31 gennaio 2013

L'Italia nel tunnel





Secondo i dati di Bankitalia, (1) diffusi a dicembre scorso, alla fine del 2010 la ricchezza netta delle famiglie italiane era pari a 8 volte il reddito disponibile (contro l’8,2 del Regno Unito, l’8,1 della Francia, il 7,8 del Giappone e il 5,3 degli USA). Il debito delle famiglie italiane era pari al 70% del reddito disponibile (contro circa il 100% di Francia e Germania, il 125% di USA e Giappone e il 165% del Regno Unito). Il 10% delle famiglie più ricche deteneva il 45,9% della ricchezza, la metà più povera soltanto il 9,4%.
Alla fine del 2011 la ricchezza netta delle famiglie italiane ammontava a 8619 miliardi di euro (la ricchezza in abitazioni ammontava a oltre 5000 miliardi e quella in attività finanziarie a oltre 3500 miliardi). Una ricchezza leggermente inferiore a quella del 2010 (8683 miliardi) a prezzi costanti, ma se calcolata a prezzi 2011 nettamente inferiore a quella registrata negli anni successivi al 2007, ad ulteriore conferma dell’impatto negativo sulla nostra economia della crisi finanziaria del 2008. Una ricchezza comunque sempre pari a quattro volte l’ammontare complessivo del debito pubblico.
Vi sono pochi dubbi perciò che, se in Italia vi fosse una classe dirigente degna di tale nome, la campagna elettorale verterebbe alla luce di queste cifre  soprattutto sulle conseguenze che derivano dall’obbligo di pareggio di bilancio e dal patto fiscale europeo (il cosiddetto “fiscal compact“), che ci costringe a ridurre il debito pubblico del 50% nell’arco dei prossimi vent’anni. Si tratta di misure d’austerità imposte al nostro Paese dal governo del “commissario tecnico” Mario Monti, e fondate sulla previsione (gravemente errata) che la diminuzione di un punto del deficit pubblico avrebbe causato la riduzione di mezzo punto di crescita, mentre in realtà ne ha prodotto il triplo (ossia un punto e mezzo di crescita in meno).
Misure che alimentano una recessione che sta dilagando in tutta Europa. E che, oltre a far impennare il tasso di povertà e quello di disoccupazione (specialmente del tasso di disoccupazione giovanile), stanno compromettendo addirittura la base produttiva del nostro Paese – un Paese notoriamente privo di materie prime e dagli anni Novanta anche di quel “pungiglione strategico” che una “mano pubblica”, esperta e decisa, oggi avrebbe potuto (e dovuto) sfruttare per trarre il massimo profitto dal mutamento geopolitico che sta rivoluzionando gli equilibri del sistema internazionale. Invece, essendovi in Italia tutto fuorché una classe dirigente, non solo non vi è alcun serio dibattito su tali problemi, ma si trova perfino del tutto normale che anche quel poco che resta del settore strategico pubblico venga ceduto allo “straniero”. E ci si limita a ripetere il mantra liberista lamentandosi del fatto che in questi anni non vi sia stata alcuna vera “rivoluzione liberale”, come se il terremoto finanziario del 2008 fosse il risultato delle scelte sbagliate del nostro Paese. Ma soprattutto “ci si balocca” con alcuni dati macroeconomici, senza nemmeno tener conto del fatto che la causa principale dell’andamento dello spread sui tassi d’interesse dipende, come in definitiva la stesso Fmi e Bankitalia riconoscono – non tanto dal debito pubblico quanto dalla mancanza di un autentico “soggetto politico europeo” e di conseguenza dal possibile collasso dell’eurozona, che proprio le politiche di austerity rendono più probabile.
Del resto, indipendentemente dalla internazionalizzazione (voluta da Amato e dagli altri tecnocrati “europeisti”) del nostro debito pubblico, dopo aver deciso, all’inizio degli anni Ottanta, il divorzio tra ministero del Tesoro e Bankitalia (divorzio che causò una crescita vertiginosa del debito pubblico), si sa che il Giappone, che ha un tasso di disoccupazione del 4,5% (contro l’11% dell’Europa) e che è la terza economia del pianeta, intende ampliare la propria spesa pubblica con un primo intervento di 85 miliardi, pur avendo un debito pubblico che è del 236% del Pil e un rapporto deficit/Pil al 10%. (2) Indubbiamente, ciò dipende pure dal fatto che il debito pubblico del Giappone è pressoché completamente detenuto dai giapponesi, ma la sostanza è che non vi può essere alcuna crescita né alcuna vera ripresa dell’economia reale senza rinunciare a misure d’austerity, il cui fallimento è sotto gli occhi di tutti.
D’altra parte, si può ragionevolmente ritenere che l’oligarchia che detiene le leve del potere in Europa consideri più importante liquidare una volta per tutte il “vecchio” Welfare e imporre un modello liberista di tipo americano, in particolare nei Paesi europei più deboli, garantendo da un lato i “mercati finanziari” e dall’altro gli interessi geopolitici degli Stati Uniti. Questi ultimi infatti, hanno tutto l’interesse a impedire una qualsiasi politica europea distinta da quella atlantista e al tempo stesso devono saldare la Germania all’Atlantico, per bloccare “preventivamente” ogni tentativo di dar vita a una nuova Ostpolitik, soprattutto ora che la sfida con la Cina (e con la Russia) è decisiva per il futuro degli Usa. Non a caso, gli statunitensi o i loro “agenti” si adoperano perché si lasci alla Francia sufficientemente spazio per poter fare una politica di tipo neocoloniale in Africa e agiscono in modo tale da approfondire sempre più il solco tra il Baltico e il Mediterraneo.
Insomma, si applica la solita strategia del divide et impera, con la differenza però che se nelle aree più calde del pianeta questa strategia non si distingue da una geopolitica del caos, che può giocare non pochi brutti scherzi agli apprendisti stregoni occidentali (dalla Libia al Mali, dall’Egitto alla Siria), in Europa si può facilmente far leva su gruppi subdominanti che, avendo ormai rinnegato ogni ideale, sono disposti a tutto pur di non perdere i favori degli amici “d’oltreoceano”. In questo senso, il nostro Paese sta giocando un ruolo di primo piano, sia sotto il profilo della ridefinizione in chiave mercantile dei rapporti sociali, sia sotto quello geopolitico, configurandosi come una base sicura per la NATO e la politica di potenza statunitense. Tanto che Difesa ed Esteri sono di fatto gestiti direttamente dagli statunitensi, essendo palese che si tratta di ministeri controllati rispettivamente dal Pentagono e dal Dipartimento di Stato degli Stati Uniti, e che non rappresentano né tutelano in alcun modo i reali interessi del nostro Paese. Ragion per cui anche coloro (come Luciano Gallino e Stefano Sylos Labini) che difendono le ragioni di un intervento pubblico per far uscire l’Itala da una spirale recessiva che minaccia di far compiere alla maggioranza degli italiani un drammatico “balzo all’indietro”, dovrebbero rendersi conto che non vi sono solo ostacoli di tipo economico da superare. Anzi gli ostacoli maggiori sono di ben altra natura. E se si può concedere che la Fornero non ne sia consapevole, Mario Monti e certamente Mario Draghi sanno sicuramente quel che bolle in pentola. E agiscono di conseguenza.
In ogni caso, l’azione politico-strategica dei “mercati” è favorita dallo pseudoeuropeismo dei tecnocrati atlantisti (il cosiddetto “euroatlantismo”) e da una lotta tra forze politiche il cui vero obiettivo è diventare i portavoce degli strateghi d’oltreoceano, infischiandosene della sorte della maggioranza degli italiani. I quali, tuttavia, non hanno fatto molto in questi ultimi lustri per cercare di far prevalere l’interesse generale, badando perlopiù al proprio “particulare” e prestando ascolto ai soliti gazzettieri e intellettuali mercenari che infestano il nostro Paese da decenni. Non c’è dubbio quindi che gli italiani sapranno premiare i peggiori pure questa volta. Anche perché non pare che vi siano vere alternative, se non vi è nessuna forza politica che difenda princìpi e valori di tipo socialista e nazionalpopolare e che allo stesso tempo intenda battersi per i diritti dei popoli europei contro la prepotenza dei “mercati” e della oligarchia euroatlantista. Quel che però è certo è che quei (pochi) italiani che non hanno dimenticato che anche il comandante in capo delle forze armate statunitensi nel Vietnam del Sud, generale William Westmoreland, disse che vedeva la luce in fondo al tunnel poco prima della famosa offensiva del Tet, che sancì la sconfitta degli Stati Uniti nella guerra del Vietnam, non possono non essere d’accordo con chi sostiene che l’ottimismo è l’oppio degli insipienti e che, se veramente si vuole il bene dell’Italia, sarebbe invece opportuno non nascondere il timore che il peggio debba ancora venire.
Con ciò non si vuole affermare che non vi sia via d’uscita. Si tratta piuttosto di prendere atto che solo uno “squilibrio” derivante da una (invero non impossibile) nuova crisi internazionale potrebbe liberare una “quantità d’energia” tale da indurre la Germania (e la Francia) a decidersi per un cambiamento di paradigma (geo)politico. Si concederà però che, rebus sic stantibus, non vi è nulla che faccia ritenere che vi sia in Europa la volontà di dar inizio ad un tale nuovo corso politico, che avrebbe effetti positivi anche in un Paese come il nostro in cui funzione politica e innovazione strategica sembrano quasi del tutto scomparse.

di Fabio Falchi 

(1)Bancaditalia.it
(2) IlSole24ore.com

30 gennaio 2013

L'ineffabile ombra della finanza mondiale




   
   

Il missionario e giornalista P. Giulio Albanese ha inserito in un articolo del numero di Gennaio della sua rivista “Popoli e missione”, un’informazione tanto fondamentale quanto ignorata dalla stampa e che riportiamo qui sperando di aiutare in questo modo a divulgarla. Vorremmo anche che i nostri governanti, astutissimi banchieri che non trovano mai sufficiente la cosiddetta “trasparenza e tracciabilità” dei nostri miseri redditi, inseguendo con la forza di quella che ormai possiamo considerare la loro particolare Polizia, i militari della Finanza, ogni nostro scontrino, ogni più piccola ricevuta, ci spiegassero quali sono i “loro” interessi a mantenere nell’ombra queste operazioni. Dei nostri politici è inutile tenere conto: una volta ridotto il Parlamento alla farsa del dire “sì” ai banchieri, sono diventati come le famose scimmiette che non vedono, non sentono, non parlano, impegnati esclusivamente nella salvaguardia della propria carriera.

