanziari, sostituendoli e dando fiducia al sistema della finanza etica e delle banche popolari, legate all’economia reale dei territori». Fino a qualche decennio fa avremmo detto: è necessario ristabilire il controllo dello Stato, o della Banca centrale, sulla finanza. «Questo oggi non ha più senso, perché lo Stato e la banca nazionale sono esattamente espressione di quegli interessi, negli Stati Uniti ma anche nella maggioranza dei paesi europei, cioè sono i centri del potere finanziario – Claude TrichetMediobanca, la banca centrale – che sono i rappresentanti di quegli interessi, quelli che hanno fatto le leggi e i regolamenti».

Quello che è successo, continua l’economista, basta e avanza per «mettere sotto inchiesta la banca nazionale e il comitato di controllo del credito». I dispositivi di controllo esistono, ma hanno ignoranto l’allarme. «Erano distratti? Non se ne sono accorti?». Al contrario: hanno finto di non vederli, i rischi per i risparmiatori, perché il loro vero obiettivo, non dichiarato, era espropriarli. «Cioè: espropriare risparmi accantonati per la vita familiare, per riportarli dentro il flusso dell’economia mondiale della globalizzione che certamente ha bisogno di grandi investimenti. Nei campi hi-tech e dell’industria militare servono grandi soldi. Siccome i cittadini non sono disposti a metterli a disposizione di avventure di quel tipo, allora gli si tolgono. E gli si tolgono in maniera legale, non in maniera truffaldina: questa è una truffa organizzata, dagli Stati e dai poteri politici e finanziari».

di Giorgio Cattaneo

22 dicembre 2010

Senza il legame con i morti la nostra vita non è che un’assurda corsa nel vuoto









Chi siamo o cosa siamo noi, se viene a cadere il legame che ci tiene uniti ai nostri morti, a coloro che ci hanno preceduto sulle strade della vita?
Non è affatto una domanda oziosa o superflua: è una domanda centrale; è LA domanda, dalla cui risposta tutto il resto dipende.
Tanto per cominciare, l’espressione “i morti” è estremamente impropria e fuorviante: come se noi, che siamo vivi, ci trovassimo nella dimensione “vera” dell’esistenza, perché attuale, tangibile, dimostrabile; mentre loro, essendo stati vivi un tempo, ma non essendolo più, godessero ora di uno statuto ontologico di serie B rispetto al nostro.
È vero, semmai, il contrario.
Chi è vivo, lo è per una manciata di anni; chi ha già terminato la propria vita, appartiene all’eternità - come vi apparteneva, del resto, prima di nascere, anzi, prima di venir concepito - e perciò è lo statuto ontologico dei vivi ad essere friabile, fuggevole, illusorio.
Noi passiamo, loro rimangono: questa è la realtà.
Noi siamo qui, adesso; ma questo “adesso” si consuma rapidamente; e, quando non ne resterà più nulla, spariremo da questa dimensione, così silenziosamente come vi siamo entrati: inquilini temporanei di un mondo che non è nostro, che ci ospita solamente.
Soltanto un materialismo tanto rozzo quanto poco intelligente potrebbe sopravvalutare la nostra condizione rispetto alla loro.
Un poco alla volta, chi prima e chi dopo, tutti scivoliamo in quell’altra condizione, entrando nel numero di quelli che “furono”: perciò, mentre questi ultimi crescono senza posa, noi, senza posa, ci andiamo assottigliando.
Finché siamo bambini, finché siamo giovani, vediamo tutto intorno delle persone che se ne andranno ben prima di noi; poi, mano a mano che cresciamo, cominciano ad andarsene anche quelli che erano bambini e ragazzi quando noi eravamo appena nati, o piccolissimi; da ultimo, divenuti anziani, ci guarderemo intorno e vedremo, forse con raccapriccio, che, intorno a noi, non è rimasto nessuno di quanti hanno accompagnato la nostra vita, ma sono subentrate solamente facce nuove, persone più giovani. Anche queste ultime destinate a finire come gli altri, ma un poco più tardi e, quindi, come se appartenessero ad un altro mondo: saranno ancora vive, infatti, quando noi chiuderemo gli occhi per sempre.
Noi siamo come i fiumi che corrono verso il mare: non possiamo pretendere di essere noi soli la “vera” acqua; il nostro destino, il nostro scopo, la nostra ragion d’essere sono quelli di raggiungere il mare, a paragone del quale siamo ben piccola cosa.
Ciò non significa che siamo fatti per la morte, se con quest’ultima espressione si vuole intendere il contrario della vita, la privazione radicale dell’esistenza.
La morte non è il contrario della vita, nemmeno sul piano strettamente logico: la morte è uno stato dell’essere, il modo in cui l’essere si spegne; la vita, invece, è un processo. Si tratta di due cose differenti, non di due cose opposte: la morte non è la negazione della vita, ma il suo naturale compimento.
La negazione e il contrario della vita, semmai, consistono nella non vita, ossia nel rifiuto dell’apertura verso la vita, nel “no” al suo incessante rinnovarsi.
La morte, inoltre, non è la “nemica” della vita, ma il suo atto conclusivo e disvelatore: grazie ad essa, la vita acquista la pienezza del proprio significato; senza di essa, la vita diventerebbe una assurda, monotona ripetizione, senza scopo e senza significato.
E tuttavia, noi siamo fatti per la vita.
Siamo fatti per la vita, per la gioia, per l’amore: altrimenti non saremmo qui, non esisteremmo; perché la vita nasce dall’amore, da un atto di amore.
Si tratta, perciò, di guardare più da vicino la misteriosa soglia che chiamiamo “morte”, cosa da cui la cultura moderna si ritrae con un fremito di spavento e che aborrisce con tutta se stessa.
La cultura moderna è basata sull’idea del Progresso, del continuo, incessante andare avanti: non è strano che la morte le appaia come lo scacco supremo, perché sembra arrestare la marcia degli uomini verso la “felicità”.
La cultura moderna odia la morte, “per fatto personale”, come si usa dire: per essa, la morte è la beffa suprema, la negazione di tutto il suo credo.
Non la pensava così il mondo pre-moderno , per il quale la morte non era né una beffa né una negazione, ma una porta spalancata sull’infinito e, quindi, la via di accesso alla piena realizzazione del nostro vero essere.
Come dice San Francesco nel «Cantico delle creature»:

«Laudato si’ mi Signore, per sora nostra morte corporale,
da la quale nullu homo vivente po’ skappare:
gauai a quelli ke morrano ne le peccata mortali;
beati quelli ke trovarà ne le Tue sanctissime voluntati,
ka la morte secunda no ‘l farrà male.»

Dunque, per l’uomo medievale il problema non è la morte, ma lo stato dell’anima allorché la morte viene; non è la morte che deve far paura, ma la prospettiva di essere da lei sorpresi in uno stato di lontananza da Dio, cioè dalla sua legge e dal suo progetto nei nostri confronti.
L’uomo medievale, come in genere l’uomo pre-moderno, sapeva perché si vive e sapeva perché si muore: si vive per rispondere alla chiamata divina, per armonizzare la propria volontà con quella del Creatore; si muore per entrare nella dimensione del permanente e per ricevere gli effetti delle proprie azioni e delle proprie scelte.
Non vi è posto per il caso, ma solo per un disegno armonioso e necessario, cui gli uomini sono chiamati a partecipare in piena libertà.
In questo senso, per la persona di fede, la morte non è la “fine”, ma il “compimento” della vita: e il defunto, lungi dall’essere divenuto una entità umbratile ed evanescente, è, propriamente parlando, colui che è divenuto “perfetto”, ossia che ha raggiunto il traguardo supremo e lo scopo ultimo per il quale è stato chiamato all’esistenza.
Una grande mistica francese, Marthe Robin, della quale altra volta abbiamo parlato (cfr. il nostro articolo «Che cos’è la natura umana quando viene ridotta all’essenziale», consultabile sul sito di Edicolaweb) soleva dire, di una persona morta (e possiamo immaginare il sorriso dolcissimo con il quale accompagnava le proprie parole), che «allora essa è compiuta».
Dovremmo smetterla, pertanto, di parlare dei “nostri poveri morti”, come se la loro condizione fosse da compiangere, rispetto alla nostra; come se loro avessero perduto un bene che noi, al contrario, possediamo e teniamo ben stretto fra le mani.
Essi non sono da compiangere o da commiserare; lo siamo noi, semmai, per le miserie e le debolezze che segnano tutto il nostro cammino terreno e che possono ridurre in condizioni pietose, fisicamente o spiritualmente, anche il più grande dei mortali.
Ciò chiarito, torniamo alla nostra domanda iniziale e proviamo a risponderle: chi siamo o cosa siamo noi, se viene a cadere il legame che ci tiene uniti ai nostri morti, a coloro che ci hanno preceduto sulle strade della vita?
La domanda sorge spontanea davanti allo spettacolo del rifiuto della morte che caratterizza le nostre esistenze e davanti al pregiudizio, cui abbiamo testé accennato, che la nostra condizione presente sia invidiabile, mentre sarebbe da compiangere quella dei defunti.
Di tutto ci piace parlare, tranne della morte: a differenza di San Francesco, consideriamo poco educato parlarne troppo apertamente, quasi fosse un argomento di per sé biasimevole, se non proprio sconveniente.
L’atteggiamento delle odierne generazioni verso i defunti è un aspetto del loro generale atteggiamento verso il passato e verso la tradizione: un misto di distrazione, di ignoranza e di vera e propria insofferenza.
«In Africa - diceva il poeta Léopold Sédar Senghor - non esistono confini, nemmeno tra la vita e la morte»; e la stessa cosa può dirsi per tutte le società tradizionali, nelle quali il legame tra il mondo dei viventi e quello degli antenati è talmente forte e vivo, da costituire l’ossatura fondamentale dell’intera struttura socioculturale.
Come è possibile, infatti, procedere sul cammino della vita, senza sentirsi parte di un processo che parte da lontano; senza sentirsi come i prosecutori dell’opera di quanti ci precedettero e come coloro i quali, al momento di andarsene, passeranno la fiaccola del domani nelle mani delle nuove generazioni?
La mancanza di memoria è anche assenza di gratitudine e, in definitiva, ignoranza del proprio posto nel mondo: perché noi non veniamo dal nulla, così come non stiamo andando verso il nulla, checché ne dicano, con funereo compiacimento, quelli che - parafrasando Henry de Montherlant - potremmo chiamare i lugubri cantori del Caos e della Notte.
Noi veniamo dal generoso «sì» alla vita dato a suo tempo dai nostri genitori, dai nostri nonni, bisnonni e trisavoli; e andiamo verso il compimento della nostra missione, che consiste nel preparare la via a coloro che ci seguiranno, nel rimuovere le erbacce dal terreno e nel lasciare ad essi in usufrutto un mondo che non sia peggiore, ma, se possibile, migliore di quello che, a nostra volta, abbiamo ricevuto.
Tutto nasce dalla consapevolezza di non essere i padroni e i signori del mondo, ma solamente degli ospiti: e il dovere degli ospiti è, oltre a quello della riconoscenza verso colui che li ha accolti, nutriti e protetti, quello di lasciare la dimora in condizioni abitabili e accoglienti per altri ospiti, che giungeranno a loro volta.
Siamo parte di un grande fiume cosmico, che va dall’umile filo d’erba alla galassia più lontana, la quale brilla negli spazi celesti a distanze inimmaginabili: tutto è in noi e noi siamo in tutto, senza che si possano tracciare dei veri confini tra noi e le cose e nemmeno, come affermava il grande poeta africano, tra la vita e la morte.
Gli amanti lo sanno: non si può dire dove finisce la loro anima e dove incominci quella dell’altro; così come, nei moneti dell’estasi, essi non potrebbero dire dove finisca il corpo dell’uno e dove incominci quello dell’altra.
Ebbene, per la grande vita cosmica di cui siamo parte, è esattamente la stessa cosa: noi siamo nel filo d’erba e nella galassia, così come il filo d’erba e la galassia sono in noi, sono parte di noi, sono tutt’uno con noi, anima e corpo.
Un soffio divino anima noi, così come pervade il filo d’erba e la lontana galassia; e quel soffio divino ci affratella a tutto ciò che esiste, a tutto ciò che è esistito in passato e a tutto ciò che esisterà nel futuro.
Del resto, che cos’è il passato, che cos’è il futuro? Non esistono in se stessi, ma soltanto nel difetto della nostra vista: sono un nostro errore di prospettiva.
L’unico tempo che esiste in sé stesso, è il presente, perché tutto è presente agli occhi dell’eternità: e non vi è differenza tra quanti hanno vissuto prima di noi e quanti vivranno dopo.
Siamo un’unica famiglia e siamo fatti per la vita, non per la morte.
La morte è solo un passaggio, non una condizione durevole dell’essere; è una crisi, nel significato greco della parola, ossia un cambiamento.
Verso che cosa avverrà tale cambiamento, ciò dipende - appunto - dal modo in cui si è vissuti.
di Francesco Lamendola

