10 ottobre 2013

La decadenza della menzogna




I politici non si ergono mai oltre il livello della falsa  dichiarazione, ed effettivamente si accordano a dimostrare, a discutere, ad argomentare… Se un uomo è sufficientemente privo di immaginazione per produrre una evidenza a supporto di una menzogna, tanto vale che dica la verità subito (O. Wilde)

Anche la menzogna è decaduta in questo Paese, insieme a tutto il resto.Dall’economia alla società, ogni cosa si è sfatta e decomposta, sotto l’effetto di frottole di corto respiro e di fandonie con le gambe corte, che da quanto più in alto provengono, tanto più scadono. Fole senza stile che segnalano l’insulsaggine dei nostri governanti.
La democrazia italiana non si fonda, come dovrebbe, sulla normale insincerità per superiori fini politici, i quali restano noti unicamente a pochi serbatoi di pensiero e ambiti di elaborazione strategica all’interno degli apparati statali, ma sulla disonestà “eticheggiante” e sul perbenismo doppiogiochista che richiama l’ipocrita trasparenza civile per celare la propria inconsistenza servile.
La bugia ad uso politico, quando è elemento mimetizzante della strategia complessiva di gruppi dirigenti nazionali, consci dei tempi nei quali sono costretti ad operare, è necessaria a tenere riservati piani e finalità, che per essere realizzati devono restare coperti, almeno per l’essenziale. Non stiamo parlando, dunque, delle finte promesse a scopo elettorale dei partiti per guadagnarsi un posto in Parlamento, ma della dissimulazione comportamentale che una élite mette in atto per raggiungere i suoi scopi, in un contesto di conflittualità e concorrenza globale molto accese, in cui le alleanze sono sempre transitorie ed abbondano i colpi bassi di amici e nemici.
Dunque, si può mentire senza ingannare, per proteggere o allargare gli interessi nazionali, oppure si può alterare la realtà per frodare, cioè per sfruttare a proprio limitato vantaggio le sventure di un popolo intero. La scelta dei nostri screditati rappresentanti parlamentari è ricaduta, ovviamente, sulla seconda opzione. Per questo diciamo che anche le menzogne sono degnerate  in questa vile provincia colonizzata, qual è diventata la nostra povera Repubblica.
I tanti pinocchi del sistema, che ricomprende mass media, istituzioni, organizzazioni intra e para statali, hanno fatto fronte comune per raggirare i connazionali, i quali sono sempre più umiliati e tartassati da una classe politica che ha barattato il Paese per la propria sopravvivenza corporativa.
Chi è stato il garante indiscusso di questo pantano che sta portando all’esproprio del popolo italiano? Chi ha messo in sella, negli ultimi due governi, aggirando le elezioni e rinnegando la sovranità popolare, personaggi addestrati nei centri finanziari internazionali dove si parla soltanto l’inglese con accento americano? Chi ci ha costretti a sottostare, senza protestare, ai diktat di Bruxelles, di Berlino e del FMI?
Non è un rebus, ma un Re autoproclamatosi tale. Stiamo parlando del “peggiorista atlantista”, l’ex piccìsta convertitosi al capitalismo e al liberalismo, dopo un viaggio a Washington nel 1978. Costui è il responsabile dell’attuale cancrena italiana e ci sarebbero alcuni buoni motivi (dall’alto tradimento dello Stato all’attentato alla Costituzione) per chiederne l’impeachment all’istante.
Ma il Parlamento è diventato il suo bivacco di manipoli, un ricettacolo di manigoldi, di rinnegati e di crapuloni a spese della collettività che temono le urne come la peste perché non vogliono perdere i loro privilegi. Il recente ed ennesimo voltafaccia, quello dei vertici del Pdl che hanno girato le spalle al loro capo storico, non lascia ulteriori speranze di scampo al Belpaese.

Gli allarmismi sullo stato dei conti pubblici ed il caos istituzionale che ne è seguito servivano proprio a mettere Roma con le spalle al muro.L’obiettivo, ormai scoperto, era quello di costringerci a liquidare i tesori di Stato, soprattutto gli asset pubblici dei settori avanzati, ancora in nostro possesso, che facevano gola ai competitors stranieri. Anche l’ultimo baluardo dell’industria strategica nazionale cadrà a breve. Nemmeno più un diodo ci potrà salvare.
di Gianni Petrosillo 

09 ottobre 2013

Oltre l'euro e l'era (anti)berlusconiana




OLTRE L’EURO E L’ERA (ANTI)BERLUSCONIANA
Mentre va in scena l’ultimo (?) atto di “Finale di partita all’italiana”, una commedia dell’assurdo che rischia di finire in tragedia per milioni di italiani, si moltiplicano gli articoli e le prese di posizione contro l’Eurozona (e non solo in rete). Su questo argomento, se particolare importanza hanno le analisi di Alberto Bagnai o Bruno Amoroso, si deve a Jacques Sapir l’aver fatto, con grande chiarezza e semplicità, il punto della situazione nel suo recente articolo “Lo scioglimento dell’euro, un’idea che si imporrà nei fatti”. (1) Sapir infatti dimostra che, mentre i media per ragioni politiche e ideologiche cercano di mettere in evidenza il fatto che la cosiddetta “ripresa” dovrebbe essere già cominciata, in realtà tutti gli indicatori economici provano il contrario.

Invero ciò non dovrebbe stupire granché gli italiani che vivono quotidianamente gli effetti della crisi sula loro pelle. Con l’indice della produzione industriale che ha perso ben venti punti percentuali dal 2007 (2), con il tasso di disoccupazione giovanile che ha superato addirittura il 40% (3), con una pressione tributaria simile a quella dei Paesi scandinavi ma con servizi da “terzo mondo”, (4) resi ancora più inefficienti o carenti dalla “macelleria sociale” degli ultimi governi, con il potere d’acquisto delle famiglia diminuito del 4,7% (5) e con il diffondersi della povertà in ampi strati della popolazione, anche a causa di una continua redistribuzione della ricchezza verso l’alto, pare ovvio che a un numero crescente di italiani non possa sfuggire quale sia la reale condizione del nostro Paese.