“Si tratta di un importante studio sul "sistema bancario ombra", lo shadow banking mondiale, pubblicato dal Financial Stability Board (Fsb), l'istituto internazionale di coordinamento dei governi, delle banche centrali e degli organi di controllo per la stabilità finanziaria a livello globale. Leggendo attentamente questo testo, si scopre che qualcosa di aberrante è all'origine della crisi finanziaria planetaria. Lo studio, incentrato sulla cosiddetta eurozona e su altri 25 Paesi, evidenzia infatti che a fine 2011 ben 67mila miliardi di dollari erano gestiti da una "finanza parallela", al di fuori, quindi, dei controlli e delle regole bancarie vigenti; una cifra che equivale al 111% del Pil mondiale ed è pari alla metà delle attività bancarie globali e a circa un quarto dell'intero sistema finanziario.

Leggendo questo studio si ha l'impressione d'essere al cospetto di un movimento sovversivo che specula impunemente ai danni degli Stati sovrani e soprattutto dei ceti meno abbienti. In altre parole, se da una parte ci sono i conti correnti con i risparmi dei cittadini e delle imprese, dall'altra abbiamo questo sistema bancario occulto, composto da tutte le transazioni finanziarie fatte fuori dalle regolari operazioni bancarie.

Come spiegato in più circostanze su questa rivista dal 2008, in coincidenza col fallimento della Lehman Brothers e dall'inizio della crisi sistemica dei mercati, si tratta di operazioni fatte da differenti intermediari finanziari, come certi operatori specializzati nel collocamento dei “derivati”, quei prodotti finanziari che, in larga misura, hanno inquinato i mercati. Tutte attività, queste, rigorosamente over the counter (otc), cioè stipulate fuori dai mercati borsistici e spesso tenute anche fuori dai bilanci. Alcuni autorevoli economisti ritengono che il "sistema ombra" sia spesso un'emanazione delle grandi banche internazionali che hanno interesse ad aggirare le regole e i controlli cui sono sottoposte.”


Naturalmente nulla di tutto ciò è nuovo: se ne è parlato in libri e articoli (vedi “La Dittatura europea”) già diversi anni fa e discusso abbondantemente in molti siti internet, incluso il nostro, ma come è successo sempre per quanto riguarda l’Unione europea e la moneta unica, politici e governanti ignorano qualsiasi domanda, passano sopra con dittatoriale indifferenza alle richieste e ai bisogni dei sudditi, intenti esclusivamente a condurre in porto il proprio progetto di potere: l’unificazione del mondo governato dai banchieri. Non ha nessuna importanza il fallimento evidente di tante delle loro imprese, inclusa quella dell’euro, visto che se ne sono arricchiti in denaro e in potere, togliendoli ai cittadini. La bilancia, infatti, è proprio questa: tanto hanno perso in sovranità e in denaro i cittadini d’Europa, tanto hanno acquistato in potere e in denaro i banchieri. Come abbiamo già detto, i politici non contano: sono esclusivamente al servizio dei banchieri, forse perché altrimenti perderebbero pure le apparenze del potere e le connesse prebende di cui ancora godono.

Lo spettacolo che le migliaia di pirati all’arrembaggio hanno offerto ai nostri occhi in questi giorni per candidarsi alle prossime elezioni, per appropriarsi, come affamate cavallette, degli ultimi resti del corpo dilapidato dell’Italia, ha dato la misura di una involuzione ormai irreversibile. Nessuno ha minimamente messo in dubbio che si debba dipendere dai banchieri, dall’alta finanza che governa l’Europa. Nessuno ha detto che, senza la sovranità monetaria, è impossibile ricominciare ad avere un vero mercato e salvare qualche briciola dalla competizione con gli Stati emergenti. Nessuno ha parlato della fine degli Stati nazionali e della loro indipendenza. Addirittura si è deciso di partecipare ad una guerra (quella in Mali) senza discuterne in Parlamento. Nessuno ha preso in considerazione, in un’Europa che si vanta della propria civiltà, la criminalità di strutture di governo che dominano i sudditi attraverso il denaro, attraverso il fisco, assurto ad unico “valore”. Non parliamo dei “cattolici” visto che si vantano di esserlo anche molti dei governanti banchieri, pur calpestando il Vangelo ad ogni passo. Parliamo, però, della gerarchia della Chiesa la quale non ha mai condannato l’unificazione europea, pur voluta dall’alta finanza e guidata dai banchieri, e non ha neanche mai condannato i governanti banchieri che attraverso il fisco hanno spinto i sudditi alla disperazione fino al suicidio. Ma soprattutto parliamo della gerarchia della Chiesa che adopera essa stessa il linguaggio del mercato laddove parla di valori “non negoziabili”. Formula atroce che fa rabbrividire chi sa che nel Vangelo non esiste nessun valore “non negoziabile” perché soltanto di una specie di peccatori Gesù ha detto che “non entreranno nel regno dei cieli”: i ricchi.

di Ida Magli

28 gennaio 2013

MPS: un caso di crisi finanziaria sistemica








Lo scandalo dei derivati del Monte dei Paschi di Siena è più grave di quanto lo si stia dipingendo. Però vediamo di non trasformarlo nella solita bega provinciale a metà strada tra la politica e i giochi elettorali.
Si tratta, invece, della nota questione, profonda e sistemica, della finanza globale e delle sue crisi mai affrontate.
I responsabili dello scandalo e della truffa, se la magistratura li individuerà e ne accerterà le violazioni del codice penale, meritano la galera ed il sequestro dei beni.
I controllori, che non hanno saputo controllare, a cominciare dalla Banca d’Italia, devono comunque spiegare il loro operato e trarne eventualmente le necessarie conclusioni.
A noi preme anche sottolineare e mostrare gli aspetti sistemici ed internazionali che stanno all’origine della crisi e, anche in questo caso, a monte e a valle della frode.
E’ sorprendente l’indignazione di fronte a questo scandalo. Come se ogni frode sia scollegata dalle tante altre e abbia una semplice valenza locale.
Non tutti sanno che tra gli azionisti di Mps c’è anche la banca americana JP Morgan Chase. Essa è la prima al mondo per operazioni in derivati finanziari. L’ultimo rapporto dell’Office of the Comptroller of the Currency (Occ) negli Usa indica che alla fine del terzo trimestre del 2012 essa deteneva derivati over the counter (otc) per un valore nozionale di ben 71 trilioni di dollari!
Come è noto gli otc sono contrattati nell’assoluta opacità, al di fuori dei mercati ufficiali e tenuti fuori bilancio.
Anche la frode Mps ne è la prova provata. Vi era, infatti, un contratto tenuto segreto in cassaforte e mai riportato sui libri contabili.
Questi casi esplodono quando bisogna coprire le perdite di qualcosa che ufficialmente “non esiste” o non dovrebbe esistere.
La JP Morgan quindi controlla quasi un terzo di tutti i derivati attivati dalle banche americane, che sono 227 trilioni di dollari. Detiene inoltre un nono di tutte gli otc mondiali che, secondo l’ultima stima della Banca dei Regolamenti Internazionali di Basilea, ammontano a 639 trilioni di dollari!
Con una presenza attiva della succitata banca americana, non è sorprendente che anche Mps si sia immersa nella palude dei più rischiosi derivati finanziari. Chi va con lo zoppo impara a zoppicare!
Dai risultati delle indagini finora emersi apprendiamo che Mps, per coprire le rilevanti perdite derivanti da operazioni in derivati, noti come “Alexandria”, fatte tra l’altro con la Dresdner Bank tedesca, nel luglio 2009 aveva sottoscritto un altro cosiddetto “veicolo strutturato” in derivati. Ancora più rischioso e segreto con la finanziaria giapponese Nomura.
Con tale operazione apparentemente sparivano le perdite ma Mps si impegnava a sostenere i costi  del nuovo derivato finanziario per almeno trenta anni.
Dopo il fallimento della Lehman Brothers nell’autunno del 2008, la Nomura è diventata la più aggressiva finanziaria impegnata nei più esotici e rischiosi derivati. Nel 2009, infatti, essa ha rilevato tutte le strutture europee e asiatiche della Lehman, “arruolando” anche i suoi massimi manager e circa 8.500 operatori finanziari. Non è un caso che la Nomura sia coinvolta in moltissime operazioni finanziarie internazionali ad alto rischio. Molte delle quali anche in Italia.
Un altro “veicolo” speculativo in derivati finanziari, emerso dalle indagini, è il “Santorini”, stipulato da Mps con la Deutsche Bank, la quale nell’ultimo periodo è nell’occhio del ciclone per tantissime indagini per truffa da parte delle autorità tedesche.
Un certo sconcerto suscita il “regalo” di  4 miliardi di euro fatto al pericolante Banco Santander spagnolo nell’acquisizione di Antonveneta.
Come si può notare molte di queste operazioni sono state fatte dopo l’esplosione della crisi del 2007-8. Gli attori, come da noi ripetutamente evidenziato, hanno continuato a muoversi con la stessa spregiudicatezza e irresponsabilità. Essi contavano e ancora contano su due cose: essere troppo grandi e sistemici per poter essere lasciati fallire e sulle politiche conseguenti di salvataggio bancario da parte dei governi.
E’ un gioco mortale per le economie e per i paesi coinvolti. Deve finire. Riteniamo che il caso Mps debba diventare per l’Italia e per l’Europa l’occasione per costringere anche gli Usa, il Giappone e gli altri paesi del G20 a ripulire la finanza dai titoli tossici. Altrimenti si rischiano nuove “bombe finanziarie” con ulteriori devastazioni delle economie e con la frustrazione di ogni speranza di ripresa. Anche in Italia. 