31 dicembre 2010

L'avvio della transizione verso una nuova economia

Il 2010 si conclude lasciando qualche barlume di speranza per la soluzione dei pesanti problemi sociali, ambientali ed economici che le nostre società hanno continuato a sottovalutare per decenni e che oggi si stanno palesando in tutta la loro gravità.
La drammatica crisi economica e finanziaria dal 2008 ci sta dimostrando che non è possibile proseguire su di una strada veramente insostenibile, sotto tutti i punti di vista, per il futuro dell'intera umanità. E' giusto quindi valutare quel poco che di positivo è scaturito nelle due Conferenze delle Parti di due importanti Convenzioni internazionali destinate ad ottenere risultati concreti nel governo dei nostri "beni comuni", quella sulla Biodiversità (tenutasi a Nagoya in Giappone lo scorso ottobre) e la Convenzione quadro sui Cambiamenti Climatici (tenutasi a Cancun agli inizi di dicembre).

Il 2010 è stato l'anno internazionale dedicato dalle Nazioni Unite alla Biodiversità e il piano di azione scaturito dalla 10° Conferenza delle Parti di Nagoya della Convenzione sulla Biodiversità, come abbiamo già analizzato nelle pagine di questa rubrica, va considerato una buona base di impegni per cercare di frenare la perdita della ricchezza della vita sulla Terra nell'arco dei prossimi dieci anni. Anche la Conferenza delle Parti sul clima di Cancun è riuscita nell'intento di rivitalizzare il negoziato internazionale che sembrava destinato all'estinzione dopo la conferenza dello scorso anno a Copenaghen e quindi vi sono buone speranze di chiudere un accordo internazionale entro il 2011.

Certamente tutte queste iniziative della diplomazia internazionale si scontrano duramente con il fattore più critico che dobbiamo affrontare, costituito dal tempo. Il fattore "tempo" non gioca certo a nostro favore e i ritardi, i rimandi, l'inazione, le deroghe tanto care al mondo della politica non fanno altro che peggiorare la situazione. Domani sarà sempre più difficile risolvere problemi che, con il passare del tempo e la mancanza di interventi concreti e decisivi, non potranno che aggravarsi.

Oggi una vera priorità sta diventando sempre di più quella di modificare l'impianto di base della nostra economia che promuove un meccanismo di crescita continua, materiale e quantitativa. E' francamente impossibile salvare la biodiversità del pianeta, ristabilire i complessi equilibri dinamici del sistema climatico, affrontare tutte le notevoli problematiche di insostenibilità della nostra pressione crescente sui sistemi naturali della Terra, sui suoli, sui cicli idrici, sui grandi cicli biogeochimici dell'azoto, del carbonio, del fosforo ecc., senza intervenire significativamente sui meccanismi fondanti dell'attuale sistema economico e finanziario.

Ecco perché sta diventando di grande importanza tutto il lavoro internazionale interdisciplinare di tantissimi esperti che lavorano alacremente per impostare una nuova economia ecologica, che consenta alle nostre società di imboccare strade più sostenibili dal punto di vista ambientale e sociale.

Proprio nel 2010 è stato reso noto un altro importantissimo tassello di questo nuovo mosaico, il rapporto finale della grande iniziativa internazionale TEEB, The Economics of Ecosystems and Biodiversity (vedasi www.teebweb.org).

Il TEEB, diretto dall'economista indiano Pavan Sukhdev e lanciato dalla Germania e dalla Commissione Europea nel 2007 è stato sostenuto dal Programma Ambiente delle Nazioni Unite (UNEP, vedasi il sito www.unep.org ) e da Regno Unito, Norvegia, Olanda e Svezia.
Il TEEB mira a comporre tutte le esperienze, le conoscenze, i know-how esistenti in tutte le regioni del pianeta per rendere sempre più la nostra economia, sia nella teoria che nella pratica, basata sui fondamenti biofisici dei sistemi naturali che la supportano. Il TEEB dimostra il fallimento dei mercati nel considerare adeguatamente il valore degli ecosistemi e dell'intera biodiversità del pianeta. Il TEEB dimostra proprio come le attività mirate alla conservazione, ripristino e razionale gestione delle risorse e dei sistemi naturali costituisce un autentico investimento economico.

La mancanza di un prezzo di mercato per i servizi offerti dagli ecosistemi e per la biodiversità dimostra che i fondamentali benefici derivanti da questi beni (in molti casi beni pubblici e collettivi) sono quasi sempre negletti o sottovalutati nelle decisioni politiche. Gli effetti di queste sottovalutazioni si riverberano non solo nel peggioramento continuo e progressivo dello stato di salute degli ecosistemi del mondo intero che oggi sono sottoposti ad una pressione umana senza precedenti, ma anche sullo stato di salute dell'umanità e del benessere umano nel suo complesso.

Il valore degli ecosistemi e della biodiversità è oggi paradossalmente invisibile all'economia che guida le scelte politiche nel mondo intero. Le conoscenze scientifiche acquisite ci dimostrano che il capitale naturale, gli ecosistemi, la biodiversità e le risorse naturali, sono la base del benessere delle economie, delle società e degli individui. Il valore della miriade di benefici che derivano dalla ricchezza della natura presente sul nostro pianeta è ignorata e non presa in considerazione dal mondo politico-economico che, quotidianamente, decide ciò che condiziona la nostra esistenza.

Stiamo drammaticamente distruggendo le basi del nostro stock di capitale naturale e lo facciamo prima ancora di riconoscere il valore che stiamo perdendo. Il persistente degrado dei suoli, dell'acqua, delle risorse biologiche impatta negativamente sulla nostra salute, sulla nostra sicurezza alimentare, sulle scelte dei consumatori e sulle opportunità delle attività imprenditoriali.

In questo ambito è fondamentale modificare i grandi indicatori della performance economica, come il PIL. Una interessante speranza anche per il nostro paese nasce dalla recentissima costituzione presso il Cnel, di un "Gruppo di indirizzo sulla misura del progresso della società italiana", composto da rappresentanze delle parti sociali e della società civilee fortemente voluto dall'ottimo presidente dell'ISTAT, Enrico Giovannini. L'obiettivo del Gruppo, come ricorda lo stesso ISTAT, è proprio quello di sviluppare un approccio multidimensionale del "benessere equo e sostenibile" (Bes), che integri l'indicatore dell'attività economica, il Pil, con altri indicatori, ivi compresi quelli relativi alle diseguaglianze (non solo di reddito) e alla sostenibilità (non solo ambientale).

La misurazione del progresso passa attraverso l'analisi di due componenti: la prima, prettamente politica, la seconda di carattere tecnico-statistico. Come ormai appare evidente dall'ampio ed articolato dibattito internazionale sull'argomento, non è possibile sostituire il Pil con un indicatore singolo del benessere di una società. Quindi, si tratta di selezionare un insieme di indicatori e fare ciò richiede il coinvolgimento di tutti i settori della società, nonché degli esperti di misurazione. Ecco perché il Cnel e l'Istat hanno deciso di avviare questa iniziativa, in analogia a quanto sta avvenendo in altri paesi.

Il Gruppo lavorerà quindi nel corso dei prossimi 18 mesi con l'obiettivo di:
- sviluppare una definizione condivisa del progresso della società italiana, definendo gli ambiti economici, sociali ed ambientali di maggior rilievo (salute, lavoro, benessere materiale, inquinamento, ecc.);
- selezionare un set di indicatori di elevata qualità statistica rappresentativi dei diversi domini. Tale insieme di indicatori dovrà essere limitato in termini numerici, così da favorire la sua comprensione anche ai non esperti;
- comunicare ai cittadini il risultato di questo processo, attraverso la diffusione il più capillare possibile dell'andamento degli indicatori selezionati.
Inoltre, l'Istat costituirà una Commissione Scientifica che avrà il compito di svolgere il lavoro preparatorio per lo sviluppo degli indicatori statistici più appropriati per misurare il progresso della società italiana, anche alla luce delle raccomandazioni internazionali.

In particolare, nella prima fase (prima metà del 2011), si procederà allo svolgimento di una consultazione pubblica online aperta agli esperti, alla società civile ed ai singoli cittadini per raccogliere i loro contributi sull'importanza delle singole dimensioni del benessere maggiormente rilevanti per la società italiana. Inoltre, l'Istat ha inserito nella propria indagine multiscopo alcuni quesiti sull'importanza che i cittadini danno alle singole "dimensioni" del benessere, utilizzando le categorie suggerite dell'Ocse e dalla Commissione Stiglitz, Sen, Fitoussi (voluta dal presidente francese Nicholas Sarkozy e che ha concluso i suoi lavori con la pubblicazione del rapporto finale nel settembre 2009), alla definizione, sulla base di tali risultati, delle macrodimensioni del benessere da porre sotto osservazione. La proposta del Gruppo verrà poi presentata alle diverse Commissioni ed all'Assemblea del Cnel per approvazione.

Nella seconda fase del progetto (seconda metà del 2011) l'Istat proporrà al Gruppo di Indirizzo i possibili indicatori da adottare per misurare i diversi aspetti del benessere equo e sostenibile, il quale cercherà di pervenire, previa consultazione dei portatori di interesse, ad una proposta condivisa da sottoporre, per approvazione finale, alle diverse Commissioni ed all'Assemblea del Cnel.

Infine, a metà del 2012 si procederà alla predisposizione di un Rapporto Cnel-Istat sulla misura del progresso della società italiana, il quale verrà reso disponibile in diverse forme e promosso attraverso i mezzi di comunicazione, così da assicurarne una conoscenza il più diffusa possibile tra la popolazione.

L'iniziativa Cnel-Istat pone l'Italia nel gruppo dei paesi (Francia, Germania, Regno Unito, Stati Uniti, Australia, Irlanda, Messico, Svizzera, Olanda) che hanno recentemente deciso di misurare il benessere della società attraverso un insieme selezionato di indicatori statistici di qualità, alla cui selezione partecipano rappresentanti delle parti sociali e della società civile. Tale approccio, suggerito dall'Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (Ocse) e dalla già citata"Commissione Stiglitz" , alla quale abbiamo dedicato diverse pagine di questa rubrica, fornirà al paese una quadro condiviso dell'evoluzione dei principali fenomeni
economici, sociali ed ambientali.