D’altronde, sarebbe difficile mettere in dubbio i vantaggi che l’euro ha arrecato alla Germania, la quale, grazie ad una politica (che alcuni hanno definito “clandestina” o anche “beggar the neighbour”, ossia “frega il tuo vicino”) incentrata sulle riforme del lavoro firmate da Peter Hartz (già capo del personale della Volkswagen), ha “esportato” tra i quattro e cinque milioni di disoccupati nei Paesi più “deboli” dell’Eurozona e incrementato enormemente il surplus della propria bilancia commerciale. In sostanza, fruendo di un cambio favorevole (l’euro di fatto è un “marco leggero”) e aumentando i profitti delle imprese a scapito del reddito dei lavoratori, la Germania, dopo l’inizio della crisi, ha triplicato il saldo positivo della bilancia commerciale con l’Italia, la Francia e la Spagna, che è passato dall’8,44% alla cifra stratosferica del 26,03%.
Un costo pagato anche da molti tedeschi, dato che il 10% della popolazione tedesca possiede il 53% della ricchezza nazionale (cresciuta tra il 2001 e il 2012 di circa 1400 miliardi di euro), mentre i “mini jobs”, contratti iperflessibili da circa 20 ore settimanali con uno stipendio di 450 euro netti, ormai riguardano 7,3 milioni di persone (il 70% delle quali non ha alcun altro reddito). (6) Eppure in Germania – in cui comunque vi è ancora uno Stato sociale tutt’altro che insignificante o inefficiente (non si deve dimenticare che la Germania ha potuto fare certe scelte partendo da posizioni di altissimo livello per quanto concerne la politica sociale) – è ampiamente diffusa dai media (che possono far leva su alcuni noti pregiudizi che caratterizzano la cultura tedesca) la concezione secondo cui i sacrifici dei tedeschi dipenderebbero dai danni compiuti delle “cicale” mediterranee. Un quadro ben distante dalla realtà, nonostante non si possano ignorare le gravi responsabilità delle classi dirigenti dell’Europa del sud.
Tra l’altro non è nemmeno vero che gli europei con l’introduzione dell’euro starebbero meglio o che la Germania sia la locomotiva d’Europa. Come scrive Bagnai, i dati provano che l’Eurozona si sta rivelando una sorta di gioco a somma zero in cui la Germania tira da una parte e gli altri da quella opposta. Inevitabile quindi ritenere che «la leadership tedesca abbia portato il nostro subcontinente alla catastrofe, allontanandoci in modo persistente e, nel prossimo futuro, irreversibile, dal tenore di vita dei paesi avanzati ai quali avremmo la legittima aspettativa di appartenere». (7)
Tuttavia, quel che più rileva non è tanto la valutazione dei costi economici e sociali derivanti dall’introduzione dell’euro quanto piuttosto il fatto che non è possibile porre rimedio agli squilibri che si sono generati nell’Eurozona finché si continuerà a difendere la moneta unica europea. Al riguardo, si deve tener presente che il “federalismo europeo” (“bandiera” di quegli europeisti che non sanno neppure distinguere l’Europa dall’Eurozona), oltre ai problemi politici che presenta (com’è noto un buon numero di Paesi dell’Ue, tra cui la Gran Bretagna, la Danimarca, la Svezia e la Polonia, non hanno alcuna intenzione di rinunciare alla propria sovranità nazionale – ma in realtà ciò vale anche per la Francia e la stessa Germania), implicherebbe un gigantesco trasferimento di ricchezza dall’Europa del nord a quella del sud. E la Germania dovrebbe sopportare il 90 % del finanziamento di questa operazione, equivalente a circa 230 miliardi di ​​euro all’anno (circa 2.300 miliardi in dieci anni), ossia tra l’8 % e il 9 % del suo Pil (altre stime arrivano perfino al 12,7 % del suo Pil). Chiunque può pertanto rendersi conto che sarebbe assai più facile che un cammello passasse attraverso la cruna di un ago.
Logico dunque che Jacques Sapir ritenga inevitabile l’abbandono della moneta unica europea e che, dopo aver preso in esame i possibili scenari che possono derivare dalla fine di Eurolandia, concluda: «Lo scioglimento dell’euro, in queste condizioni, non segnerebbe la fine dell’Europa, come si pretende, ma al contrario la sua rimonta nell’economia globale, e per di più una rimonta da cui potrebbero trarre beneficio in maniera massiccia, sia per la crescita che la nascita nel tempo di uno strumento di riserva, i paesi in via di sviluppo dell’Asia e dell’Africa». (8)
Considerazioni e conclusioni – quelle di Sapir e Bagnai – che nella sostanza, a nostro giudizio, non si possono non condividere, anche perché fondate su analisi rigorose, nonché sull’ovvia constatazione che una moneta senza uno Stato è nel migliore dei casi un’assurdità (si badi che buona parte degli economisti che oggi difendono l’euro a spada tratta prima dell’introduzione dell’euro erano decisamente contrari alla moneta unica europea), così com’è assurdo pensare che sia possibile costruire il “federalismo europeo” tramite scelte politiche ed economiche del tutto contrarie agli interessi “reali” di chi dovrebbe compierle. E se ciò non bastasse si potrebbe pure ricordare che senza un “federalismo europeo” nulla o quasi si potrebbe fare contro la “speculazione finanziaria”.
Nondimeno, è palese che non è sufficiente, per comprendere la crisi di Eurolandia, considerare solo le questioni attinenti all’economia e alla finanza. Come spiegare altrimenti il fatto che una classe dirigente come quella italiana non cerchi in alcun modo di contrastare ma anzi favorisca una politica che sta devastando il nostro Paese? Per quale motivo cioè i nostri politici o meglio quei membri della nostra classe dirigente – politici o tecnocrati che siano – che tirano effettivamente le fila della politica italiana non si sono opposti né si oppongono nemmeno adesso a decisioni le cui conseguenze disastrose per l’Italia ormai sono evidenti a tutti coloro che hanno occhi per vedere? Insomma è certo che la Germania riesce a trarre il massimo profitto da una situazione geopolitica estremamente favorevole per la sua economia e che quindi l’euro è solo un aspetto, benché non marginale, del problema che si dovrebbe risolvere.