di Mario Lettieri e Paolo Raimondi

Disintossichiamoci o l’ultima dose sarà letale



Che l’agenda Monti sia stata un disastro su tutti i fronti lo hanno capito anche gli stessi sostenitori di tale governo pseudo tecnico. Tutti i parametri, e sottolineo i “loro parametri” sono peggiorati, è un dato storico. Ma allora perché tale “uomo” ha ancora il coraggio di ripresentarsi per continuare la sua “agenda”? Semplice, ubbidisce agli ordini. Il motivo è che il suo operato, per chi lo ha mandato a fare quello che doveva fare, è andato benissimo. Sfasciare l’Italia per favorire la Germania, e far recuperare soldi alle banche internazionali. L’italiota teledipendente non riesce ad avere una visione complessiva sui meccanismi della finanza internazionale e continua a pensare che destra, sinistra e ancor peggio il "centro" possa essere una soluzione politica alla questione.
La crisi indotta dal sistema finanziario non  dipende dal popolo (cattivo evasore) cosi come non dipende dal sistema produttivo (che chiude per mancanza di liquidità), dipende da "meccanismi internazionali" a cui dobbiamo obbedire. ll sistema produttivo certamente si rovinerà continua questa anemia  monetaria forzata. Se si continua a credere che la credibilità italiana dipende da un certo "Monti" che estorce ricchezza al popolo italiano per darla ai mercati speculativi sanguinari, la strada per la catastrofe è segnata. Sempre tardi sarà la benvenuta la divisione tra banche d'affari e banche commerciali, ma gli alieni arriveranno certamente prima.
L’applicazione pedissequa del neoliberismo dove il profitto per il profitto giustifica qualsiasi mezzo con l’imposizione coatta di una "moneta debito" privata non controllabile da una politica unitaria europea assolutamente inesistente, fa succedere che: la "BCE" pensa solo a salvare i suoi azionisti a scapito della popolazione europea, i mercati pensano solo a fare il proprio profitto, gli stati sono solo dei miseri crumiri  a servizio delle lobby bancarie a danno dei popoli. Lo ribadisco da tempo non può esistere una politica economica se non strettamente correlata ad una politica monetaria.
Con l'euro nessuno stato, compresa la Germania, può seriamente fare politiche economiche poiché questo euro vive di autonomia emissiva propria secondo criteri completamente staccati dal tessuto produttivo. Gli interessi sul denaro si dovrebbero calcolare secondo la capacità produttiva del paese ed invece vengono stabiliti da società di rating controllate dagli stessi investitori. Uno stato con propria capacità ed autonomia monetaria può regolare la quantità di liquidità secondo le proprie esigenze produttive senza dover sottostare agli umori degli investitori internazionali. 
Continuare a pensare che un'unica politica monetaria, tra l’altro perversa come quella della BCE, possa essere di aiuto ad economie completamente diverse come quelle delle nazioni europee, è da pazzi, da TSO giornaliero. Ma allora perché si continua per questa strada? Probabilmente perché ormai tutti, soprattutto la Germania è entrata nell’ottica di raccogliere al più presto tutto quello che si può raccogliere e poi abbandonare la "nave euro" piena di drogati, "ognun per se e Dio per tutti". Tra l’altro bisogna anche sbrigarsi a trasformare le liquidità in beni reali prima del crollo.
L’anemia monetaria indotta serve anche a questo, a comprarsi beni e aziende di stato e lasciare il cerino (euro) in mano all’ultimo coglione pensando di aver saldato parte del debito. La svendita del patrimonio come vorrebbe qualche lista (tra le migliaia che stanno sorgendo come funghi) è l’errore più grande che si possa fare, perché è proprio la strada che ci hanno preparato per caderci dentro. I beni e le aziende non devono essere vendute, ma messe a redito, e non farci profitto vendendole, tanto e vero che le caserme non siamo riusciti a venderle mente Finmeccanica ed ENI si.
Allora se queste aziende facevano profitto perché si sono vendute? Vogliamo dire che la politica è complice? Sarebbe da alto tradimento allo stato italiano ma lasciamo stare. Le politiche Keynesiane che sono spesso troppo bistrattate sono l’unica soluzione, certamente vanno rivisitate secondo il nuovo contesto storico e sociale, in una economia sempre più tecnologica che erode posti di lavoro. La piena occupazioni lasciando i modelli vecchi è una utopia come è una utopia realizzarla con la flessibilità se non in minimissima parte. La logica dei servizi deve ritornare, solo per fare un esempio siamo stufi di sentire dischetti registrati, basterebbe una stupida legge che imponesse la risposta obbligatoria di una persona fisica.
E' chiaro che se questa azienda deve rispondere ad un sistema ci competizione sfrenata per produrre profitto di cui oltre il 50% va allo stato ciò non potrà avvenire mai perché si è perso il principio della "natura sociale" dell'impresa.  Che il libero mercato si autoregoli è la più grande barzelletta mai inventa, in quanto i fenomeni di "cartello" la dicono lunga sulla libera concorrenza. Non a caso il neoliberismo predica uno “stato snello”, proprio perché cosi da meno fastidio ai poteri finanziari, alle multinazionali alle banche d’affari. Diversa è la burocrazia statale che certamente va snellita, ma non bisogna confondere le cose, uno stato snello anche di sovranità monetaria non è più uno stato che può occuparsi del suo popolo.
Lo stato compatibilmente alla evoluzione tecnologica deve essere il "motore dell’economia" sia con interventi diretti ossia con "potere di spesa" senza sottostare al vincolo di usura internazionale, sia con interventi indiretti, facilitando settori con detassazioni e sburocratizzazioni. Introdurre le politiche keynesiane senza prevedere una trasformazione della economia e una ridistribuzione reale del redito (C.H. Douglas), significa non voler arrivare al risultato. In tutto questo è fondamentale ragionare fortemente in termini di "autonomia", poiché il primo intoppo che si avrà è proprio sulla bilancia con l’estero.
Ridurre al massimo le dipendenze soprattutto energetiche, oltre che culturali e politiche. In una famiglia prima di compare altre bottiglie di vino si va a vedere se nella dispensa siano rimaste bottiglie e solo dopo avere appurato che non c’è niente si va a comprare e solo se è necessario. Le multinazionali, le compagnie petrolifere, le società finanziarie non vogliono sentire parlare di questi argomenti, tacciandoli come “orrore” poiché ogni nazione deve approvvigionarsi da queste, infatti queste vengono si comprano le nostre industrie e poi ci vendono ciò che era nostro.
Per far si che funzioni quindi il sistema keynesiano (ma anche sistema MATTEI) è importante che ci siamo della premesse chiare: attuare un sistema massimo di ottimizzazione di *risorse locali* (in altri tempi si sarebbe chiamato protezionismo) in termini di  risorse, energia, idee, uomini, tutto quello che si può produrre, fare in Italia va fatto in Italia, con italiani. Poi avere una "moneta sovrana" proprietà del popolo con  la possibilità anche di monete locali, questo per radicare il più possibile la ricchezza al territorio. Piano di riconversione industriale con studi e ricerche (il più possibile italiane) per la bonifica dei territori, mari inquinati, ristrutturazione di tutto il patrimonio immobiliare pubblico e privato con finanziamenti diretti ed indiretti. Sistemazione del sistema idrogeologico e forestale nazionale. Creazione di cooperative di servizi per la sanità e gli anziani visto che la popolazione italiana sta lentamente invecchiando.
Redito minimo di cittadinanza a tutti. Finanziamento della ricerca in ogni settore soprattutto nel settore delle energie rinnovabili. Ristrutturazione e riforma di tutto il sistema d’istruzione, dagli edifici, ai programmi, ai testi, ai corsi, alla valorizzazione dei docenti. Piano di riqualificazione e risparmio energetico di tutti gli edifici pubblici e privati. Piano di consolidamento degli edifici sotto il profilo sismico. Piano di ingegnerizzazione ed infrastruttura per internet sia via cavo che WIFI libero per tutti. Mi sono limitato solo ad alcuni settori tralasciando per esempio il turismo e l’arte che sono un altro immenso settore di lavoro potenziale, solo per dire che la “mancanza di lavoro” è una pura illazione se solo ci fosse una classe dirigente che non ragionasse con le mutande sopra gli occhi del profitto facile e mentalmente drogati di neoliberismo con visione solo dell'oggi.
Se solo si capisse che i signori che odiano il protezionismo sono i primi ad aver creato dei monopoli monetari, energetici, alimentari,ecc super potetti, si invertirebbe subito la tendenza. La strada è lunga tortuosa perché siamo stati drogati di neoliberismo da oltre venti anni dove ci hanno raccontato una storia distorta per farci credere che i buoni erano cattivi e che i cattivi erano
buoni e questo è il risultato, "spogliati di ogni ricchezza". La disintossicazione è lunga e difficile e spesso fallimentare. L’euro è stata l’ultima droga in ordine di tempo che ci hanno somministrato per distruggere la “nazione” e ridurci solo a un “paese” (come un altro). Certo si potrebbero  rinegoziare i trattati di Lisbona,  Maastricht, il MES, nonché il funzionamento della stessa BCE, ma è più facile  che “Israele faccia pace con la Palestina” che questa macchina da guerra civile dell’Europa cambi!!! (e gli hanno dato pure il Nobel).
Restare nell’euro equivale a suicidarsi.
Giuseppe Turrisi

27 gennaio 2013

Astensione o voto di protesta? Breviario per delegittimare il sistema




Come delegittimare in una logica parlamentare l’intera classe politica italiana?
La classe politica italiana: asservita, complice, coesa
Il governo tecnico è stato il culmine della decadenza intellettuale e morale della Seconda Repubblica e dell’intera classe politica italiana. Le ricette “lacrime e sangue” del curatore fallimentare Mario Monti architettate ad arte dalla Troika (Fmi, Bce e Ue) ed inclini a far pagare ai lavoratori italiani i tassi d’interesse sui titoli di Stato al fine di risanare il debito pubblico (che nel frattempo è pure aumentato rispetto agli anni precedenti!) sono state sostenute per un anno intero da tutti i partiti (eccetto qualcuno), Pd, Pdl e Udc in primis. L’attuale campagna elettorale? La dialettica? Santoro vs Berlusconi? Un teatrino tutto democratico, un sistema che si regge su due gambe contrapposte ma che permettono comunque sia al corpo oligarchico di camminare.
La logica parlamentare: l’astensione, la scheda bianca o la scheda annullata come diritto e non come imposizione 
Le elezioni sono la massima espressione di un regime democratico. Sono anche l’unica modalità con cui poter decidere i propri rappresentanti all’interno degli organi legislativi e di fatto intavolare il destino politico del Paese in cui si risiede e vive. Tuttavia il voto è un diritto e non un’imposizione. Il non-voto, che una legge abolita nel 1990 e mai applicata penalizzava, è oggi legittimo né più né meno del voto. Essa corrisponde esattamente a una volontà dell’elettore, così come andare a votare e mettere una croce su un simbolo, o su un sì o un no. Chiunque non sia soddisfatto delle offerte sulla scheda o non sia interessato a fare quella scelta ha l’astensione dal voto come strumento e come diritto. Punto.
Come delegittimare un intero sistema? Che fare?
Pertanto l’astensionismo strategico non è una vera e propria soluzione per scardinare la partitocrazia ed esprimere il dissenso, poiché l’astensione dal voto non ha una proiezione istituzionale. Inoltre dalle esperienze anglo-americane ed europee degli ultimi anni, le classi dirigenti democraticamente “elette” si sono auto-legittimate con delle percentuali ridicole di votanti. Di fatto astenersi dal voto vorrebbe dire concretamente permettere proprio a quella classe politica asservita, complice e coesa di governare il Paese.
È anche vero però che se gli astenuti fossero almeno il 75 per cento dell’elettorato e questi ultimi si rivoltassero (in piazza) contro l’auto-legittimazione degli eletti, l’intera macchina sistemica sarebbe destinata a crollare. Tuttavia il blocco degli astenuti non è un corpo organico, organizzato, omogeneo e per questo, difficilmente, riuscirebbe a spodestare un sistema “democraticamente” eletto il quale, comunque, soffocherebbe la protesta in maniera democratica e subdola come avviene ormai da decenni. Di fatto l’astensione potrebbe essere un’arma utile unicamente per chi ha l’intenzione di partorire un gruppo, un movimento o un’associazione politica con prospettive istituzionali in un’ottica rivoluzionaria o riformista, in poche parole influente e di opinione al livello nazionale.
Mentre per chi desiderasse manifestare il proprio dissenso senza inclinazioni politico-associazionistiche sarebbe meglio concedere il suffragio a quelle formazioni extra-parlamentari che si sono opposte da sempre nella società ad un esecutivo tecnico e antidemocratico ed ai partiti che lo hanno consentito. Senza fornire indicazioni di voto specifiche, è necessario votare per i partiti della protesta. In questo caso “il voto utile”, anche se con i suoi limiti, andrebbe sicuramente al Movimento 5 Stelle, tuttavia il 24 e 25 febbraio Beppe Grillo non sarà il solo portavoce del dissenso nazionale dato che a concorrere ci sono tanti partiti anti-sistema, come ci sono tante liste territoriali prive di ideologia che potrebbero avere soluzioni interessanti.