Il miglior augurio per il nuovo anno è proprio quello di sperare che si avvii finalmente una transizione concreta verso una nuova economia. E' la migliore prospettiva che abbiamo per tutta l'umanità.
di Gianfranco Bologna

30 dicembre 2010

E se il club delle nove banche globali colpisse l 'Italia?

La tempesta perfetta è sostanzialmente un fenomeno che riguarda l’indebitamento in senso lato, indebitamento dei privati per il credito al consumo o per i mutui, delle imprese, degli Stati e delle banche per la montagna di titoli più o meno tossici della finanza strutturata con i quali hanno ricoperto il pianeta.

Molti di questi debiti sono in default, molti non sono ancora giunti a questa situazione ma vi sono vicini, altri titoli tossici vengono ritenuti buoni soltanto a causa di una modifica alle regole di rappresentazione di bilancio, ma buoni non sono.

La crisi del debito sovrano in Europa aggiunge un altro tassello a questo quadro, ma il problema non riguarda solo Grecia e Irlanda, riguarda un buon numero dei paesi del Vecchio Continente, Italia inclusa, riguarda l’euro, ma, dall’altra parte dell’Oceano Atlantico, riguarda i titoli di stato statunitensi e il dollaro, nonché lo stato delle banche che hanno l’etichetta del too big to fail (troppo grandi per fallire).

Come si esce da una crisi del debito? Le strade sono diverse, ma la più semplice la ha indicata la cancelliera Angela Merkel, la quale ha sostenuto che anche i creditori, i possessori cioè dei titoli, devono fare la loro parte, accettando di incassare quanto il Mercato valuta quei pezzi di carta da loro sottoscritti quando ben altra era la solidità degli emittenti.

Quello che propone oggi la Merkel è stato già vissuto sulla loro pelle dagli obbligazionisti della Chrysler e della General Motora, mentre poco si sa di quanto è accaduto ai possessori di obbligazioni emesse da entità minori e i cui default non hanno guadagnato le prime pagine dei giornali finanziari, ma non è azzardato ritenere che in molti casi non sia rimasto in mano a questi creditori molto più del classico pugno di mosche.

Per quanto riguarda l’area dell’euro, finora i creditori non sono stati toccati dal crollo dei titoli sul mercato secondario se hanno deciso di portare a scadenza i loro titoli, ma dopo Grecia e Irlanda, e forse nei prossimi giorni il Portogallo, la speculazione guidata dal club delle nove banche globali potrebbe toccare Spagna e Italia, non in questo ordine necessariamente, e allora ci sarebbe il rischio concreto di una ristrutturazione del debito che potrebbe anche colpire pesantemente i detentori dei titoli di Stato.

Ma cos’è questo club delle nove banche globali di cui ha parlato per primo il New York Times? Si tratta di sei banche statunitensi, le più grandi, tra cui Goldman Sachs, Citigroup, J.P. Morgan-Chase, Bank of America, ma anche svizzere, inglesi e tedesche che da tempo usano riunirsi in un giorno fisso della settimana per discutere di materie prime, azioni e titoli di Stato e per decidere linee guida di azione, riuscendo a influenzare l’andamento dei mercati grazie al volume di fuoco che possono scatenare.

Si tratta di volumi che possono mandare alle stelle o agli inferi il valore della moneta di un paese di medie dimensioni, o i titoli rappresentativi del debito dello stesso malcapitato paese, ma grande influenza hanno anche sui mercati delle materie prime, in particolare di quelle energetiche.

Le difese contro queste banche sono molto scarse, anche perché gli altri operatori tendono ad accodarsi ai loro movimenti, restando spesso bruciati quando i grandi decidono repentinamente di cambiare strategia.

Le stesse banche centrali e i governi dei paesi maggiormente industrializzati poco possono contro una coalizione di entità così potenti, vere e proprie multinazionali del credito che hanno in gestione quantità di denaro pari a multipli del prodotto interno lordo di questi paesi, possono al massimo esercitare una morali suasion affinché non eccedano nell’influenzare i mercati valutari e quello dei titoli di Stato e, anche in questo caso, non sempre con successo.
di Marco Sarli

29 dicembre 2010

Scuola pubblica: chi l'ha uccisa ?







Coloro che, come il sottoscritto, si trovano a lavorare nel mondo della scuola, provano spesso la sensazione di essere capitati all’interno di una istituzione sopravvissuta alla propria funzione e al proprio ruolo. Si viene a scuola tutte le mattine, da insegnanti o da allievi, come ci si recherebbe al tempio di una divinità antica, di cui sacerdoti e fedeli ricordano le prescrizioni rituali, ma non le promesse di crescita spirituale, né il significato che la partecipazione al rito garantiva un tempo di donare alla vita individuale e collettiva. Si tengono ore di lezione, si programmano obiettivi didattici e prove in itinere, si celebrano solenni messe pomeridiane di classe e d’istituto in cui si valutano virtù e peccati dei fedeli (i quali saranno comunque tutti assolti nel Giorno del Giudizio, poiché la scuola è una divinità infinitamente misericordiosa), si tiene viva la sacra fiamma delle attività integrative e dei recuperi pomeridiani, si verbalizzano scrupolosamente le proposte e le valutazioni del sinedrio e si lotta quotidianamente contro la perdita di fede che la seduzione del maligno tenta di indurre nei docenti timorati di Dio. L’opera del Nemico dell’Uomo si manifesta, nel sacerdote che vede indebolirsi le proprie certezze, attraverso la sgradevole sensazione di stare officiando una cerimonia funebre piuttosto che un rito della fertilità; come avviene nel meraviglioso libro di Gianni Celati, Fata Morgana, in cui il misterioso popolo dei Gamuna utilizza le aule scolastiche per i riti funebri collettivi.

“Arrivati alla scuola, in un’aula hanno visto il morto sulla cattedra e i maschi adulti del suo gruppo familiare seduti nei banchi. Erano seduti nei banchi come scolari che ripassino una lezione, e tutti recitavano litanie di nomi degli antenati. Ma quelli nelle prime file, con l’aria di scolari più bravi e più studiosi, correggevano spesso le litanie degli altri. Allora gli altri reagivano, e scoppiavano litigi, volavano insulti e minacce”.

Lo spirito ingannatore viene comunemente raffigurato dall’iconografia ecclesiale con fattezze di lugubre materialità economica, contrapposta alla spiritualità della cultura, che rappresenta la cifra distintiva della mistica scolastica. Il maligno compie la sua opera devastatrice preferenzialmente attraverso i tagli all’istruzione pubblica, fonte di falcidia d’insegnanti e bidelli e di razionamento delle fotocopie e della carta igienica. Non è chiaro cosa abbia a che fare la carta igienica con la spiritualità dell’istruzione. I frequenti richiami a questo emblema della trivialità corporea nelle invettive dei padri della Chiesa denotano probabilmente eventi di possessione demoniaca, simili a quelli che costringevano gli antichi anacoreti dei deserti della Palestina a prodursi in orribili bestemmie e imprecazioni da taverna mentre lottavano per liberare la propria carne dall’abbraccio tentatore di satanasso. Altri deprecano lo slittamento progressivo dell’istruzione verso le mani dei privati, adducendo diverse e contrastanti giustificazioni circa i motivi per cui tale passaggio di mano risulterebbe indesiderabile. Si invoca, a seconda dei casi, il pericolo di una scuola classista, di alto livello per i ricchi (quella privata) e di infimo livello per i poveri (quella pubblica); oppure, al contrario, si fanno rilevare (forse con un briciolo di realismo in più) le pessime performance delle scuole private – autentiche tipografie di certificati scolastici per analfabeti – a fronte dei risultati leggermente migliori di cui può vantarsi l’istruzione statale. E’ raro trovare qualcuno che osi andare un po’ più a fondo, cioè alla radice della rarefazione di significato che sembra oggi investire la scuola pubblica. Una perdita di significato che ha molto più a che fare con l’obsolescenza dei suoi scopi originari o con l’impossibilità politica di soddisfarli nel perdurare delle attuali contingenze internazionali, che con la decurtazione delle risorse economiche.

Com’è noto, l’edificio dell’istruzione pubblica illuminista era nato con due scopi essenziali. Il primo era quello di indottrinare e ridurre all’obbedienza le masse non acculturate. Attraverso la scuola, il nuovo potere borghese in ascesa intendeva sostituire, per ragioni di controllo delle coscienze, la propria visione del mondo a quella propagandata per secoli dalle istituzioni della Chiesa. Da qui l'introduzione nella prima scuola di stato di una serie di contenuti (esaltazione della scienza e del razionalismo, ridefinizione e ricategorizzazione degli eventi storici, lettura dei fenomeni naturali e finanche di quelli sociali in chiave puramente meccanicistica, ecc.) finalizzata ad inculcare nelle masse una nuova percezione dell'esistente che fosse funzionale agli scopi perseguiti dal nuovo potere costituito. Allo stesso tempo, si mirava attraverso l'istituzione scolastica ad imporre rigidi modelli di comportamento che riducessero al minimo l'eventualità di sollevazioni ed atteggiamenti sediziosi di fronte agli sconvolgimenti politici, sociali ed ambientali con cui la politica di dominio delle nuove élite stava per spazzare via modelli e paradigmi di vita comune consolidati da secoli. Questa prima finalità con cui il modello scolastico dei primordi era stato progettato è divenuta obsoleta da ormai quasi un secolo.

La diffusione dei mezzi di comunicazione di massa e le teorie sul controllo del comportamento e della percezione degli individui attraverso un entertainment e un'informazione manipolati all'uopo (si legga in proposito il fondamentale Propaganda di Edward Bernays), ha permesso alle élite di garantirsi potenzialità di manipolazione percettiva e di gestione del malcontento sociale infinitamente più ampie, stringenti ed efficaci di quelle che l'istruzione pubblica avrebbe mai potuto assicurare. Per trapiantare nella percezione delle moltitudini gli schemi interpretativi voluti dal potere e per rendere gli individui del tutto impotenti e inconsapevoli dei meccanismi politici che stanno alla base delle loro vite, è molto più efficace mezz'ora di rimbecillimento videomusicale su MTV che un decennio di apprendistato condotto sotto la supervisione del più autoritario e manesco degli insegnanti. Il secondo scopo per cui l'istruzione pubblica era stata originariamente ideata era quello di rappresentare un percorso di formazione per una nuova classe dirigente, la quale avrebbe dovuto gestire le istituzioni del nuovo sistema sociale, nonché le nascenti realtà produttive del modello industriale. La scuola doveva essere dunque un vivaio di professionalità da cui attingere i tecnici, i ricercatori, gli specialisti, i quadri dirigenti, in grado di far funzionare, secondo le direttive determinate dall'élite borghese, il nuovo impianto sociale in formazione. Questa seconda finalità dell'istruzione pubblica non è mai venuta meno ed è oggi più attuale ed urgente che mai; soprattutto in paesi come l'Italia, il cui problema di fondo è sempre stato quello dell'assenza di una classe dirigente, tecnicamente e culturalmente preparata, in grado di guidare le istituzioni politiche, economiche ed industriali del paese. La mancata nascita di una classe dirigente in Italia non è del tutto imputabile a carenze della scuola pubblica nazionale, la quale è stata per lunghi periodi (almeno fino alla fine degli anni '60 del '900) dotata di strutture e metodologie formative di discreto/ottimo livello. E' invece imputabile alla condizione di sudditanza politica internazionale del nostro paese, seguita alla sconfitta nella II Guerra Mondiale.