Non è certo un caso che l’introduzione dell’euro sia avvenuta il più rapidamente possibile dopo il crollo del Muro di Berlino e la riunificazione della Germania, il cui significato politico può sfuggire solo a coloro che non conoscono (o fanno finta di non conoscere) gli ultimi centocinquanta anni della storia europea. In definitiva, è lecito affermare che la soluzione della “questione tedesca” era e rimane ancora il principale obiettivo dei “circoli euroatlantisti”, i quali non potrebbero tollerare che Eurolandia si sfasci e la Germania venga tentata – anche solo seguendo delle “direttrici geoeconomiche” – di “sbilanciarsi” dalla parte dei Brics (soprattutto in una fase storica in cui l’America, oltre ad avere serie difficoltà economiche, sembra priva di “iniziativa strategica” e incapace di contrastare con successo la crescita di altre potenze o di altri “poli geopolitici”, che cominciano pure a “fare pressione” per una radicale ridefinizione degli equilibri mondiali).
Da qui la necessità, secondo le “direttive strategiche” d’oltreoceano, per la classe dirigente italiana – che a partire dagli anni Novanta ha consapevolmente scelto di “liquidare” il patrimonio strategico nazionale a vantaggio dei “mercati” – di contribuire a qualsiasi costo alla soluzione della “questione tedesca”. E il compito fondamentale dell’Italia, secondo gli “strateghi euroatlantisti” consiste proprio nel favorire il più possibile la Germania (onde “saldarla” all’Atlantico), cedendo la propria sovranità non all’Europa (come invece molti intellettuali e giornalisti italiani affermano, scagliandosi contro gli italiani “brutti, sporchi e cattivi” ma “ignorando” che per milioni di italiani è un problema perfino, come si suol dire, mettere il pranzo insieme con la cena o che parecchie scuole non solo hanno”lesioni strutturali” ma hanno perfino problemi per acquistare la carta igienica), bensì ai tecnocrati di Bruxelles e alla Bce (la cui vera funzione non è un mistero per nessuno, tanto è vero che non occorre precisare a quali poteri la Bce debba rispondere).
Peraltro, si deve tener presente che non si tratta solo di “tradimento” del proprio Paese da parte della nostra classe dirigente (o almeno dei suoi membri più importanti), dato che quest’ultima condivide valori e stili di vita che la portano ad anteporre il cosiddetto ”mondo occidentale” all’Italia (problema estremamente serio se si considera pure l’americanizzazione della nostra società, in specie delle nuove generazioni). Inoltre la nostra classe dirigente e, in generale, le classi sociali più abbienti sono perfettamente consapevoli che mettere in discussione l’euro, rebus sic stantibus, comporterebbe anche mettere in discussione quei meccanismi di redistribuzione della ricchezza e quella “riforma” dello Stato sociale in base ai quali sarebbe assai poco significativa per le fasce sociali più deboli (ceti medio-bassi inclusi) perfino una crescita del Pil (che in ogni caso sarebbe assai modesta).
Ma appunto per questo l’euro costituisce quell’anello debole su cui bisognerebbe premere per poter spezzare la “catena geopolitica” che lega il nostro Paese a scelte e decisioni strategiche del tutto opposte a quelle che si dovrebbero prendere se si avesse veramente di mira l’interesse dell’Italia (e di conseguenza della stragrande maggioranza degli italiani), mentre continuando di questo passo tra qualche anno si rischia di non poter nemmeno più difendere alcuna sovranità nazionale, semplicemente perché con ogni probabilità non vi sarà più alcuno Stato italiano, ma solo un territorio deindustrializzato, utile come riserva di manodopera qualificata a basso costo.
E’ indubbio allora che prendere posizione contro l’Eurozona e le misure d’austerità imposte dalla Bce e dai tecnocrati di Bruxelles (indipendentemente dalla questione se sia meglio optare per due euro o tornare alla lira o scegliere altre soluzioni) sia essenziale per recuperare quella sovranità che è il presupposto necessario di ogni autentica politica (antiatlantista) che abbia come scopo quello di sottrarre lo Stato alla morsa dei “mercati”. Questo però è possibile – vale la pena di rimarcarlo – solo a patto che non si perdano di vista i reali rapporti di forza tra gli Stati Uniti e l’Ue e si comprenda qual è la vera posta in gioco sotto il profilo geopolitico e geoeconomico, tanto più adesso che in Europa si sta facendo strada la proposta statunitense di creare un “mercato transatlantico”, che renderebbe impossibile una autentica unione politica europea, trasformando l’intera Europa in una “appendice occidentale” degli Usa – ad ulteriore conferma del ruolo determinante del “politico” se non lo si intende come sinonimo di “politica” ma (correttamente) come strategia per la soluzione dei conflitti tra diversi attori (geo)politici e/o sociali.
Si può pertanto ritenere che l’attuale crisi politica italiana possa influire ben poco sulle sorti del nostro Paese, mentre decisivo sarebbe sfruttare la (probabile) fine dell’era (anti)berlusconiana, mettendo da parte lo spirito di fazione, al fine di dar vita ad una nuova forza politica di tipo “nazional-popolare” (che tenga conto cioè anche dei codici culturali ancora, nonostante tutto, condivisi da non pochi italiani), il cui compito principale dovrebbe essere quello di impedire il declino dell’Italia (le cui conseguenze sarebbero gravissime, in primo luogo, proprio per i ceti popolari e medio-bassi). In quest’ottica si dovrebbero cercare collegamenti con altre forze politiche europee, anch’esse interessate ad un rifondazione dell’Europa che non implichi la dissoluzione della identità nazionale nel “mercato globale”, ossia evitando gli eccessi del nazionalismo e di qualsiasi forma di narcisismo identitario, e promuovendo invece sia la nascita di un “polo geopolitico e geoeconomico mediterraneo” distinto da (non opposto a) un “polo baltico” sia una alternativa alle dissennate politiche liberiste. Certo oggi la politica italiana non offre nulla di questo genere, ma una volta che si sia compresa la necessità di difendere le ragioni del cosiddetto “sovranismo” (che pure Jacques Sapir difende) non dovrebbe essere particolarmente arduo poter valutare e giudicare la situazione politica italiana ed europea sulla base di una coerente e “corretta” visione geopolitica, senza lasciarsi fuorviare da “ottusi” schemi concettuali economicistici.