di Sebastiano Caputo 

26 gennaio 2013

Servi della gleba e debito pubblico

Alessandro II, Zar di tutte le Russie, il 3 marzo del 1861 con il “Manifesto per l’Emancipazione dei Servi” pose fine alla schiavitù della gleba in Russia. Per 23 milioni di Russi, suoi devoti sudditi, resi schiavi per secoli dal feudalesimo della nobiltà russa, tante povere “anime morte”, fu un giorno di grande giubilo. Tuttavia subito dopo ci si accorse che la tanto agognata libertà era ancora molto lontana. Infatti le banche dello Zar, per concedere ai servi della gleba i prestiti per pagare quanto dovuto ai padroni della terra riscattata… Le autorità non erano tanto ben disposte verso la massa dei miserabili contadini, praticamente analfabeti, ignoranti e superstiziosi. I rischi di non essere ripagati in tempo erano molto alti. Non solo. Non si poteva concedere soldi a chi non aveva ancora nulla. Gli interessi sul prestito, si rivelarono assai pesanti: si doveva rimborsare la somma avuta con il 6% anno per anno, per la durata di 49 anni. Ciò significava ancora nuovi pesanti sacrifici, miseria, insicurezza e difficoltà di ogni genere. Parimenti, il contenzioso legale con l’amministrazione centrale dello zar, diventava giorno dopo giorno ingestibile. La nostra situazione – di debito pubblico - oggi ammonta ad oltre 2000 miliardi di euro. Orbene, tale debito è, “mutatis mutandis” praticamente la stesso debito che i contadini russi dovevano allo Zar. Situazione, la nostra, assai peggiorata, rispetto a quella dei sudditi contadini-servi della gleba dello Zar Alessandro II. Infatti, il nostro debito pubblico, di oltre 2000 miliardi di euro, una somma praticamente impossibile da restituire, con tassi d’interessi composti crescenti, che impongono sacrifici , lacrime e sangue, per molte future generazioni. Il nostro futuro è incerto, quello dei nostri nipoti è tutto nero. Tutto questo enorme debito da restituire alle banche estere, rappresenta il conto salato che dobbiamo saldare per ritornare ad essere liberi. Oggi non lo siamo. Siamo tornati ad essere schiavi. Siamo tanti servi della gleba. Il governo, i Partiti, le Liste, come la RAI-Tv e molta stampa ipocrita, corrotta, continuano a mentire. Le elezioni politiche di questo febbraio non faranno che produrre nuovi pesanti debiti. Lo zar Alessandro II venne barbaramente ucciso mentre stava passeggiando in carrozza domenica 13 marzo 1881 a San Pietroburgo, sulla Nevsky Prospekt, da Nikolai Rysakov.e da Ignaty Grinevitsky.

di Michele Sequenzia

 N.B: L’espressione servitù della gleba (dal lat. servus, schiavo) designa la condizione di uomini o donne che non godevano di libertà personali, appartenevano a un signore ed erano vincolati alla gleba, ovvero alla terra che coltivavano (Contadini); l’equivalente franc. servage deriva dal lat., mentre il termine ted. Leibeigenschaft da Leib (corpo) ed Eigenschaft (proprietà).

25 gennaio 2013

Con i partiti "Cambiare (non) si può"

"A partiti e politici in disarmo non sembrava vero di aver trovato un bell’autobus che li riportasse nel loro nido naturale che è il parlamento, sede di ogni possibile parassitismo" Si è concluso il circo delle candidature elettorali e se qualcuno aveva ancora qualche dubbio sul fatto che dai partiti ci si possa aspettare qualcosa di positivo, le vicende della corsa ai candidati hanno sgomberato il campo. Sembrava un incrocio fra le partite a figurine dei bambini e il mercato delle vacche dei grandi. Fra le varie comiche, tutti a cercare di scimmiottare quello che dice Grillo rifacendosi impossibili verginità nelle liste elettorali mettendo da parte due o tre dei maggiori compromessi fra i vari impresentabili di cui sono assortiti i partiti. Uno spettacolo pietoso e indegno. In questo quadro mi soffermo sul tentativo di “Cambiare si può” che è stato illustrato anche sulle pagine di questo giornale e sull’impossibile speranza che la società civile possa contare qualcosa attraverso i partiti. I partiti non fanno mai nulla per nulla e se sembra che diano qualcosa è solo perché sanno che in cambio avranno molto di più di quello che apparentemente danno. Possono anche perdere molto pelo ma di sicuro non il vizio. Quei personaggi, soprattutto con un background di partito, che parlano di società civile, di 'nuovi soggetti politici' e così via, cercando di attirare a sé movimenti, comitati o simili, non fanno altro che cercare di avere il consenso per salire su qualche poltrona. Tutti i tentativi di unione di vari gruppi e istanze falliscono miseramente perché c’è una insanabile contraddizione di partenza nel fatto che chi parla di unione lo fa spesso pensando che il suo punto di vista sia poi l’unico da seguire. Ridicoli ducetti malati di protagonismo adolescenziale cercano di attrarre a sé più persone possibili con ogni mezzo apparentemente onesto e condivisibile per poi improvvisamente giocare la carta del partito finalmente e veramente diverso, nuovo, indispensabile, mettendosi in questo modo al di sopra e in conflitto con tutti. Di fronte a mille di questi episodi e trasformismi non è un caso che le fortune di Grillo sono anche derivate da una presa di posizione netta contro i partiti e chi agisce con la loro logica. In una situazione del genere credo che non si sia dato sufficientemente risalto alla grande rilevanza morale e significato della scelta di Carlo Petrini di Slow food di non candidarsi con nessuno, nonostante gli avrebbero fatto ponti d’oro. Di sicuro Petrini fa più così con la sua organizzazione che non ostaggio e trofeo da mostrare da parte di qualche partito. Il progetto di Cambiare si può, come altri tentativi del genere fatti in passato e che verranno fatti in futuro, servono solo ai partiti per avere una possibilità, fornita più o meno inconsapevolmente da persone volenterose e in buona fede, di rientrare dalla finestra dopo che come nel caso attuale, erano usciti dalla porta del parlamento. A partiti e politici in disarmo non sembrava vero di aver trovato un bell’autobus che li riportasse nel loro nido naturale che è il parlamento, sede di ogni possibile parassitismo. Dopo discussioni di mesi, preparazioni, programmi, propositi, fiumi di parole, tempo, energia e soldi sprecati, piove dal cielo tale Ingroia che in base alla sua visibilità mediatica in pochissimo tempo si impadronisce di tutto il palcoscenico. Si accorda con partiti malconci e personalità decadute, piazza i suoi capetti a destra e sinistra con qualche condimento di un paio di rappresentanti della cosiddetta società civile e il giochetto è fatto con tanti saluti a chi ha creduto l’ennesima volta nella 'politica dal basso'. Cosa altro c’è da capire, accertare, valutare? Ma non sarà che invece di seguire sterili programmi politici bisogna costruire solidi progetti? Ma non sarà che la vera unione da cercare è sul cambiamento concreto e non sulla mozione numero uno, due o tre su cui scannarsi? Quando intellettuali, politici, ex politici, teorici di ogni risma e così via si mettono a capo di qualcosa difficilmente se ne cava qualcosa di buono, se non fiumi di parole su cui si cavilla all’infinito inutilmente e si finisce per spararsi addosso fra galli che si massacrano per essere padroni del pollaio anche se si tratta di due galline. Chissà se l’ennesimo e non ultimo fallimento di una utopica gestione dal basso della politica istituzionale possa insegnare che questa politica ha fatto il suo tempo, che è arrivato il momento di elaborare proposte di cambiamento su progettualità concrete ora e qui e non su pii desideri che si realizzeranno “quando avremo preso il potere”, cioè mai. Il potere oggi è di chi con le sue scelte decide di cambiare. Il potere oggi è di chi boicotta, rifiuta, coltiva, scambia, agisce, cammina, autoproduce, riduce, impara, apprezza e soprattutto sa essere umile pur essendo fermo nelle sue scelte e nella sua voglia di cambiare. Il potere oggi è di chi non segue nessun gatto e volpe ma decide anche assieme ai suoi simili che ce la può fare e ce la farà. di Paolo Ermani

