27 settembre 2008

La finanza araba alla conquista di Europa e Stati Uniti





L’ultimo investimento degli sceicchi non è passato inosservato. La squadra di calcio Manchester City è stata comprata dalla società di investimento Abu Dhabi United Group per 250 milioni di euro. La stampa britannica ha parlato molto della recente acquisizione, poiché all’arrivo dei nuovi proprietari ha fatto seguito un altro evento straordinario, l’acquisto del giocatore Robinho per la cifra di 40 milioni di euro, la somma più alta mai pagata per un trasferimento nel calcio inglese. Il gruppo di Abu Dhabi non si limiterà solo a sanare i debiti della società, è intenzionata a comprare presto i migliori giocatori per formare la squadra più forte del mondo. L’artefice dell’investimento è il giovane Sulaiman Al Fahim, amministratore delegato della società di costruzioni Hydra Property. “Nei prossimi quattro mesi rinforzeremo il City in modo tale da renderlo irriconoscibile”, così ha dichiarato il nuovo presidente. Nessun acquisto sembra ora impossibile per il club calcistico più ricco del mondo.

L’ingresso di una compagnia araba nella Premier League inglese è solo uno dei più recenti acquisti condotti in Europa dai capitali del Golfo Persico. Negli ultimi anni società e fondi d’investimento arabi hanno rilevato di continuo quote di importati società e di listini di borsa. Secondo gli analisti economici, tali mosse servono per connettere le piazze d’affari del Medio Oriente con i più importanti mercati finanziari mondiali. Infatti, quando nel mese di giugno la borsa del Qatar ha stretto un accordo con il gruppo Nyse Euronext, holding alla quale appartiene la borsa di New York, il primo ministro qatarino Hamad bin Jassem al-Thani ha commentato così l’affare: “I nostri mercati finanziari faranno parte integrante di un gruppo che collega insieme i maggiori centri finanziari mondiali attraverso Europa e Stati Uniti ed ora anche attraverso il Medio Oriente”.

I capitali arabi sono sempre più interconnessi alle borse mondiali grazie ai numerosi investimenti condotti nelle compagnie statunitensi ed europee. Quando nel marzo 2006 la società Dubai Ports World comprò la britannica P&O, colosso mondiale nel settore portuale, la polemica politica negli Usa fu accesa. Una conseguenza dell’acquisizione sarebbe dovuto essere il controllo da parte della società araba dei maggiori porti della costa atlantica americana. L’arrivo del capitale di Dubai fu visto allora come un “problema di sicurezza nazionale” e il governo dovette bloccare l’investimento degli arabi relativo ai porti americani. Quella polemica è stata però un eccezione poiché, dal 2006 fino ad oggi, le società del Golfo Persico hanno compiuto senza ostacoli molte acquisizioni. Negli Stati Uniti e in Europa hanno portato ingenti liquidità, denaro che è stato accolto senza alcun rifiuto.

Un colosso finanziario che ha investito in società straniere è il fondo sovrano dell’emirato di Adu Dhabi, la Mubadala Development Company. Sono numerose le sigle che fanno parte del suo portafoglio, quote diffuse in molti settori. Il fondo dell’emirato è presente nei capitali di influenti compagnie americane in quanto possiede l’8% della Amd, la società che produce processori per computer, ha acquistato il 7,5% della Carlyle Group, l'importante firma del private equity, e ha stretto una joint venture con la General Electric. La Mubadala in Olanda ha investito nel settore automobilistico ottenendo il 17% della casa Spyker Cars e il 25% della LeasePlan Corporation, società di noleggio auto. In Italia ha comprato il 2% di Mediaset e il 35% di Piaggio Aero, l’azienda ligure di aeronautica.

L’acquisto che ha reso noto il fondo Mubadala nel nostro paese è però la quota del 5% nella Ferrari e la progettazione di un parco tematico dedicato alla casa di Maranello, Ferrari World, che sorgerà ad Abu Dhabi. Il fondo sovrano nel settore aeronautico ha stretto un accordo di collaborazione con il colosso aerospaziale statunitense Northrop Grumman e, nel campo dell’aviazione civile, è diventato azionista di maggioranza della SR Technics, società svizzera di manutenzione aerei. Per lo sviluppo edile della città di Abu Dhabi la Mubadala ha avviato legami con famose sigle straniere. Assieme all’americana Mgm Mirage, società che gestisce numerosi hotel a Las Vegas, sta progettando un MGM Grand Abu Dhabi. Inoltre si è rivolta all’Imperial College London e alla Cleveland Clinic per la realizzazione di moderne strutture ospedaliere.

Il governo di Abu Dhabi infatti, per arricchire la città con edifici capaci di attirare l’attenzione internazionale, ha stretto affari con celebri nomi, luoghi simbolo della cultura mondiale. Nell’emirato é già attiva una sede dell’università francese Sorbonne. Nell’area di Saadiyat Island, l’isola della felicità, sorgerà poi il più grande fra tutti i musei Guggenheim e sarà costruito il secondo museo Louvre. Quest’ultimo accordo è stato stipulato nonostante che in Francia oltre 5000 intellettuali abbiano firmato una petizione dal titolo “I musei non sono in vendita”.

Con i fondi degli emirati del Golfo però niente sembra impossibile. Anche i simboli della cultura america posso essere comprati con facilità, come è avvenuto lo scorso luglio quando la Abu Dhabi Investment Council è diventata la proprietaria del Chrysler Building, lo storico grattacielo di New York. La concorrenza degli arabi sta arrivando anche in un settore nel quale gli Usa sono leader mondiali, l’industria dei media. In futuro non ci sarà solo Hollywood ad ospitare le produzioni cinematografiche. La Abu Dhabi Media Company ha comprato quote della Warner Bross e, per la coproduzione di film, ha fondato la società Imagination Abu Dhabi, mentre nella vicina Dubailand è in programma la costruzione degli Universal Studios Dubai.

L’attenzione degli economisti è stata attirata proprio dai molti investimenti provenienti dagli Emirati Arabi Uniti verso le grandi compagnie americane. Lo scorso anno la Abu Dhabi Investment Authority ha rilevato il 4,9% di Citigroup, azienda in difficoltà dopo la crisi dei mutui subprime. Il colosso bancario ha gradito l’arrivo di 7,5 miliardi di dollari, somma che rappresenta il secondo investimento arabo nella compagnia poiché anche il principe saudita Walid bin Talal possiede una quota vicina al 5%. Il governo di Abu Dhabi ha inoltre stretto joint ventures con giganti del settore energetico come Exxon Mobil e Shell.

Un altro colosso finanziario proveniente dal Golfo Persico che ha avviato acquisizioni all’estero è il fondo sovrano Dubai International Capital, uno dei rami della Dubai Holding. Negli ultimi anni ha comprato il 4,9% della Sony, prima compagnia nel mondo per l’elettronica di consumo, e il 9,9% di Och-Ziff Capital Management Group, società americana che gestisce investimenti. Il fondo arabo ha rilevato quote di importati società come la banca inglese Hsbc, il gruppo automobilistico DaimlerChrysler, il gruppo produttore di componenti per la meccanica Doncasters Plc e gli alberghi dell’inglese Travelodge Hotels. Nel settore dell’aeronautica la Dubai International Capital è fortemente entrata nel mercato mondiale acquistando il 3,12% di Eads, il colosso aerospaziale europeo che controlla il consorzio Airbus. Quest’ultima società si è mostrata interessata all’affare poiché uno dei suoi maggiori clienti è proprio la Emirates, compagnia che le ha commissionato 55 velivoli del modello A380, il nuovo aereo di lusso con suites, letti e docce.

Non solo Abu Dhabi e Dubai sono i protagonisti di tali manovre economiche, anche i vicini stati si muovono nella medesima direzione. La Qatar Investment Authority ha acquistato il 5% della banca svizzera Credit Suisse e quote del gruppo finanziario Barclays, mentre il fondo sovrano del Kuwait è entrato nel capitale del colosso americano Merrill Lynch. I mercati finanziari del Golfo Persico sono dunque sempre più interconnessi alle piazze d’affari mondiali. Il fenomeno è stato reso evidente in particolare quando lo scorso anno la borsa di Dubai ha acquistato il 28% del Nasdaq e nello stesso periodo la Qatar Investment Authority ha rilevato il 20% della borsa di Londra e il 9,98% di Omx, la società che gestisce i listini azionari dei paesi scandinavi e baltici.

Per le piazze d’affari i capitali dei paesi del Golfo Persico sono ovunque benvoluti. Soprattutto negli ultimi tempi di crisi finanziaria negli Stati Uniti e in Europa, dopo il crollo dovuto ai mutui subprime, le recenti nazionalizzazioni di Fannie Mae e Freddie Mac e la bancarotta della Lehman Brothers, il bisogno di liquidità sembra oggi più che mai una risorsa essenziale. “Una boccata d’ossigeno”, proprio così molti analisti hanno definito ogni investimento proveniente dal Medio Oriente. E se senza ossigeno non si può vivere, probabilmente in futuro crescerà sempre di più l’influenza di banche e fondi del Golfo Persico sull’economia mondiale.



di Marco Montemurro

Il crack americano



Con il sistema finanziario internazionale in ginocchio, da giorni gli addetti ai lavori si chiedono che cosa stessero facendo le autorità di vigilanza americane mentre il mercato veniva sistematicamente imbottito di carta straccia. In particolare la tanto rinomata Federal Reserve, ultimamente tanto attiva nel distribuire soldi a destra e manca per fermare l'emorragia, dov'è stata per tutti questi anni?

Il resto di noi si pone invece una domanda più terra terra: di chi è la colpa? Il Sole 24 Ore ha voluto ricostruire le origini e il decorso di questa crisi nel tentativo di trovare risposta a questi interrogativi. E, laddove possibile, puntare il dito su chi ha specifiche responsabilità.

LA COLPA ORIGINALE
Il primo nome che merita di essere fatto è quello di Phil Gramm, oggi principale consigliere economico di John McCain e ritenuto papabile per il ruolo di Segretario del Tesoro in un'eventuale amministrazione repubblicana. Dieci anni fa, Gramm era in Congresso dove occupava la poltrona di presidente della "Commissione banche, edilizia e affari urbani" del Senato. Non era mai stato un fan della regulation.

E si adoperava come nessun altro politico perché il sistema finanziario Usa fosse il meno regolato possibile ( negli anni la comunità finanziaria americana lo ha ringraziato con contributi elettorali per un totale di 4,6 milioni di dollari). La sua più grande vittoria politica la ottenne il 12 novembre 1999, quando venne ratificato dal presidente Clinton il Gramm-Leach-Bliley Act, la più radicale riforma bancaria dagli anni della Depressione.

Commentando quella legge, il governatore della banca centrale Laurence Meyer parlò all'epoca di dispositivi "Fed-light". E cioè di una regolamentazione molto più soft di quella precedente. Pur confermando il ruolo che aveva la Federal Reserve di supervisore supremo sul sistema finanziario, la legge ne limitava significativamente il potere di controllo su soggetti come le banche di investimento e gli istituti di credito ipotecario i cui organi di controllo primari erano la Security Exchange Commission (la Consob americana) e i singoli Stati.

Alcuni mesi dopo, Gramm riuscì a imporre il suo punto di vista anche sul mercato delle commodities, inserendo nella finanziaria del 2000 un emendamento di 262 pagine, il Commodity Futures Modernization Act, che deregolamentava il trading di derivati. In particolare il trading di Credit Default Swap, o Cds, contratti privati tra controparti che scommettono, l'una contro l'altra, sulla probabilità di default di un debitore.

Seppur creati per fornire una protezione da un rischio, i Cds avevano un enorme potenziale speculativo perché potevano essere utilizzati anche per scommettere su un evento catastrofico altrui. In questo secondo scenario, un prodotto nato per ridurre il rischio speculativo poteva diventare un acceleratore di quel rischio e quindi un elemento di forte squilibrio e distorsione del mercato. Con l'emendamento di Gramm, il trading di Cds non avrebbe più avuto supervisione alcuna. Né da parte della Sec, né della Commodity Futures Trading Commissione, né dal Tesoro. Né tantomeno della Fed.

IL CREDITO FACILE
E veniamo agli anni di George W. Bush. Il 18 giugno 2002, il successore di Clinton annunciò la propria intenzione di allargare il mercato dell'acquisto della prima casa a chi aveva redditi bassi e alle minoranze: «Diventare proprietari della propria casa è un modo di realizzare il sogno americano, e io voglio estendere il sogno a tutto il Paese», disse Bush.

Scendendo nei dettagli, aggiunse: «La gente spesso vorrebbe comprare una casa, ma non ha soldi per l'anticipo. E a questo c'è rimedio... Altro problema: i contratti sono troppo complicati. La gente è scoraggiata da tutte quelle clausole. Ci sono troppe parole! Quindi faremo sì che venga semplificata la documentazione richiesta ... Infine, abbiamo bisogno di maggiori capitali per gli acquirenti a basso reddito. E sono oggi fiero di annunciare che Fannie Mae ha recepito questo bisogno ... e che anche Freddie Mac è disposto a fare la sua parte».Da parte sua,l'opposizione non aveva interesse a mettersi di traverso: i democratici non potevano infatti ostacolare una politica che dava accesso alla casa ai ceti meno abbienti.

In quel momento, il sistema finanziario e l'economia americana stavano riprendendosi da due durissimi colpi: lo scoppio della bolla di internet che nel corso dei due anni precedenti aveva bruciato circa 3mila miliardi di dollari di valore in Borsa, e l'attacco dell'11 settembre. La scelta di Bush fu quella di assicurare la crescita economica sostenendo i consumi. «In un modello di bassi salari come era quello americano, il sostegno al consumo poteva venire solo in un modo: con il credito. Ed è proprio grazie alla politica creditizia di manica larga fatta dalla Fed fino al 2004 che si spiega buona parte del differenziale di crescita tra Usa ed Europa », dice un ex banchiere centrale europeo oggi al vertice di una grande banca.

Il 2002 è anche l'anno dell'esplosione delle emissioni delle cosiddette asset-backed securities (Abs), cioè titoli garantiti da pacchetti di prodotti sottostanti, per lo più prestiti. In particolare parliamo delle cartolarizzazioni di mutui residenziali con le quali le banche commerciali cominciarono a cedere il controllo del credito immobiliare a Wall Street, dove però non c'era lo stesso grado e soprattutto la stessa qualità di sorveglianza. E dove, in seguito anche alla riforma di Gramm, la Fed non aveva compiti di vigilanza.

«Per l'amministrazione Bush, le cartolarizzazioni rappresentavano una sorta di quadratura del cerchio, perché permettevano di aumentare il credito senza mettere a rischio le banche, le quali non avevano più incentivi per essere selettive con i debitori. I rischi dei mutui venivano infatti trasferiti agli investitori, inclusi quelli stranieri», aggiunge l'ex banchiere centrale. «Oltre a esternalizzare il rischio, in questo modo l'America riusciva anche a finanziare i propri consumi con i capitali delle banche e degli investitori stranieri».

IL NUOVO MODO DI FARE BANCA
A partire dal 2002, con il boom di securities di seconda o terza generazione,e cioè dei cosiddetti derivati sintetici, sempre più lontanamenti imparentati con i mutui originali, come le Collateralized debt obbligation (o Cdo) e i già citati Credit default swap, le cartolarizzazioni si affermarono come un nuovo modo di fare banca. «A fronte di strumenti finanziari e modelli di business nuovi- con le banche che originavano e distribuivano anziché originare e tenersi il rischio - il sistema di vigilanza Usa avrebbe dovuto adeguarsi, chiedere maggiori requisiti di capitale, creare un mercato ad hoc per gli Abs con requisiti/margini di liquidità minimi.Invece sono mancati screening periodici forti sul cosiddetto liquidity gap, i controlli sugli erogatori del credito e i cosiddetti stress test.In pratica non sono stati adottati segnali d'allarme», commenta il dirigente di un'agenzia di vigilanza europea.

Per i primi anni tutto filò comunque liscio. Anzi, sembrava una sorta di magico circolo virtuoso in cui ognuno avrebbe solo guadagnato: i cittadini non abbienti compravano casa pur non avendone i mezzi, i broker che avevano piazzato i mutui guadagnavano più commissioni, i grossisti che rastrellavano mutui facevano più profitti, le case d'investimento che impacchettavano e cartolarizzavano- i cosiddetti arranger- incassavano fee da favola, i reimpacchettatori ne percepivano altre ancora maggiori e gli investitori si trovavano a disposizione prodotti specialistici molto redditizi su cui investire a seconda delle loro esigenze, con efficienze prima impensabili (per esempio, le società di assicurazione con polizze a 30 anni potevano comprarsi prodotti contenenti solo mutui dello stesso periodo).

L’INSOSTENIBILITÀ DEL MODELLO
In realtà, nel medio e lungo termine, il modello di business era insostenibile. Perché il pool di mutui di qualità era limitato, mentre Wall Street aveva un continuo bisogno di volumi sempre maggiori di materia prima- cioè nuovi mutui ipotecari. La fortissima domanda portò a una rapida riduzione della qualità della materia prima. Finché, a partire dal 2005, si cominciò ad alimentare la rete di rifornimento finanziario con mutui sempre più " tossici". «Il vintage, e cioè l'anzianità dei mutui sottostanti, è un indicatore di qualità. Le securities con vintage precedente al 2005 sono le migliori. Dopo il 2005 si trova invece paccottiglia di ogni genere»,spiega l'ex banchiere centrale.

A contribuire all'aumento della "tossicità" dei mutui fu anche un altro sviluppo nella po-litica di de-regolamentazione finanziaria di Bush. Il 7 gennaio 2004 l'Office of the Comptroller of the Currency, la branca del Dipartimento del Tesoro che governa le banche, aveva deciso che le banche multistatali sarebbero state esentate dalle normative statali contro il "credito predatorio". Già allora ci fu chi lo ritenne un invito all'abuso.E gli abusi prontamente arrivarono. Anche perché, proprio quell'anno, la Federal Reserve aveva cominciato a rialzare il tasso di sconto.

ENTRANO IN CIRCOLAZIONE I MUTUI PEGGIORI
Cominciarono a diffondersi mutui con teaser rate, tassi-civetta che iniziano molto bassi ma poi esplodono,mutui low-doc oppure nodoc, la cui istruttoria era fatta con scarsa documentazione o addirittura senza alcuna documentazione ( che passarono dal 28% del totale dei sub-prime nel 2001 al 50% nel 2006). Peggio ancora:arrivarono i mutui con l'opzione di non pagare né interessi né capitale per i primi due o tre anni.

«Il cuore della vigilanza è il controllo dell'attività di credito, per assicurarsi che le banche facciano un corretto processo di affidamenti valutando le iniziative buonee dando credito a chi ha la possibilità di rimborsarlo. Invece su questo fronte, non venne fatto proprio niente», commenta l'ex banchiere centrale.

Essendo latitante la vigilanza sul credito ipotecario (perché gli Stati non avevano una visione globale e la Fed era stata tenuta fuori), cominciarono a entrare in circolo pacchetti all'ingrosso con mutui a orologeria che raggiungevano l'80%del totale.Ma per gli arranger cambiava poco. L'importante era avere nuova materia prima da trasformare in prodotti lavorati da immettere nel mercato.

C'è da dire che in quella lavorazione si cimentavano alcune delle migliori menti matematiche al mondo, che costruivano modelli di finanza quantitativa molto complessi con sofisticate miscele di diversificazione intese a ridurre il rischio. In più, non ci fu mai alcuna negligenza o disinformazione nella presentazione al mercato del prodotto: era detto apertamente che il sottostante era fatto di mutui subprime.

A presentare come buoni quei lavorati, erano le più grandi agenzie di rating al mondo. «Il classico specchietto per le allodole era la tripla A delle agenzie di rating»,spiega l'ex banchiere centrale. «E ad assegnarla non erano le case d'investimento.Erano le agenzie di rating». E qui il pensiero va subito al conflitto d'interessi intrinseco nel meccanismo di compen-sazione delle tre grandi agenzie: a pagare Moody's, S&P e Fitch per il loro lavoro di rating erano infatti gli stessi arranger che dovevano piazzare il prodotto sul mercato.

Ma occorre anche dire che quei rating non venivano assegnati al buio. Erano il frutto di modelli storico-matematici dai quali risultava estremamente improbabile che si verificasse una percentuale di insolvenza dei mutui sottostanti necessaria per intaccare l'investimento. Che in questo caso invece superava il 15% del totale su pacchetti sempre meticolosamente diversificati. Storicamente non era mai successo che si superasse quel tetto di insolvenza. Il problema era che, storicamente, le istruttorie sui mutui erano sempre state molto più selettive. «Venendo meno la qualità delle istruttorie sono saltati anche i modelli matematici»,dice l'ex banchiere centrale.

A fornire comunque un'ulteriore garanzia sullaqualità dei prodotti erano case d'investimento terze o società di assicurazione, come la Aig. In caso di default se ne sarebbero insomma fatte carico loro. «Il fatto che società come Aig non esitassero a sostenere quei prodotti, segnalava al mercato che il loro rischio era limitato », osserva uno dei maggiori avvocati d'affari americani che preferisce non essere citato.

IL BOOM DEL 2006
Nel 2006, grazie anche a queste securities (che arrivarono a rappresentare il 33% del reddito totale, contro il 13% del 2000), le cinque grandi case d'investimento di Wall Street - Merrill Lynch, Bear Sterns, Lehman Brothers, Goldman Sachs e Morgan Stanleydichiararono profitti per 130 miliardi di dollari. Altrettanto da record furono i compensi dei loro amministratori delegati.Solo per parlare delle banche ormai defunte: Stanley O'Neal,di Merrill Lynch,portò a casa 47,3 milioni di dollari, James Cayne, di Bear Sterns, 14,8 milioni e Richard Fuld, di Lehman, 10,9.

«Io non ho mai avuto la sensazione che a Wall Street avessero subodorato che c'era qualcosa che non andava nei sottostanti. Erano troppo lontani dall'erogazione dei mutui subprime per accorgersene», aggiunge l'avvocato d'affari. «Sono convinto che le grandi case di investimento non sapessero di vendere immondizia ». La nostra inchiesta ci porta a confutare questa valutazione. Non tanto perché chiunque avesse analizzato il mercato dei mutui avrebbe visto che dopo il 2004 i fondamentali non quadravano più: i dati economici dicevano che i redditi stavano scendendo mentre i tassi stavano aumentando,com'era quindi possibile che la generazione di nuovi mutui per la prima casa non desse segno di rallentamento?

L'INTEGRAZIONE VERTICALE
A contraddire l'avvocato d'affari è piuttosto il grado di integrazione verticale che abbiamo scoperto esserci stato tra gli originator sul campo- cioè i fornitori dei mutui- e gli arranger a Wall Street. Nel corso degli anni del boom di queste cartolarizzazioni, tutte le case d'investimento si erano messe in pancia istituti specializzati proprio nella lavorazione all'ingrosso di mutui subprime. Lehman aveva comprato Harbourton Mortgage Investment Corp, BNC Mortgage Inc e Finance America LLC. Bear Sterns aveva preso EMC Mortgage Corp e Encore Credit Corp. Merrill Lynch aveva acquisito First Franklin Financial Corp, Nation Point e National City Home Loan Services.

A spiegare i motivi di queste acquisizioni è l'analista finanziario Jeffrey Levine,di Milestone Advisors: «Primo,servivano a garantire una fonte di produzione di materia prima per le cartolarizzazioni. Secondo,a intascare anche i profitti dei fornitori. Terzo,ad avere market intelligence per lo sviluppo di nuovi prodotti ».