Fabio Falchi  è redattore di “Eurasia” Rivista di studi geopolitici


08 ottobre 2013

Lo storico Nico Perrone: “Salvare la Repubblica ritrovando la sovranità”







vittorianoEnrico Mattei ricompose – nell’Eni e nella sua galassia, incluso il quotidiano Il Giorno- la frattura del 1943. Fu anche merito suo se la patria, che non stava più tanto bene, sopravvisse fino al 1958, quando le urne dissero che la Dc avrebbe potuto governare solo con maggioranze a sinistra. Infatti era la Dc – non i suoi governi, tanto meno i suoi fatiscenti alleati del centro-destra – a dare il tono alla nazione, per la quale fu fatale la coalizione col Psi, con la conseguente reinvenzione della Resistenza come guerra civile, non come guerra patriottica di liberazione. L’alito letale di quell’operazione tardo-ciellenistica si diffuse con i telegiornali subito dopo il centenario (1961) dell’unità nazionale. Un anno dopo Mattei era morto: la crisi di Cuba, con incombente guerra nucleare, aveva infatti spinto certi Paesi a far pulizia in casa. Dagli spiriti liberi.
Restavano vivi i lacché, ma anche il ricordo dell’“ultimo fascista”, come definisce Mattei un eminente storico della I repubblica. E poi Mattei aveva lasciato allievi, che avevano lavorato con lui all’Eni, dove reduci di Rsi e Resistenza collaboravano come se il 1943 fosse – anche alla Farnesina lo si giudicava così – un incidente di percorso per una grande potenza, quale l’Italia si considerava ancora [quel che per la Francia era il 1940].
nico perroneNico Perrone era uno di loro. Finita quell’esperienza (senza Mattei, presto l’Eni non fu più la stessa cosa), Perrone divenne lo storico di quell’epoca non ancora di benessere, ma ancora certo di dignità, ciò che manca oggi ben più del denaro. Scrisse vite di Mattei in più riprese, per più editori, per più quotidiani, specie Il manifesto. Ogni volta con particolari in più, ogni volta con la stessa determinazione. Divenne docente di Storia dell’America all’Università di Bari. Ancor oggi lui, classe 1935, pubblica uno-due libri l’anno: l’ultimo è Progetto di un impero. 1823:perrone2l’annuncio dell’egemonia americana infiamma la Borsa (La città del sole, pp. 218, euro 20, ma su http://www.amazon.it/Progetto-Lannuncio-dellegemonia-americana-infiamma/dp/888292310X ). E’ la storia della “dottrina Monroe”, o l’America agli americani (degli Stati Uniti, ovviamente) e andrebbe letto insieme a Obama. Il peso delle promesse(edizionisettecolori@gmail.com): definiscono, insieme, le fondamenta teoriche del nostro presente e le sue conseguenze attuali. E ormai non si sa se sia bene superarle, perché ogni nuova egemonia è peggiore della precedente.obama

Signor Perrone, nel 2011 furono 150 anni di Unità; nel 2012 furono 50 anni dalla fine di Mattei; nel 2013 sono 70 anni dalla resa… L’Italia nacque per interessi francesi, s’allargò per interessi inglesi e tedeschi, resse all’irruzione nel Mediterraneo degli Usa, che ora declinano. La Germania li rimpiazza. E noi?
“Concordo in parte che le potenze straniere influirono sulla nascita dell’Italia unita. Ma l’ampliamento del disegno di conquista, fino a comprendere tutti i territori del Regno delle Due Sicilie, avvenne – sorprendendo lo stesso Camillo Benso di Cavour – a opera di Liborio Romano, ministro di polizia dei Borbone”.
Perché nessuno lo dice, tranne lei che gli ha dedicato un libro importante?
“I piemontesi non lo riconobbero – dal diario di Giuseppe Massari, fac totum di Cavour, furono strappate le pagine chiarificatrici di quel passaggio – e non si vuole ancora dirlo. Ma il territorio delle Due Sicilie, enorme, fece lievitare all’improvviso l’intero progetto oltre ogni ipotesi”.
Restiamo a un passato meno remoto.
“Cioè agli ultimi 70 anni, quelli con l’Italia sotto influenza?”.
Sì.
“Quest’epilogo è derivato da una guerra sciagurata e perduta. Col Paese in tali condizioni di dipendenza, le investiture al vertice della politica ne hanno risentito. Una situazione che ancor pesa: lo indicano certe consonanze della presidenza della Repubblica coi ‘consigli’ provenienti da quelle parti. E perfino dalla Germania…”.
… Uscita peggio dell’Italia dalla guerra e che ha rimpiazzato la Gran Bretagna come junior partner degli Usa, verso i quali la nostra sudditanza fu, fino al 1991, arginata da Vaticano e Urss. Come ora lo è da Vaticano e… Russia.
“I ruoli da ascari neo-coloniali, dal 1982 in poi, non ce li hanno imposti: li hanno decisi i politici italiani, con la benedizione dei vari presidenti della Repubblica, che hanno consentito (talora sollecitato) interventi armati che violavano la Costituzione”.
Tasto dolente.
“Il reale ruolo che la Costituzione assegna al presidente della Repubblica andrebbe discusso di fronte al suo superare i limiti costituzionali”.
L’Italia è ora una repubblica ereditaria. Napolitano succede a se stesso, Enrico Letta succede allo zio Gianni come factotum governativo, Marina Berlusconi succederà al padre a capo di un partito determinante. Invece il papato non è più a vita, come del resto le monarchie nordiche, spesso protestanti…
“L’Italia non è divenuta una repubblica ereditaria per il rinnovo del mandato – legittimo e voluto dai partiti – di un presidente. Ma è una repubblica ora politicamente assai povera, incapace di trovare un’altra soluzione al momento del rinnovo di quel presidente: così il suo campo d’azione s’è ampliato oltre i limiti costituzionali. Il caso dei Letta ha invece aspetti ridicoli e ha mostrato l’inconsistenza del nipote, che ha governato su delega di Berlusconi”.
Vanno in tv solo avatar nostrani di repubblicani o democratici degli Usa, e gruppi nati col loro avallo. Morale: prima si poteva dir tutto, perché non serviva a nulla; ora non si può dire nulla, mentre parlare servirebbe.
“Al di là delle grandi aggregazioni, per le altre espressioni politiche ci sono in effetti solo spazi di tolleranza. Attenti però ai grillini, che non si contentano di tolleranza”.
Pseudonimo di Germania & C., l’Ue dovrebbe, per l’attuale capo dello Stato, limare le unghie alla Nato. Ma – s’è visto contro la Serbia – solo per affiancarla come secondario strumento egemonico.
“Dobbiamo badare alla caratteristica fondamentale dell’Ue: l’ anti-democrazia. Proprio così! I controllori generali che essa mette sulla testa degli Stati nazionali non li ha votati nessuno. Questo è il pericolo vero. E non se ne parla quasi mai”.
Impassibili, le Camere approvano ogni direttiva dell’Ue. Con questa passività l’Italia ha smarrito la sovranità, cara a pochi, e il benessere, caro a tutti.