L'IMU era per Monte dei Paschi di Siena

Riassumendo MontePaschi a dicembre scorso ha ricevuto 23 miliardi dalla BCE con l'LTRO all'1%, con cui ha comprato BTP che in media le pagano un 5% e su cui guadagna quindi un miliardo circa come differenziale di interesse. Nonostante questo regalo ora riceve dallo stato altri 3.9 miliardi, ma su questi pagherà un 10% circa, quindi 10 volte di più di quello che potrebbe pagare se emettesse debito a breve che oggi per le banche italiane è sotto 1%. Mps: Viola, 'cedola annua Monti bond al 9%, +0,5% ogni due anni' (Il Sole 24 Ore Radiocor) - Roma, 23 gen - "La banca sui Monti bond paga un interesse annuo del 9% che si incrementa dello 0,5% ogni due anni". Lo ha detto l'amministratore delegato di Banca Mps, Fabrizio Viola, intervistato da Sky Tg24, spiegando che "la banca e' impegnata al rimborso fino all'ultimo euro di questo prestito su un orizzonte temporale a medio termine. Per lo Stato si tratta di un investimento finanziario e non di una spesa, un investimento finanziario che ha un buon rendimento, superiore a quello che e' il costo medio che lo Stato paga per il suo debito pubblico". (1) non è un errore di stampa o di agenzia... se pagano un 9-10% su 3.9 miliardi di Monti Bond come razzo fanno a chiudere un bilancio non in perdita nei prossimi anni ? Ovvio che vanno sotto e infatti "si ragiona su un aumento di capitale da 1 miliardo (2) , che finirà per ridurre definitivamente al ruolo di comprimario la Fondazione Mps, oggi ancora azionista di riferimento con il 36 per cento. Viola ha anche chiarito l'utilizzo dei cosiddetti Monti-bond: "Sono delle obbligazioni emesse dalla banca - ha spiegato - e sottoscritte dallo Stato, che per le loro caratteristiche sono equiparati al capitale...". Sicuro, non esiste oggi un solo bonds nemmeno nell'Africa nera che paghi un 9%, questo è un altro aumento di capitale mascherato che però costerà così caro da necessitare un aumento di capitale a scapito degli azionisti A proposito Monti questi 3.9 miliardi da dare a MontePaschi li ha presi con l'IMU, in pratica. In TV Monti ha dichiarato che "l'IMU è necessaria ...perchè le case consumano risorse pubbliche" tipo illuminazione pubblica, asfaltare strade...cioè se tu ti compri una casa costi allo stato (anche se paghi già tasse per acqua, luce, gas, spazzatura...). Balle ovviamente, gli servivano alcuni miliardi per evitare di nazionalizzare MontePaschi. Ma gli italiani sono dei masochisti e tra un mese rimandano Monti al governo "Mps: Viola (Ad), Consob e Bankitalia non informate su derivati" (3) cioè hanno falsificato i conti per nasconderli alle autorità. Peccato che il magistrato Ingroia sia ora impegnato con le elezioni, se era ancora in magistratura poteva incriminare tutti al MPS a partire dall'avvocato calabrese Mussari (perchè dicono sempre che MPS è un istituzione "tutta senese" ? la comandava un calabrese che rispondeva al pugliese D'Alema e all'emiliano Bersani) Leggi anche il pezzo di Fabio Bolognini qui su MPS (4) che illustra le sfacciate balle raccontate per due anni dai suoi capi. di Giovanni Zibordi NOTE: 1) http://finanza-mercati.ilsole24ore.com/azioni/pagine/dettaglioazioninotiziepull/dettaglioazioninotiziepull.php?QUOTE=%21BMPS.MI&PNAC=nRC_23.01.2013_18.53_487 2) http://www.lorenzonipartners.com/index.php/138-l-europa-da-l-ok-ai-monti-bond-e-mette-sotto-esame-il-piano-mps 3) http://www.agi.it/in-primo-piano/notizie/201301231937-ipp-rt10378-mps_viola_ad_consob_e_bankitalia_non_informate_su_derivati 4) http://www.linkerblog.biz/2013/01/23/monte-paschi-bugie-con-le-gambe-corte/

24 gennaio 2013

La vera evasione fiscale è... multinazionale

Non tutti in Italia sanno dell’esistenza di un numero telefonico anti-evasione, il 117. Eppure, recenti inchieste giornalistiche hanno rivelato che molti nostri connazionali lo conoscono e come, giacché lo compongono spesso. Contestualmente all’attuazione di una massiccia campagna governativa di lotta all’evasione fiscale, infatti, le chiamate effettuate a questo centralino gestito dalla Guardia di Finanza sono lievitate in modo esponenziale. Nel 2012 l’incremento, con quasi 24mila chiamate, è stato del 228%. La nuova psicosi degli italiani: la lotta all’evasione Ma che tipo di denunce passano attraverso questa sorta di “spy-line” tutta italiana? Per esempio questa: il vicino di casa che, pur con un lavoro a basso reddito, si crogiola in qualche lusso. Oppure quest’altra: il barista che non rilascia lo scontrino per l’acquisto di cornetto e latte macchiato. I media che riportano la notizia non hanno dubbi: l’aumento di segnalazioni al 117 racconta di un senso civico finalmente manifestatosi in seno allo storicamente negligente popolo italiano. Ecco la dimostrazione di quanto efficace sia stato instillare – attraverso sinistri spot televisivi e terroristiche dichiarazioni dei tecnocrati – il seme dell’odio anti-evasori. Evade più il barista o la multinazionale? Lo sdegno verso il barista e il vicino di casa, tuttavia, rappresenta il lato più meschino della lotta all’evasione. Del resto, il denaro contante, quello che passa per le mani del piccolo commerciante, è solo una parte infinitesimale rispetto a quello virtuale. È dunque logico pensare che le maggiori falle d’evasione si concentrino laddove circola quest’ultimo. Ovvero, nei paraggi delle industrie multinazionali. Esperte in trucchi contabili atti ad eludere gli ispettori fiscali dei vari Paesi in cui esse operano. Uno degli espedienti più usati a tal fine dalle multinazionali è quello di creare anzitutto una complicata rete di società affiliate, consociate e reti di vendita a livello internazionale. La seconda fase consiste poi nello spostamento dei costi nei Paesi dove la tassazione è maggiore – dunque imprese in rosso che in un determinato Paese non pagheranno tasse – portando invece gli utili in tutti quei Paesi dove il regime di tassazione è vicino, se non prossimo, allo zero. Se si pensa che il 60% del commercio mondiale passa ormai per questi monopolisti internazionali (dato dell’Osce, l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo economico), si può immaginare il volume di evasione fiscale che le grandi aziende causano ai danni delle casse degli Stati. L’Osce e le misure contro i grandi evasori Mentre gli italiani si preoccupano della furbizia del barista o delle ricchezze sospette del vicino, altrove, finalmente, sembra che qualcuno si stia accorgendo del reale problema. Il quotidiano francese Le Figaro annuncia che la stessa Osce è intenzionata a promuovere iniziative tese a smantellare questa complessa rete anti-fisco messa a punto dalle lobby multinazionali. Il 15-16 febbraio prossimo, a Mosca, durante la riunione del G20, l’Organizzazione presenterà un piano che prevede la cooperazione di diversi Stati per trovare il modo di bloccare gli enormi meccanismi di elusione di questo tipo. E il governo italiano aiuta banche e multinazionali Un segnale positivo. O, se non altro, più rassicurante di quanto sta avvenendo in Italia, dove raffiche di imposte vengono gettate sui contribuenti e le grinfie di una mai così solerte Guardia di Finanza puntano i piccoli esercizi commerciali. La nascita del Redditometro, poi, fa già avvertire ai cittadini nuove gelide folate del fiato di Equitalia sul collo. Questa spietata operazione anti-evasori ordita dal governo Monti, tuttavia, è come una piccola rete che impiglia i pesci piccoli e lascia sfuggire gli squali della finanza. Basti pensare che la regolamentazione dell’elusione fiscale (tecnicamente chiamata anche “abuso di diritto“), introdotta dal governo nel Disegno di legge di delega fiscale, contiene alcune misure che in molti non hanno esitato a definire “un regalo a banche e multinazionali che evadono”. Oltre all’esistenza di una sorta di “condono” delle operazioni finanziarie sospette poste in essere finora, si esclude espressamente la rilevanza penale nei confronti di comportamenti ascrivibili in fattispecie abusive. L’articolo 6 del Ddl in sostanza introduce ai fini penali un discrimine tra i grandi contribuenti e tutti gli altri. La “mela morsicata” elude il Fisco La lista delle multinazionali, o delle grandi banche, che traggono beneficio da questa depenalizzazione nei confronti del loro truffaldino modus operandi è troppo lunga. Almeno un’azienda val la pena citarla però: la Apple, che, secondo gli esperti fiscali internazionali, nel 2011 ha pagato la miseria – si fa per dire – di 130milioni di dollari rispetto ai 13miliardi dichiarati. Forse, quei 24mila italiani delatori, prima di compilare il numero 117, se proprio avessero voluto individuare la sorgente prima e preminente dell’evasione, avrebbero dovuto rivolgere uno sguardo non ai tasti, ma alla mela morsicata che campeggia sul loro telefonino. di Federico Cenci