L'ironia è che nella stessa documentazione depositata presso la Sec, abbiamo trovato prove dell'integrazione tra originator e arranger. Nel bilancio annuale depositato nel 2006 da Fremont General, uno dei più grossi istituti di credito a orologeria del Massachusetts, si legge:«La società ha cercato di massimizzare i profitti... monitorando attentamente i requisiti richiesti dagli acquirenti istituzionali dei mutui, dalle agenzie di rating e dagli inve-stitori. Ci siamo conseguentemente focalizzati su attività di produzione dei tipi di mutui che meglio rispondevano a quei requisiti».

La conferma più esplicita è venuta da William Dalls, amministratore delegato di Ownit, il quale ha dichiarato al New York Times che gli investitori istituzionali- e Merrill Lynch in particolare - avevano specificatamente chiesto di offrire più mutui low-doc,dicendogli che se non lo avesse fatto avrebbe perso grosse opportunità di profitto.

Continuando a salire nella catena di alimentazione, si nota che le banche di investimento erano anche proprietarie di Special Purpose Entity, cioè quei veicoli speciali registrati sotto forma di trust ai quali venivano conferiti pacchetti di mutui contro i quali emettere le obbligazioni. Il Sole 24 Ore ha appurato che, nel singolo mese del 2005,due veicoli di Lehman cartolarizzarono mutui residenziali per 1.268 milioni di dollari, un veicolo di Merrill Lynch cartolarizzò 1.358 milioni di dollari e uno di Bear Sterns altri 557 milioni. Insomma, con questo grado di integrazione verticale, non si può non attribuire specifiche e dirette responsabilità della crisi a Wall Street.

IL CRACK
La miccia fu l'impennata delle insolvenze e dei pignoramenti registrata nel corso del 2006. All'inizio del 2007 crollarono poi una ventina di istituti di credito specializzati in subprime. A quel punto si aggiunse l'effetto moltiplicatore delle scommesse al ribasso degli hedge fund. «Nei primi mesi del 2007 cominciammoa vedere i primi segnali preoccupanti», spiega l'ex banchiere centrale.«Nei nostri risk meeting interni notammo un maggior tasso di insolvenza e un allargamento degli spread. Allora iniziammo a mollare la posizione e uscire il più possibile dalle cartolarizzazioni ».

Dalle tesorerie delle grandi banche l'allarme si diffuse sul mercato, che smise di sottoscrivere. Il disimpegno degli investitori e il diffondersi dell'incertezza sull'entità e la distribuzione delle perdite nel sistema finanziario, provocò un'impennata della domanda di liquidità che fece schizzare ancora più in alto gli spread. Con il mercato bloccato, le cinque case d'investimento, e Merrill Lynch in particolare, si trovarono in portafoglio grosse quantità di semilavorati che dovevano essere ancora assemblati - prodotti di pessima qualità a fronte dei quali non potevano fare più funding. Tentarono di ricorrere al mercato interbancario per rifinanziare gli attivi immobilizzati, ma invano.

Il contagio ha poi raggiunto il mercato dei Credit default swaps, nel frattempo schizzati a 62mila miliardi di dollari di valore nozionale ( contro i 144 miliardi di 10 anni fa). E chi era uno dei più attivi player in questo mercato? Aig,che tra l'altro era anche garante di molte securities di Lehman.

E adesso? Quanto è stato intaccato il ruolo di riferimento delle autorità americane per il resto del mondo? «La reputazione del sistema di vigilanza ne ha sicuramente risentito, soprattutto perché gli americani sono sempre stati all'avanguardia», conclude il dirigente dell'agenzia di vigilanza europea. «Con questa crisi la loro credibilità si è a mio parere dimezzata».

Il circo Alitalia sull'ottovolante

Come ai tempi di Cogne, di Calciopoli, di Garlasco, di qualsiasi dissestata vicenda che fra i suoi difetti abbia anche quello di non finire mai, l’Alitalia è rapidamente diventata un genere televisivo. Una compagnia di giro agli ordini di qualche regista invisibile attraversa con piglio sicuro i palinsesti, spostandosi di salotto in salotto per ripetere le stesse cose, con lo stesso tono e lo stesso stile, come i personaggi serializzati dei telefilm. C’è il pilota in divisa da pilota, bello e impossibile, amato dal pubblico femminile mentre scuote i capelli corvini e contestato da quasi tutti quando difende i privilegi di casta. C'è il sindacalista della Cgil con la camicia slacciata da sindacalista della Cgil e le occhiaie da maratoneta della trattativa, di quelli che non vogliono mettersi d’accordo ma nemmeno rompere, nei secoli dei secoli. E naturalmente ci sono le hostess, la bionda e la bruna. Rispetto a Cogne e agli altri classici delle stagioni scorse, le uniche novità sono l’assenza di psicanalisti (invece ce ne sarebbe un certo bisogno) e la presenza di un ministro, Maurizio Sacconi, che sa maneggiare i congiuntivi. Questo vezzo abbastanza inopinato potrebbe costargli la conferma nella prossima serie.

Osservando le evoluzioni del circo volante da un canale all’altro, ci si chiede dove i suoi acrobati trovino il tempo di studiare le carte, di parlarsi liberamente o anche solo di pensare. Forse fanno tutte queste cose durante i trasferimenti in taxi. O forse le lasciano ai potenti veri, quelli che lontano dalle telecamere decidono sul serio.


di Massimo Gramellini

Banche europee? Peggio di Goldman Sachs


" Per anni ci hanno bombardati con il mito del capitalismo anglosassone. Il
capitalismo che era pulito perche' li' "fanno sul serio", il capitalismo dove i
bilanci dicono la verita' perche' li' "ti danno 25 anni se sgarri", il capitalismo
"serio" perche' puro, perche' competitivo, perche' trasparente.

Oggi ci troviamo di fronte al crollo del mito, e vediamo la verita'. Un sistema
corrotto ove il fisco non distingue 650 miliardi di dollari di merda da 650 miliardi di
dollari buoni, un sistema di truffatori che vendono un dollaro avendo in tasca solo un
centesimo, un sistema ove se sei una merchant bank non hai controlli, un sistema ove le
certificazioni sui bilanci si comprano al mercato e i bilanci sono favole allo stato
puro.

Ci siamo raccontati che lo stato non doveva aiutare le industrie perche' "veri nei
pasi capitalisti" questo non succede e sono meritocratici senza eccezioni, e la FIAT
aveva scroccato anche troppo, e se un'azienda va male deve fallire perche' il vero
capitalismo, (serio perche' pulito e pulito perche' serio) vuole cosi'. Ebbene,
negli USA lo stato spendera' in totale piu' del PIL italiano per sostenere le proprie
istituzioni finanziarie. E non si tratta di prestiti, ma di regali.

Facciamocene una ragione: il mondo anglosassone e' piu' che altro un mito. La
spietata correttezza che gli attribuiamo, la pulita meritocrazia del predatore che
muore di fame se non corre piu' della preda, la cruda durezza del mercato puro, sono
delle nostre invenzioni. In realta' abbiamo a che fare con un sistema piu' corrotto,
piu' politicizzato, piu' massonico di quello italiano, ove la meritocrazia finisce
se produci un disastro abbastanza grande, in campagna elettorale, da costringere i
partiti (ovvero i candidati) a coprire il buco che lasci.

L' America non esiste. E forse non e' mai esistita, se non nella nostra mente. La
differenza tra noi e loro non risiede nel "come" gestiscono le risorse, ma nella mera
quantita' di risorse che hanno a disposizione per ragioni storiche e
circostanziali. "


di Uriel

Quando il panico travolge le borse del mondo



La storia si ripete con analogie impressionanti. Quel che cambia nei crolli più recenti è l´ordine di grandezza delle ricchezze distrutte, quindi la platea delle vittime

A registrare le reazioni attonite della maggioranza, sembra che ogni crac finanziario colpisca all´improvviso. I sinonimi per descriverlo attingono al vocabolario delle calamità naturali. Terremoto, tempesta perfetta, tsunami. L´affinità è reale: per la dimensione tragica ma anche per la normalità di questi eventi. Proprio come le catastrofi naturali, i crac finanziari sono ricorrenti, quindi terribilmente scontati. Fanno parte del funzionamento fisiologico del capitalismo. Anzi, le loro origini risalgono al proto-capitalismo, visto che uno dei crac più celebri della storia fu il grande panico del febbraio 1637 alla Borsa di Amsterdam, quando dopo due anni di speculazioni forsennate crollarono di colpo le quotazioni dei futures sui bulbi di tulipani. La storia si ripete con analogie impressionanti. Quel che cambia nei crac più recenti è l´ordine di grandezza delle ricchezze distrutte, quindi la platea delle vittime. Si infittisce l´interconnessione tra tutti i settori dell´economia, e tra nazioni molto lontane. Cresce il risparmio popolare investito in strumenti finanziari, nonché la previdenza privatizzata che affida i suoi capitali alle Borse, alle banche, alle assicurazioni. Potenzialmente l´impatto sociale dei crac si fa quindi sempre più profondo: ma per la stessa ragione si è irrobustito l´armamentario delle politiche economiche per attutirne le conseguenze. Infine, grazie alle tecnologie, i crac di oggi hanno ritmi sempre più rapidi. Le crisi di una volta sviluppavano i loro sussulti nell´arco di molti mesi; oggi possono conoscere capovolgimenti straordinari in poche ore. Un annuncio fatto a New York si ripercuote in millesimi di secondo sugli indici di Shanghai e Tokyo, Londra e Mosca.

Visto che oggi l´epicentro di una drammatica crisi finanziaria è in America, va ricordato che la nascita stessa degli Stati Uniti fu tenuta a battesimo da un crac. Il primo presidente, George Washington, era al suo primo mandato quando dovette fronteggiare il primo panico finanziario. All´origine vi fu la spregiudicata speculazione sui titoli pubblici emessi durante la guerra d´indipendenza dagli Stati del Massachusetts e della South Carolina. Nel marzo del 1792 la "bolla" scoppiava, costringendo la neonata nazione a misure di emergenza. Il segretario al Tesoro Alexander Hamilton diede disposizione alle banche di accettare anche titoli scadenti come garanzie per far prestiti e sostenere l´attività economica: qualcosa di molto simile ai vari sportelli d´emergenza creati dalla Federal Reserve di Ben Bernanke in questi mesi per provvedere liquidità al sistema.

Se da oltre due secoli i crac in America colpiscono puntuali come gli uragani, anche la loro dimensione internazionale non è del tutto nuova. Centouno anni fa il grande panico del 1907 fu la prima crisi "globale" del Novecento. Nel solo mese di ottobre l´indice azionario di Wall Street perse il 37% del suo valore, in tutta l´America folle di risparmiatori diedero l´assalto agli sportelli delle banche fra scene di violenza e di disperazione, il sistema del credito rimase paralizzato per settimane. La "tempesta perfetta" di quell´anno ebbe per protagonisti dei giganti della storia, dal presidente Theodore Roosevelt al banchiere J.Pierpont Morgan. Le ripercussioni furono immediate e profonde anche in Europa, e l´Inghilterra dovette accorrere in aiuto agli ex sudditi americani con una spedizione navale di lingotti d´oro. L´eco di quegli avvenimenti non si è mai spenta. La proverbiale superstizione degli investitori chiamò in causa la "maledizione del 1907" quando Wall Street subì un´altro dei peggiori crolli della sua storia, il 19 ottobre 1987, con una caduta del 23% dell´indice Standard & Poor´s 500. Già nel 1908 il finanziere Henry Clews nelle sue memorie indicava tre cause principali del disastro dell´anno precedente che suonano familiari: «L´eccesso di investimenti nel mercato immobiliare; il credito facile; le manipolazioni dell´alta finanza».

Il crac più nefasto resta quello del 1929. Non solo per la violenza della caduta subìta dall´indice Dow Jones, che perse il 13% nella sola seduta del 28 ottobre, seguito dal botto finale nel successivo Black Tuesday, il 29. In realtà a fissare nella storia la gravità di quel crollo furono gli eventi successivi. Per gli errori commessi nella politica monetaria e nella manovra economica del presidente Herbert Hoover, il collasso di Wall Street contribuì a innescare una spirale di protezionismi, la caduta del commercio internazionale, infine la Grande Depressione. Nel 1931 la Borsa americana aveva perso l´89% del suo valore dai massimi del 1929 ma ben più gravi furono le conseguenze sociali. Il mondo intero fu prostrato dalla deflazione: i prezzi agricoli scesero del 40-60%, salari e produzione industriale precipitarono, il tasso di disoccupazione in America arrivò al 25% nel 1933. Quattro anni dopo il crac di Wall Street, nel 1933 in media mille americani al giorno subivano il sequestro giudiziario della loro casa per insolvenza. La miseria di massa e le tensioni sociali contribuirono all´avvento del nazismo in Germania. La gravità di quella crisi ispirò innovazioni di portata storica: il New Deal di Franklin Delano Roosevelt pose le fondamenta del Welfare State, delle politiche keynesiane di sostegno dell´occupazione, dei grandi programmi di investimento statale nelle infrastrutture. Ma fu solo l´incremento di produzione bellica legato alla seconda guerra mondiale a "curare" definitivamente la più lunga recessione del XX secolo.

Nel dopoguerra in America il crac più celebre fu quello delle Savings and Loans. Una crisi bancaria prolungata per anni. Fra il 1986 e il 1995 quasi la metà delle 3.234 casse di risparmio dovette chiudere per bancarotta. Nel 1989 il Congresso creò un´apposita agenzia federale, la Resolution Trust Corporation, per accollarsi le perdite, rimborsare i depositanti, assorbire i portafogli-titoli degli istituti falliti, e indagare sulle responsabilità del disastro. In quanto liquidatore fallimentare il governo federale si ritrovò temporaneamente proprietario dei più disparati oggetti che i clienti avevano fornito come garanzia alle banche per ottenere fidi: nella Resolution Trust Corp. finirono tra l´altro quadri di Picasso e Andy Warhol, una distelleria di whisky dell´epoca coloniale, e 800 boccette refrigerate di sperma di un toro Brahma da riproduzione.

I crac più recenti sono ancora freschi nella memoria: gli scossoni provocati da choc internazionali come l´insolvenza del Messico (il crac dei Tequila Bonds nel 1995), la crisi finanziaria dei dragoni asiatici nel 1997, la bancarotta della Russia nel 1998. Tutto endogeno invece fu il crollo del Nasdaq nel marzo 2000, la fine della febbre speculativa sulle dot.com, le società di Internet nate all´apice della New Economy. Le lezioni che ci insegna la storia dei crac sono straordinariamente semplici. Tre costanti si ripetono da secoli. Ogni disastro finanziario è preceduto immancabilmente da una "bolla", un periodo di eccessi speculativi. Ogni bolla è alimentata da condizioni di lassismo monetario, credito facile, e la convinzione di masse di investitori che una certa categoria di investimenti è destinata al rialzo infinito. Che si tratti di immobili, di azioni o di petrolio, ci sarà sempre una "teoria" per dimostrare l´assoluta razionalità di quotazioni assurde ed eternamente crescenti. La seconda costante storica: ad ogni crac che si rispetti segue un periodo di riforme, elaborazione di nuove regole, maggiori divieti e controlli. La terza costante: appena varate le nuove leggi si scatena la gara per aggirarle e preparare l´avvento della bolla successiva.


F. Rampini

L’ultimo Bingo del turbocapitalismo



Ho l’impressione che la «casta degli oligarchi», la nuova élite di «mega-ricchi» - come li definisce Hervé Kempf – che governa l’economiamondiale abbiamesso a segno il più grande colpo della storia. Se non ho capito male, alla fine della giostra, un colossale flusso di denaro, da 600 a 1.000 miliardi di dollari, secondo le diverse stime, transiterà dalle casse delle banche centrali americane ed europee – cioè dalle riserve statali accumulate con i proventi fiscali dei cittadini - ai portafogli dei grandi investitori finanziari. In realtà i mutui degli americani poveri non c’entrano nulla.

Pensate a quale piano planetario di edilizia economica e popolare si sarebbe potuto realizzare con solo una parte delle somme sborsate! I mutui sono stati il veicolo con cui creare ad arte una esposizione debitoria inesigibile - drogando i prezzi di mercato degli immobili e, di conseguenza, sopravalutando i titoli ipotecari nelle mani degli istituti di intermediazione. Un gioco da ragazzi, una «shock economy», direbbe Naomi Klein, pianificata e provocata dalle stesse autorità monetarie «regolatrici » dei mercati e dalle agenzie di rating e di controllo. Basta seguire imovimenti di quel Alan Greenspan, già presidente della Federal Reserv, ritenuto l’inventore della linea dei «consumi in deficit» e accostato dal nostro Tremonti a Bid Laden come principale nemico dell’America, che è ora il consulente del più grande Hedge Fund (lo Jp Morgan) che sta comprando le banche in fallimento.

Ovviamente, con il sostegno in denaro della stessa Federal Reserv. Insomma, ci stanno turlupinando. Oggetto degli spettacolari salvataggi con i nostri soldi non sono né imutui dei «poveri» americani, né le «generose» banche di intermediazione che li hanno concessi, né le «sprovvedute» società di assicurazione che hanno stipulato polizze contro le bancarotte. Temo che i veri beneficiari, in ultima istanza, siano coloro che hanno preso nel loro portafoglio i «titoli spazzatura» e che pretendono comunque gli interessi e le rendite pattuite. Sono i grandi investitori istituzionali, i fondi pensione, le fondazioni, i fondi sovrani dei paesi orientali, gli sceicchi del petrolio… tutti coloro, insomma, che stanno finanziando gli investimenti produttivi, industriali, infrastrutturali, militari negli Stati Uniti. E non possono fallire perché lascerebbero a secco «la più grande economia del mondo», la nostra protettrice e il nostro faro di civiltà. La crisi finanziaria in corso non è altro che un giro tortuoso per saldare una tranche dei loro crediti. Sono sicuro che i maghi della finanza creativa (la «setta degli avidi » che dirigono il tavolo da gioco degli hedge fund) stanno già studiando quale dovrà essere la prossima «bolla speculativa» da gonfiare e far saltare – assieme alle casse degli stati – al momento buono. Il dubbio che mi tormenta è che a sinistra si creda ancora nella «patologia» della crisi, come eccesso speculativo dell’arciliberismo, e non si veda invece nella «sequenza delle crisi» (come ci dice cinicamente Cipolletta) la patologia del turbocapitalismo, insaziabile divoratore di risorse e di umanità.


m. Cacciari

I trucchi Usa non fermeranno la bufera

Gli espedienti ai quali Sec e Tesoro degli Stati Uniti si sono votati confermano che giovedì scorso la situazione dei mercati non era più soltanto seria, era disperata. Eppure quanti su tanti giornali spiegano la crisi paiono volersene dimenticare a memoria. E per un rimbalzo da borse alla cinese, ovvero finte, hanno ceduto troppo all’euforia. Mentre invece gli espedienti tentati restano per molti versi discutibili, e forse di precaria efficacia. Del resto tant’è: questo è il pressappochismo sortito da anni in cui si sono stampati più dollari che tappi di Coca-Cola. Per carità tralascio di citare che cosa tanti economisti hanno scritto fino all’altro ieri. Lasciamo stare; vediamo invece quali rischi di incoerenza e quanti margini di inefficacia vi siano nel gesto americano.
Bastasse davvero solo di vietare le vendite allo scoperto per risolvere le crisi finanziarie saremmo tutti a posto: neppure ci sarebbe stata la Grande Crisi degli Anni Trenta. Pure Hoover, 31° presidente degli Stati Uniti, era ossessionato dalle vendite al ribasso, che giudicava complotti. Finì nel ridicolo, perse le elezioni. Fa bene dunque McCain a non voler ripetere i suoi errori, e a chiedere la rimozione di Cox, presidente del Sec. Anni fa la Securities and Exchange Commission permise di alzare il livello di debito delle banche ora fallite, esagerando il rialzo. Per decreto ora invece blocca la principale delle scommesse al ribasso, con un atto che resta dubitabile. Infatti i short selling bloccati, lasciando gonfiati i vari valori finanziari, possono aggravarne il tracollo al loro sblocco. Inoltre vietando vendite allo scoperto si tampona la crisi, ma s’inaridisce una fonte di liquidità: in una situazione già illiquida si chiude uno dei canali di ricopertura. Vari titoli poi, come quelli sulle carte di credito, ne sono pericolosamente esclusi. Infine il divieto è di molto complicato dall’esistenza d’altri generi di scommesse al ribasso scambiate tra investitori direttamente, non in Borsa. Insomma questo mercato truccato di una Wall Street evoluta Shanghai, coi suoi corsi manipolati dallo Stato, tampona forse la crisi, ma non è detto la risolva.
C’è poco da fare: il ritorno alla salute richiede prima o poi inevitabile una distruzione vera di valori fittizi. E perciò anche l’altra misura, quella di creare un fondo mostruoso del Tesoro, in cui infilare mutui e crediti cartaccia, è disputabile nei suoi effetti. Dovrebbe acquisire a prezzi scontati valori enormi, mai prima pensati, tali da elevare di un sol colpo del 5% il debito Usa. E però in tal maniera si rischia pure il congelamento di valori fittizi, ovvero non remunerabili: l’esito giapponese degli anni ’90. I dubbi non finiscono: quanti abusi si verificheranno nella stima dei prezzi ai quali questa cartaccia sarà comprata coi soldi dei contribuenti. A prezzarli non sarà infatti un mercato che si è sospeso. Insomma siamo alla commedia di un liberismo finto, usato per speculare al rialzo, ma che si sospende al ribasso, e di una globalizzazione che allora è stata solo una americanizzazione. Diviene lecito a chiunque, temo, chiamare truffa, gli imbrogli di borsa per via dei quali gli Usa si sono mantenuti almeno dalla presidenza Clinton in un livello di consumi innaturali. E con che esito alla fine? Mercati finanziari americani sotto tutela dello Stato; alla cinese. Appunto alla comunista: coi guadagni incassati poi da pochi, ma pagati da tutti. Von Hayek, i liberisti veri, predicavano ben altro: di mai stampare moneta in eccesso. Il contrario di quanto s’è purtroppo, e troppo a lungo, plaudito per anni.


di Geminello Alvi

Le cavie umane della scienza “medica”



Nel 1996, l’azienda Pfizer mette a punto un nuovo antibiotico il Trovan, che secondo gli economisti di Wall Street può portare profitti per un miliardo di dollari l’anno. Quanto esposto nel paragrafo precedente dovrebbe far capire che di fronte ad una simile cifra qualsiasi strategia sarà messa in atto perché tali profitti si concretizzino nel più breve tempo possibile, senza che ci si preoccupi minimamente del rispetto per la sacralità della vita umana. Siccome si vuole sperimentare tale farmaco anche contro la meningite, e siccome negli USA non ci sono abbastanza soggetti su cui sperimentarli, un’epidemia di meningite in Nigeria (che porterà alla morte di 15.800 persone) viene vista come una manna dal cielo da parte dell’azienda. I ricercatori della Pfizer in brevissimo tempo quindi si preparano alla sperimentazione sul campo dopo avere ricevuto il nulla osta della FDA.

Il test sulla sperimentazione clinica del nuovo farmaco viene “curiosamente” messo a punto nel giro di sei settimane, di fronte ad un periodo di circa un anno richiesto per effettuare una simile sperimentazione negli USA. Pare che la sperimentazione sia stata “ratificata” dai responsabili dell’ospedale locale con una lettera predatata, come dire che l’esperimento sarebbe iniziato subito e poi con qualche pressione si sarebbero “convinte” le autorità locali. Così vengono assoldati 200 bambini dalla multinazionale farmaceutica per provare il nuovo prodotto, dietro richiesta di un consenso puramente verbale.

E fin qui si tratta di una colpevole mancanza di cautela, ma la cosa peggiore è che la terapia a base del nuovo antibiotico viene mantenuta anche dopo che i bambini non reagiscono positivamente al trattamento: sono undici i bambini che muoiono dopo essere stati trattati in simile maniera col Trovan. Difficile dire quanti per la malattia e quanti per il mancato intervento.