“E qui torniamo al punto di prima: ci hanno tolto la democrazia. La sovranità italiana è perduta: se davvero essa interessa a pochi, la prego di considerarmi fra questi pochi”.
di Maurizio Cabona

10 ottobre 2013

La decadenza della menzogna




I politici non si ergono mai oltre il livello della falsa  dichiarazione, ed effettivamente si accordano a dimostrare, a discutere, ad argomentare… Se un uomo è sufficientemente privo di immaginazione per produrre una evidenza a supporto di una menzogna, tanto vale che dica la verità subito (O. Wilde)

Anche la menzogna è decaduta in questo Paese, insieme a tutto il resto.Dall’economia alla società, ogni cosa si è sfatta e decomposta, sotto l’effetto di frottole di corto respiro e di fandonie con le gambe corte, che da quanto più in alto provengono, tanto più scadono. Fole senza stile che segnalano l’insulsaggine dei nostri governanti.
La democrazia italiana non si fonda, come dovrebbe, sulla normale insincerità per superiori fini politici, i quali restano noti unicamente a pochi serbatoi di pensiero e ambiti di elaborazione strategica all’interno degli apparati statali, ma sulla disonestà “eticheggiante” e sul perbenismo doppiogiochista che richiama l’ipocrita trasparenza civile per celare la propria inconsistenza servile.
La bugia ad uso politico, quando è elemento mimetizzante della strategia complessiva di gruppi dirigenti nazionali, consci dei tempi nei quali sono costretti ad operare, è necessaria a tenere riservati piani e finalità, che per essere realizzati devono restare coperti, almeno per l’essenziale. Non stiamo parlando, dunque, delle finte promesse a scopo elettorale dei partiti per guadagnarsi un posto in Parlamento, ma della dissimulazione comportamentale che una élite mette in atto per raggiungere i suoi scopi, in un contesto di conflittualità e concorrenza globale molto accese, in cui le alleanze sono sempre transitorie ed abbondano i colpi bassi di amici e nemici.
Dunque, si può mentire senza ingannare, per proteggere o allargare gli interessi nazionali, oppure si può alterare la realtà per frodare, cioè per sfruttare a proprio limitato vantaggio le sventure di un popolo intero. La scelta dei nostri screditati rappresentanti parlamentari è ricaduta, ovviamente, sulla seconda opzione. Per questo diciamo che anche le menzogne sono degnerate  in questa vile provincia colonizzata, qual è diventata la nostra povera Repubblica.
I tanti pinocchi del sistema, che ricomprende mass media, istituzioni, organizzazioni intra e para statali, hanno fatto fronte comune per raggirare i connazionali, i quali sono sempre più umiliati e tartassati da una classe politica che ha barattato il Paese per la propria sopravvivenza corporativa.
Chi è stato il garante indiscusso di questo pantano che sta portando all’esproprio del popolo italiano? Chi ha messo in sella, negli ultimi due governi, aggirando le elezioni e rinnegando la sovranità popolare, personaggi addestrati nei centri finanziari internazionali dove si parla soltanto l’inglese con accento americano? Chi ci ha costretti a sottostare, senza protestare, ai diktat di Bruxelles, di Berlino e del FMI?
Non è un rebus, ma un Re autoproclamatosi tale. Stiamo parlando del “peggiorista atlantista”, l’ex piccìsta convertitosi al capitalismo e al liberalismo, dopo un viaggio a Washington nel 1978. Costui è il responsabile dell’attuale cancrena italiana e ci sarebbero alcuni buoni motivi (dall’alto tradimento dello Stato all’attentato alla Costituzione) per chiederne l’impeachment all’istante.
Ma il Parlamento è diventato il suo bivacco di manipoli, un ricettacolo di manigoldi, di rinnegati e di crapuloni a spese della collettività che temono le urne come la peste perché non vogliono perdere i loro privilegi. Il recente ed ennesimo voltafaccia, quello dei vertici del Pdl che hanno girato le spalle al loro capo storico, non lascia ulteriori speranze di scampo al Belpaese.

Gli allarmismi sullo stato dei conti pubblici ed il caos istituzionale che ne è seguito servivano proprio a mettere Roma con le spalle al muro.L’obiettivo, ormai scoperto, era quello di costringerci a liquidare i tesori di Stato, soprattutto gli asset pubblici dei settori avanzati, ancora in nostro possesso, che facevano gola ai competitors stranieri. Anche l’ultimo baluardo dell’industria strategica nazionale cadrà a breve. Nemmeno più un diodo ci potrà salvare.
di Gianni Petrosillo 

09 ottobre 2013

Oltre l'euro e l'era (anti)berlusconiana




OLTRE L’EURO E L’ERA (ANTI)BERLUSCONIANA
Mentre va in scena l’ultimo (?) atto di “Finale di partita all’italiana”, una commedia dell’assurdo che rischia di finire in tragedia per milioni di italiani, si moltiplicano gli articoli e le prese di posizione contro l’Eurozona (e non solo in rete). Su questo argomento, se particolare importanza hanno le analisi di Alberto Bagnai o Bruno Amoroso, si deve a Jacques Sapir l’aver fatto, con grande chiarezza e semplicità, il punto della situazione nel suo recente articolo “Lo scioglimento dell’euro, un’idea che si imporrà nei fatti”. (1) Sapir infatti dimostra che, mentre i media per ragioni politiche e ideologiche cercano di mettere in evidenza il fatto che la cosiddetta “ripresa” dovrebbe essere già cominciata, in realtà tutti gli indicatori economici provano il contrario.

Invero ciò non dovrebbe stupire granché gli italiani che vivono quotidianamente gli effetti della crisi sula loro pelle. Con l’indice della produzione industriale che ha perso ben venti punti percentuali dal 2007 (2), con il tasso di disoccupazione giovanile che ha superato addirittura il 40% (3), con una pressione tributaria simile a quella dei Paesi scandinavi ma con servizi da “terzo mondo”, (4) resi ancora più inefficienti o carenti dalla “macelleria sociale” degli ultimi governi, con il potere d’acquisto delle famiglia diminuito del 4,7% (5) e con il diffondersi della povertà in ampi strati della popolazione, anche a causa di una continua redistribuzione della ricchezza verso l’alto, pare ovvio che a un numero crescente di italiani non possa sfuggire quale sia la reale condizione del nostro Paese.