Per mantenere e rafforzare questa sudditanza, i dominanti statunitensi non hanno esitato a porre in atto strategie atte a distruggere e vanificare i criteri selettivi delle élite dirigenti pensati per la nostra scuola pubblica, fino a ridurre quest'ultima al miserabile caravanserraglio che è oggi. Un informe baraccone dei fenomeni, in cui analfabeti, facinorosi, handicappati e disadattati di varia asocialità sono oggetto delle stesse attenzioni formative spettanti agli allievi eccellenti e destinatari delle stesse certificazioni culturali e professionali, che risultano svuotate pertanto di ogni valore. Nel 1923, avendo ben presente la necessità di formare e selezionare una classe dirigente nazionale, il filosofo Giovanni Gentile aveva introdotto nell'ordinamento normativo quella che resta a tutt'oggi la miglior riforma della scuola mai presentata in Italia. Non era una riforma esente da difetti, né di certo la migliore immaginabile. Semplicemente, per lo spirito nazionalistico che la guidava e per la costruzione teoretica che la sorreggeva, era molte spanne al di sopra di ogni altra normativa della scuola mai varata nel nostro paese negli anni che la precedettero e la seguirono. Anche se Mussolini la definì “la più fascista delle riforme”, difendendola strenuamente contro i suoi numerosi detrattori, la riforma Gentile era tutt'altro che fascista. Gentile era un intellettuale liberale di destra prestato al fascismo, del quale condivideva un certo autoritarismo di fondo, ma non necessariamente l'impostazione sociale e politica. Non è un caso che i principali nemici della riforma furono gli stessi ministri dell'istruzione del fascismo che si alternarono alla Minerva nel corso del Ventennio. Nella concezione gentiliana, l'educazione doveva indirizzarsi, nella sua forma più completa, agli uomini migliori, ai futuri capi e non alle masse. Per questo motivo, il livello secondario era stato nettamente suddiviso in due tronconi: una formazione classico-umanistica per i futuri dirigenti e una formazione professionale per tutti coloro che non avessero raggiunto certi livelli minimi di eccellenza nelle discipline. “La società nostra”, scriveva Gentile nel 19081 , “è zeppa di legisti e medici a spasso, con tanto di laurea incorniciata e appesa nel più onorevole luogo di casa. Essi hanno compiuto pessimamente gli studi universitari, come male hanno fatto i secondari […]. Costoro non sono nati agli studi; anzi, fruges consumere! Sono numero; e non hanno diritto di fare i medici e gli avvocati. […] Alla folla che guasta la scuola classica lo Stato deve assegnare non mezzi di dare comunque la scalata alle università, ma scuole tecniche e commerciali svariate, le quali […] non devono dare adito alle università mai”. Parole che si potrebbero sottoscrivere anche oggi.

Gentile aveva voluto una costruzione fortemente meritocratica, che metteva da parte il vecchio favoritismo clientelare e sanciva che ai migliori fossero riservati i posti di maggiore responsabilità. Per questo motivo era stato istituito un limitato numero di scuole elitarie, particolarmente quelle a indirizzo classico, che dovevano servire alla formazione della nuova classe dirigente. Alle altre scuole, in particolare a quelle tecniche e commerciali, era affidato il compito di fungere da canali di scolmatura che evitassero l’intasamento dei corsi privilegiati. Sempre con questo obiettivo elitario, la riforma aveva previsto l’esame di Stato, aveva limitato il numero di ore di ripetizione impartite dai professori (non più di una al giorno, come previsto dal R. D. 27-11-1924, n. 2367, art. 47) e “moralizzato” i concorsi pubblici. Ma ad essere scontenta dell’elitarismo della riforma, che la escludeva dall'accesso alle cariche di maggior rilievo, era la stessa piccola borghesia che aveva appoggiato l’ascesa del fascismo e che ne costituiva il nerbo sociale. Inoltre, la selettività di Gentile lasciava fuori dalla scuola ampi settori della realtà giovanile, sottraendoli al controllo politico del fascismo. La scuola così concepita risultava comunque insufficiente ai fini totalitari del regime: Augusto Turati, segretario del Pnf, dichiarava nell’aprile 1927 che la fascistizzazione della scuola era impossibile senza la fascistizzazione degli insegnanti. E poiché il fascismo non possedeva le necessarie leve culturali per la sostituzione degli insegnanti, l’unica via era quella d’imporre d’autorità l’adesione agli ideali fascisti utilizzando presidi e direttori didattici come organi di controllo poliziesco. Gentile aveva assegnato un posto di netto rilievo all’autonomia didattica del docente, progettando una scuola che fosse posta al di sopra delle fazioni politiche. Ma già con la legge del 24 dicembre 1925, il fascismo introdusse il licenziamento per insegnanti e funzionari che avessero professato idee vicine all’opposizione, anche al di fuori dal servizio. La sorveglianza dirigenziale era integrata dall’ampio credito offerto alle denunce di scandali pervenute tramite lettere anonime. Con il regio decreto del 28 agosto 1931, il ministro dell’istruzione Balbino Giuliano introdusse poi per i docenti universitari il giuramento di fedeltà al regime, che solo una dozzina di docenti rifiutarono di sottoscrivere. A queste problematiche vanno aggiunte le critiche portate avanti da alcune riviste scolastiche d’impostazione bottaiana (in particolare “La Pedagogia italiana”, diretta da Salvatore Talia e “I Diritti della Scuola”, diretta da Luigi Volpicelli), le quali polemizzavano con l’impostazione idealistica gentiliana, ritenendola controproducente per lo sviluppo economico del paese, vista la marginalizzazione in cui essa relegava il settore della professionalità, della tecnica e del lavoro per privilegiare l’attività intellettuale. Nonostante l'avversione dello stesso regime fascista, il progetto gentiliano, pur stravolto e svuotato di contenuti in molti suoi punti, restò l'unico punto di riferimento possibile per la formazione di nuove leve dirigenti nell'arco di tutto il Ventennio.

I suoi effetti benefici continuarono a prodursi nel dopoguerra, quando le nuove generazioni, formatesi grazie all'impostazione meritocratica gentiliana, iniziarono a guidare il “boom” economico e industriale che doveva condurre l'Italia fuori dalla tragedia della guerra e verso la riacquisizione di una sovranità nazionale fondata su una riconquistata posizione di forza sullo scenario degli scambi internazionali. Fu allora che, negli Stati Uniti, i responsabili della nostra colonia iniziarono a preoccuparsi. Non si poteva permettere all'Italia di acquisire spazi troppo ampi di sovranità, che avrebbero rischiato di renderla una pedina pericolosamente autonoma nello scacchiere europeo e perfino di trascinarla, sul medio periodo, fuori dall'alleanza atlantica. Ogni velleità di espansione commerciale, di autonomia nella politica estera e nazionale, di crescita industriale, di tutela e recupero dell'identità culturale – tutte cose che l'impianto educativo di Gentile, in modo diretto o indiretto, consentiva di attuare – doveva essere stroncata sul nascere. Una colonia le cui strutture educative siano in grado di produrre una classe dirigente, di alto o medio livello, che si ponga a capo delle strutture politiche, economiche e finanziarie, nonché di garantire la refrattarietà della cultura nazionale alla penetrazione dei nuovi modelli di pensiero imposti dai dominanti attraverso i mezzi di comunicazione di massa, non resterà una colonia per molto tempo. Tutto questo doveva essere fermato. Com'è noto, l'ostracismo al boom economico che avrebbe potuto sollevare l'Italia dal suo giogo iniziò fin da subito e si indirizzò su diverse linee d'azione. Il 27 ottobre 1962 venne assassinato, tramite un finto incidente aereo, il presidente dell'Eni Enrico Mattei, l'uomo che rischiava di dare all'Italia l'autosufficienza energetica necessaria per sostenere la sua crescita industriale indipendente. Mattei aveva iniziato a stringere accordi con paesi petroliferi come l'Egitto di Nasser, l'Iran, il Sudan, restituendo all'Italia una politica estera mediterranea e mediorientale di grande prestigio che ampliava a dismisura gli ambiti d'iniziativa della politica nazionale. I proventi dell'ENI avrebbero potuto inoltre finanziare una classe politica autoctona del tutto slegata dalle logiche neocoloniali imposte dai dominanti.

A piazzare la bomba sull'aereo di Mattei furono gli uomini di Giuseppe di Cristina, capo di una famiglia mafiosa manovrata, come molte altre, dagli interessi statunitensi. Successivamente la battaglia per privare l'Italia di una classe politica autonoma si servì della “strategia della tensione”, durata quasi un ventennio e culminata nel rapimento e nell'assassinio di Moro. Essa doveva servire a tenere sotto costante minaccia la politica nazionale, allo scopo di chiudere all'Italia, con il ricatto e gli omicidi politici, ogni spazio di trattativa con l'estero che rischiasse di allentare i legami con la NATO. Tutte le strategie terroristiche e le bombe di quegli anni, pur diramate in mille rivoli di connessioni, collusioni, depistaggi, strumentalizzazioni e partecipazioni di agenzie d'intelligence nazionale e internazionale di varia provenienza ed estrazione, puntano decisamente ad una regia di marca statunitense che ideò e diresse le linee portanti dell'operazione. Ma tra l'assassinio di Mattei e l'avvio della strategia della tensione, vi fu un altro evento, che servì a distruggere definitivamente alla radice ogni possibilità che una nuova classe dirigente italiana potesse rinascere dalle ceneri del terrorismo. Tale evento fu la contestazione studentesca del '68, che spazzò via per sempre dall'impianto educativo italiano ogni forma di selettività e meritocrazia, eliminando una volta per tutte l'idea stessa che scopo e funzione primaria della scuola di Stato sia quello di garantire ad una nazione un'élite di “optimates” capaci di assicurarne la guida e i necessari spazi di sovranità.

Quest'idea squisitamente gentiliana è stata sradicata non solo dalle normative scolastiche, ma dalle stesse teorizzazioni sulla funzione della scuola – falansteri “pedagogici”, la maggior parte dei quali sono, manco a dirlo, di provenienza statunitense – e rappresenta oggi, per chi osa riproporla, l'equivalente ideologico di una bestemmia in chiesa. Il 68 seppellì l'ovvio concetto che una scuola viene finanziata dallo Stato anche – e soprattutto – affinché serva a garantire allo Stato il necessario ricambio di leve dirigenziali, sotto un fiume in piena di chiacchiere “egualitariste”, sotto una valanga di piagnucoloso pietismo per gli “svantaggiati”, sotto un'eruzione poderosa di “nuove teorie” sullo sviluppo della relazionalità del fanciullo (“comportamentismo”, “cognitivismo”, “costruttivismo” e via delirando) che risultano astruse e difficilmente comprensibili a chi è costretto a studiarle sul piano teorico nei corsi di abilitazione e di aggiornamento e del tutto risibili a chi ne osserva, sul piano pratico, i risultati applicativi concreti nella quotidianità scolastica. Con il Sessantotto, le scuole secondarie e le università divennero “di massa”, il che, già sul piano etimologico rappresenta una contraddizione in termini. L'università è il “luogo di studio pubblico in cui s'insegna l'universalità delle scienze”, cioè un'istituzione preordinata all'ampliamento e al perfezionamento delle competenze, cui solo i più dotati – coloro che hanno già acquisito competenze di alto livello che vanno ampliate e perfezionate – dovrebbero poter accedere.