Sulla base di questi dati esperimenti le autorità statunitensi permetteranno l’uso del farmaco solo agli adulti (gli effetti collaterali osservati anche in Occidente sono frequenti danni al fegato e finanche la morte). In Europa la medicina viene tolta dal commercio. Un farmaco inutile in sostanza, un farmaco mortale, che i geni dell’economia hanno valutato un miliardo di dollari e che bisognava tentare di piazzare a tutti i costi sul mercato.

Un simile modo di agire non è un caso isolato, sono sempre di più le sperimentazioni poco controllate e a basso costo portate avanti nei paesi poveri. In tali paesi è più facile trovare persone in cattive condizione di salute (soggetti ideali per le sperimentazioni) da assoldare con una piccola spesa per le aziende del farmaco.

Ma cerchiamo di capire cosa sta succedendo adesso nelle industrie farmaceutiche. Innanzitutto, come in altri settori, anche in campo farmaceutico si sono verificate numerose fusioni fra aziende, per cui le multinazionali del farmaco sono ormai dei colossi economici. Il settore farmaceutico rappresenta un mercato in rapida crescita, la medicalizzazione della vita copre ormai ogni aspetto ed ogni fase della vita, è diventato medico qualsiasi problema esistenziale, sociale, umano, di apprendimento, e persino malattie banali che in altri tempi si affrontavano benissimo con due giorni di riposo e una buona dose di vitamina c oggi sono diventate un “problema medico” da affrontare con un apposito farmaco.

Come succede per le automobili o per le saponette, anche in campo farmaceutico la legge della concorrenza costringe le aziende a produrre continuamente nuovi farmaci a ripetizione da immettere sul mercato. La strada dalla invenzione di un nuovo farmaco alla sua commercializzazione sarebbe lunga e costosa se non si fossero individuati, degli ottimi “luoghi di sperimentazione” nei paesi poveri. Lì si trovano cavie umane disponibili a poco prezzo, spesso analfabeti (e quindi si ottiene dubbio consenso puramente verbale e non scritto), si riesce a fare tutto a tempo di record e con pochi controlli scegliendo paesi stranieri dove le leggi in fatto di sperimentazione non sono così rigide come negli USA o nella CEE. Il New England Journal of Medicine riferisce che ogni giorno di ritardo prima dell’entrata in commercio di un nuovo medicinale costa in media al produttore 1,3 milioni di dollari di mancate vendite.

Come accade per i subappalti delle multinazionali dell’abbigliamento, anche in questo settore molto del lavoro sporco viene affidato a piccole società di comodo. In Svizzera è in corso un’inchiesta su una di queste organizzazioni, che arrivava ad utilizzare tossicodipendenti, rifugiati e addirittura importava pazienti dall’Estonia con appositi voli charter.

A questo scandalo delle cavie umane bisognerebbe aggiungere il fatto che mentre si ricercano farmaci contro l’obesità o l’impotenza (come se fossero poi problemi medici da risolversi con le pillole!) niente si fa per quelle malattie endemiche nei paesi poveri come la tubercolosi o la tripanosomiasi (malattia del sonno). Non credo nell’efficacia dei farmaci di chemiosintesi ma non posso escludere che in certe manifestazioni acute della malattia possano essere utili, in ogni caso queste aziende che proclamano di essere “al servizio del benessere e della salute dell’uomo” in realtà non si interessano ad altro che al profitto. Il farmaco contro la malattia del sonno, il DFMO, non viene più prodotto perché poco redditizio, e degli 8 milioni di tubercolotici solo 400.000 potrebbero pagarsi le cure. Neanche i milioni di persone che soffrono e muoiono di malaria giustificano uno sforzo delle industrie farmaceutiche dato che si tratta di persone troppo povere.


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Un mondo di plastica



C’erano una volta le grandi battaglie ideologiche, le manifestazioni oceaniche, il ’68, le piazze indignate, i cortei contro la guerra del Vietnam: episodi che in buona parte non condividiamo e che comunque si sono resi responsabili di errori, spesso di veri e propri crimini. Per questo non li rimpiangiamo in sé, ma è certo che – insieme a migliaia di altri fenomeni analoghi più o meno noti – testimoniano un’epoca nella quale gli uomini avevano ancora la voglia di lottare per qualcosa in cui credevano, un “qualcosa” comunque di alto profilo, perlomeno nelle intenzioni: l’ideologia, la pace, la giustizia, la libertà.
Ieri mi trovano ad osservare i portoni lungo una via e notavo come pressoché tutti esponessero il cartello “Vietato immettere pubblicità nelle cassette”. Anche questo, di per sé, un episodio di scarsa rilevanza e che riflette pure un’esigenza legittima per il cittadino stanco di vedere la propria cassetta intasata di depliants pubblicitari. Lo stesso cittadino che non sopporta più di vedere i muri imbrattati, gli accattoni per le strade, le prostitute sui marciapiedi, il fumo del vicino, i drogati sulle panchine della stazione. Che migliaia di civili innocenti siano massacrati in Afghanistan e Iraq con l’appoggio o l’omertà del nostro esercito e del nostro governo non frega niente a nessuno. Ma che qualche scalmanato napoletano danneggi un treno è assolutamente intollerabile. Che Banca d’Italia e BCE siano organismi privati che attraverso il signoraggio ci depredano di infiniti milioni di euro è troppo difficile da capire e non indigna che pochi “esperti”. Ma se la banca presso la quale abbiamo depositato il nostro conto ci aumenta di un paio di euro le commissioni a nostro carico siamo pronti anche a prendere il direttore per i piedi.
Questa è diventata la nostra società: quello che conta veramente o è troppo distante o è troppo complicato o non ci interessa o siamo convinti non si possa modificare. Il tempo delle grandi lotte è passato. Eppure, siccome la propria natura si può comprimere ma non cancellare completamente, ciò genera solo frustrazioni, odi reconditi, volontà di dirigere la propria rabbia ed indignazione contro bersagli più facili e vicini. Fatemi pure vivere in un mondo dove si massacrano innocenti per un barile di petrolio, dove tutto passa sopra le nostre teste ignare e lobotomizzate, dove io non conto assolutamente nulla e neppure ho diritto a conoscere la verità. Anzi, ci rinuncio proprio a tentare di conoscerla. Però, almeno, fatemi vivere in città pulite, tenetemi lontani gli zingari, lasciatemi tranquillo e sicuro.
Nel celebre film Matrix uno dei personaggi accetta di vivere nel mondo finto predisposto dalle macchine pur sapendolo tale, a patto che gli siano garantiti tutti i relativi agi.
L’orribile sospetto è che sia questo che vogliono gli uomini di oggi. Non importa che la nostra sia una società di plastica, basta che sia commestibile, che non si stia troppo male. Il sostantivo che va più di moda di questi tempi, non a caso, è “sicurezza”. Giustizia e libertà sono passati di moda.


di Andrea Marcon

Precariato e crisi dei subprime





















Un articolo che non verrà spiegato dai media nazionali, un articolo che cerca di fare luce su un problema complesso. Una luce nella nebbia perenne dell'informazione controllata.

Vorrei dire una cosa che non leggerete mai sui giornali di confindustria. E cioe' vorrei spiegare il legame fortissimo che c'e' tra il precariato del lavoro e l'attuale crisi dei mutui subprime.

Punto primo: il mutuo subprime e' un mutuo a rischio dato ad un cosiddetto NINJA, che significa "No Income, No Job or Asset". Si tratta del lavoratore che in Italia viene chiamato "precario".

E' successo molto semplicemente che il mercato del lavoro di alcuni paesi sia stato dominato da queste figure, cioe' da cosiddetti "contractors" che avevano contratti di lavoro a 2,4,5 anni. Poiche' si trattava della stragrande maggioranza del mercato del lavoro, le banche sono state costrette a fornire mutui a questi lavoratori.

Il problema e' che un mutuo dato a questi lavoratori e' un mutuo a rischio, per forza di cose. Essendo un mutuo a rischio altissimo, per ammortizzare il rischio le banche li hanno cartolarizzati e venduti sotto forma di titoli.

Ma il problema rimane quello: poiche' la maggior parte dei lavoratori sono precari, le banche sono state costrette a dare mutui ai precari.

Questa e' stata l'origine della bolla speculativa dei subprime: il precariato del lavoro. Quello che si sta pagando non e' il prezzo di una speculazione finanziaria, ma il prezzo di una politica del lavoro.

Ed e' inutile pensare che leggi piu' rigide in campo finanziario possano cambiare le cose: se la maggior parte dei lavoratori rimane senza certezze sul futuro, le banche saranno costrette a trovare il modo di far loro un mutuo casa. Accollandosi il LORO rischio, cioe' accollandosi il precariato.

In questo modo, quindi, il precariato "infetta" anche le istituzioni finanziarie, che non possono ignorare milioni di clienti quando sono la maggior parte dei clienti.

Questo e' il motivo per il quale Confindustria sta esercitando una pressione fortissima contro i giornali perche' nessuno faccia analisi serie sull'origine del fenomeno subprime: di certo il sole 24 ore non vi verra' a dire che la flessibilita', orgoglio e richiesta di confindustria, sia alla base di un simile disastro finanziario.

Ma tant'e': o Confindustria indica alle banche come vivere in un mondo di precari senza risentire del loro precariato, o qualcuno spiega come gestire il credito al consumo verso un precario senza risentire del rischio che egli corre , o il dato di fatto rimane questo. Il fatto, cioe', che la situazione di precariato (intesa come rischio economico) e' destinata a "infettare" il resto dell'economia.

Se sono precario potrei non finire di pagare l'auto. Se sono precario potrei non finire di pagare la lavatrice. Finche' sono precario potrei non finire di pagare qualsiasi cosa. E cosi' questo rischio di propaga dal mondo del lavoro alla finanza.

Certo, la finanza potrebbe fare a meno dei precari: dove , come in Italia, sono la minoranza. Ma se si estendesse l'uso dei contratti flessibili, la maggior parte dei clienti sarebbero fatti da gente precaria. E le banche NON possono rinunciare alla maggior parte dei clienti.

Ma le stesse carte di credito (che saranno il prossimo disastro finanziario, ovvero il prossimo punto ove l'incendio si propaghera') , che finanziano gli acquisti del possessore, si accollerebbero i rischi che corre il precario di essere senza soldi.

Ecco, confindustria non ve lo dira' mai, ma lo ribadisco: dietro la crisi dei subprime c'e' il precariato del lavoro.

I giornali stanno dicendo che l' Italia risentira' di meno di questa crisi perche' "il mercato e' piu' primitivo". Ma non significa nulla, ed anzi il mercato finanziario italiano e' piu' antico e sofisticato rispetto a molte caverne massoniche degli anglosassoni.

Il vero motivo per il quale l'italia e' al riparo da questa crisi e' che i contratti atipici sono la minoranza, e le banche avevano appena iniziato con qualche esperimento di "diamo un mutuo ai precari". Esperimenti che fortunatamente non hanno avuto seguito.

Anche questa spiegazione, che vorrebbe l' Italia al sicuro perche' "all'antica" , e' una fesseria inventata per nascondere il succo del problema: se proseguiamo con la Legge Biagi e coi contratti atipici, se non aboliamo questa roba fino al pacchetto Treu (con buona pace di D'Alema che lo defini' "moderno ed al passo coi tempi"), prima o poi le banche si vedranno costrette a concedere mutui ai precari, che saranno parti sempre piu' consistenti del mercato.

E alla fine, pagheremo lo stesso prezzo.

Se c'e' una lezione che questa crisi sta insegnando e' che con il mercato del lavoro (e coi giovani che vi si presentano) non si scherza, perche' il loro precariato e' destinato a rendere precario il resto dell'economia, partendo dal mondo della finanza e , di conseguenza, anche al mondo dell'industria.

No, Confindustria non vi dira' mai che con le sue continue richieste di ulteriore flessibilita' sta preparando il terreno ad una crisi come quella USA.

Per questo lo scrivo io.

LA CURA C’E’

Mi dicono che il post sulle cause della crisi subprime, quello che vede la crisi venire dal mercato del lavoro, sia corretta ma inutile. Inutile perche' non fornisce alcun rimedio.

Beh, il rimedio e' evidente.

La lezione di questo crack e’ una sola: i subprime sono nati per dare credito ai lavoratori a termine. Sono nati perche’ la maggior parte dei lavoratori aveva contratti a termine. Ergo, i contratti a termine portano al disastro finanziario quando diventano un numero eccessivo. O si impara la lezione, o nessun governo USA potra’ fermare l’estendersi del crack alle nazioni che hanno molti lavoratori con contratti a termine e quindi, inevitabilmente, molti prestiti subprime. L’Italia, fortunatamente, era indietro su questo fronte.

Il rimedio e' altrettanto ovvio: la crisi si propaghera' laddove il mercato del lavoro rende instabili i posti di lavoro. Il problema e' che piu' la crisi si propaga, piu' posti diventano posti a rischio se il mercato del lavoro e' fluido.

Questo e' il momento buono per ingessare il mercato del lavoro in modo da fermare la crisi. Si prendano tutti i contratti in scadenza e li si congeli (almeno formalmente) per 10 anni. La meta' dei mutui ventennali sara' coperta, nel resto dei casi il tasso di rischio sara' abbassato.

Questo permettera' ai mutui concessi a queste persone di uscire dallo status di "subprime" , e di venire ricartolarizzati con tassi di rischio differenti.

A quel punto, ci sono dieci anni di tempo per tornare sui nostri passi ed eliminare i contratti lavorativi a termine dal grande mercato del lavoro, stabilizzando almeno i contratti con gli intermediari.

MAntenendo fluido il mercato del lavoro invece la crisi produrra' altro rischio di perdere il lavoro, altri mutui diverranno subprime o insolventi, e la crisi si autoalimentera'.

Per ora l'Italia e' poco esposta, ma se il PIL dovesse decrescere di due punti percentuali, la quantita' di insolventi al mutuo crescera' enormemente per via degli autonomi e dei commercianti. E allora ci saremo dentro anche noi.

E' il momento di ingessare il mercato del lavoro per stabilizzare i prestiti dati avendo come garanzia il lavoro stesso.

O cosi', o l'infezione si propaghera'.

di Uriel

Alitalia. Quel pasticciaccio “cucinato” da Berlusconi

Alitalia-Anno zero. Quel pasticciaccio brutto “cucinato” da BerlusconiSiamo ormai all’Anno zero per la nostra disastrata compagnia di bandiera! Rotte le trattative su un’ipotesi di soluzione pasticciata, ricattatoria, ultimativa e senza prospettive industriali e finanziarie, ora si passa alla recriminazioni e ai venti di speranze, per uscire da una crisi decennale, che ha tanti padri (dai governi di centrosinistra a quelli, più colpevoli di centrodestra, al management, agli stessi sindacati interni).

Sono più che eclatanti i sondaggi pubblicati on-line da due quotidiani autorevoli, come Il Sole 24 ore e La Repubblica (addirittura 245 mila partecipanti!), che però nessun giornale stampato né tantomeno TV e Radio si sono finora premurati di rendere pubblici ( da qui giusta la critica denunciata da Articolo 21 sul “pensiero unico” andato in onda in questi giorni per additare le responsabilità solo alla CGIL, piloti e Partito Democratico!).

Rispetto ai roboanti atti di accusa degli esponenti del governo e dei sindacati allineati al nuovo “regime mediatico” (CISL di Bonanni, UIL di Angeletti e UGL della Polverini), si evince come almeno 300 mila persone abbiano decretato che la crisi del fallimento delle trattative e della crisi sarebbe dovuto per il 54% al governo in carica (Rep) e per il 35% sempre a Berlusconi (24 ore), le responsabilità del governo Prodi sarebbero invece minime (1% per il Sole, 2% per Rep). Più divergenti tra loro le imputazioni di responsabilità della crisi tra i votanti del Sole per quanto riguarda il ruolo negativo tenuto dai sindacati: 40%secondo il quotidiano confindustriale, 18% per Rep. Per quanto riguarda, invece, le responsabilità del management passato vengono additate per il 6% dal Sole e per il 19% da Rep.

Ci domandiamo, allora, il perché dell’aggressività e la monocultura antisindacale che promanano dai direttori di alcuni giornali invitati nei “salotti televisivi” di queste sere, che hanno fatto a gara per scaricare tutte le colpe su CGIL, piloti, opposizione di centrosinistra e governo Prodi. E’ chiaro che è in atto un allineamento culturale e politico dei grandi media (con alcune rarissime eccezioni) per creare un “nemico interno”, a favore della “politica dalle mani libere” del governo Berlusconi, che per la sua azione fatta di proclami duri, ultimatum e populismo neo-fascista riceve da alcuni sondaggi apprezzamenti strabilianti, spiazzando i partiti della destra storica, come Alleanza nazionale, e diventando sempre più il punto di riferimento dei sentimenti più retrivi ed allarmanti dell’elettorato di estrema destra.

Berlusconi in realtà si sta mangiando i suoi alleati, mentre il centrosinistra, l’opposizione tutta, stentano a trovare una linea d’azione unitaria e una visione nuova, moderna, realmente alternativa per proporre un progetto che salvi il nostro paese dalla deriva neo-conservatrice, fascistizzante.

L’allineamento dei grandi media precede e segue anche il rimescolamento di carte che negli ultimi mesi sta avvenendo nel mondo della grande finanza. Da tempo, anche durante la crisi di queste settimane dell’Alitalia, abbiamo scritto dei nuovi “padroni” di Mediobanca, il cosiddetto “salotto buono” della nostra finanza e dell’ingresso della famiglia Berlusconi nel tempio di Piazzetta Cuccia.

Ora i giochi si sono conclusi: la figlia del “lider maximo”, Marina Berlusconi, è entrata nel CDA di Mediobanca, il suo fido alleato Tronchetti Provera è diventato vicepresidente ed il “braccio di ferro” tra il big dei banchieri Profumo (unico supermanager ancora contrario alla politica economica del Cavaliere di Arcore) si è risolto con un “no contest” con l’altro uomo di potere Geronzi, presidente della società.

Questo significherà che le Assicurazioni Generali, la cassaforte di Mediobanca, continuerà a controllare con i suoi alleati Telecom (in crisi industriale e finanziaria, dovuta alla gestione Tronchetti Provera, che in pratica l’ha portata nelle braccia della spagnola Telefonica), RCS- Corriere della sera, ovvero il più grande gruppo editoriale italiano. Soprattutto, Mediobanca con i suoi soci del Patto di sindacato rappresenterà per i prossimi anni la nuova fisionomia dell’economia italiana, con un misto di conflitti di interessi e una ragnatela di incroci azionari che in pratica la portano ad essere il vero controllore dei destini imprenditoriali finanziari ed industriali nostrani.

Lo stato si affiancherà sempre più a questo salotto finanziario per tentare di risolvere le tante crisi dell’imprenditoria privata, con una miscela esplosiva di neo-interventismo statalista, aggravando le casse pubbliche facendo ricadere il peso dei “salvataggi2 sui contribuenti, come nel caso appunto di Alitalia.

Assisteremo anche ad un nuovo “risiko” di poteri forti sulle compagini azionarie dei grandi quotidiani e gruppi editoriali, tendenti ad uniformare i messaggi comunicativi per comprimere gli orientamenti dell’opinione pubblica a favore del “lider maximo”.

Era dunque facile prevedere un ruolo di Mediobanca anche nel tentativo di risolvere l’intrica crisi di Alitalia. Sarà quindi proprio Piazzetta Cuccia l’ultimo “cavaliere bianco” che correrà in soccorso di un Berlusconi in crisi di identità e di risorse, dopo che per mesi e mesi aveva fatto di tutto per osteggiare il governo Prodi nel tentativo per niente decisionista di trovare una soluzione (prima l’asta e poi l’opzione Air France-KLM), propagandando un progetto risolutivo (pari al fumo di un arrosto mal cotto) messo in piedi dal collaboratore storico del Cavaliere, quel Bruno Ermolli che è da sempre la vera mente affaristica di tutte le sue operazioni italiane ed estere.

Il “sogno azzurro” di Ermolli si è dissolto come la neve di primavera ai primi raggi del sole. Ma certo ora Mediobanca non potrà tirarsi indietro. Altrimenti Berlusconi perderà la faccia e i consensi.

“Il re è nudo”! Il monarca di Arcore ha spostato la “mondezza” di Napoli dal centro della città ai siti inquinati delle campagne circostanti, senza risolvere realmente la questione dello smaltimento dei rifiuti, ma con Alitalia siamo alla prova concreta di cosa intende questa maggioranza neo-conservativa quando cerca di mettere mano alle tante crisi dell’economia italiana.

“Siamo alla recessione!”, decreta con colpevole ritardo Confindustria; in realtà, siamo alla temutissima “Stagflazione”, ovvero a quella miscela esplosiva che unisce la recessione economica industriale, aggravata dai crack finanziari americani e non solo, con la crescita dell’inflazione (ormai il nostro paese, secondo gli istituti internazionali è in cima alla classifica europea!), la drastica contrazione dei consumi, la riduzione dei prezzi, il fallimento del sistema commerciale al consumo, i bassi salari e il ritorno della disoccupazione.

Si tratta di una bomba a tempo, che “il pasticciaccio brutto” sull’Alitalia sta alimentando come un detonatore e che rischia di far saltare qualsiasi equilibrio sociale nell’autunno incipiente. La crisi Alitalia, così, può diventare per Berlusconi e soci (alleati politici, amici in affari, media compiacenti) il personale “Vietnam” politico, anche se non si intravedono chi siano i “vietcong”, i coraggiosi militanti guidati negli anni Settanta dal presidente Ho Chi Minh e dal generale Vo Nguyem Giap, che riuscirono a sconfiggere gli aggressori americani.

Quando la crisi dei mutui verso novembre-dicembre arriverà al culmine anche in Italia, con le famiglie sempre più indebitate e raggirate dal decreto Tremonti di prolungare le rate con le banche (misure del tutto inefficienti e controproducenti per i consumatori, rispetto invece alla “portabilità” di mutui e conti correnti messe in atto dall’ex-ministro Bersani), sarà difficile gestire socialmente il malcontento, aggravato anche dal calo del potere di acquisto (i salari italiani sono del 30% in meno della media europea, dietro a Grecia e Spagna), dalle alte tasse e dalle incertezze occupazionali.

Chi saprà indicare strade alternative all’anarchia politica probabile? Il Partito Democratico di Veltroni è avvinghiato in un “solipsismo”, nel guardarsi l’ombelico organizzativo e programmatico, l’Italia dei valori di Di Pietro cerca di montare il ribellismo senza una visione strategica, la “sinistra radicale” ormai residuale e in cerca di sé stessa, il sindacato confederale si scopre più diviso, anche se la CGIL sta riprendendo un ruolo egemonico e riformista in molti settori lavorativi.

Comunque si risolva il caso Alitalia, e a questo punto si fa più realistico l’intervento insieme a Mediobanca di un compratore estero europeo che potrà usufruire di migliori condizioni legislative e finanziarie, è la crisi intera dell’economia italiana a preoccupare. Crisi aggravata dalla “liquefazione sociale”, dalla “barbarie culturale” (basta pensare al rifiuto dell’antifascismo come pietra miliare e unificante del paese, ribadito di nuovo dallo stresso Berlusconi!), e dall’assenza di strategie innovative e aderenti all’evoluzione del calderone sociale italiano da parte della sinistra democratica-riformista.

“Il capitalismo è morto” strillava qualche giorno fa in prima pagina il quotidiano “futurista” della destra berlusconia “Libero”, mutuando slogan sessantottini. Sta in realtà scomparendo tra le macerie il “protocapitalismo” neoliberista, quello portato in auge dalla scuola monetarista di Chicago di Milton Friedman, che fu adottata prima dal dittatore golpista Pinochet nel Cile del dopo-Allende e poi rivista e ammodernata da Reagan, Bush padre e figlio negli Stati Uniti, dalla conservatrice Tathcher e dal neo-laburista Blair in Gran Bretagna.