D’altronde, sarebbe difficile mettere in dubbio i vantaggi che l’euro ha arrecato alla Germania, la quale, grazie ad una politica (che alcuni hanno definito “clandestina” o anche “beggar the neighbour”, ossia “frega il tuo vicino”) incentrata sulle riforme del lavoro firmate da Peter Hartz (già capo del personale della Volkswagen), ha “esportato” tra i quattro e cinque milioni di disoccupati nei Paesi più “deboli” dell’Eurozona e incrementato enormemente il surplus della propria bilancia commerciale. In sostanza, fruendo di un cambio favorevole (l’euro di fatto è un “marco leggero”) e aumentando i profitti delle imprese a scapito del reddito dei lavoratori, la Germania, dopo l’inizio della crisi, ha triplicato il saldo positivo della bilancia commerciale con l’Italia, la Francia e la Spagna, che è passato dall’8,44% alla cifra stratosferica del 26,03%.
Un costo pagato anche da molti tedeschi, dato che il 10% della popolazione tedesca possiede il 53% della ricchezza nazionale (cresciuta tra il 2001 e il 2012 di circa 1400 miliardi di euro), mentre i “mini jobs”, contratti iperflessibili da circa 20 ore settimanali con uno stipendio di 450 euro netti, ormai riguardano 7,3 milioni di persone (il 70% delle quali non ha alcun altro reddito). (6) Eppure in Germania – in cui comunque vi è ancora uno Stato sociale tutt’altro che insignificante o inefficiente (non si deve dimenticare che la Germania ha potuto fare certe scelte partendo da posizioni di altissimo livello per quanto concerne la politica sociale) – è ampiamente diffusa dai media (che possono far leva su alcuni noti pregiudizi che caratterizzano la cultura tedesca) la concezione secondo cui i sacrifici dei tedeschi dipenderebbero dai danni compiuti delle “cicale” mediterranee. Un quadro ben distante dalla realtà, nonostante non si possano ignorare le gravi responsabilità delle classi dirigenti dell’Europa del sud.
Tra l’altro non è nemmeno vero che gli europei con l’introduzione dell’euro starebbero meglio o che la Germania sia la locomotiva d’Europa. Come scrive Bagnai, i dati provano che l’Eurozona si sta rivelando una sorta di gioco a somma zero in cui la Germania tira da una parte e gli altri da quella opposta. Inevitabile quindi ritenere che «la leadership tedesca abbia portato il nostro subcontinente alla catastrofe, allontanandoci in modo persistente e, nel prossimo futuro, irreversibile, dal tenore di vita dei paesi avanzati ai quali avremmo la legittima aspettativa di appartenere». (7)
Tuttavia, quel che più rileva non è tanto la valutazione dei costi economici e sociali derivanti dall’introduzione dell’euro quanto piuttosto il fatto che non è possibile porre rimedio agli squilibri che si sono generati nell’Eurozona finché si continuerà a difendere la moneta unica europea. Al riguardo, si deve tener presente che il “federalismo europeo” (“bandiera” di quegli europeisti che non sanno neppure distinguere l’Europa dall’Eurozona), oltre ai problemi politici che presenta (com’è noto un buon numero di Paesi dell’Ue, tra cui la Gran Bretagna, la Danimarca, la Svezia e la Polonia, non hanno alcuna intenzione di rinunciare alla propria sovranità nazionale – ma in realtà ciò vale anche per la Francia e la stessa Germania), implicherebbe un gigantesco trasferimento di ricchezza dall’Europa del nord a quella del sud. E la Germania dovrebbe sopportare il 90 % del finanziamento di questa operazione, equivalente a circa 230 miliardi di ​​euro all’anno (circa 2.300 miliardi in dieci anni), ossia tra l’8 % e il 9 % del suo Pil (altre stime arrivano perfino al 12,7 % del suo Pil). Chiunque può pertanto rendersi conto che sarebbe assai più facile che un cammello passasse attraverso la cruna di un ago.
Logico dunque che Jacques Sapir ritenga inevitabile l’abbandono della moneta unica europea e che, dopo aver preso in esame i possibili scenari che possono derivare dalla fine di Eurolandia, concluda: «Lo scioglimento dell’euro, in queste condizioni, non segnerebbe la fine dell’Europa, come si pretende, ma al contrario la sua rimonta nell’economia globale, e per di più una rimonta da cui potrebbero trarre beneficio in maniera massiccia, sia per la crescita che la nascita nel tempo di uno strumento di riserva, i paesi in via di sviluppo dell’Asia e dell’Africa». (8)
Considerazioni e conclusioni – quelle di Sapir e Bagnai – che nella sostanza, a nostro giudizio, non si possono non condividere, anche perché fondate su analisi rigorose, nonché sull’ovvia constatazione che una moneta senza uno Stato è nel migliore dei casi un’assurdità (si badi che buona parte degli economisti che oggi difendono l’euro a spada tratta prima dell’introduzione dell’euro erano decisamente contrari alla moneta unica europea), così com’è assurdo pensare che sia possibile costruire il “federalismo europeo” tramite scelte politiche ed economiche del tutto contrarie agli interessi “reali” di chi dovrebbe compierle. E se ciò non bastasse si potrebbe pure ricordare che senza un “federalismo europeo” nulla o quasi si potrebbe fare contro la “speculazione finanziaria”.
Nondimeno, è palese che non è sufficiente, per comprendere la crisi di Eurolandia, considerare solo le questioni attinenti all’economia e alla finanza. Come spiegare altrimenti il fatto che una classe dirigente come quella italiana non cerchi in alcun modo di contrastare ma anzi favorisca una politica che sta devastando il nostro Paese? Per quale motivo cioè i nostri politici o meglio quei membri della nostra classe dirigente – politici o tecnocrati che siano – che tirano effettivamente le fila della politica italiana non si sono opposti né si oppongono nemmeno adesso a decisioni le cui conseguenze disastrose per l’Italia ormai sono evidenti a tutti coloro che hanno occhi per vedere? Insomma è certo che la Germania riesce a trarre il massimo profitto da una situazione geopolitica estremamente favorevole per la sua economia e che quindi l’euro è solo un aspetto, benché non marginale, del problema che si dovrebbe risolvere.