23 gennaio 2013

Se Berlusconi restasse senza platea

LA COSA sorprendente di questa campagna elettorale è che l'ex primo ministro, lo stesso che ha avuto a disposizione decenni di comunicazione televisiva e giornalistica, oggi torna a pretendere e ottenere un pulpito. E da esso conquisti anche larga audience. Accade poi che, grazie a quel pulpito, sembra guadagnare come decorazioni al merito, un'immagine nuova, diversa, svecchiata. Quella che doveva apparire come la più logora e stantia delle proposte politiche, d'improvviso sembra diventare, per un trucco mediatico, il nuovo che attrae. Lo si segue in televisione, si cliccano i video delle sue interviste, si resta lì, incollati allo schermo, ipnotizzati, invece di cambiare canale, per decenza. Ci dovrebbe essere un unanime "ancora lui, basta" e invece no. E ciò che tutti un anno fa credevamo sarebbe stata l'unica reazione possibile alla incredibile ricomparsa sulla scena politica di Silvio Berlusconi non si sta verificando. Una certa indignazione - naturalmente - talvolta una presa di distanza, ma non rifiuto, non rigetto. Quando Berlusconi va in tv sa esattamente cosa fare: la verità è l'ultimo dei suoi problemi, il giudizio sui suoi governi, il disastro economico, le leggi ad personam, i fatti - insomma - possono essere tranquillamente aggirati anche grazie all'inconsapevolezza dei suoi interlocutori. Il Cavaliere mette su sipari, sceneggiate, battutine. È smaliziato, non ha paura di dire fesserie, non ha paura di essere insultato, di cadere in luoghi comuni, di ripetere storielle false sulle quali è già stato smascherato. Occupa la scena. E c'è chi cade nel tranello: questo trucco da prim'attore, incredibilmente, ancora una volta crea una sorta di strana empatia, di immedesimazione. C'è chi dice: sarà anche un buffone, ma meglio lui dei sedicenti buoni. E allora sedie spolverate, segni delle manette, lavagnette in testa. Torna lui, lui che ci ha ridotti sul lastrico, lui che ha candidato chiunque, lui che ha detto tutto e il contrario di tutto ed è stato smentito mille volte. Eppure quei pulpiti diventano per lui nuove possibilità di partenza: chi vuole ostacolare questo processo già visto e già vissuto dovrebbe evitare di fare il suo gioco, di prestarsi al ruolo di spalla - come al teatro - dovrebbe impedirgli di montare e smontare sipari. Più Berlusconi va in tv, più dileggia chi gli sta di fronte, più piace. Perché sa disinnescare chi lo intervista. Non ha paura, anzi sembra divertito dalla paura degli altri. Sente l'odore del sangue dei suoi avversari e attacca. In una competizione in genere vince chi non ha nulla da perdere e lui, screditato sul piano nazionale, internazionale, politico e personale; con processi pendenti che riguardano le sue aziende e le sue abitudini privatissime; con l'impero economico che cola a picco, è l'unico vero soggetto che da questa situazione non ha nulla da perdere e tutto da guadagnare. E se la sta giocando fino in fondo. Appunto, giocando. È divertito, esaltato. Berlusconi non può più essere considerato un interlocutore, chi lo fa gli dà la possibilità di mentire laddove i fatti lo hanno già condannato. Fatti politici, ancor prima che giudiziari. Più lo si fa parlare, più lo si aiuta, più si asseconda la sua pretesa alla presenza perenne, all'onnipresenza televisiva come fosse un diritto da garantire a un candidato, cosa che non è. E tutto come se prima di questo momento non avesse mai avuto la possibilità di farci conoscere le sue idee e i suoi programmi. Come se non avesse avuto modo di esprimersi, da primo ministro, sui temi che oggi sta affrontando spacciandosi da outsider, da nuovo che avanza, da nuovo che sgomita e lotta per riconquistare lo spazio che gli è dovuto. Ha avuto una maggioranza che gli avrebbe consentito di poter modificare le leve e cambiare tutto. E non lo ha fatto. Ha solo legittimato quel "liberi tutti" fatto di evasione e deresponsabilizzazione che ha reso il nostro paese un paese povero. Povero di infrastrutture, povero di risorse, povero di speranza e invivibile per la maggior parte degli italiani. Anche per chi Berlusconi lo ha votato, anche per chi in lui si è riconosciuto. E allora smettiamola di prenderlo sul serio, smettiamola di ridere alle sue battute per tremare poi all'idea che possa riconquistare terreno. Trattiamolo piuttosto per quello che è: un bambino di settantasei anni. Quando i bambini esagerano con le parolacce, con i capricci, i genitori li ignorano, fingono di non aver sentito. È l'unico modo perché il bambino perda il gusto della provocazione. La stessa cosa dovremmo fare con lui: farlo parlare, ma senza prestargli attenzione. Evitiamo i sorrisi alle sue battute stantie, perché non possa più ostentare sicurezza davanti ai suoi, perché non possa più spacciare la falsa tesi secondo cui i politici sono tutti uguali. Non sarò mai per la censura: Berlusconi ovviamente deve parlare in tv - certo dovrebbe farlo nelle regole sempre infrante della par condicio - come tutti i leader delle coalizioni. Siamo noi che dobbiamo smetterla di giocare con lui. Lasciamolo senza platea. di ROBERTO SAVIANO