Molti vedono con grandi speranze l’evolversi delle elezioni americane di Novembre, nell’attesa che se vincesse Obama potrebbe ritornare una politica economica e sociale di stampo neo-keynesiana, una revisione aggiornata del welfarestate socialdemocratico. Ma se vincerà il neo-conservatore, repubblicano McCain?

E poi siamo davvero sicuri che ancora una volta può venire un esempio innovativo dal decadente impero statunitense? Le ricette si preparano e si sperimentano in casa propria, sulla base dell’esperienze locali e degli stimoli provenienti dalla globalizzazione. Forse il “laboratorio europeo”, nonostante tutto è ancora il più stimolante per uscire fuori dalla profonda crisi attuale.

E anche l’Alitalia potrà trovare la luce fuori dalle dense nebbie grazie a partnership europee, alla trasparenza dei rapporti sindacali, al rigetto della politica fatta solo di “ultimatum”, di “prendere o lasciare”, al rispetto delle regole e delle leggi.

Tornare a volare Alitalia, quindi, per tornare a volare con la speranza in un futuro senza populismi e imbarbarimenti.

di Gianni Rossi

20 settembre 2008

Crack bancari: crisi del Sistema o fallimento controllato?


Quello che purtroppo (o per fortuna?) era stato previsto da anni si sta verificando.
Il Sistema Economico sta letteralmente crollando sotto il peso di debiti, speculazioni, investimenti forsennati e satanici, oppure è arrivato l’occasione e la possibilità di destare le nostre coscienze?
Importantissime banche come Citigroup, Bear Stearns, Lehman Brothers e Merrill Lynch, tanto per citare solo qualcuna, hanno fatto un triste epilogo. La Lehman è fallita e ha già chiesto l’amministrazione controllata (ex articolo 11), la Merrill Lynch è invece stata salvata, o per meglio dire, acquistata dalla Bank of Amerika.

Richard Fuld, il padre-padrone della Lehman (quarta banca d’affari statunitense) esce da questo crack in piedi: “dal 1993 fino al 2007 ha conseguito tra stipendi, bonus, stock options la meravigliosa cifra di 466 milioni di dollari”. Cifra questa di tutto rispetto, ma non completa, perché bisogna sommare la buona uscita di 22 milioni di dollari, maturata prima del fallimento bancario! Non male, vero?
Dall’altra parte Stanley O’Neal, ex numero uno di Merrill Lynch lascia il suo prestigioso ufficio con una pensione da 161 milioni di dollari, e questo dopo aver creato una voragine da 40 miliardi di dollari.
Il mega boss della Citigroup, Chuck Prince, si è intascato invece 68 milioni di dollari, e l’ex presidente di Bear Stearns, Jimmy Cayne soli 60 milioni di dollari.


La cosa interessante e che si ripete ogni qualvolta una azienda crolla e/o fallisce, i manager escono sempre a testa alta e con le tasche piene di denaro. Denaro dei contribuenti
Per esempio la Lehman ha creato un buco nero di oltre 639 miliardi di dollari, il maggiore crac della storia economica americana (oltre dieci volte il già gigantesco buco della Enron), e nonostante questo Richard Fuld esce con decine di milioni di dollari.
Questo dovrebbe farci riflettere…


Ecco l’elenco dei più grandi crac della storia moderna:
1) Lehman Brothers (639 miliardi)
2) Worldcom (103,9 miliardi)
3) Enron (63,4 miliardi)
4) Conseco (61,4 miliardi)
5) Texano (35,9 miliardi)
6) Financial Corp. of America (33,9 miliardi)
7) Refco (33,3 miliardi)
8) IndyMac Bancorp (32,7 miliardi)
9) Global Crossing (30,2 miliardi)
10) Calpine (27,2 miliardi).


La questione importante però è un’altra.
Le banche che chiudono i battenti sono il segnale che il Sistema sta crollando o invece anche queste rientrano in manovre occulte da parte di coloro che operano dietro le quinte?


Osservando gli azionisti di Lehman Brothers risultano delle cose molto interessanti:
AXA (9.46%);
FMR Corporation (5.69%);
Citigroup (4.5%);
Barclays Plc (3.92%);
State Street Corporation (3.1%);
Morgan Stanley (3.1%);
Mellon Financial (1.9%);
Vanguard Group (1.9%);
Deutsche Bank AG (1.4%), ecc.


Vediamo gli azionisti di Merrill Lynch:
FMR Corporation (4.8 %);
Barclays Plc (3.5%);
Janus Capital Corp. (2.9%);
Citigroup (2.6%);
AXA (2.40%);
State Street Corporation (0.12%), ecc.


Tutti questi azionisti si possono scremare ulteriormente perché per esempio State Street Corp. è controllata dal gruppo Barclays (quindi Rothschild) della City di Londra.
In pratica le due banche crollate (Lynch e Brothers ma anche tutte le altre) appartengono a quei due gruppi che controllano realmente l'economia planetaria: il ramo statunitense dei Rockefeller e quello europeo dei Rothschild: le due ali dello stesso avvoltoio (o aquila calva del Grande Sigillo statunitense).


Nomi di casate storiche ebraiche che si possono citate solo nei libri e/o articoli sul complottismo ma sono invece tabù nella carta stampata o in televisione. Chissà come mai…
Quindi il crollo di grosse banche potrebbe rientrare nel cosiddetto “fallimento controllato”.
Per quale motivo lascerebbero fallire delle proprie aziende?


Lo sfruttamento del Mercato avviene spesso attraverso le cosiddette “Branch” (rami, derivazioni), che vengono create ad hoc per raggiungere determinati obiettivi. Questo ovviamente fino all’esaurimento.
Quando il mercato è stato spolpato ed è divenuto sterile, si chiude la filiale, creata per tale scopo, e gli utili vengono spartiti tra di loro.
Il buco lasciato? Non ci sono problemi: paga Pantalone, cioè il cittadino suddito!


La Lehman Brothers ha dichiarato fallimento, come una qualsiasi azienda che non vuole pagare i suoi creditori. Più semplice di così: quasi 700 miliardi di dollari di debito che sarà rimpinguato dal Governo (con la tipografia ufficiale Federal Reserve) e quindi dai sudditi.
La Merrill Lynch, Fannie Mae e Freddie Mac (le due società con un portafoglio di circa 6000 miliardi di dollari in mutui ipotecari) e le altre idem.
Questo “fallimento controllato” però non riguarda i grossi Imperi che stanno dietro le quinte, ma le “Branch”, cioè i rami collegati, che come in botanica si possono potare quando diventano marci e inutili.


In pratica bruciano i soldi nostri per poi ributtarsi nella mischia come lupi assatanati alla ricerca di nuovi mercati da sbranare.
Dall’altra parte, grazie a questi crash controllati, possono far legiferare ai loro camerieri (politici) leggi che stringono ulteriormente le libertà individuali di tutti noi, e che non sarebbero mai passate altrimenti.
Certamente faranno saltare altre banche d’affari, d’investimento, assicurazioni, società mutualistiche (la prossima sarà AIG, American Internationale Group, la più grande società di assicurazioni del mondo, anche se verrà salvata in extremis dal governo): 1929 docet.
Di una cosa però in tutto questo scenario i Burattinai non hanno tenuto conto: tale crisi sistemica dei mercati e delle finanze, pur se controllata, avrà sempre la funzione pedagogica di far prendere coscienza a molte persone di tutto questo Sistema e anche delle possibili soluzioni.


Coscienza che il Sistema è in metastasi e che non potrà quindi avere una vita lunga con le cure allopatiche odierne: iniezioni di liquidità, stampa di moneta, chirurgia bancaria, ecc.
Coscienza che il denaro è un mezzo e non un fine, e che possiamo acquistare (merci e prodotti) SOLO perché NOI lo accettiamo (il denaro).
Un pezzo di carta, un foglietto, uno “Sconto che cammina”, uno Scec, per fare solo dei piccoli esempi, hanno lo stesso valore del denaro: basta accettarli!
La vera guarigione avverrà nel momento in cui si passerà da un Sistema luciferico centrato nel dio denaro e nel potere dell’uomo sull’uomo, ad un Sistema dove invece è l’Uomo al centro e il collante l’Unione e la Solidarietà.



I Grandi Manipolatori possono far crollare decine di banche, piazzare l’esercito nelle città, installare videocamere e microfoni ovunque (cose che stanno realizzando), mettere in ginocchio milioni di persone, far esplodere la bolla immobiliare, ma non possono proprio far nulla a livello di Coscienza Individuale.
Su questo terreno i Rothschild, Rockefeller e tutti gli altri possono solo stare a guardare…(e con invidia).


Marcello Pamio

Il buco nero delle assicurazioni



È un colosso delle assicurazioni il nuovo epicentro della crisi finanziaria mondiale. Si chiama American International Group (Aig) il "buco nero" che nella sua implosione può risucchiare nuove perdite e fallimenti a catena, con ripercussioni nel mondo intero.

La bancarotta di Lehman Brothers appare già un capitolo di storia lontano, mentre incombono preoccupazioni più gravi. La compagnia assicurativa Aig non è solo una delle più grandi del pianeta, con centomila dipendenti. Occupa un posto speciale nel mezzo di una complessa ragnatela di rapporti finanziari con centinaia di banche. Perciò la notizia del declassamento di Aig da parte delle agenzie di rating Standard&Poor e Moody’s ha aperto un nuovo fronte di pericolo. Il peggioramento della sua solvibilità finanziaria può essere l’anticamera del fallimento. Ieri mattina David Paterson, il governatore dello Stato di New York (da cui dipende per legge la vigilanza sulla compagnia assicurativa) è stato lapidario: «In queste condizioni Aig ha un giorno di vita». L’ultima speranza è una cordata d’investitori che sarebbe pronta a rilevare l’Aig. La guida, ironia della sorte, il fondatore Maurice Greenberg che fu defenestrato dai vertici della compagnia per irregolarità contabili.

Il crollo del colosso assicurativo è un evento di cui nessuno riesce a prevedere l’impatto, se non che sarà disastroso. La compagnia infatti non esercita soltanto attività assicurative tradizionali. Ha sviluppato, con un’importante divisione a Londra, un intero business speculativo sui titoli derivati, compresi i titoli "infami" che sono il frutto della cartolarizzazione dei mutui. E c’è di più. Aig si è lanciata da tempo in un altro business finanziario, i "credit default swaps" (Cds).All’origine si tratta proprio di contratti assicurativi. Il rischio contro cui essi proteggono riguarda l’insolvenza di molteplici soggetti economici. In una fase come questa dove i fallimenti si susseguono a valanga, questo business è diventato una palla al piede per Aig. Inoltre i "credit default swaps" con il tempo hanno assunto vita propria, sono diventati a loro volta degli strumenti altamente speculativi. Con una perversione della loro vocazione originaria, i Cds sono diventati un modo per scommettere sui fallimenti (dei titolari di mutui, delle aziende, delle banche) e guadagnarci sopra. Se per una parte del mondo della finanza essi continuano a essere una indispensabile copertura del rischio-clienti, per un’altra parte sono uno strumento di speculazione ribassista. E il business dei Cds è sfuggito ad ogni controllo. La lievitazione di questi strumenti è impressionante. Nell’insieme il volume delle esposizioni su questo mercato supera i 60.000 miliardi di dollari, il quadruplo del Pil americano. L’Aig è un protagonista centrale di questo settore. Travolto dall’impossibilità di onorare tutti quei contratti anti-fallimento, a sua volta con il suo crac può affondare l’intero sistema. Un esempio delle diramazioni internazionali: ieri la banca svizzera Ubs ha perso il 24% in Borsa, nonostante abbia garantito di avere chiuso tutti i rapporti con Aig dopo una perdita di 300 milioni di dollari.

L’importanza dell’American International Group spiega la frenesia con cui le autorità Usa si affannavano ieri attorno al suo capezzale. Lo Stato di New York, facendo una trasgressione clamorosa alle sue stesse leggi che regolano i comportamenti prudenziali delle assicurazioni, ha autorizzato Aig a farsi prestare 20 miliardi di dollari dalle sue filiali. Praticamente l’azienda ha avuto un nulla osta inaudito per infilare le mani nella cassa del ramo-vita e del ramo-rischi, con buona pace dei suoi clienti. Non è bastato. A riprova che l’intera stabilità del credito è in gioco, sul caso Aig è intervenuta la Federal Reserve, "sconfinando" nel settore assicurativo che esula dalle sue competenze. La Fed ha intimato a JP Morgan Chase e Goldman Sachs di mettere assieme un prestito-ponte di 75 miliardi di dollari: la bombola d’ossigeno per mantenere in vita il gigante assicurativo. Uno degli effetti del declassamento del rating, infatti, è che automaticamente molti creditori devono richiedere il rimborso di titoli derivati. Un’emorragia di liquidità che Aig non è in grado di fronteggiare. Mal’ipotesi di un nuovo salvataggio pubblico è stata attaccata da John McCain, candidato repubblicano alle presidenziali. "Lasciamo che Aig fallisca", è stato il suo commento. Dopo i costi sopportati dalle finanze pubbliche per il crac di Bear Stearns (30 miliardi di garanzie dalla Fed all’acquirente JPMorgan) el’onere incalcolabile della nazionalizzazione di Fannie Mae e Freddie Mac (200 miliardi la stima più ottimista), i repubblicani non vogliono affrontare le presidenziali con un deficit pubblico allo sbando. Se regge la linea del rigore applicata alla Lehman - o se JP Morgan e Goldman Sachs non trovano i "prestatori" volonterosi per 75 miliardi di dollari - il destino dell’Aig è segnato: un’altra bancarotta. A meno che intervenga il "cavaliere bianco" Greenberg con la sua cordata di investitori privati.

Dall’inizio di questa crisi di dimensioni storiche, le perdite totali per il sistema bancario - che il Fondo monetario internazionale stimava a 950 miliardi di dollari salgono verso i 1.500 miliardi. Le voci di difficoltà lambiscono le due ultime merchant bank sopravvissute, Morgan Stanley e Goldman Sachs (i cui risultati sono crollati del 70%). La più grande cassa di risparmio americana, Washington Mutuai, anch’essa vicina al fallimento, potrebbe essere "ingoiata" da JP Morgan. Come nell’acquisizione di Merrill Lynch da parte di Bank of America, queste operazioni decise nel nome della stabilità sistemica e dell’interesse nazionale avranno costi pesanti: ristrutturazioni e licenziamenti di massa.

L’ondata di sfiducia è inarrestabile e lo si è visto nell’impennata del costo del denaro. In una sola notte sul mercato interbancario americano è raddoppiato il costo per ottenere prestiti: il tasso Libor è schizzato da 3,20% a 6,44%, ritrovando i massimi dell’ 11 settembre 2001. La paralisi del credito e il dilagare della paura provocano scosse sismiche anche nella valutazione del rischio-sovrano. E’ sintomatico il balzo che ha subito il rischio-Italia. Il differenziale tra i rendimenti dei nostri Btp decennali e gli equivalenti Bund tedeschi è salito di 74 punti raggiungendo un massimo storico: il record dalla nascita della moneta unica nel gennaio 1999.

di Federico Rampini


Le banche centrali hanno il compito di effettuare la politica monetaria, di regolamentare e controllare il sistema bancario, di gestire al meglio gli strumenti a loro disposizione per conto degli Stati. Guardiamo un po’ le carte

Gestione delle risorse.
Sul web tutte le banche centrali pubblicano, fra le altre cose, le loro relazioni annuali dalle quali si evincono moltissimi dati. Nella tabella che segue ne sono estratti alcuni relativi agli ultimi dieci anni.

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Nella prima colonna sono riportate le banconote in circolazione; nella seconda gli interessi attivi relativi alle riserve connesse al circolante; nella terza quanto è fatto pervenire allo Stato sia sotto forma di imposte, sia sotto forma di “suddivisione” degli utili. La seconda colonna rappresenta quindi il signoraggio denominato “costo opportunità” ripetutamente menzionato, semplicemente come “signoraggio”, nella nota integrativa della relazione annuale alla voce “banconote in circolazione (il “signoraggio monetario” invece è connesso alle monete senza riserva, come le monete metalliche ed i biglietti di Stato, ad esempio le monete di carta da 500 lire emesse in Italia dal 1966 al 1979 direttamente dallo Stato in sostituzione di quelle d’argento con le tre caravelle).
Ovviamente vanno considerate le spese per la struttura, i compensi alle banche per le riserve obbligatorie, gli investimenti diversi da quelli relativi alle riserve al circolante, ecc.; la relazione annuale è ricca di dettagli, nonché esaustiva.
I tre parametri sottolineati, circolante, interessi attivi e somma da dare allo Stato, sono comunque assai significativi.
Il circolante, ovvero le banconote in circolazione, è la prima voce del passivo dello Stato Patrimoniale e si configura come un debito non fruttifero.
Gli interressi attivi, ovvero il costo opportunità, sono la prima voce del Conto Economico.
L’ammontare da dare allo Stato è la somma delle imposte e della suddivisione degli utili, collocate di solito fra le ultime voci ed alla fine dello stesso Conto Economico.
In definitiva bankitalia negli ultimi 10 anni ha incassato oltre 33 miliardi di € di “costo opportunità” ed allo Stato non è arrivato nulla, a causa degli anni “terribili” 2002, 2003 e 2004.
Vediamo cosa è successo alle banche centrali degli altri Paesi più importanti nello stesso periodo.

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Tutte le altre banche centrali hanno gestito in maniera più proficua gli strumenti a loro disposizione. Eccellente quella spagnola, che in 10 anni ha dato allo Stato quasi 33 miliardi di € pari al 61% della media delle banconote in circolazione, ma ottime anche la canadese, l’inglese, la statunitense e la tedesca (se bankitalia avesse operato come quella spagnola, considerando gli interessi composti, ci saremmo abbondantemente evitati la finanziaria ’06 da 35 miliardi del governo Prodi/Padoa-Schioppa, che è costata parecchio alla sinistra italiana in termini di consensi).
Sottolineo che la banca centrale statunitense è privata come la nostra, ma non ha avuto risultati così modesti, come la nostra.
Gli anni “terribili” le altre banche centrali li hanno sofferti in maniera assai minore, e comunque non sono coincisi temporalmente; ad esempio il peggior anno della BdE è stato il 2004 mentre il peggiore di BdI è stato il 2002.
Potremmo dire che bankitalia è stata “sfortunata”.

Regolamentazione e controllo del sistema bancario.
Qui bankitalia soffre la “distrazione” dei privatizzatori (1 e 2): si sono dimenticati di stralciare la proprietà di bankitalia al momento della svendita delle banche proprietarie della medesima, coi seguenti risultati:
- il nostro oro, le nostre riserve, ecc. sono formalmente dei partecipanti (3), ma non nella sostanza, perché l’utile (si fa per dire) viene comunque quasi tutto dato allo Stato;
- i controllati sono proprietari dei controllori.
Insomma un bel pasticcio.
Insistere su questo punto è come sparare sulla Croce Rossa. Solo la FED è nella medesima condizione. Quando Tremonti parla di topi e formaggio non fa che sottolineare l’ovvio.
Non c’è da stupirsi se Mario Draghi, presidente del Financial Stability Forum di Basilea, parla spesso di incentivi alle banche.

Politica monetaria.
Da qualche anno bankitalia non è più titolare della nostra politica monetaria. Non so se è un bene o un male. Da quando Andreatta ha avuto la brillante idea di togliere la PM alla politica (4) il nostro debito pubblico è passato dal 60% ad oltre il 124% del PIL mediante l’imposizione di tassi enormemente superiori all’inflazione (5) sul modello argentino alla Friedman (6). Se fossimo rimasti con la politica monetaria della nostra banca centrale, fissata con i tassi elavati “voluti dal mercato”, ora avremmo, fatte le dovute proiezioni, il debito pubblico ad oltre il 200% del PIL. Il mantenimento del TUS così elevato per così lungo tempo ha prodotto, oltre all’esplosione del debito pubblico, due importanti risultati:
- le imprese trovavano più giovamento ad investire in titoli del debito pubblico che in ricerca, innovazione, ecc.;
- la beffa del premio agli evasori che da un lato omettevano di pagare le imposte, dall’altro venivano omaggiati sull’evaso con i tassi elevati.
Infatti, appena i tassi sono calati per l’avvento della moneta unica, anche la nostra inflazione si è allineata a quella degli altri Paesi. Per anni abbiamo pazientemente ascoltato il governatore di turno lagnarsi della nostra inflazione elevata procurata proprio dalla sua folle PM. Siamo proprio un paese di “santi”. Sarei curioso di vedere cosa sarebbe successo alle economie francese e tedesca se si fossero trovate con una PM alla Friedman, sconfessata da lui stesso prima di lasciarci.
Ambienti vicini a D’Alema hanno auspicato per il PD un nuovo leader ed è venuto fuori il nome di Filippo Andreatta (7), figlio di Nino. Si vede che D’Alema aspira per il nostro Paese ad un rapporto debito PIL di tipo giapponese (nel Paese del sol levante quel rapporto è quasi al 200%).

Condoni.
Da L’ESPRESSO del 19 dicembre 1982.
“… troppa premura è stata mostrata dalla Banca d’Italia nel sollecitare il condono fiscale, per sé e per tutte le altre banche. L’impressione che ne è scaturita è che l’intero sistema creditizio avesse più di un peccato da farsi perdonare dal fisco. Anche a costo di pagare un prezzo salato, di decine e decine di miliardi. Impressione che non ha certo giovato al prestigio della Banca d’Italia, la quale, in qualche modo, è apparsa come la capofila d’una istanza corporativa del sistema bancario italiano.”
Sarebbe bello sapere se anche la altre banche centrali hanno dovuto ricorrere a siffatti strumenti non proprio “ortodossi”.

Banana Central Bank
Un tocco “esotico” non guasta. Forse non tutti sanno che:
- nella seconda edizione di “Euroschiavi” di Marco Della Luna ed Antonio Miclavez, Arianna editore c’è scritto: “alle isole Cayman sono stati trovati i seguenti conti: 700 26891 A01 N BANCA D'ITALIA UFFICIO RISCONTRO VIA NAZIONALE, 91 I-00184 ROMA ITALIA; 709 27154 A01 N BANCA D'ITALIA SERVIZIO RAPPORTI CON L'ESTERO, UFFICIO RISCONTRO 2484 VIA NAZIONALE, 91 I-00184 ROMA ITALIA”;
- sul web (8): “La Banca d'Italia nel 1994, tramite l'Ufficio italiano cambi (Uic), è entrata - con 100 milioni di dollari - in una società controllata dall'Hedge Fund Ltcm e costituita nel paradiso fiscale delle CAYMAN ISLAND dai soci promotori dello stesso Ltcm !!!”
- su Corsera del 26-10-95: il Financial Time ha scritto che per questo investimento la Banca d'Italia ha perso la sua "credibilità morale";
- su Il Sole 24 Ore dell’ 8-10-98: "E' assurdo utilizzare riserve nazionali per investire su un fondo come Ltcm, che era chiaramente speculativo", dichiara Edward Thorp, "padre" degli Hedge Fund americani;
- nel libro “Il Potere del denaro svuota le democrazie” di Giano Accame, ed. Settimo Sigillo, c’è un esplicito riferimento alla presenza della Banca d’Italia alle isole Cayman.
Non sarebbe auspicabile una smentita ufficiale da parte della nostra banca centrale?
Chissà se anche le altre banche centrali hanno queste “zone d’ombra”?

Mi pare che nessuna banca centrale sia in grado di competere con la nostra per l’attribuzione dell’ambito premio BCB. A meno che il suo potentissimo ufficio studi non individui qualche banca centrale esotica con prestazioni peggiori e minor amor proprio. Suggerisco di monitorare quella dell’Argentina, che ha preso troppo per buoni i vaneggiamenti di Milton Friedman.