Non è certo un caso che l’introduzione dell’euro sia avvenuta il più rapidamente possibile dopo il crollo del Muro di Berlino e la riunificazione della Germania, il cui significato politico può sfuggire solo a coloro che non conoscono (o fanno finta di non conoscere) gli ultimi centocinquanta anni della storia europea. In definitiva, è lecito affermare che la soluzione della “questione tedesca” era e rimane ancora il principale obiettivo dei “circoli euroatlantisti”, i quali non potrebbero tollerare che Eurolandia si sfasci e la Germania venga tentata – anche solo seguendo delle “direttrici geoeconomiche” – di “sbilanciarsi” dalla parte dei Brics (soprattutto in una fase storica in cui l’America, oltre ad avere serie difficoltà economiche, sembra priva di “iniziativa strategica” e incapace di contrastare con successo la crescita di altre potenze o di altri “poli geopolitici”, che cominciano pure a “fare pressione” per una radicale ridefinizione degli equilibri mondiali).
Da qui la necessità, secondo le “direttive strategiche” d’oltreoceano, per la classe dirigente italiana – che a partire dagli anni Novanta ha consapevolmente scelto di “liquidare” il patrimonio strategico nazionale a vantaggio dei “mercati” – di contribuire a qualsiasi costo alla soluzione della “questione tedesca”. E il compito fondamentale dell’Italia, secondo gli “strateghi euroatlantisti” consiste proprio nel favorire il più possibile la Germania (onde “saldarla” all’Atlantico), cedendo la propria sovranità non all’Europa (come invece molti intellettuali e giornalisti italiani affermano, scagliandosi contro gli italiani “brutti, sporchi e cattivi” ma “ignorando” che per milioni di italiani è un problema perfino, come si suol dire, mettere il pranzo insieme con la cena o che parecchie scuole non solo hanno”lesioni strutturali” ma hanno perfino problemi per acquistare la carta igienica), bensì ai tecnocrati di Bruxelles e alla Bce (la cui vera funzione non è un mistero per nessuno, tanto è vero che non occorre precisare a quali poteri la Bce debba rispondere).
Peraltro, si deve tener presente che non si tratta solo di “tradimento” del proprio Paese da parte della nostra classe dirigente (o almeno dei suoi membri più importanti), dato che quest’ultima condivide valori e stili di vita che la portano ad anteporre il cosiddetto ”mondo occidentale” all’Italia (problema estremamente serio se si considera pure l’americanizzazione della nostra società, in specie delle nuove generazioni). Inoltre la nostra classe dirigente e, in generale, le classi sociali più abbienti sono perfettamente consapevoli che mettere in discussione l’euro, rebus sic stantibus, comporterebbe anche mettere in discussione quei meccanismi di redistribuzione della ricchezza e quella “riforma” dello Stato sociale in base ai quali sarebbe assai poco significativa per le fasce sociali più deboli (ceti medio-bassi inclusi) perfino una crescita del Pil (che in ogni caso sarebbe assai modesta).
Ma appunto per questo l’euro costituisce quell’anello debole su cui bisognerebbe premere per poter spezzare la “catena geopolitica” che lega il nostro Paese a scelte e decisioni strategiche del tutto opposte a quelle che si dovrebbero prendere se si avesse veramente di mira l’interesse dell’Italia (e di conseguenza della stragrande maggioranza degli italiani), mentre continuando di questo passo tra qualche anno si rischia di non poter nemmeno più difendere alcuna sovranità nazionale, semplicemente perché con ogni probabilità non vi sarà più alcuno Stato italiano, ma solo un territorio deindustrializzato, utile come riserva di manodopera qualificata a basso costo.
E’ indubbio allora che prendere posizione contro l’Eurozona e le misure d’austerità imposte dalla Bce e dai tecnocrati di Bruxelles (indipendentemente dalla questione se sia meglio optare per due euro o tornare alla lira o scegliere altre soluzioni) sia essenziale per recuperare quella sovranità che è il presupposto necessario di ogni autentica politica (antiatlantista) che abbia come scopo quello di sottrarre lo Stato alla morsa dei “mercati”. Questo però è possibile – vale la pena di rimarcarlo – solo a patto che non si perdano di vista i reali rapporti di forza tra gli Stati Uniti e l’Ue e si comprenda qual è la vera posta in gioco sotto il profilo geopolitico e geoeconomico, tanto più adesso che in Europa si sta facendo strada la proposta statunitense di creare un “mercato transatlantico”, che renderebbe impossibile una autentica unione politica europea, trasformando l’intera Europa in una “appendice occidentale” degli Usa – ad ulteriore conferma del ruolo determinante del “politico” se non lo si intende come sinonimo di “politica” ma (correttamente) come strategia per la soluzione dei conflitti tra diversi attori (geo)politici e/o sociali.
Si può pertanto ritenere che l’attuale crisi politica italiana possa influire ben poco sulle sorti del nostro Paese, mentre decisivo sarebbe sfruttare la (probabile) fine dell’era (anti)berlusconiana, mettendo da parte lo spirito di fazione, al fine di dar vita ad una nuova forza politica di tipo “nazional-popolare” (che tenga conto cioè anche dei codici culturali ancora, nonostante tutto, condivisi da non pochi italiani), il cui compito principale dovrebbe essere quello di impedire il declino dell’Italia (le cui conseguenze sarebbero gravissime, in primo luogo, proprio per i ceti popolari e medio-bassi). In quest’ottica si dovrebbero cercare collegamenti con altre forze politiche europee, anch’esse interessate ad un rifondazione dell’Europa che non implichi la dissoluzione della identità nazionale nel “mercato globale”, ossia evitando gli eccessi del nazionalismo e di qualsiasi forma di narcisismo identitario, e promuovendo invece sia la nascita di un “polo geopolitico e geoeconomico mediterraneo” distinto da (non opposto a) un “polo baltico” sia una alternativa alle dissennate politiche liberiste. Certo oggi la politica italiana non offre nulla di questo genere, ma una volta che si sia compresa la necessità di difendere le ragioni del cosiddetto “sovranismo” (che pure Jacques Sapir difende) non dovrebbe essere particolarmente arduo poter valutare e giudicare la situazione politica italiana ed europea sulla base di una coerente e “corretta” visione geopolitica, senza lasciarsi fuorviare da “ottusi” schemi concettuali economicistici.