Aprire l'università alla “massa” (cioè a mandrie di semianalfabeti e perdigiorno privi finanche delle competenze minime per la composizione di un testo) non equivale ad accrescere il livello della cultura nazionale, ma ad omologarlo verso il basso, consentendo ai “legisti e medici a spasso” di cui parlava Gentile di fregiarsi di un titolo equivalente a quello acquisito con impegno e fatica dai più preparati. Ciò svuota il titolo stesso di qualunque valore certificativo, costringendo enti ed aziende a creare proprie procedure di selezione dei quadri dirigenti per supplire all'assenza di valutazione oggettiva preliminare, un tempo assicurata dall'istituzione pubblica. Le procedure di valutazione gestite dalle aziende private, pur essendo giustamente e rigorosamente selettive, sono purtroppo anche settoriali: garantiscono cioè l'adeguatezza del candidato al ruolo specifico in cui verrà inserito, ma ignorano e scoraggiano ogni percezione di più ampio respiro, che potrebbe servire a coordinare l'operatività e gli obiettivi della singola struttura pubblica o privata con gli obiettivi di altre strutture, dando vita ad un più esteso progetto finalizzato a costruire e rafforzare un programma di valenza strategica nazionale. La selezione privata costruisce organici che assicurano, al massimo, il profitto e l'efficienza gestionale del singolo ente; per restituire sovranità ed autonomia ad una nazione, occorrerebbero organici dotati di competenze ben più vaste ed ecumeniche (culturali, linguistiche, politiche, intergestionali, ecc.) che l'istruzione di Stato non è più in grado di fornire. Non a caso, la riforma gentiliana aveva assegnato un ruolo preminente alle discipline umanistiche, le quali non forniscono solo nozioni attinenti a a un settore dello scibile, ma anche gli strumenti essenziali (logici, linguistici, critici, ermeneutici, dialettici, relazionali, ecc.) per impadronirsi di qualunque competenza ed integrarla con le altre in una prospettiva universale.

Privata della sua originaria e primaria funzione – quella di plasmare l'élite di una nazione, elevandola al di sopra della massa – la scuola è sopravvissuta ritagliandosi (senza mai ammetterlo) una serie di ruoli posticci: quello di ammortizzatore sociale, per lenire i morsi della disoccupazione che l'aborto prematuro del “boom” industriale ha disastrosamente generato; quello di baby-sitter, per tenere occupati con frizzi e lazzi di lieta ebetudine i figli delle famiglie così fortunate da contare ancora fra i propri membri una pluralità di individui dotati di stabile occupazione; quello di rinforzo all'ordine pubblico, assumendo su di sé il controllo e la parziale “detenzione” coatta giornaliera degli elementi più esagitati, sbandati e criminali del sottobosco giovanile, proliferati a dismisura con l'espansione dello scimunimento televisivo e dell'immigrazione; infine quello di vivaio clientelare che ha garantito per anni la permanenza ai vertici delle istituzioni degli artefici della rivolta sessantottarda. Costoro rappresentano l'élite borghese locale “di sinistra” che, su direttive impartite dall'establishment politico statunitense, si occupò della devastazione della scuola pubblica e della definitiva cancellazione dei criteri meritocratici gentiliani, sopravvissuti per un quarantennio e forieri di rischiose prospettive per i dominatori d'oltreoceano. A compenso dei loro servigi, i guastatori dell'istruzione nazionale ricevettero, com'è noto, una generosa distribuzione di poltrone di potere nel campo dell'informazione, della politica, dell'amministrazione e dell'industria di Stato; poltrone che occupano ancora oggi e che trasmettono per via ereditaria ai propri discendenti, su solenne giuramento di continuare a servire, nei secoli dei secoli, gli interessi contingenti dei loro munifici mecenati. Ottennero anche l'illimitata fiducia degli ambienti statunitensi, che consentì loro, dopo l'ordalia di “mani pulite”, di accreditarsi come successori privilegiati della vecchia classe politica scomparsa e come liquidatori della sovranità italiana a prezzi di realizzo, a favore, inutile dirlo, degli stessi loro burattinai.

Le cose non andarono esattamente come avevano sperato a causa della discesa nell'agone politico di un certo Silvio Berlusconi... ma questa è un'altra storia. Nella scuola pubblica, i guastatori sessantottardi hanno allevato per anni un'abnorme progenie di manutengoli in grado di fungere da serbatoio elettorale e da giustificazione politico-sociale delle loro cariche di potere. Ma questa sciarada volge ormai al termine. La burocrazia nata dal '68 è ormai anagraficamente decrepita e politicamente sfiancata, non tanto dall'inatteso protrarsi del berlusconismo, quanto dalla rivelazione coram populo del suo tradimento e delle sue antiche vergogne. Il vivaio di funzionari della “cultura”, che ha garantito per anni la sua permanenza al potere, non ha più tutori. Si infittiscono i provvedimenti miranti a sfoltire e decurtare senza pietà le schiere di insegnanti, bidelli, dirigenti e rettori che hanno prosperato per decenni sulla devastazione della cultura nazionale, sull'asservimento ad ignobili politiche propagandistiche eterodirette (si pensi all'indecente celebrazione scolastica della “giornata della memoria”), sullo smantellamento sistematico di ogni residuo di sovranità nazionale.

Contestualmente al repulisti, si levano stridule le grida di lesa maestà da parte degli ex intoccabili colpiti dalla falcidia. Che urlino pure. Se una critica (pesantissima) deve essere mossa ai recenti provvedimenti sulla razionalizzazione degli operatori della scuola, essa non sta nella meritoria potatura dei rami secchi che tali provvedimenti perseguono, bensì nel fatto che tali “riforme” non accennano neppure a mettere mano alla questione di base. Che sarebbe quella di estirpare alla radice, con metodi appropriatamente dolorosi, tutta la vanvera pedagogica sull'”egualitarismo”, sulla “valorizzazione delle diversità”, sui “programmi personalizzati”, sulla “didattica del gioco”, sul “cooperative learning”, sul pernicioso antiautoritarismo d'accatto, fonte d'indisciplina generalizzata che ha reso impossibile tanto la didattica quanto l'apprendimento... e su una pletora di altre sesquipedali fesserie con cui la scuola post-sessantottina, perduta la finalità di selezione delle eccellenze per cui era stata istituita, ha cercato di rifarsi un maquillage teorico-funzionale sbarazzandosi del fondamentale “perché” della propria esistenza e concentrandosi sull'abito da indossare nelle feste di società. Del ripristino di una funzione concreta e credibile dell'istruzione pubblica, nelle recenti rattoppature ministeriali non si trova la minima traccia. E' la perdita di un “perché” autentico e veritiero in grado di giustificare e rendere rilevante il suo compito che rende la scuola la città fantasma che è oggi. Un deserto in cui gli spettri di operatori e fruitori dell'insegnamento si aggirano in cerca di un senso, senza più ricordare il significato originario, di nobile e insostituibile pilastro della sovranità nazionale, un tempo assegnato al loro comune lavoro.

Una commedia dell'arte in cui insegnanti ed allievi improvvisano giorno per giorno il proprio singolo ruolo, avendo perso di vista la sceneggiatura e la visione d'insieme della rappresentazione. S'intenda bene: non si tratta affatto di “crisi della scuola” (la scuola, in altre realtà nazionali, produce ben diversi e più preziosi risultati), ma di crisi di un “sistema scolastico”: quello italiano del dopoguerra, annichilito, insieme al resto dell'ossatura culturale del paese, da un asservimento ai vincitori che sembra non lasciare scampo. E invece non si tratta di una dipartita terminale, ma di un semplice, benché funesto, aggiustamento delle strutture locali in funzione delle contingenze storiche. Che sono mutevoli e, come qualche recente avvisaglia lascia sperare, stanno già faticosamente cambiando direzione.
di Gianluca Freda

28 dicembre 2010

Capitalismo e (dis)ordine mondiale?


L’idea di un declino dell’Impero Usa fu formulata dai sociologi (storici) Eric Hobsbawm (inglese) e Immanuel Wallerstein (statunitense) : un pensiero tranciante che richiama molto il crollismo capitalistico di tutto il Novecento, sviluppato però in questo caso da un paese dominante che agisce sui doppi binari (livelli) di una politica di potenza ed in grado perciò di rilasciare continue sorprese prima del riconoscimento di un suo iniziale declino.


Secondo tali autori, negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, si delineò la fase conclusiva di una “secolo breve” (1914-1991); il cui collasso finale dei regimi comunisti accelerò la fine di una stabilità internazionale, e con essa gli Stati nazionali, compresa la differenza, tra “Liberalismo” e “Illuminismo”, che aveva campeggiato, con identificazioni statali il vecchio continente europeo, per circa tre secoli a partire dallo storico armistizio europeo di Westfalia del 1648:

Un’ipotesi ripresa da Giovanni Arrighi come si evince nella raccolta dei suoi saggi raccolti in un libro postumo (a cura di Cesarale-Pianta), dal titolo“CAPITALISMO e (DIS)ORDINE MONDIALE”, ed., Il Manifesto Libri,2010; un insieme di scritti (tra i tanti) frutto di una lunga permanenza in Usa dell’autore, dopo aver peregrinato tra università africane e l’università di sociologia di Trento dei primi anni settanta, prima di arrivare al periodo americano, alla “State University” di New York e al “Fernand Braudel Center” (1979)

Le sue indagini sui “Cicli sistemici di Accumulazione” e “Transizioni Egemoniche”, con l’approssimarsi dell’inizio del nuovo secolo, si fecero improvvisamente cupe e gravide di incertezze circa le prospettive storiche del futuro del Terzo Millennio, sempre avvolto secondo l’autore, da una “nebbia totale”; un chiaro richiamo alla centralità del “Capitale Finanziario”, che sovrasta e copre ogni crisi del capitalismo, che ha saputo rappresentare e tenere un insieme ideologico dell’intero Novecento, da cui si sono liberati tutti gli (ister)ismi liberali ed in particolare quelli marxisti che si sono avvalsi, per circa un secolo, della nota formula del “Imperialismo come supremo stadio del capitalismo”.

Una conferma ulteriore, della finanziarizzazione capitalistica arrivò con la cosiddetta “Globalizzazione”, tanto pubblicizzata, nei suoi epigoni democratici del “villaggio globale”, quanto vituperata da tutti i no-global, entrambi concordi sulle cause fondamentali della crisi dell’eccesso di finanza dei rapporti capitalisti; sfuggiva la motivazione principale, di quel surplus finanziario, tesa a nascondere un reale rapporto di dominio globale, come avvenne con l’emersione del monocentrismo Usa, facendo seguito all’implosione dell’Urss (1989): un quindicennio di dominio globale Usa, prima dell’ ingresso del multipolarismo (2002-03).

Non senza dimenticare come l’idea forza della globalizzazione si sia potuta incarnare nelle imprese definite “transnazionali” perché prive (si diceva) di una matrice di interesse nazionale; un viatico fondamentale ad una pervasività finanziaria che si sviluppò con il nascondimento (apparente) di una corposa concretezza di interessi nazionali delle americanissime imprese (Usa) che agirono con caratterizzazioni egemoniche (mondiali), sotto le coperture finanziarie, delle imprese sub–dominanti (agenti mandatari) collocate nei paesi dominati.

Oltre ad un dejà vu ossessivo che identificò, sempre, il Capitalismo finanziario, come la causa di ogni crisi capitalistica: un semplice rapporto di dominio nascosto e trasferito sull’economico e che costrinse il dominato a fare i conti (della serva), entro i vincoli economici assegnatigli; conseguenza fondamentale di una limitazione di autonomia per ciascun paese e finanche di un pensiero depauperato dell’agire politico, in una politica senza vita che, come uno spettro, è capace ancora di irretire i popoli beoti irretiti dai luoghi comuni di un crollo del capitalismo.

L’interesse dell’autore è rivolto principalmente alla crisi del “Washington consensus“ causa fondamentale dell’emergenza della Cina che ha saputo imporre un cambiamento fondamentale nelle relazioni tra il “Nord e il Sud del mondo”; un cambiamento di direzione imposto all’establishment americano, che intende reagire come paese dominante, in grado di nascondere le più profonde ragioni di una politica di potenza in crisi di egemonia, nei cui confronti l’economi(c)a rappresenta l’unico carburante valido per una politica in grado di mettere in movimento “l’insieme di un complesso strategico”.