Lino Rossi

27 settembre 2008

La finanza araba alla conquista di Europa e Stati Uniti





L’ultimo investimento degli sceicchi non è passato inosservato. La squadra di calcio Manchester City è stata comprata dalla società di investimento Abu Dhabi United Group per 250 milioni di euro. La stampa britannica ha parlato molto della recente acquisizione, poiché all’arrivo dei nuovi proprietari ha fatto seguito un altro evento straordinario, l’acquisto del giocatore Robinho per la cifra di 40 milioni di euro, la somma più alta mai pagata per un trasferimento nel calcio inglese. Il gruppo di Abu Dhabi non si limiterà solo a sanare i debiti della società, è intenzionata a comprare presto i migliori giocatori per formare la squadra più forte del mondo. L’artefice dell’investimento è il giovane Sulaiman Al Fahim, amministratore delegato della società di costruzioni Hydra Property. “Nei prossimi quattro mesi rinforzeremo il City in modo tale da renderlo irriconoscibile”, così ha dichiarato il nuovo presidente. Nessun acquisto sembra ora impossibile per il club calcistico più ricco del mondo.

L’ingresso di una compagnia araba nella Premier League inglese è solo uno dei più recenti acquisti condotti in Europa dai capitali del Golfo Persico. Negli ultimi anni società e fondi d’investimento arabi hanno rilevato di continuo quote di importati società e di listini di borsa. Secondo gli analisti economici, tali mosse servono per connettere le piazze d’affari del Medio Oriente con i più importanti mercati finanziari mondiali. Infatti, quando nel mese di giugno la borsa del Qatar ha stretto un accordo con il gruppo Nyse Euronext, holding alla quale appartiene la borsa di New York, il primo ministro qatarino Hamad bin Jassem al-Thani ha commentato così l’affare: “I nostri mercati finanziari faranno parte integrante di un gruppo che collega insieme i maggiori centri finanziari mondiali attraverso Europa e Stati Uniti ed ora anche attraverso il Medio Oriente”.

I capitali arabi sono sempre più interconnessi alle borse mondiali grazie ai numerosi investimenti condotti nelle compagnie statunitensi ed europee. Quando nel marzo 2006 la società Dubai Ports World comprò la britannica P&O, colosso mondiale nel settore portuale, la polemica politica negli Usa fu accesa. Una conseguenza dell’acquisizione sarebbe dovuto essere il controllo da parte della società araba dei maggiori porti della costa atlantica americana. L’arrivo del capitale di Dubai fu visto allora come un “problema di sicurezza nazionale” e il governo dovette bloccare l’investimento degli arabi relativo ai porti americani. Quella polemica è stata però un eccezione poiché, dal 2006 fino ad oggi, le società del Golfo Persico hanno compiuto senza ostacoli molte acquisizioni. Negli Stati Uniti e in Europa hanno portato ingenti liquidità, denaro che è stato accolto senza alcun rifiuto.

Un colosso finanziario che ha investito in società straniere è il fondo sovrano dell’emirato di Adu Dhabi, la Mubadala Development Company. Sono numerose le sigle che fanno parte del suo portafoglio, quote diffuse in molti settori. Il fondo dell’emirato è presente nei capitali di influenti compagnie americane in quanto possiede l’8% della Amd, la società che produce processori per computer, ha acquistato il 7,5% della Carlyle Group, l'importante firma del private equity, e ha stretto una joint venture con la General Electric. La Mubadala in Olanda ha investito nel settore automobilistico ottenendo il 17% della casa Spyker Cars e il 25% della LeasePlan Corporation, società di noleggio auto. In Italia ha comprato il 2% di Mediaset e il 35% di Piaggio Aero, l’azienda ligure di aeronautica.

L’acquisto che ha reso noto il fondo Mubadala nel nostro paese è però la quota del 5% nella Ferrari e la progettazione di un parco tematico dedicato alla casa di Maranello, Ferrari World, che sorgerà ad Abu Dhabi. Il fondo sovrano nel settore aeronautico ha stretto un accordo di collaborazione con il colosso aerospaziale statunitense Northrop Grumman e, nel campo dell’aviazione civile, è diventato azionista di maggioranza della SR Technics, società svizzera di manutenzione aerei. Per lo sviluppo edile della città di Abu Dhabi la Mubadala ha avviato legami con famose sigle straniere. Assieme all’americana Mgm Mirage, società che gestisce numerosi hotel a Las Vegas, sta progettando un MGM Grand Abu Dhabi. Inoltre si è rivolta all’Imperial College London e alla Cleveland Clinic per la realizzazione di moderne strutture ospedaliere.

Il governo di Abu Dhabi infatti, per arricchire la città con edifici capaci di attirare l’attenzione internazionale, ha stretto affari con celebri nomi, luoghi simbolo della cultura mondiale. Nell’emirato é già attiva una sede dell’università francese Sorbonne. Nell’area di Saadiyat Island, l’isola della felicità, sorgerà poi il più grande fra tutti i musei Guggenheim e sarà costruito il secondo museo Louvre. Quest’ultimo accordo è stato stipulato nonostante che in Francia oltre 5000 intellettuali abbiano firmato una petizione dal titolo “I musei non sono in vendita”.

Con i fondi degli emirati del Golfo però niente sembra impossibile. Anche i simboli della cultura america posso essere comprati con facilità, come è avvenuto lo scorso luglio quando la Abu Dhabi Investment Council è diventata la proprietaria del Chrysler Building, lo storico grattacielo di New York. La concorrenza degli arabi sta arrivando anche in un settore nel quale gli Usa sono leader mondiali, l’industria dei media. In futuro non ci sarà solo Hollywood ad ospitare le produzioni cinematografiche. La Abu Dhabi Media Company ha comprato quote della Warner Bross e, per la coproduzione di film, ha fondato la società Imagination Abu Dhabi, mentre nella vicina Dubailand è in programma la costruzione degli Universal Studios Dubai.

L’attenzione degli economisti è stata attirata proprio dai molti investimenti provenienti dagli Emirati Arabi Uniti verso le grandi compagnie americane. Lo scorso anno la Abu Dhabi Investment Authority ha rilevato il 4,9% di Citigroup, azienda in difficoltà dopo la crisi dei mutui subprime. Il colosso bancario ha gradito l’arrivo di 7,5 miliardi di dollari, somma che rappresenta il secondo investimento arabo nella compagnia poiché anche il principe saudita Walid bin Talal possiede una quota vicina al 5%. Il governo di Abu Dhabi ha inoltre stretto joint ventures con giganti del settore energetico come Exxon Mobil e Shell.

Un altro colosso finanziario proveniente dal Golfo Persico che ha avviato acquisizioni all’estero è il fondo sovrano Dubai International Capital, uno dei rami della Dubai Holding. Negli ultimi anni ha comprato il 4,9% della Sony, prima compagnia nel mondo per l’elettronica di consumo, e il 9,9% di Och-Ziff Capital Management Group, società americana che gestisce investimenti. Il fondo arabo ha rilevato quote di importati società come la banca inglese Hsbc, il gruppo automobilistico DaimlerChrysler, il gruppo produttore di componenti per la meccanica Doncasters Plc e gli alberghi dell’inglese Travelodge Hotels. Nel settore dell’aeronautica la Dubai International Capital è fortemente entrata nel mercato mondiale acquistando il 3,12% di Eads, il colosso aerospaziale europeo che controlla il consorzio Airbus. Quest’ultima società si è mostrata interessata all’affare poiché uno dei suoi maggiori clienti è proprio la Emirates, compagnia che le ha commissionato 55 velivoli del modello A380, il nuovo aereo di lusso con suites, letti e docce.

Non solo Abu Dhabi e Dubai sono i protagonisti di tali manovre economiche, anche i vicini stati si muovono nella medesima direzione. La Qatar Investment Authority ha acquistato il 5% della banca svizzera Credit Suisse e quote del gruppo finanziario Barclays, mentre il fondo sovrano del Kuwait è entrato nel capitale del colosso americano Merrill Lynch. I mercati finanziari del Golfo Persico sono dunque sempre più interconnessi alle piazze d’affari mondiali. Il fenomeno è stato reso evidente in particolare quando lo scorso anno la borsa di Dubai ha acquistato il 28% del Nasdaq e nello stesso periodo la Qatar Investment Authority ha rilevato il 20% della borsa di Londra e il 9,98% di Omx, la società che gestisce i listini azionari dei paesi scandinavi e baltici.

Per le piazze d’affari i capitali dei paesi del Golfo Persico sono ovunque benvoluti. Soprattutto negli ultimi tempi di crisi finanziaria negli Stati Uniti e in Europa, dopo il crollo dovuto ai mutui subprime, le recenti nazionalizzazioni di Fannie Mae e Freddie Mac e la bancarotta della Lehman Brothers, il bisogno di liquidità sembra oggi più che mai una risorsa essenziale. “Una boccata d’ossigeno”, proprio così molti analisti hanno definito ogni investimento proveniente dal Medio Oriente. E se senza ossigeno non si può vivere, probabilmente in futuro crescerà sempre di più l’influenza di banche e fondi del Golfo Persico sull’economia mondiale.



di Marco Montemurro

Il crack americano



Con il sistema finanziario internazionale in ginocchio, da giorni gli addetti ai lavori si chiedono che cosa stessero facendo le autorità di vigilanza americane mentre il mercato veniva sistematicamente imbottito di carta straccia. In particolare la tanto rinomata Federal Reserve, ultimamente tanto attiva nel distribuire soldi a destra e manca per fermare l'emorragia, dov'è stata per tutti questi anni?

Il resto di noi si pone invece una domanda più terra terra: di chi è la colpa? Il Sole 24 Ore ha voluto ricostruire le origini e il decorso di questa crisi nel tentativo di trovare risposta a questi interrogativi. E, laddove possibile, puntare il dito su chi ha specifiche responsabilità.

LA COLPA ORIGINALE
Il primo nome che merita di essere fatto è quello di Phil Gramm, oggi principale consigliere economico di John McCain e ritenuto papabile per il ruolo di Segretario del Tesoro in un'eventuale amministrazione repubblicana. Dieci anni fa, Gramm era in Congresso dove occupava la poltrona di presidente della "Commissione banche, edilizia e affari urbani" del Senato. Non era mai stato un fan della regulation.

E si adoperava come nessun altro politico perché il sistema finanziario Usa fosse il meno regolato possibile ( negli anni la comunità finanziaria americana lo ha ringraziato con contributi elettorali per un totale di 4,6 milioni di dollari). La sua più grande vittoria politica la ottenne il 12 novembre 1999, quando venne ratificato dal presidente Clinton il Gramm-Leach-Bliley Act, la più radicale riforma bancaria dagli anni della Depressione.

Commentando quella legge, il governatore della banca centrale Laurence Meyer parlò all'epoca di dispositivi "Fed-light". E cioè di una regolamentazione molto più soft di quella precedente. Pur confermando il ruolo che aveva la Federal Reserve di supervisore supremo sul sistema finanziario, la legge ne limitava significativamente il potere di controllo su soggetti come le banche di investimento e gli istituti di credito ipotecario i cui organi di controllo primari erano la Security Exchange Commission (la Consob americana) e i singoli Stati.

Alcuni mesi dopo, Gramm riuscì a imporre il suo punto di vista anche sul mercato delle commodities, inserendo nella finanziaria del 2000 un emendamento di 262 pagine, il Commodity Futures Modernization Act, che deregolamentava il trading di derivati. In particolare il trading di Credit Default Swap, o Cds, contratti privati tra controparti che scommettono, l'una contro l'altra, sulla probabilità di default di un debitore.

Seppur creati per fornire una protezione da un rischio, i Cds avevano un enorme potenziale speculativo perché potevano essere utilizzati anche per scommettere su un evento catastrofico altrui. In questo secondo scenario, un prodotto nato per ridurre il rischio speculativo poteva diventare un acceleratore di quel rischio e quindi un elemento di forte squilibrio e distorsione del mercato. Con l'emendamento di Gramm, il trading di Cds non avrebbe più avuto supervisione alcuna. Né da parte della Sec, né della Commodity Futures Trading Commissione, né dal Tesoro. Né tantomeno della Fed.

IL CREDITO FACILE
E veniamo agli anni di George W. Bush. Il 18 giugno 2002, il successore di Clinton annunciò la propria intenzione di allargare il mercato dell'acquisto della prima casa a chi aveva redditi bassi e alle minoranze: «Diventare proprietari della propria casa è un modo di realizzare il sogno americano, e io voglio estendere il sogno a tutto il Paese», disse Bush.

Scendendo nei dettagli, aggiunse: «La gente spesso vorrebbe comprare una casa, ma non ha soldi per l'anticipo. E a questo c'è rimedio... Altro problema: i contratti sono troppo complicati. La gente è scoraggiata da tutte quelle clausole. Ci sono troppe parole! Quindi faremo sì che venga semplificata la documentazione richiesta ... Infine, abbiamo bisogno di maggiori capitali per gli acquirenti a basso reddito. E sono oggi fiero di annunciare che Fannie Mae ha recepito questo bisogno ... e che anche Freddie Mac è disposto a fare la sua parte».Da parte sua,l'opposizione non aveva interesse a mettersi di traverso: i democratici non potevano infatti ostacolare una politica che dava accesso alla casa ai ceti meno abbienti.

In quel momento, il sistema finanziario e l'economia americana stavano riprendendosi da due durissimi colpi: lo scoppio della bolla di internet che nel corso dei due anni precedenti aveva bruciato circa 3mila miliardi di dollari di valore in Borsa, e l'attacco dell'11 settembre. La scelta di Bush fu quella di assicurare la crescita economica sostenendo i consumi. «In un modello di bassi salari come era quello americano, il sostegno al consumo poteva venire solo in un modo: con il credito. Ed è proprio grazie alla politica creditizia di manica larga fatta dalla Fed fino al 2004 che si spiega buona parte del differenziale di crescita tra Usa ed Europa », dice un ex banchiere centrale europeo oggi al vertice di una grande banca.

Il 2002 è anche l'anno dell'esplosione delle emissioni delle cosiddette asset-backed securities (Abs), cioè titoli garantiti da pacchetti di prodotti sottostanti, per lo più prestiti. In particolare parliamo delle cartolarizzazioni di mutui residenziali con le quali le banche commerciali cominciarono a cedere il controllo del credito immobiliare a Wall Street, dove però non c'era lo stesso grado e soprattutto la stessa qualità di sorveglianza. E dove, in seguito anche alla riforma di Gramm, la Fed non aveva compiti di vigilanza.

«Per l'amministrazione Bush, le cartolarizzazioni rappresentavano una sorta di quadratura del cerchio, perché permettevano di aumentare il credito senza mettere a rischio le banche, le quali non avevano più incentivi per essere selettive con i debitori. I rischi dei mutui venivano infatti trasferiti agli investitori, inclusi quelli stranieri», aggiunge l'ex banchiere centrale. «Oltre a esternalizzare il rischio, in questo modo l'America riusciva anche a finanziare i propri consumi con i capitali delle banche e degli investitori stranieri».

IL NUOVO MODO DI FARE BANCA
A partire dal 2002, con il boom di securities di seconda o terza generazione,e cioè dei cosiddetti derivati sintetici, sempre più lontanamenti imparentati con i mutui originali, come le Collateralized debt obbligation (o Cdo) e i già citati Credit default swap, le cartolarizzazioni si affermarono come un nuovo modo di fare banca. «A fronte di strumenti finanziari e modelli di business nuovi- con le banche che originavano e distribuivano anziché originare e tenersi il rischio - il sistema di vigilanza Usa avrebbe dovuto adeguarsi, chiedere maggiori requisiti di capitale, creare un mercato ad hoc per gli Abs con requisiti/margini di liquidità minimi.Invece sono mancati screening periodici forti sul cosiddetto liquidity gap, i controlli sugli erogatori del credito e i cosiddetti stress test.In pratica non sono stati adottati segnali d'allarme», commenta il dirigente di un'agenzia di vigilanza europea.

Per i primi anni tutto filò comunque liscio. Anzi, sembrava una sorta di magico circolo virtuoso in cui ognuno avrebbe solo guadagnato: i cittadini non abbienti compravano casa pur non avendone i mezzi, i broker che avevano piazzato i mutui guadagnavano più commissioni, i grossisti che rastrellavano mutui facevano più profitti, le case d'investimento che impacchettavano e cartolarizzavano- i cosiddetti arranger- incassavano fee da favola, i reimpacchettatori ne percepivano altre ancora maggiori e gli investitori si trovavano a disposizione prodotti specialistici molto redditizi su cui investire a seconda delle loro esigenze, con efficienze prima impensabili (per esempio, le società di assicurazione con polizze a 30 anni potevano comprarsi prodotti contenenti solo mutui dello stesso periodo).

L’INSOSTENIBILITÀ DEL MODELLO
In realtà, nel medio e lungo termine, il modello di business era insostenibile. Perché il pool di mutui di qualità era limitato, mentre Wall Street aveva un continuo bisogno di volumi sempre maggiori di materia prima- cioè nuovi mutui ipotecari. La fortissima domanda portò a una rapida riduzione della qualità della materia prima. Finché, a partire dal 2005, si cominciò ad alimentare la rete di rifornimento finanziario con mutui sempre più " tossici". «Il vintage, e cioè l'anzianità dei mutui sottostanti, è un indicatore di qualità. Le securities con vintage precedente al 2005 sono le migliori. Dopo il 2005 si trova invece paccottiglia di ogni genere»,spiega l'ex banchiere centrale.

A contribuire all'aumento della "tossicità" dei mutui fu anche un altro sviluppo nella po-litica di de-regolamentazione finanziaria di Bush. Il 7 gennaio 2004 l'Office of the Comptroller of the Currency, la branca del Dipartimento del Tesoro che governa le banche, aveva deciso che le banche multistatali sarebbero state esentate dalle normative statali contro il "credito predatorio". Già allora ci fu chi lo ritenne un invito all'abuso.E gli abusi prontamente arrivarono. Anche perché, proprio quell'anno, la Federal Reserve aveva cominciato a rialzare il tasso di sconto.

ENTRANO IN CIRCOLAZIONE I MUTUI PEGGIORI
Cominciarono a diffondersi mutui con teaser rate, tassi-civetta che iniziano molto bassi ma poi esplodono,mutui low-doc oppure nodoc, la cui istruttoria era fatta con scarsa documentazione o addirittura senza alcuna documentazione ( che passarono dal 28% del totale dei sub-prime nel 2001 al 50% nel 2006). Peggio ancora:arrivarono i mutui con l'opzione di non pagare né interessi né capitale per i primi due o tre anni.

«Il cuore della vigilanza è il controllo dell'attività di credito, per assicurarsi che le banche facciano un corretto processo di affidamenti valutando le iniziative buonee dando credito a chi ha la possibilità di rimborsarlo. Invece su questo fronte, non venne fatto proprio niente», commenta l'ex banchiere centrale.

Essendo latitante la vigilanza sul credito ipotecario (perché gli Stati non avevano una visione globale e la Fed era stata tenuta fuori), cominciarono a entrare in circolo pacchetti all'ingrosso con mutui a orologeria che raggiungevano l'80%del totale.Ma per gli arranger cambiava poco. L'importante era avere nuova materia prima da trasformare in prodotti lavorati da immettere nel mercato.

C'è da dire che in quella lavorazione si cimentavano alcune delle migliori menti matematiche al mondo, che costruivano modelli di finanza quantitativa molto complessi con sofisticate miscele di diversificazione intese a ridurre il rischio. In più, non ci fu mai alcuna negligenza o disinformazione nella presentazione al mercato del prodotto: era detto apertamente che il sottostante era fatto di mutui subprime.

A presentare come buoni quei lavorati, erano le più grandi agenzie di rating al mondo. «Il classico specchietto per le allodole era la tripla A delle agenzie di rating»,spiega l'ex banchiere centrale. «E ad assegnarla non erano le case d'investimento.Erano le agenzie di rating». E qui il pensiero va subito al conflitto d'interessi intrinseco nel meccanismo di compen-sazione delle tre grandi agenzie: a pagare Moody's, S&P e Fitch per il loro lavoro di rating erano infatti gli stessi arranger che dovevano piazzare il prodotto sul mercato.

Ma occorre anche dire che quei rating non venivano assegnati al buio. Erano il frutto di modelli storico-matematici dai quali risultava estremamente improbabile che si verificasse una percentuale di insolvenza dei mutui sottostanti necessaria per intaccare l'investimento. Che in questo caso invece superava il 15% del totale su pacchetti sempre meticolosamente diversificati. Storicamente non era mai successo che si superasse quel tetto di insolvenza. Il problema era che, storicamente, le istruttorie sui mutui erano sempre state molto più selettive. «Venendo meno la qualità delle istruttorie sono saltati anche i modelli matematici»,dice l'ex banchiere centrale.

A fornire comunque un'ulteriore garanzia sullaqualità dei prodotti erano case d'investimento terze o società di assicurazione, come la Aig. In caso di default se ne sarebbero insomma fatte carico loro. «Il fatto che società come Aig non esitassero a sostenere quei prodotti, segnalava al mercato che il loro rischio era limitato », osserva uno dei maggiori avvocati d'affari americani che preferisce non essere citato.

IL BOOM DEL 2006
Nel 2006, grazie anche a queste securities (che arrivarono a rappresentare il 33% del reddito totale, contro il 13% del 2000), le cinque grandi case d'investimento di Wall Street - Merrill Lynch, Bear Sterns, Lehman Brothers, Goldman Sachs e Morgan Stanleydichiararono profitti per 130 miliardi di dollari. Altrettanto da record furono i compensi dei loro amministratori delegati.Solo per parlare delle banche ormai defunte: Stanley O'Neal,di Merrill Lynch,portò a casa 47,3 milioni di dollari, James Cayne, di Bear Sterns, 14,8 milioni e Richard Fuld, di Lehman, 10,9.

«Io non ho mai avuto la sensazione che a Wall Street avessero subodorato che c'era qualcosa che non andava nei sottostanti. Erano troppo lontani dall'erogazione dei mutui subprime per accorgersene», aggiunge l'avvocato d'affari. «Sono convinto che le grandi case di investimento non sapessero di vendere immondizia ». La nostra inchiesta ci porta a confutare questa valutazione. Non tanto perché chiunque avesse analizzato il mercato dei mutui avrebbe visto che dopo il 2004 i fondamentali non quadravano più: i dati economici dicevano che i redditi stavano scendendo mentre i tassi stavano aumentando,com'era quindi possibile che la generazione di nuovi mutui per la prima casa non desse segno di rallentamento?

L'INTEGRAZIONE VERTICALE
A contraddire l'avvocato d'affari è piuttosto il grado di integrazione verticale che abbiamo scoperto esserci stato tra gli originator sul campo- cioè i fornitori dei mutui- e gli arranger a Wall Street. Nel corso degli anni del boom di queste cartolarizzazioni, tutte le case d'investimento si erano messe in pancia istituti specializzati proprio nella lavorazione all'ingrosso di mutui subprime. Lehman aveva comprato Harbourton Mortgage Investment Corp, BNC Mortgage Inc e Finance America LLC. Bear Sterns aveva preso EMC Mortgage Corp e Encore Credit Corp. Merrill Lynch aveva acquisito First Franklin Financial Corp, Nation Point e National City Home Loan Services.

A spiegare i motivi di queste acquisizioni è l'analista finanziario Jeffrey Levine,di Milestone Advisors: «Primo,servivano a garantire una fonte di produzione di materia prima per le cartolarizzazioni. Secondo,a intascare anche i profitti dei fornitori. Terzo,ad avere market intelligence per lo sviluppo di nuovi prodotti ».