Fabio Falchi  è redattore di “Eurasia” Rivista di studi geopolitici


08 ottobre 2013

Lo storico Nico Perrone: “Salvare la Repubblica ritrovando la sovranità”







vittorianoEnrico Mattei ricompose – nell’Eni e nella sua galassia, incluso il quotidiano Il Giorno- la frattura del 1943. Fu anche merito suo se la patria, che non stava più tanto bene, sopravvisse fino al 1958, quando le urne dissero che la Dc avrebbe potuto governare solo con maggioranze a sinistra. Infatti era la Dc – non i suoi governi, tanto meno i suoi fatiscenti alleati del centro-destra – a dare il tono alla nazione, per la quale fu fatale la coalizione col Psi, con la conseguente reinvenzione della Resistenza come guerra civile, non come guerra patriottica di liberazione. L’alito letale di quell’operazione tardo-ciellenistica si diffuse con i telegiornali subito dopo il centenario (1961) dell’unità nazionale. Un anno dopo Mattei era morto: la crisi di Cuba, con incombente guerra nucleare, aveva infatti spinto certi Paesi a far pulizia in casa. Dagli spiriti liberi.
Restavano vivi i lacché, ma anche il ricordo dell’“ultimo fascista”, come definisce Mattei un eminente storico della I repubblica. E poi Mattei aveva lasciato allievi, che avevano lavorato con lui all’Eni, dove reduci di Rsi e Resistenza collaboravano come se il 1943 fosse – anche alla Farnesina lo si giudicava così – un incidente di percorso per una grande potenza, quale l’Italia si considerava ancora [quel che per la Francia era il 1940].
nico perroneNico Perrone era uno di loro. Finita quell’esperienza (senza Mattei, presto l’Eni non fu più la stessa cosa), Perrone divenne lo storico di quell’epoca non ancora di benessere, ma ancora certo di dignità, ciò che manca oggi ben più del denaro. Scrisse vite di Mattei in più riprese, per più editori, per più quotidiani, specie Il manifesto. Ogni volta con particolari in più, ogni volta con la stessa determinazione. Divenne docente di Storia dell’America all’Università di Bari. Ancor oggi lui, classe 1935, pubblica uno-due libri l’anno: l’ultimo è Progetto di un impero. 1823:perrone2l’annuncio dell’egemonia americana infiamma la Borsa (La città del sole, pp. 218, euro 20, ma su http://www.amazon.it/Progetto-Lannuncio-dellegemonia-americana-infiamma/dp/888292310X ). E’ la storia della “dottrina Monroe”, o l’America agli americani (degli Stati Uniti, ovviamente) e andrebbe letto insieme a Obama. Il peso delle promesse(edizionisettecolori@gmail.com): definiscono, insieme, le fondamenta teoriche del nostro presente e le sue conseguenze attuali. E ormai non si sa se sia bene superarle, perché ogni nuova egemonia è peggiore della precedente.obama

Signor Perrone, nel 2011 furono 150 anni di Unità; nel 2012 furono 50 anni dalla fine di Mattei; nel 2013 sono 70 anni dalla resa… L’Italia nacque per interessi francesi, s’allargò per interessi inglesi e tedeschi, resse all’irruzione nel Mediterraneo degli Usa, che ora declinano. La Germania li rimpiazza. E noi?
“Concordo in parte che le potenze straniere influirono sulla nascita dell’Italia unita. Ma l’ampliamento del disegno di conquista, fino a comprendere tutti i territori del Regno delle Due Sicilie, avvenne – sorprendendo lo stesso Camillo Benso di Cavour – a opera di Liborio Romano, ministro di polizia dei Borbone”.
Perché nessuno lo dice, tranne lei che gli ha dedicato un libro importante?
“I piemontesi non lo riconobbero – dal diario di Giuseppe Massari, fac totum di Cavour, furono strappate le pagine chiarificatrici di quel passaggio – e non si vuole ancora dirlo. Ma il territorio delle Due Sicilie, enorme, fece lievitare all’improvviso l’intero progetto oltre ogni ipotesi”.
Restiamo a un passato meno remoto.
“Cioè agli ultimi 70 anni, quelli con l’Italia sotto influenza?”.
Sì.
“Quest’epilogo è derivato da una guerra sciagurata e perduta. Col Paese in tali condizioni di dipendenza, le investiture al vertice della politica ne hanno risentito. Una situazione che ancor pesa: lo indicano certe consonanze della presidenza della Repubblica coi ‘consigli’ provenienti da quelle parti. E perfino dalla Germania…”.
… Uscita peggio dell’Italia dalla guerra e che ha rimpiazzato la Gran Bretagna come junior partner degli Usa, verso i quali la nostra sudditanza fu, fino al 1991, arginata da Vaticano e Urss. Come ora lo è da Vaticano e… Russia.
“I ruoli da ascari neo-coloniali, dal 1982 in poi, non ce li hanno imposti: li hanno decisi i politici italiani, con la benedizione dei vari presidenti della Repubblica, che hanno consentito (talora sollecitato) interventi armati che violavano la Costituzione”.
Tasto dolente.
“Il reale ruolo che la Costituzione assegna al presidente della Repubblica andrebbe discusso di fronte al suo superare i limiti costituzionali”.
L’Italia è ora una repubblica ereditaria. Napolitano succede a se stesso, Enrico Letta succede allo zio Gianni come factotum governativo, Marina Berlusconi succederà al padre a capo di un partito determinante. Invece il papato non è più a vita, come del resto le monarchie nordiche, spesso protestanti…
“L’Italia non è divenuta una repubblica ereditaria per il rinnovo del mandato – legittimo e voluto dai partiti – di un presidente. Ma è una repubblica ora politicamente assai povera, incapace di trovare un’altra soluzione al momento del rinnovo di quel presidente: così il suo campo d’azione s’è ampliato oltre i limiti costituzionali. Il caso dei Letta ha invece aspetti ridicoli e ha mostrato l’inconsistenza del nipote, che ha governato su delega di Berlusconi”.
Vanno in tv solo avatar nostrani di repubblicani o democratici degli Usa, e gruppi nati col loro avallo. Morale: prima si poteva dir tutto, perché non serviva a nulla; ora non si può dire nulla, mentre parlare servirebbe.
“Al di là delle grandi aggregazioni, per le altre espressioni politiche ci sono in effetti solo spazi di tolleranza. Attenti però ai grillini, che non si contentano di tolleranza”.
Pseudonimo di Germania & C., l’Ue dovrebbe, per l’attuale capo dello Stato, limare le unghie alla Nato. Ma – s’è visto contro la Serbia – solo per affiancarla come secondario strumento egemonico.
“Dobbiamo badare alla caratteristica fondamentale dell’Ue: l’ anti-democrazia. Proprio così! I controllori generali che essa mette sulla testa degli Stati nazionali non li ha votati nessuno. Questo è il pericolo vero. E non se ne parla quasi mai”.
Impassibili, le Camere approvano ogni direttiva dell’Ue. Con questa passività l’Italia ha smarrito la sovranità, cara a pochi, e il benessere, caro a tutti.

“E qui torniamo al punto di prima: ci hanno tolto la democrazia. La sovranità italiana è perduta: se davvero essa interessa a pochi, la prego di considerarmi fra questi pochi”.
di Maurizio Cabona