22 gennaio 2013

Populismo

Come il “comunitarismo”, il “populismo” è diventato oggi una parola per nascondere di tutto. Ne è prova il fatto che personaggi molto differenti tra loro come Nicolas Sarkosy, Ségolène Royl, Georges Marchais, Jean –Luc Mélenchon, Bernard Tapie, José Bové, Marine Le Pen, Christophe Blocher, Jörg Haider, Geert Wlider, Silvio Berlusconi, ma anche Mao Zedong, Mussolini, Juan Peron, Getùlio Vargas, Fidel castro, il colonnello Gedhafi, Umberto Bossi, Ahmed Ahmadinejad, Luis Inàcio”Lula” da Silva o Hugo Chàvez si sono visti attribuire questa etichetta. “La parola è dovunque, la sua definizione da nessuna parte” diceva qualche mese fa lo storico Phlippe Roger. “ Semplicemente noi non disponiamo di niente che assomigli ad una teoria del populismo”, aggiungeva il politologo Jean-Werner Mueller: Cerchiamo dunque almeno di definire questo termine in un modo più rigoroso di quanto lo si faccia d’abitudine. L’emergenza del “populismo” è certamente anzitutto il segnale di una crisi, in occasione di una disfunzione della democrazia, i cui sintomi più evidenti sono stati descritti parecchie volte: discredito dell’intera classe politica, aumento dell’astensionismo, voti di pura protesta, fossato che si scava tra “l’alto e il basso”, sentimento comune di uno spodestamento dei valori democratici. Interrogati nell’autunno 2005, su come percepivano la classe politica, il 71% dei francesi dichiara di avere una cattiva opinione della loro classe dirigente, il 76% afferma di non avere fiducia, il 49% la giudica addirittura corrotta. Secondo un altro sondaggio, più recente, sette francesi su dieci circa dichiarano di non avere “ fiducia né nella destra né nella sinistra”. si tratta dunque di un discredito di massa, che tocca anzitutto le persone, ma che si estende anche alle istituzioni. I cittadini non hanno fiducia nella capacità d’azione di una classe politica che non cessa di presentare come possibili da raggiungere degli obiettivi che essa non raggiunge mai, e il suo atteggiamento più comune oscilla tra il disinteresse e il rifiuto, l’astensione o l’opposizione sistematica. Un altro sondaggio del 2006 dimostra ancora che 6 francesi su 10 non arrivano più a differenziare la destra dalla sinistra. È evidentemente una conseguenza della rifocalizzazione dei programmi dei partiti, risultato di un consenso implicito sulle finalità sociali che lega tra di loro i principali partiti e impedisce ogni messa in discussione del sistema. Convinti che le elezioni “ si vincono al centro” – secondo la teoria dell’”elettore moderato” sviluppata dal politologo Anthony Downs – i grandi partiti non hanno smesso di rifocalizzare i loro discorsi per convincere gli elettori incerti. Le posizioni “di destra” e “di sinistra” sono così diventate sempre di più indistinguibili e questo ha rafforzato l’idea di una complicità oggettiva delle élites ( la “banda dei quattro” diceva Jean –Marie Le Pen, la coalizione “UMPS” secondo la figlia). Improvvisamente l’alternativa (sostituita dalla semplice alternanza) diventa impossibile ed un numero crescente di elettori hanno la sensazione che il sistema politico è cifrato in anticipo affinché possano vincere solo coloro di cui è certo che non cambieranno niente del sistema. Noi siamo dunque, come hanno già constatato molti osservatori, davanti ad una crisi evidente della rappresentanza Questo può condurci ad interrogarci sui limiti della democrazia rappresentativa, ma anche sui rapporti che esistono tra la democrazia e rappresentanza. Il concetto di rappresentanza appare all’inizio del Medioevo, epoca in cui si forma all’interno del diritto pubblico sotto l’influenza del diritto privato. A partire dal XVIII secolo tale concetto diviene un elemento chiave per il funzionamento dei regimi “liberali rappresentativi”. Montesquieu è uno dei primi a difendere l’idea , ripresa in seguito mille volte, secondo la quale il popolo, pur non in grado di decidere da solo, è di fatto capace di scegliere i propri rappresentanti. Rousseau ha difeso, si sa, la tesi contraria a quella di Montesquieu. Difensore del mandato imperativo, egli sostiene che un popolo non possa che perdere la propria sovranità dal momento in cui se ne priva a vantaggio dei rappresentanti. Da allora in poi quasi tutte le democrazie occidentali sono state democrazie rappresentative, costituzionali, parlamentari e liberali. Ora, la rappresentanza è, per essenza, un sistema oligarchico, dal momento che essa sfocia necessariamente nella formazione di un gruppo dominante, i cui membri si coalizzano tra di loro per difendere a priori i loro interessi. La sfiducia del popolo deriva oggi dal fatto che non si sente più rappresentato da coloro che pretendono di parlare a nome suo, essendo costoro anzi accusati di non cercare altro che mantenere i propri privilegi e servire ai propri interessi particolari. Si è così scavato un fossato tra le élites ed il popolo, un fossato ideologico e sociologico che non cessa di allargarsi. Il divario tra la classe politica e l’elettorato rappresenta un problema soprattutto per la sinistra che, nel passato, aveva sempre preteso di rappresentare più della destra le aspirazioni del popolo.Ma oggi la sinistra si è progressivamente distaccata dal popolo.Gli intellettuali di sinistra hanno abbandonato le speranze messianiche che poco tempo fa essi riponevano nella classe operaia, mentre le élites politiche sempre di più per disprezzo di classe hanno perso il contatto con l’ambiente popolare. Esattamente come la destra, la sinistra si è installata nelle classi medie superiori, quando non è nell’apparato statale. Aderendo all’economia di mercato, privilegiando le rivendicazioni marginali a discapito di coloro che sono maggiormente minacciati dalla disoccupazione e dalla insicurezza sociale, offrendo lo spettacolo di un’élite installata nella scena mediatica, essa ha profondamente deluso coloro ai quali aveva presunto di dare la precedenza. II parte Allo stesso modo, la crescita di una cultura di sinistra d’ispirazione edonistico-libertaria ha contribuito a separare i partiti di sinistra dagli strati popolari, che hanno assistito con stupore alla formazione di una sinistra mondana e arrogante, più incline a difendere l”omogenitorialità”, l”arte contemporanea”, i diritti delle minoranze, il “politicamente corretto”, che a difendere gli interessi della classe operaia. La “gente” ha così preso il posto del popolo. Eletta dalla mondializzazione, si è installata una nuova classe politico-mediatica, che unisce, all’interno di una medesima situazione elitaria di potere e di apparenza, dirigenti politici, uomini d’affari e rappresentanti dei media, tutti intimamente legati gli uni agli altri, tutti convinti della pericolosità delle aspirazioni popolari. L’adesione al Fronte nazionale di una larga parte della vecchia classe operaia ha giocato a tale proposito un ruolo decisivo: Ha permesso alla sinistra parlamentare di ripudiare il popolo col prestesto che “pensava male”, mentre un antirazzismo di convenienza le permetteva di nascondere le proprie derive ideologiche. L’ “antilepenismo (Jean-Marie Le Pen è l'ex presidente del partito di estrema destra Fronte nazionale) ha preso il posto dell’anticapitalismo, prezioso alibi per giustificare di aver messo in secondo piano la questione sociale nel momento stesso in cui essa risorgeva con una forza sconosciuta dal periodo dei 30 anni di forte crescita ( dal 1945 al 1973) Nell’ultima elezione presidenziale, in base ad un sondaggio Ipsos, Marine Le Pen (figlia di Jean-Marie Le Pen) ha sedotto circa un terzo dell’elettorato operaio. Il voto operaio a favore della sinistra ( il voto di classe), scontato dal dopo guerra alla fine degli anni settanta, è scomparso. Progressivamente numerosi operai sono passati al Fronte nazionale, in particolare i nati a partire dal 1960, più colpiti dai problemi dell’immigrazione e della disoccupazione . Queste generazioni hanno vissuto la cristallizzazione di una frattura prodotta dalla mondializzazione nel gioco politico francese, allo stesso modo in cui i gruppi operai del periodo tra le due guerre avevano vissuto la cristallizzazione della frattura di classe. Ricordiamo anche che in occasione del referendum sul progetto di trattato costituzionale europeo il 60% dei giovani, l’80% degli operai e il 60% degli impiegati, così come la maggioranza dei salariati, hanno votato no; il sì era maggioritario solo presso l’alta borghesia, i quadri superiori e i pensionati. Ciò non significa che gli operai costituiscano la maggioranza dell’elettorato del Fronte Nazionale ( ne rappresentano circa il 13%), ma la presenza del mondo del lavoro all’interno di questo elettorato ha contribuito in modo indelebile a squalificare il popolo agli occhi delle élites. Da qui deriva la questione posta da Annie Collovad: “Il populismo del fronte Nazionale non potrebbe essere il segno di una nuova congiuntura intellettuale e politica nella quale le élites politiche d’oggi non vedono più nei gruppi popolari una causa da difendere, bensì un “popolo senza classe” diventato un problema da risolvere?” Regolarmente definito come “irrazionale” ( preferisce gli attori politici fuori dal sistema dei partiti, non vota come gli si dice di fare) e sensibile alle tesi “autoritarie”, cosa che spiegherebbe la sua tendenza ad affidarsi ai attivi pastori, il popolo può essere rappresentato come pericoloso, grossolano, incolto, come un segmento di popolazione composto da “buoi” che non riescono a liberarsi dai loro pregiudizi arcaici, anacronistici, e incapaci di mettersi al passo con la prospettiva di una “mondializzazione felice”. Diviene così evidente, sia che il popolo non sa ciò che vuole, sia , quando esso fa sapere di volere qualcosa, che non è il caso di tenerne conto. È dunque inutile parlare con lui prima di parlare a nome suo. Ed è soprattutto pericolo consultarlo, dal momento che non vota mai come ci si aspetta che faccia. è per questo che sotto il termine di “populismo” si tende oggi a riunire, per meglio mantenerne le distanze, tutte le forme di secessione riguardo al consenso dominante. Un tale modo di fare, scrive Jacques Rancière, “ nasconde e al medesimo tempo rivela il grande desiderio dell’oligarchia: governare senza il popolo”. Chi oggi parla del popolo si espone necessariamente al rimprovero di “populismo”: Divenuto oggi un’ingiuria politica, accusato di risvegliare le cattive inclinazioni delle classi popolari, utile alle classi dirigenti per stigmatizzare quanti rimproverano loro di aver confiscato il potere a proprio vantaggio, il populismo è presentato in una prospettiva insieme peggiorativa e screditante, con lo scopo, come ha ben osservato Alexandre Dorna, di “gettarlo fuori dalla storia, come se si trattasse di un fenomeno senza radici né vere cause”. L’idea di fondo è che sarebbe sufficiente di far sparire il popolo – o di cambiarlo – per sbarazzarsi del populismo! La parola “populismo” compare nel 1929 negli scritti di André Thérive e Léon Lemonnier per designare una nuova scuola letteraria ( il primo premio populista fu attribuito a Eugène Dabit per l’opera Hotel du Nord). Ma il populismo, in quanto fenomeno politico , è di gran lunga anteriore. È in Russia e negli stati Uniti che si devono ricercare le radici, all’interno dei movimenti che, nell’uno e nell’altro caso, cercavano di smuovere i gruppi più deboli contro le élites del momento. I narodniki (“gente del popolo”) della Russia zarista volevano avvicinarsi al popolo per ritrovare una comunità perduta e proponevano la nascita di un sistema di economia socialista agraria. Nello stesso periodo, alla fine del XIX secolo, il populismo americano indica un movimento principalmente rurale. Di fronte ai prezzi proibitivi che un accesso privilegiato al potere pubblico ha permesso alle compagnie ferroviarie di imporsi, i populisti spingono per un ritorno alle sorgenti della democrazia americana. Il populismo appare dunque chiaramente a sinistra, anche se questo populismo di sinistra è sempre stato ostile all’ideologia del progresso ( ciò spiega l’ostilità dei bolscheviki nei confronti dei narodniki russi). Da questo punto di vista, lo storico Michel Vinock non ha torto a scrivere: “ Il populismo non è specificamente di estrema destra. La parola designa una fiducia nel popolo che si ritrova nei discorsi di Robespierre o negli scritti di Michelet”. Ma il populismo supera di fatto tutte le fratture. è ciò che constata Christophe Guily, autore del saggio Fractures françaisess, quando fa osservare che oggi “ la frattura non è più tanto tra la sinistra e la destra quanto tra le classi dominanti, indifferentemente di destra e di sinistra, e le classi popolari.” Questo spiega anche il fato che il populismo sia stato criticato sia dalla destra che dalla sinistra. III Parte La democrazia liberale si richiama al popolo, ma ha sempre fatto moltissima fatica a tollerare che le classi popolari si interessino alla politica. Dei teorici liberali come Jones o Seymour Martin Lipset incoraggiano l’astensione ( che ha sempre un significato politico) e persino l’apatia politica, col pretesto che serve di più lasciare agli esperti e a “coloro che sanno” la preoccupazione di condurre le questioni pubbliche. Il problema è che, in queste condizioni, le democrazie si trasformano in oligarchie “formattate” dal “pensiero unico”, con la conseguenza che il popolo è obbligato a constatare che i risultati ottenuti sono poco brillanti.. Quanto alla sinistra, che ha a lungo ricusato questo atteggiamento, si ü a sua volta separata nettamente dal popolo, fissandosi su riforme “societali” che non interessano se non a minoranze, recitando la “preferenza straniera”, e perfino tenendo a distanza le classi sociali “pericolose” reputate tanto incapaci di riflettere quanto imprevedibili. Pierre-André Taguieff denuncia così “l’illusione populista, Dominique Reynié vi vede da parte sua una “china fatale”, mentre altri intellettuali di posizioni molto diverse, da Christopher Lasch a Ernesto Laclau, propongono al contrario un approccio più sfumato. Il primo errore da non commettere quando si parla di populismo è quello di ricercare in esso un’ideologia. La diversità degli uomini politici che sono stati tacciati di populismo, la polisemia del termine ( nazional –populismo, populismo di sinistra, populismo liberale, etc.) dimostrano che il populismo non è un’ideologia. Il politologo e filosofo argentino Ernesto Laclau ritiene a ragione che si tratti di un termine “neutro”. Il populismo non ha contenuto, ma è uno stile – e questo stile si può adattare a quasi tutti i discorsi politici. Il secondo errore è quello d’analizzare il populismo in termini di “demagogia”. Per numerosi osservatori, il leader populista è semplicemente un demagogo. Il populismo semplificherebbe i problemi attraverso la demagogia e questa demagogia risveglierebbe o cristallizzerebbe gli istinti cattivi del popolo. Pierre-André Tguieff definisce il populismo come la “ forma assunta dalla demagogia nelle società contemporanee”. Questa critica non è sempre sbagliata: c’è una grande differenza tra pretendere di parlare in nome del popolo e impegnarsi a dare al popolo i mezzi per potersi esprimere da solo.ma questa visione dimentica che la demagogia delle élites val bene quella dei populisti e che la demagogia è anzitutto l’arte di governare adulando il popolo. Ridurre il populismo a demagogia significa di fatto fraintendere l’essenziale, ossia la nozione stessa di popolo. Come scrive Vincent Coussedière, “ se la scienza politica e dietro di lei i discorsi critici e mediatici cercano di ridurre il populismo a una forma di demagogia. è perché non dispongono di un concetto di popolo che permetterebbe di mettere veramente a fuoco il fenomeno.” Ora, “non c’è politica senza popolo, né popolo senza politica”. Il popolo, aggiunge Coussedière, è una “realtà vivente il cui essere insieme è politico (…) L’essere insieme populista è un essere che reagisce al posto vuoto della direzione politica. Corrisponde a quel momento della vita delle democrazie in cui il popolo si mette a malincuore a fare politica, poiché è demoralizzato dall’atteggiamento dei governanti che non ne fanno più”. Si sa che il concetto di popolo può essere inteso come ethnos ( popolo come origine e storia ) o come demos ( in senso politico) o come classe sfruttata. Il populismo prende spesso queste tre accezioni, che mescola in proporzioni variabili. Se rinvia ad una base social specifica ( le classi popolari alleate alle classi medie), esso rappresenta ugualmente una forma d’immagine politica in cui il popolo è anzitutto concepito come radunato. Questo perché tende a dimenticare l’importanza del pluralismo all’interno della società, cose che gli rimprovera la destra liberale, e anche quella della lotta di classe, cosa che gli viene rimproverata dall’estrema sinistra. Il popolo si definisce in primo luogo per una socievolezza comune, della quale Aristotele faceva il fondamento della philia politikè, l’amicizia politica. È necessario distinguere l’amicizia politica dal “societale”, che non è la sociabilità prodotta dalla macchina dello Stato- Provvidenza. Questa sociabilità comune tuttavia non può essere ricondotta neppure a una “identità” più o meno fantasma. È il risultato di “imitazione-consuetudine” che è al medesimo tempo l’essenza del legame sociale e la base delle tradizioni, e che permette ai cittadini di fare l’esperimento di ciò che essi hanno in comune. “Il populismo – scrive ancora Vincent Coussedière – è l’espressione del conservatorismo del popolo e del suo attaccamento all’imitazione-consuetudine, al di fuori di ogni forma partitica definitiva.. Il populismo è il partito dei conservatori che non hanno partito”. “Il populismo – conclude Coussedière – è un momento in cui il popolo lotta per la sua sopravvivenza riscoprendo la solidarietà del suo essere sociale e del suo essere politico. Volendo conservare la sua sciabilità, il popolo riscopre la necessità della politica come condizione e come rafforzamento di essa. Il momento populista è quello in cui questa politica non esiste o contribuisce, al contrario, a distruggere l’essere-insieme del popolo. IL populismo è l’aspirazione non ancora realizzata a ritrovare questa politica che permette al popolo di continuare ad essere un popolo”. È “entrata in campo di un popolo contro le sue élites, avendo compreso che queste lo conducono verso l’abisso. Idealizzazione del popolo? Può essere il caso. ma l’idea che “il popolo non è mai corrotto” non deve essere mal interpretata. Il popolo può essere ingannato, manipolato. Nonostante questo, anche in circostanze del genere, non dimentica che “ci sono delle cose che non si fanno”, convinzione che non si ritrova nelle classi superiori o borghesi. E soprattutto, il popolo sa molto bene riconoscere quando i suoi dirigenti non governano conformemente a ciò che percepisce come bene, ovvero le condizioni che gli permettono di rimanere se stesso. Il popolo constata che oggi la politica è soffocata dall’economia, la morale, il giuridismo delle procedure e l’espertocrazia. Il popolo chiede un ritorno del politico, dato che è solo politicamente che può esistere in quanto popolo. Il popolo si oppone dunque alla dottrina tecnocratica di Saint-Simon secondo la quale “bisogna sostituire il governo degli uomini con l’amministrazione delle cose”. Interrogarsi sul populismo non significa solo interrogarsi sulla legittimità delle rivendicazioni popolari, ma anche sulla ragione d’essere della sovranità popolare, che è il fondamento dei regimi democratici. E sussidiariamente significa darsi i mezzi per analizzare lo “smantellamento del popolo politico francese”, cominciato ormai da mezzo secolo. di Alain de Benoist