L'ironia è che nella stessa documentazione depositata presso la Sec, abbiamo trovato prove dell'integrazione tra originator e arranger. Nel bilancio annuale depositato nel 2006 da Fremont General, uno dei più grossi istituti di credito a orologeria del Massachusetts, si legge:«La società ha cercato di massimizzare i profitti... monitorando attentamente i requisiti richiesti dagli acquirenti istituzionali dei mutui, dalle agenzie di rating e dagli inve-stitori. Ci siamo conseguentemente focalizzati su attività di produzione dei tipi di mutui che meglio rispondevano a quei requisiti».

La conferma più esplicita è venuta da William Dalls, amministratore delegato di Ownit, il quale ha dichiarato al New York Times che gli investitori istituzionali- e Merrill Lynch in particolare - avevano specificatamente chiesto di offrire più mutui low-doc,dicendogli che se non lo avesse fatto avrebbe perso grosse opportunità di profitto.

Continuando a salire nella catena di alimentazione, si nota che le banche di investimento erano anche proprietarie di Special Purpose Entity, cioè quei veicoli speciali registrati sotto forma di trust ai quali venivano conferiti pacchetti di mutui contro i quali emettere le obbligazioni. Il Sole 24 Ore ha appurato che, nel singolo mese del 2005,due veicoli di Lehman cartolarizzarono mutui residenziali per 1.268 milioni di dollari, un veicolo di Merrill Lynch cartolarizzò 1.358 milioni di dollari e uno di Bear Sterns altri 557 milioni. Insomma, con questo grado di integrazione verticale, non si può non attribuire specifiche e dirette responsabilità della crisi a Wall Street.

IL CRACK
La miccia fu l'impennata delle insolvenze e dei pignoramenti registrata nel corso del 2006. All'inizio del 2007 crollarono poi una ventina di istituti di credito specializzati in subprime. A quel punto si aggiunse l'effetto moltiplicatore delle scommesse al ribasso degli hedge fund. «Nei primi mesi del 2007 cominciammoa vedere i primi segnali preoccupanti», spiega l'ex banchiere centrale.«Nei nostri risk meeting interni notammo un maggior tasso di insolvenza e un allargamento degli spread. Allora iniziammo a mollare la posizione e uscire il più possibile dalle cartolarizzazioni ».

Dalle tesorerie delle grandi banche l'allarme si diffuse sul mercato, che smise di sottoscrivere. Il disimpegno degli investitori e il diffondersi dell'incertezza sull'entità e la distribuzione delle perdite nel sistema finanziario, provocò un'impennata della domanda di liquidità che fece schizzare ancora più in alto gli spread. Con il mercato bloccato, le cinque case d'investimento, e Merrill Lynch in particolare, si trovarono in portafoglio grosse quantità di semilavorati che dovevano essere ancora assemblati - prodotti di pessima qualità a fronte dei quali non potevano fare più funding. Tentarono di ricorrere al mercato interbancario per rifinanziare gli attivi immobilizzati, ma invano.

Il contagio ha poi raggiunto il mercato dei Credit default swaps, nel frattempo schizzati a 62mila miliardi di dollari di valore nozionale ( contro i 144 miliardi di 10 anni fa). E chi era uno dei più attivi player in questo mercato? Aig,che tra l'altro era anche garante di molte securities di Lehman.

E adesso? Quanto è stato intaccato il ruolo di riferimento delle autorità americane per il resto del mondo? «La reputazione del sistema di vigilanza ne ha sicuramente risentito, soprattutto perché gli americani sono sempre stati all'avanguardia», conclude il dirigente dell'agenzia di vigilanza europea. «Con questa crisi la loro credibilità si è a mio parere dimezzata».

Il circo Alitalia sull'ottovolante

Come ai tempi di Cogne, di Calciopoli, di Garlasco, di qualsiasi dissestata vicenda che fra i suoi difetti abbia anche quello di non finire mai, l’Alitalia è rapidamente diventata un genere televisivo. Una compagnia di giro agli ordini di qualche regista invisibile attraversa con piglio sicuro i palinsesti, spostandosi di salotto in salotto per ripetere le stesse cose, con lo stesso tono e lo stesso stile, come i personaggi serializzati dei telefilm. C’è il pilota in divisa da pilota, bello e impossibile, amato dal pubblico femminile mentre scuote i capelli corvini e contestato da quasi tutti quando difende i privilegi di casta. C'è il sindacalista della Cgil con la camicia slacciata da sindacalista della Cgil e le occhiaie da maratoneta della trattativa, di quelli che non vogliono mettersi d’accordo ma nemmeno rompere, nei secoli dei secoli. E naturalmente ci sono le hostess, la bionda e la bruna. Rispetto a Cogne e agli altri classici delle stagioni scorse, le uniche novità sono l’assenza di psicanalisti (invece ce ne sarebbe un certo bisogno) e la presenza di un ministro, Maurizio Sacconi, che sa maneggiare i congiuntivi. Questo vezzo abbastanza inopinato potrebbe costargli la conferma nella prossima serie.

Osservando le evoluzioni del circo volante da un canale all’altro, ci si chiede dove i suoi acrobati trovino il tempo di studiare le carte, di parlarsi liberamente o anche solo di pensare. Forse fanno tutte queste cose durante i trasferimenti in taxi. O forse le lasciano ai potenti veri, quelli che lontano dalle telecamere decidono sul serio.


di Massimo Gramellini

Banche europee? Peggio di Goldman Sachs


" Per anni ci hanno bombardati con il mito del capitalismo anglosassone. Il
capitalismo che era pulito perche' li' "fanno sul serio", il capitalismo dove i
bilanci dicono la verita' perche' li' "ti danno 25 anni se sgarri", il capitalismo
"serio" perche' puro, perche' competitivo, perche' trasparente.

Oggi ci troviamo di fronte al crollo del mito, e vediamo la verita'. Un sistema
corrotto ove il fisco non distingue 650 miliardi di dollari di merda da 650 miliardi di
dollari buoni, un sistema di truffatori che vendono un dollaro avendo in tasca solo un
centesimo, un sistema ove se sei una merchant bank non hai controlli, un sistema ove le
certificazioni sui bilanci si comprano al mercato e i bilanci sono favole allo stato
puro.

Ci siamo raccontati che lo stato non doveva aiutare le industrie perche' "veri nei
pasi capitalisti" questo non succede e sono meritocratici senza eccezioni, e la FIAT
aveva scroccato anche troppo, e se un'azienda va male deve fallire perche' il vero
capitalismo, (serio perche' pulito e pulito perche' serio) vuole cosi'. Ebbene,
negli USA lo stato spendera' in totale piu' del PIL italiano per sostenere le proprie
istituzioni finanziarie. E non si tratta di prestiti, ma di regali.

Facciamocene una ragione: il mondo anglosassone e' piu' che altro un mito. La
spietata correttezza che gli attribuiamo, la pulita meritocrazia del predatore che
muore di fame se non corre piu' della preda, la cruda durezza del mercato puro, sono
delle nostre invenzioni. In realta' abbiamo a che fare con un sistema piu' corrotto,
piu' politicizzato, piu' massonico di quello italiano, ove la meritocrazia finisce
se produci un disastro abbastanza grande, in campagna elettorale, da costringere i
partiti (ovvero i candidati) a coprire il buco che lasci.

L' America non esiste. E forse non e' mai esistita, se non nella nostra mente. La
differenza tra noi e loro non risiede nel "come" gestiscono le risorse, ma nella mera
quantita' di risorse che hanno a disposizione per ragioni storiche e
circostanziali. "


di Uriel

Quando il panico travolge le borse del mondo



La storia si ripete con analogie impressionanti. Quel che cambia nei crolli più recenti è l´ordine di grandezza delle ricchezze distrutte, quindi la platea delle vittime

A registrare le reazioni attonite della maggioranza, sembra che ogni crac finanziario colpisca all´improvviso. I sinonimi per descriverlo attingono al vocabolario delle calamità naturali. Terremoto, tempesta perfetta, tsunami. L´affinità è reale: per la dimensione tragica ma anche per la normalità di questi eventi. Proprio come le catastrofi naturali, i crac finanziari sono ricorrenti, quindi terribilmente scontati. Fanno parte del funzionamento fisiologico del capitalismo. Anzi, le loro origini risalgono al proto-capitalismo, visto che uno dei crac più celebri della storia fu il grande panico del febbraio 1637 alla Borsa di Amsterdam, quando dopo due anni di speculazioni forsennate crollarono di colpo le quotazioni dei futures sui bulbi di tulipani. La storia si ripete con analogie impressionanti. Quel che cambia nei crac più recenti è l´ordine di grandezza delle ricchezze distrutte, quindi la platea delle vittime. Si infittisce l´interconnessione tra tutti i settori dell´economia, e tra nazioni molto lontane. Cresce il risparmio popolare investito in strumenti finanziari, nonché la previdenza privatizzata che affida i suoi capitali alle Borse, alle banche, alle assicurazioni. Potenzialmente l´impatto sociale dei crac si fa quindi sempre più profondo: ma per la stessa ragione si è irrobustito l´armamentario delle politiche economiche per attutirne le conseguenze. Infine, grazie alle tecnologie, i crac di oggi hanno ritmi sempre più rapidi. Le crisi di una volta sviluppavano i loro sussulti nell´arco di molti mesi; oggi possono conoscere capovolgimenti straordinari in poche ore. Un annuncio fatto a New York si ripercuote in millesimi di secondo sugli indici di Shanghai e Tokyo, Londra e Mosca.

Visto che oggi l´epicentro di una drammatica crisi finanziaria è in America, va ricordato che la nascita stessa degli Stati Uniti fu tenuta a battesimo da un crac. Il primo presidente, George Washington, era al suo primo mandato quando dovette fronteggiare il primo panico finanziario. All´origine vi fu la spregiudicata speculazione sui titoli pubblici emessi durante la guerra d´indipendenza dagli Stati del Massachusetts e della South Carolina. Nel marzo del 1792 la "bolla" scoppiava, costringendo la neonata nazione a misure di emergenza. Il segretario al Tesoro Alexander Hamilton diede disposizione alle banche di accettare anche titoli scadenti come garanzie per far prestiti e sostenere l´attività economica: qualcosa di molto simile ai vari sportelli d´emergenza creati dalla Federal Reserve di Ben Bernanke in questi mesi per provvedere liquidità al sistema.

Se da oltre due secoli i crac in America colpiscono puntuali come gli uragani, anche la loro dimensione internazionale non è del tutto nuova. Centouno anni fa il grande panico del 1907 fu la prima crisi "globale" del Novecento. Nel solo mese di ottobre l´indice azionario di Wall Street perse il 37% del suo valore, in tutta l´America folle di risparmiatori diedero l´assalto agli sportelli delle banche fra scene di violenza e di disperazione, il sistema del credito rimase paralizzato per settimane. La "tempesta perfetta" di quell´anno ebbe per protagonisti dei giganti della storia, dal presidente Theodore Roosevelt al banchiere J.Pierpont Morgan. Le ripercussioni furono immediate e profonde anche in Europa, e l´Inghilterra dovette accorrere in aiuto agli ex sudditi americani con una spedizione navale di lingotti d´oro. L´eco di quegli avvenimenti non si è mai spenta. La proverbiale superstizione degli investitori chiamò in causa la "maledizione del 1907" quando Wall Street subì un´altro dei peggiori crolli della sua storia, il 19 ottobre 1987, con una caduta del 23% dell´indice Standard & Poor´s 500. Già nel 1908 il finanziere Henry Clews nelle sue memorie indicava tre cause principali del disastro dell´anno precedente che suonano familiari: «L´eccesso di investimenti nel mercato immobiliare; il credito facile; le manipolazioni dell´alta finanza».

Il crac più nefasto resta quello del 1929. Non solo per la violenza della caduta subìta dall´indice Dow Jones, che perse il 13% nella sola seduta del 28 ottobre, seguito dal botto finale nel successivo Black Tuesday, il 29. In realtà a fissare nella storia la gravità di quel crollo furono gli eventi successivi. Per gli errori commessi nella politica monetaria e nella manovra economica del presidente Herbert Hoover, il collasso di Wall Street contribuì a innescare una spirale di protezionismi, la caduta del commercio internazionale, infine la Grande Depressione. Nel 1931 la Borsa americana aveva perso l´89% del suo valore dai massimi del 1929 ma ben più gravi furono le conseguenze sociali. Il mondo intero fu prostrato dalla deflazione: i prezzi agricoli scesero del 40-60%, salari e produzione industriale precipitarono, il tasso di disoccupazione in America arrivò al 25% nel 1933. Quattro anni dopo il crac di Wall Street, nel 1933 in media mille americani al giorno subivano il sequestro giudiziario della loro casa per insolvenza. La miseria di massa e le tensioni sociali contribuirono all´avvento del nazismo in Germania. La gravità di quella crisi ispirò innovazioni di portata storica: il New Deal di Franklin Delano Roosevelt pose le fondamenta del Welfare State, delle politiche keynesiane di sostegno dell´occupazione, dei grandi programmi di investimento statale nelle infrastrutture. Ma fu solo l´incremento di produzione bellica legato alla seconda guerra mondiale a "curare" definitivamente la più lunga recessione del XX secolo.

Nel dopoguerra in America il crac più celebre fu quello delle Savings and Loans. Una crisi bancaria prolungata per anni. Fra il 1986 e il 1995 quasi la metà delle 3.234 casse di risparmio dovette chiudere per bancarotta. Nel 1989 il Congresso creò un´apposita agenzia federale, la Resolution Trust Corporation, per accollarsi le perdite, rimborsare i depositanti, assorbire i portafogli-titoli degli istituti falliti, e indagare sulle responsabilità del disastro. In quanto liquidatore fallimentare il governo federale si ritrovò temporaneamente proprietario dei più disparati oggetti che i clienti avevano fornito come garanzia alle banche per ottenere fidi: nella Resolution Trust Corp. finirono tra l´altro quadri di Picasso e Andy Warhol, una distelleria di whisky dell´epoca coloniale, e 800 boccette refrigerate di sperma di un toro Brahma da riproduzione.

I crac più recenti sono ancora freschi nella memoria: gli scossoni provocati da choc internazionali come l´insolvenza del Messico (il crac dei Tequila Bonds nel 1995), la crisi finanziaria dei dragoni asiatici nel 1997, la bancarotta della Russia nel 1998. Tutto endogeno invece fu il crollo del Nasdaq nel marzo 2000, la fine della febbre speculativa sulle dot.com, le società di Internet nate all´apice della New Economy. Le lezioni che ci insegna la storia dei crac sono straordinariamente semplici. Tre costanti si ripetono da secoli. Ogni disastro finanziario è preceduto immancabilmente da una "bolla", un periodo di eccessi speculativi. Ogni bolla è alimentata da condizioni di lassismo monetario, credito facile, e la convinzione di masse di investitori che una certa categoria di investimenti è destinata al rialzo infinito. Che si tratti di immobili, di azioni o di petrolio, ci sarà sempre una "teoria" per dimostrare l´assoluta razionalità di quotazioni assurde ed eternamente crescenti. La seconda costante storica: ad ogni crac che si rispetti segue un periodo di riforme, elaborazione di nuove regole, maggiori divieti e controlli. La terza costante: appena varate le nuove leggi si scatena la gara per aggirarle e preparare l´avvento della bolla successiva.


F. Rampini

L’ultimo Bingo del turbocapitalismo



Ho l’impressione che la «casta degli oligarchi», la nuova élite di «mega-ricchi» - come li definisce Hervé Kempf – che governa l’economiamondiale abbiamesso a segno il più grande colpo della storia. Se non ho capito male, alla fine della giostra, un colossale flusso di denaro, da 600 a 1.000 miliardi di dollari, secondo le diverse stime, transiterà dalle casse delle banche centrali americane ed europee – cioè dalle riserve statali accumulate con i proventi fiscali dei cittadini - ai portafogli dei grandi investitori finanziari. In realtà i mutui degli americani poveri non c’entrano nulla.

Pensate a quale piano planetario di edilizia economica e popolare si sarebbe potuto realizzare con solo una parte delle somme sborsate! I mutui sono stati il veicolo con cui creare ad arte una esposizione debitoria inesigibile - drogando i prezzi di mercato degli immobili e, di conseguenza, sopravalutando i titoli ipotecari nelle mani degli istituti di intermediazione. Un gioco da ragazzi, una «shock economy», direbbe Naomi Klein, pianificata e provocata dalle stesse autorità monetarie «regolatrici » dei mercati e dalle agenzie di rating e di controllo. Basta seguire imovimenti di quel Alan Greenspan, già presidente della Federal Reserv, ritenuto l’inventore della linea dei «consumi in deficit» e accostato dal nostro Tremonti a Bid Laden come principale nemico dell’America, che è ora il consulente del più grande Hedge Fund (lo Jp Morgan) che sta comprando le banche in fallimento.

Ovviamente, con il sostegno in denaro della stessa Federal Reserv. Insomma, ci stanno turlupinando. Oggetto degli spettacolari salvataggi con i nostri soldi non sono né imutui dei «poveri» americani, né le «generose» banche di intermediazione che li hanno concessi, né le «sprovvedute» società di assicurazione che hanno stipulato polizze contro le bancarotte. Temo che i veri beneficiari, in ultima istanza, siano coloro che hanno preso nel loro portafoglio i «titoli spazzatura» e che pretendono comunque gli interessi e le rendite pattuite. Sono i grandi investitori istituzionali, i fondi pensione, le fondazioni, i fondi sovrani dei paesi orientali, gli sceicchi del petrolio… tutti coloro, insomma, che stanno finanziando gli investimenti produttivi, industriali, infrastrutturali, militari negli Stati Uniti. E non possono fallire perché lascerebbero a secco «la più grande economia del mondo», la nostra protettrice e il nostro faro di civiltà. La crisi finanziaria in corso non è altro che un giro tortuoso per saldare una tranche dei loro crediti. Sono sicuro che i maghi della finanza creativa (la «setta degli avidi » che dirigono il tavolo da gioco degli hedge fund) stanno già studiando quale dovrà essere la prossima «bolla speculativa» da gonfiare e far saltare – assieme alle casse degli stati – al momento buono. Il dubbio che mi tormenta è che a sinistra si creda ancora nella «patologia» della crisi, come eccesso speculativo dell’arciliberismo, e non si veda invece nella «sequenza delle crisi» (come ci dice cinicamente Cipolletta) la patologia del turbocapitalismo, insaziabile divoratore di risorse e di umanità.


m. Cacciari

I trucchi Usa non fermeranno la bufera

Gli espedienti ai quali Sec e Tesoro degli Stati Uniti si sono votati confermano che giovedì scorso la situazione dei mercati non era più soltanto seria, era disperata. Eppure quanti su tanti giornali spiegano la crisi paiono volersene dimenticare a memoria. E per un rimbalzo da borse alla cinese, ovvero finte, hanno ceduto troppo all’euforia. Mentre invece gli espedienti tentati restano per molti versi discutibili, e forse di precaria efficacia. Del resto tant’è: questo è il pressappochismo sortito da anni in cui si sono stampati più dollari che tappi di Coca-Cola. Per carità tralascio di citare che cosa tanti economisti hanno scritto fino all’altro ieri. Lasciamo stare; vediamo invece quali rischi di incoerenza e quanti margini di inefficacia vi siano nel gesto americano.
Bastasse davvero solo di vietare le vendite allo scoperto per risolvere le crisi finanziarie saremmo tutti a posto: neppure ci sarebbe stata la Grande Crisi degli Anni Trenta. Pure Hoover, 31° presidente degli Stati Uniti, era ossessionato dalle vendite al ribasso, che giudicava complotti. Finì nel ridicolo, perse le elezioni. Fa bene dunque McCain a non voler ripetere i suoi errori, e a chiedere la rimozione di Cox, presidente del Sec. Anni fa la Securities and Exchange Commission permise di alzare il livello di debito delle banche ora fallite, esagerando il rialzo. Per decreto ora invece blocca la principale delle scommesse al ribasso, con un atto che resta dubitabile. Infatti i short selling bloccati, lasciando gonfiati i vari valori finanziari, possono aggravarne il tracollo al loro sblocco. Inoltre vietando vendite allo scoperto si tampona la crisi, ma s’inaridisce una fonte di liquidità: in una situazione già illiquida si chiude uno dei canali di ricopertura. Vari titoli poi, come quelli sulle carte di credito, ne sono pericolosamente esclusi. Infine il divieto è di molto complicato dall’esistenza d’altri generi di scommesse al ribasso scambiate tra investitori direttamente, non in Borsa. Insomma questo mercato truccato di una Wall Street evoluta Shanghai, coi suoi corsi manipolati dallo Stato, tampona forse la crisi, ma non è detto la risolva.
C’è poco da fare: il ritorno alla salute richiede prima o poi inevitabile una distruzione vera di valori fittizi. E perciò anche l’altra misura, quella di creare un fondo mostruoso del Tesoro, in cui infilare mutui e crediti cartaccia, è disputabile nei suoi effetti. Dovrebbe acquisire a prezzi scontati valori enormi, mai prima pensati, tali da elevare di un sol colpo del 5% il debito Usa. E però in tal maniera si rischia pure il congelamento di valori fittizi, ovvero non remunerabili: l’esito giapponese degli anni ’90. I dubbi non finiscono: quanti abusi si verificheranno nella stima dei prezzi ai quali questa cartaccia sarà comprata coi soldi dei contribuenti. A prezzarli non sarà infatti un mercato che si è sospeso. Insomma siamo alla commedia di un liberismo finto, usato per speculare al rialzo, ma che si sospende al ribasso, e di una globalizzazione che allora è stata solo una americanizzazione. Diviene lecito a chiunque, temo, chiamare truffa, gli imbrogli di borsa per via dei quali gli Usa si sono mantenuti almeno dalla presidenza Clinton in un livello di consumi innaturali. E con che esito alla fine? Mercati finanziari americani sotto tutela dello Stato; alla cinese. Appunto alla comunista: coi guadagni incassati poi da pochi, ma pagati da tutti. Von Hayek, i liberisti veri, predicavano ben altro: di mai stampare moneta in eccesso. Il contrario di quanto s’è purtroppo, e troppo a lungo, plaudito per anni.


di Geminello Alvi

Le cavie umane della scienza “medica”



Nel 1996, l’azienda Pfizer mette a punto un nuovo antibiotico il Trovan, che secondo gli economisti di Wall Street può portare profitti per un miliardo di dollari l’anno. Quanto esposto nel paragrafo precedente dovrebbe far capire che di fronte ad una simile cifra qualsiasi strategia sarà messa in atto perché tali profitti si concretizzino nel più breve tempo possibile, senza che ci si preoccupi minimamente del rispetto per la sacralità della vita umana. Siccome si vuole sperimentare tale farmaco anche contro la meningite, e siccome negli USA non ci sono abbastanza soggetti su cui sperimentarli, un’epidemia di meningite in Nigeria (che porterà alla morte di 15.800 persone) viene vista come una manna dal cielo da parte dell’azienda. I ricercatori della Pfizer in brevissimo tempo quindi si preparano alla sperimentazione sul campo dopo avere ricevuto il nulla osta della FDA.

Il test sulla sperimentazione clinica del nuovo farmaco viene “curiosamente” messo a punto nel giro di sei settimane, di fronte ad un periodo di circa un anno richiesto per effettuare una simile sperimentazione negli USA. Pare che la sperimentazione sia stata “ratificata” dai responsabili dell’ospedale locale con una lettera predatata, come dire che l’esperimento sarebbe iniziato subito e poi con qualche pressione si sarebbero “convinte” le autorità locali. Così vengono assoldati 200 bambini dalla multinazionale farmaceutica per provare il nuovo prodotto, dietro richiesta di un consenso puramente verbale.

E fin qui si tratta di una colpevole mancanza di cautela, ma la cosa peggiore è che la terapia a base del nuovo antibiotico viene mantenuta anche dopo che i bambini non reagiscono positivamente al trattamento: sono undici i bambini che muoiono dopo essere stati trattati in simile maniera col Trovan. Difficile dire quanti per la malattia e quanti per il mancato intervento.