E’ su questa crisi di una declinante egemonia che si è innestata una corsa strategica Usa mettendo benzina sul fuoco della Centralità Finanziaria ormai alle corde dal multipolarismo che avanza, e da un armamentario ideologico del liberalismo-marxismo in disuso, alle spalle del trascorso Novecento; e con il sostegno ideologico di una ricorsività della finanziarizzazione del capitale, formulata dallo storico Fernand Braudel come “caratteristica ricorrente del capitalismo storico fin dal sedicesimo storico”, che ha dato la stura ad una summa di pensiero “dell’Economia Mondo”(1) ; e ripresa e fatta proprio da Arrighi: “ l’accumulazione di capitale [si realizza] attraverso la compravendita delle merci ….In alcuni periodi anche lunghi il capitalismo sembrò specializzarsi come nel diciannovesimo secolo, quando esso si lanciò in modo tanto spettacolare nell’immensa novità dell’industria. Questa specializzazione indusse molti a presentare l’industria come la realizzazione ultima che avrebbe conferito al capitalismo il suo vero volto. Ma si trattava di una prospettiva di breve termine: dopo il primo boom del macchinismo, il capitalismo più elevato tornò all’eclettismo ad una specie di indivisibilità, come se lo specifico vantaggio di trovarsi in quei punti dominanti consistesse proprio nel non irrigidirsi in una sola scelta: nell’essere eminentemente adattabile e quindi non specializzato”.

Le espansioni finanziarie sono state (secondo l’autore) “ un aspetto integrante delle crisi egemoniche passate e presenti, nonché della loro trasformazione in crolli egemonici. Ma il loro impatto sulla tendenza delle crisi a risolversi in crolli egemonici è ambivalente. Per un verso, infatti, esse tengono la crisi sotto controllo inflazionando temporaneamente il potere dello stato egemonico in declino… Questa reflazione permette allo Stato a egemonia declinante di contenere, almeno per un po’, le forze che sfidano la prosecuzione del suo dominio. Per un altro verso, però, le espansioni finanziarie consolidano queste ultime, ampliando e approfondendo la concorrenza tra Stati e tra imprese e i conflitti sociali, e riallocando il capitale verso strutture emergenti che promettono maggiore sicurezza o rendimenti più alti di quelli garantiti dalla struttura dominante”.

E’ proprio da qui che si può evincere il doppio binario, sopra indicato, dello strumento finanziario dello Stato Usa, divide et impera; una (di)visione realizzata da una politica strategica realmente conflittuale, il cui flusso finanziario è soltanto l’aspetto di un più ampio conflitto strategico; come altrettanto ampio è lo spettro di dominio della potenza egemonica di un paese che intende collocarsi entro uno spazio geopolitico, compreso quello militare.

Il gioco delle apparenze, svolto dal paese dominante Usa, si realizza con una indubbia efficacia persuasiva: una duplicazione infinita del finanziario che si svolge senza alcun riferimento delle economie reali, che continuano a sussistere in immagini riflesse dei valori finanziari, come in una camera di specchi; un gioco delle apparenze che ha portato a uno stato confusionale i dominati europei, così come del resto si è lasciato avvolgere il sistema politico italiano, che, tra destra-sinistra, spazia dal risibile pensiero mercatista tremontiano, al mercato sociale e/o socialismo del mercato della sinistra, ai no global, alla finanza etica…, e “chi più ne ha più ne metta”.

La ricerca sociale prospettata da Arrighi, contiene, come gran parte del mondo accademico, l’idea statica ‘del moto apparente del sole (intorno alla terra); una sorta di ‘pensiero alto’ che tiene costantemente sotto osservazione una ordinaria realtà empirica a copertura di un sottostante movimento tellurico, che trasforma, continuamente, la superficie dell’ oggetto dell’analisi posta in essere.

Le stesse fissità di pensiero sui macrosistemi economici-finanziari hanno prodotto una spessa coltre ideologica al riparo degli ‘squarci di verità’ che hanno saputo imporre i grandi pensatori da Marx, a Husserl…., nel disvelamento delle ideologie, che imbragavano la realtà entro le apparenze dei dominanti.

Una ricerca sociale che possa essere considerata con una sufficiente scientificità, non può fare riferimento ad una realtà statica ( e/o in equilibrio), quanto considerare che ogni mutamento ( sviluppo) è rottura di ogni precedente (apparente) equilibrio, con una posizione da occupare in progressione di un movimento (conflitto) in costante squilibrio (simile alle analisi schumpteriane dei processi innovativi dei prodotti derivati dalla rottura del flusso circolare ).

Oltre alla comprensione che lo svelamento dello squilibrio è il riconoscimento di una realtà in movimento come presupposto fondante di ogni conflitto strategico: i cambiamenti di posizione diventano parte integrante di una stabilizzazione di una nuova formazione economica-sociale ( pars costruens).




  1. Il termine “Economia Mondo” fu usato per la prima volta da F. Braudel (ricalcando le analisi di F. Rorig del 1933) e rappresenta un insieme di aree geografiche con diversa specializzazione produttiva e con diversi rapporti di produzione, collegati da relazioni commerciali; una divisione spaziale con un centro ed una periferia collegata secondo una dilatazione di scambi commerciali in una forma di progressiva subordinazione economica.

di Gianni Duchini

27 dicembre 2010

Direttive europee sui prodotti erboristici

Facciamo un po’ di chiarezza nell’ingarbugliato caso della Direttiva europea sugli integratori e farmaci naturali.

Nel web stanno circolando da mesi notizie allarmanti e decisamente inquietanti. Dal primo aprile 2011, cioè tra quattro mesi, spariranno dalla vendita integratori, medicine naturali tradizionali, chiuderanno le scuole di naturopatia e omeopatia, e verranno date alle fiamme tutti i libri su argomenti naturali.
Sinceramente, detto tra noi, con un minimo di buon senso, questi allarmi lasciano il tempo che trovano, anzi, sicuramente rientrano in una strategia ben precisa. Mi spiego meglio.
Veicolare notizie assurde e soprattutto irrealizzabili (almeno nell’immediato) rientra in una vera e propria strategia mediatica di debunking e deviazione delle masse. Chi infatti potrà mai credere che spariranno libri su argomenti di medicina naturale, o addirittura che saranno chiuse le scuole pluridecennali di naturopatia?
Siccome ciò è impossibile (nel breve), il risultato è che tutto perde di significato, per cui si butta via il bambino con l’acqua sporca!
Ma come stanno le cose? Cerchiamo di fare un po’ chiarezza.

Direttiva 2000/13/CE
Prima di affrontare questo importante argomento, è necessario fare alcuni passi indietro e andare a Bruxelles il 20 marzo 2000 quando i burocrati del Parlamento europeo e del Consiglio d’Europa hanno la varato una Direttiva 2000/13/CE “relativa al ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri concernenti l'etichettatura e la presentazione dei prodotti alimentari, nonché la relativa pubblicità”[1]
In questa Direttiva, entrata in vigore il 26 maggio 2000, si parla dell’etichettatura a livello comunitario.

Articolo 2

1. L'etichettatura e le relative modalità di realizzazione non devono:

b) (…) attribuire al prodotto alimentare proprietà atte a prevenire, curare o guarire una malattia umana né accennare a tali proprietà.

Nella presente Direttiva NON si può “attribuire al prodotto alimentare proprietà atte a prevenire, curare o guarire una malattia umana né accennare a tali proprietà”. Cosa i burocrati intendono per “prodotto alimentare” lo troviamo nella Direttiva 2002/46/CE.

Direttiva 2002/46/CE
La Direttiva 2002/46/CE, sancita questa volta in Lussemburgo, “relativa a ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri concernente gli integratori alimentari”[2] è molto interessante!
Entrata in vigore ufficialmente il 12 luglio 2002, gli Stati membri hanno dovuto adottare le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative entro il 31 luglio 2003[3].
In Italia è stata recepita con un Decreto legislativo nr. 169 del 21 maggio 2004 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale nr. 164 del 15 luglio 2004.

Articolo 1
1. La presente direttiva si applica agli integratori alimentari commercializzati come prodotti alimentari e presentati come tali.

All’articolo 1 della Direttiva 2002/46, gli “integratori alimentari”, sono commercializzati come “prodotti alimentari”, e in quanto tali, per la Direttiva 2000/13 vista prima, NON si è possibile attribuire loro alcuna proprietà “atte a prevenire, curare o guarire una malattia umana” .
All’articolo 2, paragrafo b) invece, si specifica che le vitamine e i minerali sono considerati “sostanze nutritive” o “nutrienti”, mentre al paragrafo a) gli “integratori alimentari” possono essere costituiti da una “fonte concentrata di ‘sostanze nutritive’ ”. Si può per tanto concludere che anche le vitamine e i minerali sono considerati “prodotti alimentari”!

Articolo 2

Ai fini della presente direttiva si intende per:

a) "integratori alimentari": i prodotti alimentari destinati ad integrare la dieta normale e che costituiscono una fonte concentrata di sostanze nutritive o di altre sostanze aventi un effetto nutritivo o fisiologico (…);

b) "sostanze nutritive" o "nutrienti": le seguenti sostanze:

i) le vitamine;

ii) i minerali.

Ecco il primo passaggio epocale: trasformare “minerali”, “vitamine” e “piante”, prima in “integratori” e quindi in “prodotti alimentari” (integratori alimentari), specificando anche la dose raccomandata per l’assunzione giornaliera (la ridicola R.D.A.). Dose da non superare, ovviamente!
Non è tutto, perché a corredo di tale direttiva, il Ministero della Salute ha fornito un elenco delle piante permesse (Tabella B: “erbe impiegabili negli integratori alimentari”) e un elenco delle sostanze non permesse (circa 400, Tabella A: “erbe il cui uso deliberato non è ammesso”).
Tutte le piante citate in quest'ultimo elenco, sono state tolte dal commercio, creando confusione tra venditori e consumatori e seri problemi economici ai produttori!
Tanto per capire la situazione, ci sono numerosi casi in cui una medesima pianta figura in entrambi gli elenchi, differenziata solo dalla parte utilizzabile (seme, fiore o corteccia per esempio). Ancora più confusione e danni economici enormi a quelle piccole o medie aziende che magari hanno investito soldi su dei prodotti, piuttosto che su una specifica pianta.

Se teniamo conto che nella Direttiva 90/496/CEE del 24 settembre 1990, “relativa all’etichettatura nutrizionale dei prodotti alimentari[4] i “prodotti alimentari” sono, diciamo erano, da intendere quelli “destinati a ristoranti, ospedali, mense e altre analoghe collettività”[5], cioè solo alimenti!
Specificando subito dopo, all’articolo 1, paragrafo 2) che tale Direttiva (90/496/CEE) non si applica alle acque minerali e agli “integratori di regime/complementi alimentari[6].
E’ la prima volta dal 1990, che vitamine e minerali vengono considerati come “prodotti alimentari”, con le conseguenze che abbiamo visto sopra e che vedremo anche tra breve.
Adesso veniamo alla Direttiva che più ha scatenato le rivolte nel web.