Sulla base di questi dati esperimenti le autorità statunitensi permetteranno l’uso del farmaco solo agli adulti (gli effetti collaterali osservati anche in Occidente sono frequenti danni al fegato e finanche la morte). In Europa la medicina viene tolta dal commercio. Un farmaco inutile in sostanza, un farmaco mortale, che i geni dell’economia hanno valutato un miliardo di dollari e che bisognava tentare di piazzare a tutti i costi sul mercato.

Un simile modo di agire non è un caso isolato, sono sempre di più le sperimentazioni poco controllate e a basso costo portate avanti nei paesi poveri. In tali paesi è più facile trovare persone in cattive condizione di salute (soggetti ideali per le sperimentazioni) da assoldare con una piccola spesa per le aziende del farmaco.

Ma cerchiamo di capire cosa sta succedendo adesso nelle industrie farmaceutiche. Innanzitutto, come in altri settori, anche in campo farmaceutico si sono verificate numerose fusioni fra aziende, per cui le multinazionali del farmaco sono ormai dei colossi economici. Il settore farmaceutico rappresenta un mercato in rapida crescita, la medicalizzazione della vita copre ormai ogni aspetto ed ogni fase della vita, è diventato medico qualsiasi problema esistenziale, sociale, umano, di apprendimento, e persino malattie banali che in altri tempi si affrontavano benissimo con due giorni di riposo e una buona dose di vitamina c oggi sono diventate un “problema medico” da affrontare con un apposito farmaco.

Come succede per le automobili o per le saponette, anche in campo farmaceutico la legge della concorrenza costringe le aziende a produrre continuamente nuovi farmaci a ripetizione da immettere sul mercato. La strada dalla invenzione di un nuovo farmaco alla sua commercializzazione sarebbe lunga e costosa se non si fossero individuati, degli ottimi “luoghi di sperimentazione” nei paesi poveri. Lì si trovano cavie umane disponibili a poco prezzo, spesso analfabeti (e quindi si ottiene dubbio consenso puramente verbale e non scritto), si riesce a fare tutto a tempo di record e con pochi controlli scegliendo paesi stranieri dove le leggi in fatto di sperimentazione non sono così rigide come negli USA o nella CEE. Il New England Journal of Medicine riferisce che ogni giorno di ritardo prima dell’entrata in commercio di un nuovo medicinale costa in media al produttore 1,3 milioni di dollari di mancate vendite.

Come accade per i subappalti delle multinazionali dell’abbigliamento, anche in questo settore molto del lavoro sporco viene affidato a piccole società di comodo. In Svizzera è in corso un’inchiesta su una di queste organizzazioni, che arrivava ad utilizzare tossicodipendenti, rifugiati e addirittura importava pazienti dall’Estonia con appositi voli charter.

A questo scandalo delle cavie umane bisognerebbe aggiungere il fatto che mentre si ricercano farmaci contro l’obesità o l’impotenza (come se fossero poi problemi medici da risolversi con le pillole!) niente si fa per quelle malattie endemiche nei paesi poveri come la tubercolosi o la tripanosomiasi (malattia del sonno). Non credo nell’efficacia dei farmaci di chemiosintesi ma non posso escludere che in certe manifestazioni acute della malattia possano essere utili, in ogni caso queste aziende che proclamano di essere “al servizio del benessere e della salute dell’uomo” in realtà non si interessano ad altro che al profitto. Il farmaco contro la malattia del sonno, il DFMO, non viene più prodotto perché poco redditizio, e degli 8 milioni di tubercolotici solo 400.000 potrebbero pagarsi le cure. Neanche i milioni di persone che soffrono e muoiono di malaria giustificano uno sforzo delle industrie farmaceutiche dato che si tratta di persone troppo povere.


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Un mondo di plastica



C’erano una volta le grandi battaglie ideologiche, le manifestazioni oceaniche, il ’68, le piazze indignate, i cortei contro la guerra del Vietnam: episodi che in buona parte non condividiamo e che comunque si sono resi responsabili di errori, spesso di veri e propri crimini. Per questo non li rimpiangiamo in sé, ma è certo che – insieme a migliaia di altri fenomeni analoghi più o meno noti – testimoniano un’epoca nella quale gli uomini avevano ancora la voglia di lottare per qualcosa in cui credevano, un “qualcosa” comunque di alto profilo, perlomeno nelle intenzioni: l’ideologia, la pace, la giustizia, la libertà.
Ieri mi trovano ad osservare i portoni lungo una via e notavo come pressoché tutti esponessero il cartello “Vietato immettere pubblicità nelle cassette”. Anche questo, di per sé, un episodio di scarsa rilevanza e che riflette pure un’esigenza legittima per il cittadino stanco di vedere la propria cassetta intasata di depliants pubblicitari. Lo stesso cittadino che non sopporta più di vedere i muri imbrattati, gli accattoni per le strade, le prostitute sui marciapiedi, il fumo del vicino, i drogati sulle panchine della stazione. Che migliaia di civili innocenti siano massacrati in Afghanistan e Iraq con l’appoggio o l’omertà del nostro esercito e del nostro governo non frega niente a nessuno. Ma che qualche scalmanato napoletano danneggi un treno è assolutamente intollerabile. Che Banca d’Italia e BCE siano organismi privati che attraverso il signoraggio ci depredano di infiniti milioni di euro è troppo difficile da capire e non indigna che pochi “esperti”. Ma se la banca presso la quale abbiamo depositato il nostro conto ci aumenta di un paio di euro le commissioni a nostro carico siamo pronti anche a prendere il direttore per i piedi.
Questa è diventata la nostra società: quello che conta veramente o è troppo distante o è troppo complicato o non ci interessa o siamo convinti non si possa modificare. Il tempo delle grandi lotte è passato. Eppure, siccome la propria natura si può comprimere ma non cancellare completamente, ciò genera solo frustrazioni, odi reconditi, volontà di dirigere la propria rabbia ed indignazione contro bersagli più facili e vicini. Fatemi pure vivere in un mondo dove si massacrano innocenti per un barile di petrolio, dove tutto passa sopra le nostre teste ignare e lobotomizzate, dove io non conto assolutamente nulla e neppure ho diritto a conoscere la verità. Anzi, ci rinuncio proprio a tentare di conoscerla. Però, almeno, fatemi vivere in città pulite, tenetemi lontani gli zingari, lasciatemi tranquillo e sicuro.
Nel celebre film Matrix uno dei personaggi accetta di vivere nel mondo finto predisposto dalle macchine pur sapendolo tale, a patto che gli siano garantiti tutti i relativi agi.
L’orribile sospetto è che sia questo che vogliono gli uomini di oggi. Non importa che la nostra sia una società di plastica, basta che sia commestibile, che non si stia troppo male. Il sostantivo che va più di moda di questi tempi, non a caso, è “sicurezza”. Giustizia e libertà sono passati di moda.


di Andrea Marcon

Precariato e crisi dei subprime





















Un articolo che non verrà spiegato dai media nazionali, un articolo che cerca di fare luce su un problema complesso. Una luce nella nebbia perenne dell'informazione controllata.

Vorrei dire una cosa che non leggerete mai sui giornali di confindustria. E cioe' vorrei spiegare il legame fortissimo che c'e' tra il precariato del lavoro e l'attuale crisi dei mutui subprime.

Punto primo: il mutuo subprime e' un mutuo a rischio dato ad un cosiddetto NINJA, che significa "No Income, No Job or Asset". Si tratta del lavoratore che in Italia viene chiamato "precario".

E' successo molto semplicemente che il mercato del lavoro di alcuni paesi sia stato dominato da queste figure, cioe' da cosiddetti "contractors" che avevano contratti di lavoro a 2,4,5 anni. Poiche' si trattava della stragrande maggioranza del mercato del lavoro, le banche sono state costrette a fornire mutui a questi lavoratori.

Il problema e' che un mutuo dato a questi lavoratori e' un mutuo a rischio, per forza di cose. Essendo un mutuo a rischio altissimo, per ammortizzare il rischio le banche li hanno cartolarizzati e venduti sotto forma di titoli.

Ma il problema rimane quello: poiche' la maggior parte dei lavoratori sono precari, le banche sono state costrette a dare mutui ai precari.

Questa e' stata l'origine della bolla speculativa dei subprime: il precariato del lavoro. Quello che si sta pagando non e' il prezzo di una speculazione finanziaria, ma il prezzo di una politica del lavoro.

Ed e' inutile pensare che leggi piu' rigide in campo finanziario possano cambiare le cose: se la maggior parte dei lavoratori rimane senza certezze sul futuro, le banche saranno costrette a trovare il modo di far loro un mutuo casa. Accollandosi il LORO rischio, cioe' accollandosi il precariato.

In questo modo, quindi, il precariato "infetta" anche le istituzioni finanziarie, che non possono ignorare milioni di clienti quando sono la maggior parte dei clienti.

Questo e' il motivo per il quale Confindustria sta esercitando una pressione fortissima contro i giornali perche' nessuno faccia analisi serie sull'origine del fenomeno subprime: di certo il sole 24 ore non vi verra' a dire che la flessibilita', orgoglio e richiesta di confindustria, sia alla base di un simile disastro finanziario.

Ma tant'e': o Confindustria indica alle banche come vivere in un mondo di precari senza risentire del loro precariato, o qualcuno spiega come gestire il credito al consumo verso un precario senza risentire del rischio che egli corre , o il dato di fatto rimane questo. Il fatto, cioe', che la situazione di precariato (intesa come rischio economico) e' destinata a "infettare" il resto dell'economia.

Se sono precario potrei non finire di pagare l'auto. Se sono precario potrei non finire di pagare la lavatrice. Finche' sono precario potrei non finire di pagare qualsiasi cosa. E cosi' questo rischio di propaga dal mondo del lavoro alla finanza.

Certo, la finanza potrebbe fare a meno dei precari: dove , come in Italia, sono la minoranza. Ma se si estendesse l'uso dei contratti flessibili, la maggior parte dei clienti sarebbero fatti da gente precaria. E le banche NON possono rinunciare alla maggior parte dei clienti.

Ma le stesse carte di credito (che saranno il prossimo disastro finanziario, ovvero il prossimo punto ove l'incendio si propaghera') , che finanziano gli acquisti del possessore, si accollerebbero i rischi che corre il precario di essere senza soldi.

Ecco, confindustria non ve lo dira' mai, ma lo ribadisco: dietro la crisi dei subprime c'e' il precariato del lavoro.

I giornali stanno dicendo che l' Italia risentira' di meno di questa crisi perche' "il mercato e' piu' primitivo". Ma non significa nulla, ed anzi il mercato finanziario italiano e' piu' antico e sofisticato rispetto a molte caverne massoniche degli anglosassoni.

Il vero motivo per il quale l'italia e' al riparo da questa crisi e' che i contratti atipici sono la minoranza, e le banche avevano appena iniziato con qualche esperimento di "diamo un mutuo ai precari". Esperimenti che fortunatamente non hanno avuto seguito.

Anche questa spiegazione, che vorrebbe l' Italia al sicuro perche' "all'antica" , e' una fesseria inventata per nascondere il succo del problema: se proseguiamo con la Legge Biagi e coi contratti atipici, se non aboliamo questa roba fino al pacchetto Treu (con buona pace di D'Alema che lo defini' "moderno ed al passo coi tempi"), prima o poi le banche si vedranno costrette a concedere mutui ai precari, che saranno parti sempre piu' consistenti del mercato.

E alla fine, pagheremo lo stesso prezzo.

Se c'e' una lezione che questa crisi sta insegnando e' che con il mercato del lavoro (e coi giovani che vi si presentano) non si scherza, perche' il loro precariato e' destinato a rendere precario il resto dell'economia, partendo dal mondo della finanza e , di conseguenza, anche al mondo dell'industria.

No, Confindustria non vi dira' mai che con le sue continue richieste di ulteriore flessibilita' sta preparando il terreno ad una crisi come quella USA.

Per questo lo scrivo io.

LA CURA C’E’

Mi dicono che il post sulle cause della crisi subprime, quello che vede la crisi venire dal mercato del lavoro, sia corretta ma inutile. Inutile perche' non fornisce alcun rimedio.

Beh, il rimedio e' evidente.

La lezione di questo crack e’ una sola: i subprime sono nati per dare credito ai lavoratori a termine. Sono nati perche’ la maggior parte dei lavoratori aveva contratti a termine. Ergo, i contratti a termine portano al disastro finanziario quando diventano un numero eccessivo. O si impara la lezione, o nessun governo USA potra’ fermare l’estendersi del crack alle nazioni che hanno molti lavoratori con contratti a termine e quindi, inevitabilmente, molti prestiti subprime. L’Italia, fortunatamente, era indietro su questo fronte.

Il rimedio e' altrettanto ovvio: la crisi si propaghera' laddove il mercato del lavoro rende instabili i posti di lavoro. Il problema e' che piu' la crisi si propaga, piu' posti diventano posti a rischio se il mercato del lavoro e' fluido.

Questo e' il momento buono per ingessare il mercato del lavoro in modo da fermare la crisi. Si prendano tutti i contratti in scadenza e li si congeli (almeno formalmente) per 10 anni. La meta' dei mutui ventennali sara' coperta, nel resto dei casi il tasso di rischio sara' abbassato.

Questo permettera' ai mutui concessi a queste persone di uscire dallo status di "subprime" , e di venire ricartolarizzati con tassi di rischio differenti.

A quel punto, ci sono dieci anni di tempo per tornare sui nostri passi ed eliminare i contratti lavorativi a termine dal grande mercato del lavoro, stabilizzando almeno i contratti con gli intermediari.

MAntenendo fluido il mercato del lavoro invece la crisi produrra' altro rischio di perdere il lavoro, altri mutui diverranno subprime o insolventi, e la crisi si autoalimentera'.

Per ora l'Italia e' poco esposta, ma se il PIL dovesse decrescere di due punti percentuali, la quantita' di insolventi al mutuo crescera' enormemente per via degli autonomi e dei commercianti. E allora ci saremo dentro anche noi.

E' il momento di ingessare il mercato del lavoro per stabilizzare i prestiti dati avendo come garanzia il lavoro stesso.

O cosi', o l'infezione si propaghera'.

di Uriel

Alitalia. Quel pasticciaccio “cucinato” da Berlusconi

Alitalia-Anno zero. Quel pasticciaccio brutto “cucinato” da BerlusconiSiamo ormai all’Anno zero per la nostra disastrata compagnia di bandiera! Rotte le trattative su un’ipotesi di soluzione pasticciata, ricattatoria, ultimativa e senza prospettive industriali e finanziarie, ora si passa alla recriminazioni e ai venti di speranze, per uscire da una crisi decennale, che ha tanti padri (dai governi di centrosinistra a quelli, più colpevoli di centrodestra, al management, agli stessi sindacati interni).

Sono più che eclatanti i sondaggi pubblicati on-line da due quotidiani autorevoli, come Il Sole 24 ore e La Repubblica (addirittura 245 mila partecipanti!), che però nessun giornale stampato né tantomeno TV e Radio si sono finora premurati di rendere pubblici ( da qui giusta la critica denunciata da Articolo 21 sul “pensiero unico” andato in onda in questi giorni per additare le responsabilità solo alla CGIL, piloti e Partito Democratico!).

Rispetto ai roboanti atti di accusa degli esponenti del governo e dei sindacati allineati al nuovo “regime mediatico” (CISL di Bonanni, UIL di Angeletti e UGL della Polverini), si evince come almeno 300 mila persone abbiano decretato che la crisi del fallimento delle trattative e della crisi sarebbe dovuto per il 54% al governo in carica (Rep) e per il 35% sempre a Berlusconi (24 ore), le responsabilità del governo Prodi sarebbero invece minime (1% per il Sole, 2% per Rep). Più divergenti tra loro le imputazioni di responsabilità della crisi tra i votanti del Sole per quanto riguarda il ruolo negativo tenuto dai sindacati: 40%secondo il quotidiano confindustriale, 18% per Rep. Per quanto riguarda, invece, le responsabilità del management passato vengono additate per il 6% dal Sole e per il 19% da Rep.

Ci domandiamo, allora, il perché dell’aggressività e la monocultura antisindacale che promanano dai direttori di alcuni giornali invitati nei “salotti televisivi” di queste sere, che hanno fatto a gara per scaricare tutte le colpe su CGIL, piloti, opposizione di centrosinistra e governo Prodi. E’ chiaro che è in atto un allineamento culturale e politico dei grandi media (con alcune rarissime eccezioni) per creare un “nemico interno”, a favore della “politica dalle mani libere” del governo Berlusconi, che per la sua azione fatta di proclami duri, ultimatum e populismo neo-fascista riceve da alcuni sondaggi apprezzamenti strabilianti, spiazzando i partiti della destra storica, come Alleanza nazionale, e diventando sempre più il punto di riferimento dei sentimenti più retrivi ed allarmanti dell’elettorato di estrema destra.

Berlusconi in realtà si sta mangiando i suoi alleati, mentre il centrosinistra, l’opposizione tutta, stentano a trovare una linea d’azione unitaria e una visione nuova, moderna, realmente alternativa per proporre un progetto che salvi il nostro paese dalla deriva neo-conservatrice, fascistizzante.

L’allineamento dei grandi media precede e segue anche il rimescolamento di carte che negli ultimi mesi sta avvenendo nel mondo della grande finanza. Da tempo, anche durante la crisi di queste settimane dell’Alitalia, abbiamo scritto dei nuovi “padroni” di Mediobanca, il cosiddetto “salotto buono” della nostra finanza e dell’ingresso della famiglia Berlusconi nel tempio di Piazzetta Cuccia.

Ora i giochi si sono conclusi: la figlia del “lider maximo”, Marina Berlusconi, è entrata nel CDA di Mediobanca, il suo fido alleato Tronchetti Provera è diventato vicepresidente ed il “braccio di ferro” tra il big dei banchieri Profumo (unico supermanager ancora contrario alla politica economica del Cavaliere di Arcore) si è risolto con un “no contest” con l’altro uomo di potere Geronzi, presidente della società.

Questo significherà che le Assicurazioni Generali, la cassaforte di Mediobanca, continuerà a controllare con i suoi alleati Telecom (in crisi industriale e finanziaria, dovuta alla gestione Tronchetti Provera, che in pratica l’ha portata nelle braccia della spagnola Telefonica), RCS- Corriere della sera, ovvero il più grande gruppo editoriale italiano. Soprattutto, Mediobanca con i suoi soci del Patto di sindacato rappresenterà per i prossimi anni la nuova fisionomia dell’economia italiana, con un misto di conflitti di interessi e una ragnatela di incroci azionari che in pratica la portano ad essere il vero controllore dei destini imprenditoriali finanziari ed industriali nostrani.

Lo stato si affiancherà sempre più a questo salotto finanziario per tentare di risolvere le tante crisi dell’imprenditoria privata, con una miscela esplosiva di neo-interventismo statalista, aggravando le casse pubbliche facendo ricadere il peso dei “salvataggi2 sui contribuenti, come nel caso appunto di Alitalia.

Assisteremo anche ad un nuovo “risiko” di poteri forti sulle compagini azionarie dei grandi quotidiani e gruppi editoriali, tendenti ad uniformare i messaggi comunicativi per comprimere gli orientamenti dell’opinione pubblica a favore del “lider maximo”.

Era dunque facile prevedere un ruolo di Mediobanca anche nel tentativo di risolvere l’intrica crisi di Alitalia. Sarà quindi proprio Piazzetta Cuccia l’ultimo “cavaliere bianco” che correrà in soccorso di un Berlusconi in crisi di identità e di risorse, dopo che per mesi e mesi aveva fatto di tutto per osteggiare il governo Prodi nel tentativo per niente decisionista di trovare una soluzione (prima l’asta e poi l’opzione Air France-KLM), propagandando un progetto risolutivo (pari al fumo di un arrosto mal cotto) messo in piedi dal collaboratore storico del Cavaliere, quel Bruno Ermolli che è da sempre la vera mente affaristica di tutte le sue operazioni italiane ed estere.

Il “sogno azzurro” di Ermolli si è dissolto come la neve di primavera ai primi raggi del sole. Ma certo ora Mediobanca non potrà tirarsi indietro. Altrimenti Berlusconi perderà la faccia e i consensi.

“Il re è nudo”! Il monarca di Arcore ha spostato la “mondezza” di Napoli dal centro della città ai siti inquinati delle campagne circostanti, senza risolvere realmente la questione dello smaltimento dei rifiuti, ma con Alitalia siamo alla prova concreta di cosa intende questa maggioranza neo-conservativa quando cerca di mettere mano alle tante crisi dell’economia italiana.

“Siamo alla recessione!”, decreta con colpevole ritardo Confindustria; in realtà, siamo alla temutissima “Stagflazione”, ovvero a quella miscela esplosiva che unisce la recessione economica industriale, aggravata dai crack finanziari americani e non solo, con la crescita dell’inflazione (ormai il nostro paese, secondo gli istituti internazionali è in cima alla classifica europea!), la drastica contrazione dei consumi, la riduzione dei prezzi, il fallimento del sistema commerciale al consumo, i bassi salari e il ritorno della disoccupazione.

Si tratta di una bomba a tempo, che “il pasticciaccio brutto” sull’Alitalia sta alimentando come un detonatore e che rischia di far saltare qualsiasi equilibrio sociale nell’autunno incipiente. La crisi Alitalia, così, può diventare per Berlusconi e soci (alleati politici, amici in affari, media compiacenti) il personale “Vietnam” politico, anche se non si intravedono chi siano i “vietcong”, i coraggiosi militanti guidati negli anni Settanta dal presidente Ho Chi Minh e dal generale Vo Nguyem Giap, che riuscirono a sconfiggere gli aggressori americani.

Quando la crisi dei mutui verso novembre-dicembre arriverà al culmine anche in Italia, con le famiglie sempre più indebitate e raggirate dal decreto Tremonti di prolungare le rate con le banche (misure del tutto inefficienti e controproducenti per i consumatori, rispetto invece alla “portabilità” di mutui e conti correnti messe in atto dall’ex-ministro Bersani), sarà difficile gestire socialmente il malcontento, aggravato anche dal calo del potere di acquisto (i salari italiani sono del 30% in meno della media europea, dietro a Grecia e Spagna), dalle alte tasse e dalle incertezze occupazionali.

Chi saprà indicare strade alternative all’anarchia politica probabile? Il Partito Democratico di Veltroni è avvinghiato in un “solipsismo”, nel guardarsi l’ombelico organizzativo e programmatico, l’Italia dei valori di Di Pietro cerca di montare il ribellismo senza una visione strategica, la “sinistra radicale” ormai residuale e in cerca di sé stessa, il sindacato confederale si scopre più diviso, anche se la CGIL sta riprendendo un ruolo egemonico e riformista in molti settori lavorativi.

Comunque si risolva il caso Alitalia, e a questo punto si fa più realistico l’intervento insieme a Mediobanca di un compratore estero europeo che potrà usufruire di migliori condizioni legislative e finanziarie, è la crisi intera dell’economia italiana a preoccupare. Crisi aggravata dalla “liquefazione sociale”, dalla “barbarie culturale” (basta pensare al rifiuto dell’antifascismo come pietra miliare e unificante del paese, ribadito di nuovo dallo stresso Berlusconi!), e dall’assenza di strategie innovative e aderenti all’evoluzione del calderone sociale italiano da parte della sinistra democratica-riformista.

“Il capitalismo è morto” strillava qualche giorno fa in prima pagina il quotidiano “futurista” della destra berlusconia “Libero”, mutuando slogan sessantottini. Sta in realtà scomparendo tra le macerie il “protocapitalismo” neoliberista, quello portato in auge dalla scuola monetarista di Chicago di Milton Friedman, che fu adottata prima dal dittatore golpista Pinochet nel Cile del dopo-Allende e poi rivista e ammodernata da Reagan, Bush padre e figlio negli Stati Uniti, dalla conservatrice Tathcher e dal neo-laburista Blair in Gran Bretagna.