Direttiva 2004/24/CE
A Strasburgo, capoluogo dell’Alsazia (Francia Orientale) e sede del Parlamento europeo e Consiglio d’Europa, il 31 marzo del 2004 è avvenuto qualcosa di interessante.
La prima precisazione è che la Direttiva europea 2004/24/CE, essendo stata pubblicata nella Gazzetta ufficiale n. L 136 il 30/04/2004, non entra in vigore, come viene detto nel web, il primo aprile 2011, ma il mese successivo, e cioè il primo maggio del 2011. Questo elimina dalla testa dei malpensanti un “pesce d’aprile” di catastrofiche dimensioni.
La Direttiva 2004/24 modifica “per quanto riguarda i medicinali vegetali tradizionali, la direttiva 2001/83/CE recante un codice comunitario relativo ai medicinali per uso umano[7].
L’ormai arcinota Direttiva modifica una precedente Direttiva, la 2001/83 del 6 novembre 2001, che definisce “i medicinali per uso umano”, per l’esattezza va a modificare i “medicinali vegetali tradizionali”.

Cosa sono questi medicinali?
La Direttiva è chiara a tal proposito e definisce “medicinale”, “medicinale vegetale tradizionale” e “medicinale vegetale”.
Con il termine generico “medicinale”, la definizione è la seguente:

(Punto 2) comma a) ogni sostanza o associazione di sostanze presentata avente proprietà curative o profilattiche delle umane; o comma b) ogni sostanza o associazione di sostanze che possa utilizzata sull'uomo o somministrata all'uomo allo ripristinare, correggere o modificare funzioni fisiologiche, esercitando un'azione farmacologica, immunologica metabolica, ovvero di stabilire una diagnosi medica.

Permedicinale vegetale tradizionale”:

29) medicinale vegetale che risponda ai requisiti di cui all'articolo 16 bis, paragrafo 1.

Permedicinale vegetale”:

30) ogni medicinale che contenga esclusivamente come principi attivi una o più sostanze vegetali o uno o più preparati vegetali, oppure una o più sostanze vegetali in associazione ad uno o più preparati vegetali.

All’articolo 16 bis, paragrafo 1 si dice che è istituita una procedura di registrazione semplificata per i medicinali vegetali che soddisfano TUTTI i seguenti requisiti:

a) le indicazioni sono esclusivamente quelle appropriate per i medicinali vegetali tradizionali che, in virtù della loro composizione e del loro scopo, sono destinati ad essere utilizzati senza controllo medico per necessità di diagnosi, di una prescrizione o per il controllo del trattamento;

b) ne è prevista la somministrazione solo in una determinata concentrazione e posologia;

c) si tratta di un preparato per uso orale, esterno e/o inalatorio;

d) è trascorso il periodo di impiego tradizionale di cui all'articolo 16 quater, parag. 1, lettera c);

e) i dati relativi all'impiego tradizionale del medicinale sono sufficienti; in particolare, il prodotto ha dimostrato di non essere nocivo nelle condizioni d'uso indicate e i suoi effetti farmacologici o la sua efficacia risultano verosimili in base all'esperienza e all'impiego di lunga data.

A parte i paragrafi i primi tre, la lettera d) sancisce un periodo di tempo tradizionale stabilito dall’articolo 16 quater, paragrafo 1 lettera c).
Articolo 16 quarter, paragrafo 1 lettera c).

La documentazione bibliografica o le certificazioni di esperti comprovanti che il medicinale in questione o un prodotto corrispondente ha avuto un impiego medicinale per un periodo di almeno trent'anni anteriormente alla data di presentazione della domanda, di cui almeno 15 anni nella Comunità. Su richiesta dello Stato membro in cui è stata presentata la domanda di registrazione per impiego tradizionale, il comitato dei medicinali vegetali esprime un parere sull'adeguatezza della dimostrazione dell'uso di lunga data del medicinale in questione o del prodotto corrispondente. Lo Stato membro presenta la documentazione rilevante a sostegno della richiesta”;[8]

Un prodotto che funziona, se non si riesce a comprovare il suo impiego continuativo per almeno 30 anni, prima della data di presentazione della domanda, rischia di essere messo al bando e tolto dal commercio.
Ma i punti che più c’interessano, scorrendo la Direttiva del 2004, sono il 3 e 5.

Punto 3:

“Nonostante una lunga tradizione d'uso, numerosi medicinali non rispondono ai requisiti relativi all'impiego medicinale ben noto né presentano una riconosciuta efficacia e un livello accettabile di sicurezza e non possono pertanto essere oggetto di un'autorizzazione all'immissione in commercio. (…)”[9]

Punto 5:

“(…) Tuttavia, poiché neppure una lunga tradizione consente di escludere eventuali timori circa la sicurezza del prodotto, le autorità competenti dovrebbero avere la facoltà di richiedere tutti i dati necessari per la valutazione della sicurezza. La qualità di un dato medicinale non è determinata dal suo impiego tradizionale. Pertanto non dovrebbero essere concesse deroghe all'obbligo di effettuare le necessarie prove chimico-fisiche, biologiche e microbiologiche. I prodotti dovrebbero soddisfare le norme di qualità contenute nelle monografie della farmacopea europea pertinenti o in quelle della farmacopea di uno Stato membro”[10]

Qui il caos è voluto. Da una parte dicono che una lunga tradizione di un medicinale vegetale consente di non dover fare la sperimentazione preclinica e dall’altra dicono che tuttavia, poiché “neppure una lunga tradizione consente di escludere eventuali timori circa la sicurezza del prodotto, le autorità competenti dovrebbero avere la facoltà di richiedere tutti i dati necessari per la valutazione della sicurezza”
Ecco il giochetto messo in atto dai burocrati di Strasburgo, Bruxelles e Lussemburgo.
Le autorità di controllo, completamente fagocitate dalle corporation della chimica e farmaceutica, dovrebbero richiedere - avendone la facoltà e autorità - i dati necessari per la valutazione della sicurezza di un prodotto vegetale tradizionale.
Sapete come si valuta la sicurezza di un prodotto per uso umano? Lo spiega la stessa Direttiva 2004/24/CE:

“Le domande di autorizzazione all'immissione in commercio di un medicinale debbano essere corredate di un fascicolo contenente informazioni e documenti relativi in particolare ai risultati delle prove chimico-fisiche, biologiche, microbiologiche, farmacologiche, tossicologiche e delle sperimentazioni cliniche effettuate sul prodotto e comprovanti la sua qualità, sicurezza ed efficacia”

Per tanto, se una azienda vorrà vendere un prodotto erboristico (pianta o parti di pianta) descrivendone però le caratteristiche “terapeutiche” e/o “curative” questo verrà considerato alla stregua di un “farmaco di sintesi”, anche se viene usato da migliaia di anni.
Per una piccola o media azienda questo è praticamente impossibile!
Per produrre rimedi terapeutici naturali, bisognerà fornire alle autorità: prove chimico-fisiche, biologiche, microbiologiche, farmacologiche, tossicologiche e cliniche.
La domanda che sorge spontanea: chi potrà permettersi tutto ciò? E la risposta purtroppo è sempre la stessa: i soliti noti… Solo le aziende del farmaco potranno economicamente registrare un prodotto erboristico per poi tenerlo fermo in un cassetto, oppure guadagnandoci miliardi alla faccia delle piccole aziende che lavorano bene e onestamente.

di Marcello Pamio

26 dicembre 2010

Rapinare i risparmiatori: truffa decisa da banche e governi


Titoli tossici, divenuti carta straccia una volta scoppiata la bolla immobiliare; il bluff di mutui senza copertura, di quote azionarie senza capitali e senza più valore commerciale né relazioni con l’economia reale. Grande crisi? No, grande truffa. Organizzata dagli Stati, con la complicità delle banche centrali. Obiettivo: derubare i cittadini. Letteralmente: espropriarli dei loro risparmi, per alimentare il grande flusso del capitalismoBruno Amoroso, docente all’università danese di Roskilde. finanziario globale: hi-tech e spese militari in primis. Tutto legale, naturalmente. Perché sono stati gli stessi “truffatori” a manipolare le leggi per agevolare il grande saccheggio. Lo afferma un importante economista,

Allievo del professor Federico Caffè, grande economista italiano scomparso nel nulla il 15 aprile 1987, Amoroso è reduce da conferenze e incontri crisi finanziariapubblici nei quali non ha esistato a denunciare il capitalismo finanziario che sta scatenando la più grave crisi sociale nella storia delle democrazie occidentali. «Alla parola crisi, generalmente, diamo questo significato: la crisi è qualcosa di difettoso, legato al non-funzionamento dei meccanismi dell’economia o dei sistemi politici. Qualcosa di non voluto, qualcosa che è sfuggito di mano», premette Amoroso, in una video-intervista girata da “Radio dal basso” e collocata su YouTube. Secondo la tesi corrente, è «come se l’intenzione della finanza e dell’econimia fosse equa e però qualcosa è sfuggito o qualcuno ha imbrogliato. Be’, secondo me non è così».

«Questa che si chiama crisi finanziaria – afferma il professor Amoroso – non è una crisi: è il risultato di politiche programmate per realizzare l’esproprio dei risparmi di milioni di persone, sia nei paesi europei ma anche a livello mondiale». Quindi, aggiunge l’economista, «più che di crisi parlerei appunto di truffa, nel senso dell’esproprio: però non un esproprio fatto da truffatori, cioè in modo illegale, ma di un esproprio organizzato dai sistemi finanziari accompagnati da misure legislative tutte funzionali a questo esproprio». Bruno AmorosoPotrebbe sembrare un paradosso: «Quella che chiamiamo crisi è in realtà una politica che ha avuto un grande successo».

Sarebbe come chiamare “crisi” l’industrializzazione forzata del nord compiuta dalla Fiat o gli stessi disastri ecologici: «Non sono “errori”, niente che sia sfuggito di mano a nessuno. Sono stati il risultato, anzi il successo, di una certa forma di industrializzazione, quindi se vogliamo rapace, di considerare il mercato capitalistico e l’economia per realizzare determinati interessi». Quindi: «Non crisi finanziaria, ma anzi: successo della finanza e della globalizzazione nell’espropriare milioni di cittadini che avevano dei risparmi accumulati». E visto che «ormai sul piano dei salari c’è molto poco da espropriare», ecco che è il risparmio ad essere colpito, «laddove esistono spazi per continuare l’arricchimento e l’esproprio capitalistico».

Per il professor Amoroso, «la crisi finanziaria cosiddetta è questo: è il successo delle politiche del neo-liberismo e della globalizzazione». Vie d’uscita? Solo se i consumatori, «che sono le vittime», decidessero di «abolire quei sistemi bancari e finanziari, sostituendoli e dando fiducia al sistema della finanza etica e delle banche popolari, legate all’economia reale dei territori». Fino a qualche decennio fa avremmo detto: è necessario ristabilire il controllo dello Stato, o della Banca centrale, sulla finanza. «Questo oggi non ha più senso, perché lo Stato e la banca nazionale sono esattamente espressione di quegli interessi, negli Stati Uniti ma anche nella maggioranza dei paesi europei, cioè sono i centri del potere finanziario – Claude TrichetMediobanca, la banca centrale – che sono i rappresentanti di quegli interessi, quelli che hanno fatto le leggi e i regolamenti».

Quello che è successo, continua l’economista, basta e avanza per «mettere sotto inchiesta la banca nazionale e il comitato di controllo del credito». I dispositivi di controllo esistono, ma hanno ignoranto l’allarme. «Erano distratti? Non se ne sono accorti?». Al contrario: hanno finto di non vederli, i rischi per i risparmiatori, perché il loro vero obiettivo, non dichiarato, era espropriarli. «Cioè: espropriare risparmi accantonati per la vita familiare, per riportarli dentro il flusso dell’economia mondiale della globalizzione che certamente ha bisogno di grandi investimenti. Nei campi hi-tech e dell’industria militare servono grandi soldi. Siccome i cittadini non sono disposti a metterli a disposizione di avventure di quel tipo, allora gli si tolgono. E gli si tolgono in maniera legale, non in maniera truffaldina: questa è una truffa organizzata, dagli Stati e dai poteri politici e finanziari».

di Giorgio Cattaneo

22 dicembre 2010

Senza il legame con i morti la nostra vita non è che un’assurda corsa nel vuoto









Chi siamo o cosa siamo noi, se viene a cadere il legame che ci tiene uniti ai nostri morti, a coloro che ci hanno preceduto sulle strade della vita?
Non è affatto una domanda oziosa o superflua: è una domanda centrale; è LA domanda, dalla cui risposta tutto il resto dipende.
Tanto per cominciare, l’espressione “i morti” è estremamente impropria e fuorviante: come se noi, che siamo vivi, ci trovassimo nella dimensione “vera” dell’esistenza, perché attuale, tangibile, dimostrabile; mentre loro, essendo stati vivi un tempo, ma non essendolo più, godessero ora di uno statuto ontologico di serie B rispetto al nostro.
È vero, semmai, il contrario.
Chi è vivo, lo è per una manciata di anni; chi ha già terminato la propria vita, appartiene all’eternità - come vi apparteneva, del resto, prima di nascere, anzi, prima di venir concepito - e perciò è lo statuto ontologico dei vivi ad essere friabile, fuggevole, illusorio.
Noi passiamo, loro rimangono: questa è la realtà.
Noi siamo qui, adesso; ma questo “adesso” si consuma rapidamente; e, quando non ne resterà più nulla, spariremo da questa dimensione, così silenziosamente come vi siamo entrati: inquilini temporanei di un mondo che non è nostro, che ci ospita solamente.
Soltanto un materialismo tanto rozzo quanto poco intelligente potrebbe sopravvalutare la nostra condizione rispetto alla loro.
Un poco alla volta, chi prima e chi dopo, tutti scivoliamo in quell’altra condizione, entrando nel numero di quelli che “furono”: perciò, mentre questi ultimi crescono senza posa, noi, senza posa, ci andiamo assottigliando.
Finché siamo bambini, finché siamo giovani, vediamo tutto intorno delle persone che se ne andranno ben prima di noi; poi, mano a mano che cresciamo, cominciano ad andarsene anche quelli che erano bambini e ragazzi quando noi eravamo appena nati, o piccolissimi; da ultimo, divenuti anziani, ci guarderemo intorno e vedremo, forse con raccapriccio, che, intorno a noi, non è rimasto nessuno di quanti hanno accompagnato la nostra vita, ma sono subentrate solamente facce nuove, persone più giovani. Anche queste ultime destinate a finire come gli altri, ma un poco più tardi e, quindi, come se appartenessero ad un altro mondo: saranno ancora vive, infatti, quando noi chiuderemo gli occhi per sempre.
Noi siamo come i fiumi che corrono verso il mare: non possiamo pretendere di essere noi soli la “vera” acqua; il nostro destino, il nostro scopo, la nostra ragion d’essere sono quelli di raggiungere il mare, a paragone del quale siamo ben piccola cosa.
Ciò non significa che siamo fatti per la morte, se con quest’ultima espressione si vuole intendere il contrario della vita, la privazione radicale dell’esistenza.
La morte non è il contrario della vita, nemmeno sul piano strettamente logico: la morte è uno stato dell’essere, il modo in cui l’essere si spegne; la vita, invece, è un processo. Si tratta di due cose differenti, non di due cose opposte: la morte non è la negazione della vita, ma il suo naturale compimento.
La negazione e il contrario della vita, semmai, consistono nella non vita, ossia nel rifiuto dell’apertura verso la vita, nel “no” al suo incessante rinnovarsi.
La morte, inoltre, non è la “nemica” della vita, ma il suo atto conclusivo e disvelatore: grazie ad essa, la vita acquista la pienezza del proprio significato; senza di essa, la vita diventerebbe una assurda, monotona ripetizione, senza scopo e senza significato.
E tuttavia, noi siamo fatti per la vita.
Siamo fatti per la vita, per la gioia, per l’amore: altrimenti non saremmo qui, non esisteremmo; perché la vita nasce dall’amore, da un atto di amore.
Si tratta, perciò, di guardare più da vicino la misteriosa soglia che chiamiamo “morte”, cosa da cui la cultura moderna si ritrae con un fremito di spavento e che aborrisce con tutta se stessa.
La cultura moderna è basata sull’idea del Progresso, del continuo, incessante andare avanti: non è strano che la morte le appaia come lo scacco supremo, perché sembra arrestare la marcia degli uomini verso la “felicità”.
La cultura moderna odia la morte, “per fatto personale”, come si usa dire: per essa, la morte è la beffa suprema, la negazione di tutto il suo credo.
Non la pensava così il mondo pre-moderno , per il quale la morte non era né una beffa né una negazione, ma una porta spalancata sull’infinito e, quindi, la via di accesso alla piena realizzazione del nostro vero essere.
Come dice San Francesco nel «Cantico delle creature»:

«Laudato si’ mi Signore, per sora nostra morte corporale,
da la quale nullu homo vivente po’ skappare:
gauai a quelli ke morrano ne le peccata mortali;
beati quelli ke trovarà ne le Tue sanctissime voluntati,
ka la morte secunda no ‘l farrà male.»

Dunque, per l’uomo medievale il problema non è la morte, ma lo stato dell’anima allorché la morte viene; non è la morte che deve far paura, ma la prospettiva di essere da lei sorpresi in uno stato di lontananza da Dio, cioè dalla sua legge e dal suo progetto nei nostri confronti.
L’uomo medievale, come in genere l’uomo pre-moderno, sapeva perché si vive e sapeva perché si muore: si vive per rispondere alla chiamata divina, per armonizzare la propria volontà con quella del Creatore; si muore per entrare nella dimensione del permanente e per ricevere gli effetti delle proprie azioni e delle proprie scelte.
Non vi è posto per il caso, ma solo per un disegno armonioso e necessario, cui gli uomini sono chiamati a partecipare in piena libertà.
In questo senso, per la persona di fede, la morte non è la “fine”, ma il “compimento” della vita: e il defunto, lungi dall’essere divenuto una entità umbratile ed evanescente, è, propriamente parlando, colui che è divenuto “perfetto”, ossia che ha raggiunto il traguardo supremo e lo scopo ultimo per il quale è stato chiamato all’esistenza.
Una grande mistica francese, Marthe Robin, della quale altra volta abbiamo parlato (cfr. il nostro articolo «Che cos’è la natura umana quando viene ridotta all’essenziale», consultabile sul sito di Edicolaweb) soleva dire, di una persona morta (e possiamo immaginare il sorriso dolcissimo con il quale accompagnava le proprie parole), che «allora essa è compiuta».
Dovremmo smetterla, pertanto, di parlare dei “nostri poveri morti”, come se la loro condizione fosse da compiangere, rispetto alla nostra; come se loro avessero perduto un bene che noi, al contrario, possediamo e teniamo ben stretto fra le mani.
Essi non sono da compiangere o da commiserare; lo siamo noi, semmai, per le miserie e le debolezze che segnano tutto il nostro cammino terreno e che possono ridurre in condizioni pietose, fisicamente o spiritualmente, anche il più grande dei mortali.
Ciò chiarito, torniamo alla nostra domanda iniziale e proviamo a risponderle: chi siamo o cosa siamo noi, se viene a cadere il legame che ci tiene uniti ai nostri morti, a coloro che ci hanno preceduto sulle strade della vita?
La domanda sorge spontanea davanti allo spettacolo del rifiuto della morte che caratterizza le nostre esistenze e davanti al pregiudizio, cui abbiamo testé accennato, che la nostra condizione presente sia invidiabile, mentre sarebbe da compiangere quella dei defunti.
Di tutto ci piace parlare, tranne della morte: a differenza di San Francesco, consideriamo poco educato parlarne troppo apertamente, quasi fosse un argomento di per sé biasimevole, se non proprio sconveniente.
L’atteggiamento delle odierne generazioni verso i defunti è un aspetto del loro generale atteggiamento verso il passato e verso la tradizione: un misto di distrazione, di ignoranza e di vera e propria insofferenza.
«In Africa - diceva il poeta Léopold Sédar Senghor - non esistono confini, nemmeno tra la vita e la morte»; e la stessa cosa può dirsi per tutte le società tradizionali, nelle quali il legame tra il mondo dei viventi e quello degli antenati è talmente forte e vivo, da costituire l’ossatura fondamentale dell’intera struttura socioculturale.
Come è possibile, infatti, procedere sul cammino della vita, senza sentirsi parte di un processo che parte da lontano; senza sentirsi come i prosecutori dell’opera di quanti ci precedettero e come coloro i quali, al momento di andarsene, passeranno la fiaccola del domani nelle mani delle nuove generazioni?
La mancanza di memoria è anche assenza di gratitudine e, in definitiva, ignoranza del proprio posto nel mondo: perché noi non veniamo dal nulla, così come non stiamo andando verso il nulla, checché ne dicano, con funereo compiacimento, quelli che - parafrasando Henry de Montherlant - potremmo chiamare i lugubri cantori del Caos e della Notte.
Noi veniamo dal generoso «sì» alla vita dato a suo tempo dai nostri genitori, dai nostri nonni, bisnonni e trisavoli; e andiamo verso il compimento della nostra missione, che consiste nel preparare la via a coloro che ci seguiranno, nel rimuovere le erbacce dal terreno e nel lasciare ad essi in usufrutto un mondo che non sia peggiore, ma, se possibile, migliore di quello che, a nostra volta, abbiamo ricevuto.
Tutto nasce dalla consapevolezza di non essere i padroni e i signori del mondo, ma solamente degli ospiti: e il dovere degli ospiti è, oltre a quello della riconoscenza verso colui che li ha accolti, nutriti e protetti, quello di lasciare la dimora in condizioni abitabili e accoglienti per altri ospiti, che giungeranno a loro volta.
Siamo parte di un grande fiume cosmico, che va dall’umile filo d’erba alla galassia più lontana, la quale brilla negli spazi celesti a distanze inimmaginabili: tutto è in noi e noi siamo in tutto, senza che si possano tracciare dei veri confini tra noi e le cose e nemmeno, come affermava il grande poeta africano, tra la vita e la morte.
Gli amanti lo sanno: non si può dire dove finisce la loro anima e dove incominci quella dell’altro; così come, nei moneti dell’estasi, essi non potrebbero dire dove finisca il corpo dell’uno e dove incominci quello dell’altra.
Ebbene, per la grande vita cosmica di cui siamo parte, è esattamente la stessa cosa: noi siamo nel filo d’erba e nella galassia, così come il filo d’erba e la galassia sono in noi, sono parte di noi, sono tutt’uno con noi, anima e corpo.
Un soffio divino anima noi, così come pervade il filo d’erba e la lontana galassia; e quel soffio divino ci affratella a tutto ciò che esiste, a tutto ciò che è esistito in passato e a tutto ciò che esisterà nel futuro.
Del resto, che cos’è il passato, che cos’è il futuro? Non esistono in se stessi, ma soltanto nel difetto della nostra vista: sono un nostro errore di prospettiva.
L’unico tempo che esiste in sé stesso, è il presente, perché tutto è presente agli occhi dell’eternità: e non vi è differenza tra quanti hanno vissuto prima di noi e quanti vivranno dopo.
Siamo un’unica famiglia e siamo fatti per la vita, non per la morte.
La morte è solo un passaggio, non una condizione durevole dell’essere; è una crisi, nel significato greco della parola, ossia un cambiamento.
Verso che cosa avverrà tale cambiamento, ciò dipende - appunto - dal modo in cui si è vissuti.
di Francesco Lamendola