Molti vedono con grandi speranze l’evolversi delle elezioni americane di Novembre, nell’attesa che se vincesse Obama potrebbe ritornare una politica economica e sociale di stampo neo-keynesiana, una revisione aggiornata del welfarestate socialdemocratico. Ma se vincerà il neo-conservatore, repubblicano McCain?

E poi siamo davvero sicuri che ancora una volta può venire un esempio innovativo dal decadente impero statunitense? Le ricette si preparano e si sperimentano in casa propria, sulla base dell’esperienze locali e degli stimoli provenienti dalla globalizzazione. Forse il “laboratorio europeo”, nonostante tutto è ancora il più stimolante per uscire fuori dalla profonda crisi attuale.

E anche l’Alitalia potrà trovare la luce fuori dalle dense nebbie grazie a partnership europee, alla trasparenza dei rapporti sindacali, al rigetto della politica fatta solo di “ultimatum”, di “prendere o lasciare”, al rispetto delle regole e delle leggi.

Tornare a volare Alitalia, quindi, per tornare a volare con la speranza in un futuro senza populismi e imbarbarimenti.

di Gianni Rossi

20 settembre 2008

Crack bancari: crisi del Sistema o fallimento controllato?


Quello che purtroppo (o per fortuna?) era stato previsto da anni si sta verificando.
Il Sistema Economico sta letteralmente crollando sotto il peso di debiti, speculazioni, investimenti forsennati e satanici, oppure è arrivato l’occasione e la possibilità di destare le nostre coscienze?
Importantissime banche come Citigroup, Bear Stearns, Lehman Brothers e Merrill Lynch, tanto per citare solo qualcuna, hanno fatto un triste epilogo. La Lehman è fallita e ha già chiesto l’amministrazione controllata (ex articolo 11), la Merrill Lynch è invece stata salvata, o per meglio dire, acquistata dalla Bank of Amerika.

Richard Fuld, il padre-padrone della Lehman (quarta banca d’affari statunitense) esce da questo crack in piedi: “dal 1993 fino al 2007 ha conseguito tra stipendi, bonus, stock options la meravigliosa cifra di 466 milioni di dollari”. Cifra questa di tutto rispetto, ma non completa, perché bisogna sommare la buona uscita di 22 milioni di dollari, maturata prima del fallimento bancario! Non male, vero?
Dall’altra parte Stanley O’Neal, ex numero uno di Merrill Lynch lascia il suo prestigioso ufficio con una pensione da 161 milioni di dollari, e questo dopo aver creato una voragine da 40 miliardi di dollari.
Il mega boss della Citigroup, Chuck Prince, si è intascato invece 68 milioni di dollari, e l’ex presidente di Bear Stearns, Jimmy Cayne soli 60 milioni di dollari.


La cosa interessante e che si ripete ogni qualvolta una azienda crolla e/o fallisce, i manager escono sempre a testa alta e con le tasche piene di denaro. Denaro dei contribuenti
Per esempio la Lehman ha creato un buco nero di oltre 639 miliardi di dollari, il maggiore crac della storia economica americana (oltre dieci volte il già gigantesco buco della Enron), e nonostante questo Richard Fuld esce con decine di milioni di dollari.
Questo dovrebbe farci riflettere…


Ecco l’elenco dei più grandi crac della storia moderna:
1) Lehman Brothers (639 miliardi)
2) Worldcom (103,9 miliardi)
3) Enron (63,4 miliardi)
4) Conseco (61,4 miliardi)
5) Texano (35,9 miliardi)
6) Financial Corp. of America (33,9 miliardi)
7) Refco (33,3 miliardi)
8) IndyMac Bancorp (32,7 miliardi)
9) Global Crossing (30,2 miliardi)
10) Calpine (27,2 miliardi).


La questione importante però è un’altra.
Le banche che chiudono i battenti sono il segnale che il Sistema sta crollando o invece anche queste rientrano in manovre occulte da parte di coloro che operano dietro le quinte?


Osservando gli azionisti di Lehman Brothers risultano delle cose molto interessanti:
AXA (9.46%);
FMR Corporation (5.69%);
Citigroup (4.5%);
Barclays Plc (3.92%);
State Street Corporation (3.1%);
Morgan Stanley (3.1%);
Mellon Financial (1.9%);
Vanguard Group (1.9%);
Deutsche Bank AG (1.4%), ecc.


Vediamo gli azionisti di Merrill Lynch:
FMR Corporation (4.8 %);
Barclays Plc (3.5%);
Janus Capital Corp. (2.9%);
Citigroup (2.6%);
AXA (2.40%);
State Street Corporation (0.12%), ecc.


Tutti questi azionisti si possono scremare ulteriormente perché per esempio State Street Corp. è controllata dal gruppo Barclays (quindi Rothschild) della City di Londra.
In pratica le due banche crollate (Lynch e Brothers ma anche tutte le altre) appartengono a quei due gruppi che controllano realmente l'economia planetaria: il ramo statunitense dei Rockefeller e quello europeo dei Rothschild: le due ali dello stesso avvoltoio (o aquila calva del Grande Sigillo statunitense).


Nomi di casate storiche ebraiche che si possono citate solo nei libri e/o articoli sul complottismo ma sono invece tabù nella carta stampata o in televisione. Chissà come mai…
Quindi il crollo di grosse banche potrebbe rientrare nel cosiddetto “fallimento controllato”.
Per quale motivo lascerebbero fallire delle proprie aziende?


Lo sfruttamento del Mercato avviene spesso attraverso le cosiddette “Branch” (rami, derivazioni), che vengono create ad hoc per raggiungere determinati obiettivi. Questo ovviamente fino all’esaurimento.
Quando il mercato è stato spolpato ed è divenuto sterile, si chiude la filiale, creata per tale scopo, e gli utili vengono spartiti tra di loro.
Il buco lasciato? Non ci sono problemi: paga Pantalone, cioè il cittadino suddito!


La Lehman Brothers ha dichiarato fallimento, come una qualsiasi azienda che non vuole pagare i suoi creditori. Più semplice di così: quasi 700 miliardi di dollari di debito che sarà rimpinguato dal Governo (con la tipografia ufficiale Federal Reserve) e quindi dai sudditi.
La Merrill Lynch, Fannie Mae e Freddie Mac (le due società con un portafoglio di circa 6000 miliardi di dollari in mutui ipotecari) e le altre idem.
Questo “fallimento controllato” però non riguarda i grossi Imperi che stanno dietro le quinte, ma le “Branch”, cioè i rami collegati, che come in botanica si possono potare quando diventano marci e inutili.


In pratica bruciano i soldi nostri per poi ributtarsi nella mischia come lupi assatanati alla ricerca di nuovi mercati da sbranare.
Dall’altra parte, grazie a questi crash controllati, possono far legiferare ai loro camerieri (politici) leggi che stringono ulteriormente le libertà individuali di tutti noi, e che non sarebbero mai passate altrimenti.
Certamente faranno saltare altre banche d’affari, d’investimento, assicurazioni, società mutualistiche (la prossima sarà AIG, American Internationale Group, la più grande società di assicurazioni del mondo, anche se verrà salvata in extremis dal governo): 1929 docet.
Di una cosa però in tutto questo scenario i Burattinai non hanno tenuto conto: tale crisi sistemica dei mercati e delle finanze, pur se controllata, avrà sempre la funzione pedagogica di far prendere coscienza a molte persone di tutto questo Sistema e anche delle possibili soluzioni.


Coscienza che il Sistema è in metastasi e che non potrà quindi avere una vita lunga con le cure allopatiche odierne: iniezioni di liquidità, stampa di moneta, chirurgia bancaria, ecc.
Coscienza che il denaro è un mezzo e non un fine, e che possiamo acquistare (merci e prodotti) SOLO perché NOI lo accettiamo (il denaro).
Un pezzo di carta, un foglietto, uno “Sconto che cammina”, uno Scec, per fare solo dei piccoli esempi, hanno lo stesso valore del denaro: basta accettarli!
La vera guarigione avverrà nel momento in cui si passerà da un Sistema luciferico centrato nel dio denaro e nel potere dell’uomo sull’uomo, ad un Sistema dove invece è l’Uomo al centro e il collante l’Unione e la Solidarietà.



I Grandi Manipolatori possono far crollare decine di banche, piazzare l’esercito nelle città, installare videocamere e microfoni ovunque (cose che stanno realizzando), mettere in ginocchio milioni di persone, far esplodere la bolla immobiliare, ma non possono proprio far nulla a livello di Coscienza Individuale.
Su questo terreno i Rothschild, Rockefeller e tutti gli altri possono solo stare a guardare…(e con invidia).


Marcello Pamio

Il buco nero delle assicurazioni



È un colosso delle assicurazioni il nuovo epicentro della crisi finanziaria mondiale. Si chiama American International Group (Aig) il "buco nero" che nella sua implosione può risucchiare nuove perdite e fallimenti a catena, con ripercussioni nel mondo intero.

La bancarotta di Lehman Brothers appare già un capitolo di storia lontano, mentre incombono preoccupazioni più gravi. La compagnia assicurativa Aig non è solo una delle più grandi del pianeta, con centomila dipendenti. Occupa un posto speciale nel mezzo di una complessa ragnatela di rapporti finanziari con centinaia di banche. Perciò la notizia del declassamento di Aig da parte delle agenzie di rating Standard&Poor e Moody’s ha aperto un nuovo fronte di pericolo. Il peggioramento della sua solvibilità finanziaria può essere l’anticamera del fallimento. Ieri mattina David Paterson, il governatore dello Stato di New York (da cui dipende per legge la vigilanza sulla compagnia assicurativa) è stato lapidario: «In queste condizioni Aig ha un giorno di vita». L’ultima speranza è una cordata d’investitori che sarebbe pronta a rilevare l’Aig. La guida, ironia della sorte, il fondatore Maurice Greenberg che fu defenestrato dai vertici della compagnia per irregolarità contabili.

Il crollo del colosso assicurativo è un evento di cui nessuno riesce a prevedere l’impatto, se non che sarà disastroso. La compagnia infatti non esercita soltanto attività assicurative tradizionali. Ha sviluppato, con un’importante divisione a Londra, un intero business speculativo sui titoli derivati, compresi i titoli "infami" che sono il frutto della cartolarizzazione dei mutui. E c’è di più. Aig si è lanciata da tempo in un altro business finanziario, i "credit default swaps" (Cds).All’origine si tratta proprio di contratti assicurativi. Il rischio contro cui essi proteggono riguarda l’insolvenza di molteplici soggetti economici. In una fase come questa dove i fallimenti si susseguono a valanga, questo business è diventato una palla al piede per Aig. Inoltre i "credit default swaps" con il tempo hanno assunto vita propria, sono diventati a loro volta degli strumenti altamente speculativi. Con una perversione della loro vocazione originaria, i Cds sono diventati un modo per scommettere sui fallimenti (dei titolari di mutui, delle aziende, delle banche) e guadagnarci sopra. Se per una parte del mondo della finanza essi continuano a essere una indispensabile copertura del rischio-clienti, per un’altra parte sono uno strumento di speculazione ribassista. E il business dei Cds è sfuggito ad ogni controllo. La lievitazione di questi strumenti è impressionante. Nell’insieme il volume delle esposizioni su questo mercato supera i 60.000 miliardi di dollari, il quadruplo del Pil americano. L’Aig è un protagonista centrale di questo settore. Travolto dall’impossibilità di onorare tutti quei contratti anti-fallimento, a sua volta con il suo crac può affondare l’intero sistema. Un esempio delle diramazioni internazionali: ieri la banca svizzera Ubs ha perso il 24% in Borsa, nonostante abbia garantito di avere chiuso tutti i rapporti con Aig dopo una perdita di 300 milioni di dollari.

L’importanza dell’American International Group spiega la frenesia con cui le autorità Usa si affannavano ieri attorno al suo capezzale. Lo Stato di New York, facendo una trasgressione clamorosa alle sue stesse leggi che regolano i comportamenti prudenziali delle assicurazioni, ha autorizzato Aig a farsi prestare 20 miliardi di dollari dalle sue filiali. Praticamente l’azienda ha avuto un nulla osta inaudito per infilare le mani nella cassa del ramo-vita e del ramo-rischi, con buona pace dei suoi clienti. Non è bastato. A riprova che l’intera stabilità del credito è in gioco, sul caso Aig è intervenuta la Federal Reserve, "sconfinando" nel settore assicurativo che esula dalle sue competenze. La Fed ha intimato a JP Morgan Chase e Goldman Sachs di mettere assieme un prestito-ponte di 75 miliardi di dollari: la bombola d’ossigeno per mantenere in vita il gigante assicurativo. Uno degli effetti del declassamento del rating, infatti, è che automaticamente molti creditori devono richiedere il rimborso di titoli derivati. Un’emorragia di liquidità che Aig non è in grado di fronteggiare. Mal’ipotesi di un nuovo salvataggio pubblico è stata attaccata da John McCain, candidato repubblicano alle presidenziali. "Lasciamo che Aig fallisca", è stato il suo commento. Dopo i costi sopportati dalle finanze pubbliche per il crac di Bear Stearns (30 miliardi di garanzie dalla Fed all’acquirente JPMorgan) el’onere incalcolabile della nazionalizzazione di Fannie Mae e Freddie Mac (200 miliardi la stima più ottimista), i repubblicani non vogliono affrontare le presidenziali con un deficit pubblico allo sbando. Se regge la linea del rigore applicata alla Lehman - o se JP Morgan e Goldman Sachs non trovano i "prestatori" volonterosi per 75 miliardi di dollari - il destino dell’Aig è segnato: un’altra bancarotta. A meno che intervenga il "cavaliere bianco" Greenberg con la sua cordata di investitori privati.

Dall’inizio di questa crisi di dimensioni storiche, le perdite totali per il sistema bancario - che il Fondo monetario internazionale stimava a 950 miliardi di dollari salgono verso i 1.500 miliardi. Le voci di difficoltà lambiscono le due ultime merchant bank sopravvissute, Morgan Stanley e Goldman Sachs (i cui risultati sono crollati del 70%). La più grande cassa di risparmio americana, Washington Mutuai, anch’essa vicina al fallimento, potrebbe essere "ingoiata" da JP Morgan. Come nell’acquisizione di Merrill Lynch da parte di Bank of America, queste operazioni decise nel nome della stabilità sistemica e dell’interesse nazionale avranno costi pesanti: ristrutturazioni e licenziamenti di massa.

L’ondata di sfiducia è inarrestabile e lo si è visto nell’impennata del costo del denaro. In una sola notte sul mercato interbancario americano è raddoppiato il costo per ottenere prestiti: il tasso Libor è schizzato da 3,20% a 6,44%, ritrovando i massimi dell’ 11 settembre 2001. La paralisi del credito e il dilagare della paura provocano scosse sismiche anche nella valutazione del rischio-sovrano. E’ sintomatico il balzo che ha subito il rischio-Italia. Il differenziale tra i rendimenti dei nostri Btp decennali e gli equivalenti Bund tedeschi è salito di 74 punti raggiungendo un massimo storico: il record dalla nascita della moneta unica nel gennaio 1999.

di Federico Rampini


Le banche centrali hanno il compito di effettuare la politica monetaria, di regolamentare e controllare il sistema bancario, di gestire al meglio gli strumenti a loro disposizione per conto degli Stati. Guardiamo un po’ le carte

Gestione delle risorse.
Sul web tutte le banche centrali pubblicano, fra le altre cose, le loro relazioni annuali dalle quali si evincono moltissimi dati. Nella tabella che segue ne sono estratti alcuni relativi agli ultimi dieci anni.

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Nella prima colonna sono riportate le banconote in circolazione; nella seconda gli interessi attivi relativi alle riserve connesse al circolante; nella terza quanto è fatto pervenire allo Stato sia sotto forma di imposte, sia sotto forma di “suddivisione” degli utili. La seconda colonna rappresenta quindi il signoraggio denominato “costo opportunità” ripetutamente menzionato, semplicemente come “signoraggio”, nella nota integrativa della relazione annuale alla voce “banconote in circolazione (il “signoraggio monetario” invece è connesso alle monete senza riserva, come le monete metalliche ed i biglietti di Stato, ad esempio le monete di carta da 500 lire emesse in Italia dal 1966 al 1979 direttamente dallo Stato in sostituzione di quelle d’argento con le tre caravelle).
Ovviamente vanno considerate le spese per la struttura, i compensi alle banche per le riserve obbligatorie, gli investimenti diversi da quelli relativi alle riserve al circolante, ecc.; la relazione annuale è ricca di dettagli, nonché esaustiva.
I tre parametri sottolineati, circolante, interessi attivi e somma da dare allo Stato, sono comunque assai significativi.
Il circolante, ovvero le banconote in circolazione, è la prima voce del passivo dello Stato Patrimoniale e si configura come un debito non fruttifero.
Gli interressi attivi, ovvero il costo opportunità, sono la prima voce del Conto Economico.
L’ammontare da dare allo Stato è la somma delle imposte e della suddivisione degli utili, collocate di solito fra le ultime voci ed alla fine dello stesso Conto Economico.
In definitiva bankitalia negli ultimi 10 anni ha incassato oltre 33 miliardi di € di “costo opportunità” ed allo Stato non è arrivato nulla, a causa degli anni “terribili” 2002, 2003 e 2004.
Vediamo cosa è successo alle banche centrali degli altri Paesi più importanti nello stesso periodo.

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Tutte le altre banche centrali hanno gestito in maniera più proficua gli strumenti a loro disposizione. Eccellente quella spagnola, che in 10 anni ha dato allo Stato quasi 33 miliardi di € pari al 61% della media delle banconote in circolazione, ma ottime anche la canadese, l’inglese, la statunitense e la tedesca (se bankitalia avesse operato come quella spagnola, considerando gli interessi composti, ci saremmo abbondantemente evitati la finanziaria ’06 da 35 miliardi del governo Prodi/Padoa-Schioppa, che è costata parecchio alla sinistra italiana in termini di consensi).
Sottolineo che la banca centrale statunitense è privata come la nostra, ma non ha avuto risultati così modesti, come la nostra.
Gli anni “terribili” le altre banche centrali li hanno sofferti in maniera assai minore, e comunque non sono coincisi temporalmente; ad esempio il peggior anno della BdE è stato il 2004 mentre il peggiore di BdI è stato il 2002.
Potremmo dire che bankitalia è stata “sfortunata”.

Regolamentazione e controllo del sistema bancario.
Qui bankitalia soffre la “distrazione” dei privatizzatori (1 e 2): si sono dimenticati di stralciare la proprietà di bankitalia al momento della svendita delle banche proprietarie della medesima, coi seguenti risultati:
- il nostro oro, le nostre riserve, ecc. sono formalmente dei partecipanti (3), ma non nella sostanza, perché l’utile (si fa per dire) viene comunque quasi tutto dato allo Stato;
- i controllati sono proprietari dei controllori.
Insomma un bel pasticcio.
Insistere su questo punto è come sparare sulla Croce Rossa. Solo la FED è nella medesima condizione. Quando Tremonti parla di topi e formaggio non fa che sottolineare l’ovvio.
Non c’è da stupirsi se Mario Draghi, presidente del Financial Stability Forum di Basilea, parla spesso di incentivi alle banche.

Politica monetaria.
Da qualche anno bankitalia non è più titolare della nostra politica monetaria. Non so se è un bene o un male. Da quando Andreatta ha avuto la brillante idea di togliere la PM alla politica (4) il nostro debito pubblico è passato dal 60% ad oltre il 124% del PIL mediante l’imposizione di tassi enormemente superiori all’inflazione (5) sul modello argentino alla Friedman (6). Se fossimo rimasti con la politica monetaria della nostra banca centrale, fissata con i tassi elavati “voluti dal mercato”, ora avremmo, fatte le dovute proiezioni, il debito pubblico ad oltre il 200% del PIL. Il mantenimento del TUS così elevato per così lungo tempo ha prodotto, oltre all’esplosione del debito pubblico, due importanti risultati:
- le imprese trovavano più giovamento ad investire in titoli del debito pubblico che in ricerca, innovazione, ecc.;
- la beffa del premio agli evasori che da un lato omettevano di pagare le imposte, dall’altro venivano omaggiati sull’evaso con i tassi elevati.
Infatti, appena i tassi sono calati per l’avvento della moneta unica, anche la nostra inflazione si è allineata a quella degli altri Paesi. Per anni abbiamo pazientemente ascoltato il governatore di turno lagnarsi della nostra inflazione elevata procurata proprio dalla sua folle PM. Siamo proprio un paese di “santi”. Sarei curioso di vedere cosa sarebbe successo alle economie francese e tedesca se si fossero trovate con una PM alla Friedman, sconfessata da lui stesso prima di lasciarci.
Ambienti vicini a D’Alema hanno auspicato per il PD un nuovo leader ed è venuto fuori il nome di Filippo Andreatta (7), figlio di Nino. Si vede che D’Alema aspira per il nostro Paese ad un rapporto debito PIL di tipo giapponese (nel Paese del sol levante quel rapporto è quasi al 200%).

Condoni.
Da L’ESPRESSO del 19 dicembre 1982.
“… troppa premura è stata mostrata dalla Banca d’Italia nel sollecitare il condono fiscale, per sé e per tutte le altre banche. L’impressione che ne è scaturita è che l’intero sistema creditizio avesse più di un peccato da farsi perdonare dal fisco. Anche a costo di pagare un prezzo salato, di decine e decine di miliardi. Impressione che non ha certo giovato al prestigio della Banca d’Italia, la quale, in qualche modo, è apparsa come la capofila d’una istanza corporativa del sistema bancario italiano.”
Sarebbe bello sapere se anche la altre banche centrali hanno dovuto ricorrere a siffatti strumenti non proprio “ortodossi”.

Banana Central Bank
Un tocco “esotico” non guasta. Forse non tutti sanno che:
- nella seconda edizione di “Euroschiavi” di Marco Della Luna ed Antonio Miclavez, Arianna editore c’è scritto: “alle isole Cayman sono stati trovati i seguenti conti: 700 26891 A01 N BANCA D'ITALIA UFFICIO RISCONTRO VIA NAZIONALE, 91 I-00184 ROMA ITALIA; 709 27154 A01 N BANCA D'ITALIA SERVIZIO RAPPORTI CON L'ESTERO, UFFICIO RISCONTRO 2484 VIA NAZIONALE, 91 I-00184 ROMA ITALIA”;
- sul web (8): “La Banca d'Italia nel 1994, tramite l'Ufficio italiano cambi (Uic), è entrata - con 100 milioni di dollari - in una società controllata dall'Hedge Fund Ltcm e costituita nel paradiso fiscale delle CAYMAN ISLAND dai soci promotori dello stesso Ltcm !!!”
- su Corsera del 26-10-95: il Financial Time ha scritto che per questo investimento la Banca d'Italia ha perso la sua "credibilità morale";
- su Il Sole 24 Ore dell’ 8-10-98: "E' assurdo utilizzare riserve nazionali per investire su un fondo come Ltcm, che era chiaramente speculativo", dichiara Edward Thorp, "padre" degli Hedge Fund americani;
- nel libro “Il Potere del denaro svuota le democrazie” di Giano Accame, ed. Settimo Sigillo, c’è un esplicito riferimento alla presenza della Banca d’Italia alle isole Cayman.
Non sarebbe auspicabile una smentita ufficiale da parte della nostra banca centrale?
Chissà se anche le altre banche centrali hanno queste “zone d’ombra”?

Mi pare che nessuna banca centrale sia in grado di competere con la nostra per l’attribuzione dell’ambito premio BCB. A meno che il suo potentissimo ufficio studi non individui qualche banca centrale esotica con prestazioni peggiori e minor amor proprio. Suggerisco di monitorare quella dell’Argentina, che ha preso troppo per buoni i vaneggiamenti di Milton Friedman.

Lino Rossi