21 gennaio 2013

In arrivo dagli Usa una valanga di debiti!

L’accordo di capo d’anno per scongiurare che il fantomatico “fiscal cliff” potesse portare ad uno choc fiscale, alla recessione e al blocco del bilancio dello stato federale Usa, non è una vittoria della stabilità. Dovrebbe invece essere considerato un rischio ulteriore di instabilità per il resto del mondo, in primis per l’Europa. L’evento ha una valenza tutta americana, molto importante per i giochi di potere interni. Sancisce però una politica complessivamente fallimentare, sia dei democratici che dei repubblicani, nella gestione della finanza. Si sono trovati i 600 miliardi di dollari necessari per evitare, almeno sulla carta, che alcune spese per il welfare vengano automaticamente bloccate e alcune agevolazioni fiscali siano cancellate. In realtà l’accordo “partorisce” un aumento del debito per ben 4.000 miliardi di dollari nel prossimo decennio!. La stima non è fornita da una qualche fucina ideologica neoliberista anti Obama, bensì dal prestigioso e indipendente Congressional Budget Office. Come noto, il Cbo è un’istituzione finanziata dal Congresso per analizzare i costi delle politiche di bilancio. Il suo direttore viene nominato congiuntamente dai presidenti della Camera e del Senato. L’attuale direttore, Douglas Elmendorf è stato scelto nel gennaio 2009 quando entrambi i presidenti erano democratici. Il “fiscal cliff” quindi non è la vera emergenza finanziaria americana. Si è trattato piuttosto di un “preparativo” psicologico. La vera emergenza che gli Usa devono affrontare è invece lo sfondamento del tetto del debito pubblico! A fine anno infatti il debito pubblico americano ha raggiunto il “ceiling”, cioè il tetto massimo stabilito dalla legge finanziaria di bilancio che è di 16.400 miliardi di dollari, equivalente al 103% del Pil. Sarebbe dovuto bastare fino al 30 settembre 2013, cioè fino alla scadenza del bilancio annuale. Ma così non sarà. Che succederà adesso? Fino a settembre di fatto non c’è copertura per le spese di bilancio, per tutte le spese. Il ministro del Tesoro Tim Geithner ha detto che il suo Ministero ha già raggiunto il limite dei prestiti possibili e ha affermato che possono trovarsi “altri mezzi per raccogliere fondi per pagare il debito” per un periodo massimo di 6-8 settimane. Al di là dei trucchetti contabili, il dato è che gli Usa sarebbero tecnicamente già in default!. Una situazione simile si era già creata nell’agosto del 2011, quando il bilancio federale era stato prosciugato e mancavano i soldi per i pagamenti dei dipendenti pubblici, dei fornitori, degli assegni di disoccupazione, delle pensioni, ecc. Allora, come si ricorderà, si decise di alzare il tetto del debito pubblico di ben 2.000 miliardi di dollari! In poco più di un anno però questi fondi sono stati “bruciati” senza significativi effetti per l’economia americana. Certo sì evitato l’immediato aumento della disoccupazione e della povertà ma non si è rimesso in moto l’economia. Sono mancate una vera strategia di ripresa della produzione e degli investimenti e una più giusta riforma fiscale. In sintesi, al di là delle note schermaglie ideologiche, gli Usa, sia il governo Obama che il Congresso nel suo insieme, si stanno muovendo verso un ulteriore aumento del debito pubblico. Nulla di nuovo sotto il cielo. Infatti la politica di crescita del debito e della liquidità è quella che da anni porta avanti la Federal Reserve di Ben Bernanke. Il suo bilancio (balance sheet) è passato da 869 miliardi del 2007 a 2.880 miliardi del 2012. Ben 2/3 dei titoli del Tesoro americano che arrivano sul mercato vengono comprati dalla Fed. Dopo aver deciso lo scorso settembre l’acquisto di mortgage-backed securities, quei titoli tossici legati ai mutui subprime, per 40 miliardi di dollari ogni mese, la Fed a novembre ha deciso di acquistare mensilmente 45 miliardi di dollari di bond del Tesoro e di altre obbligazioni simili a lungo termine e in cambio di vendere i ben più appetibili titoli a breve scadenza in suo possesso. E’ un altro bel regalo al sistema bancario americano! Queste decisioni non potranno che produrre uno choc per l’intero sistema finanziario mondiale. I paesi emergenti lo dicono da tempo denunciando i riverberi negativi sulle loro economie e sulle loro monete. In questo scenario l’Europa è spiazzata. In un sistema globalizzato, dove la finanza opera per vasi comunicanti, i governi europei si sono ingessati con il “fiscal compact”, mentre gli Usa alzano a piacere il tetto del loro debito pubblico. Inoltre, in un sistema bancario senza riforme, le banche americane sono agevolate dalle politiche della Fed, mentre quelle europee sono compresse dai parametri richiesti da Basilea III. Purtroppo in Europa c’è chi irresponsabilmente chiede di fare come negli Usa. Secondo noi, invece, queste ricette sono disastrose. Non ci sono scorciatoie, né serve l’illusione psicologica di chi vuol vedere “la luce alla fine del tunnel”. Occorre affrontare insieme e alla radice le cause della crisi globale e rimuoverle, senza nasconderle come si continua a fare. di Mario Lettieri e Paolo Raimondi

20 gennaio 2013

quando torneremo come eravamo?

... Ah regà, famo a capisse, ce stanno a pijà pper culo, mortacci sua... Così introduceva i suoi spettacoli il grande Ettore Petrolini che, pur sotto la severissima censura fascista, riusciva a fare filtrare i suoi "messaggi" per gli italiani che volevano "capire"... Oggi non c'è più (almeno ufficialmente) il Minculpop (Ministero della cultura popolare) e, quindi, la "censura" non opera direttamente "tagliando" l'informazione sgradita al regime, ma sono gli stessi "giornalisti" (ammesso che così si possano ancora chiamare) che, "imponendo" i temi del dibattito elettorale (graditi ai loro partiti di riferimento), oscurano completamente le questioni che, invece, di quel dibattito dovrebbero essere i temi centrali. Osservate la tabellina seguente:

 

1999

2012

Differenza

Produzione industriale

106

82

-23%

Saldo esportaz.- importaz.

+33 miliardi

-45 miliardi

-78 miliardi

Disoccupazione

7.9%

11.0%

+ 1.4 milioni di disoccupati

Pressione fiscale

41.3%

45.4%

+ 60 miliardi anno di tasse

Debito pubblico/Pil

109%

127%

+270 miliardi di debito

Crescita Pil

+2.0%

-2.5%

-80 miliardi anno di Pil

In essa, come vedete, sono riportati i numeri chiave dell'economia italiana nel 1999, all'entrata nell'euro, e 13 dopo, nel 2012, quando gli effetti di quella "maestosa minchiata" si erano già manifestati in pieno. E dunque, ah regà, famo a capisse, non dovrebbe essere questo il vero dibattito elettorale... ovverosia chiederci e chiedere ai nostri politici: ma che cazzo di vantaggio abbiamo avuto ad entrare nell'euro e per quale cazzo di motivo ci restiamo ancora? Non c'è un solo risultato economico positivo... la situazione di questo paese, dall'ingresso nell'euro ad oggi, è peggiorata in modo drammatico... e nessuno di quei saltafossi in giacca e cravatta o loden, sente l'obbligo di spiegarci perché ci siamo entrati e perché ci restiamo nonostante l'evidenza del disastro che esso ci ha causato? Volete fare un favore all'Italia? ... Fate circolare la tabellina sopra tra i vostri conoscenti e ponetegli la stessa domanda (... perché siamo entrati nell'euro e perché ci restiamo...?)... Se, come credo, nessuno sarà in grado di dare una risposta (... e come potrebbe, se anche un bambino scimunito capirebbe che è stata un'evidentissima cazzata?), allora chiedetegli perché ha accettato ed accetta ancora di farsi "spogliare ed impoverire" (così come la tabellina sopra dimostra inequivocabilmente) senza neanche protestare, e perché, soprattutto, non pretende una risposta chiara e documentata (alla domanda "perché siamo entrati e perché restiamo nell'euro") dai candidati del partito che intende votare? Cosa cazzo ce ne frega delle frecciatine (... del tipo di quelli che oggi fanno finta di litigare, mentre fino ad ieri si sostenevano l'un l'altro, tutti insieme appassionatamente...) di Monti verso Bersani e Berlusconi (o delle risposte piccate di quest'ultimi)... quando ciò che brucia sulla pelle di tutti noi è la devastazione che l'euro ha prodotto e continua a produrre nel nostro paese? Ciò che ci interessa è: che previsione fanno Monti, Bersani e Berlusconi per tutte le sei grandezze economiche della tabellina sopra nei prossimi cinque anni... Ciò che devono dirci è: quando ritorneremo alla stessa situazione economica di prima dell'euro? Cazzo, non dico meglio (come sarei autorizzato a pretendere)... ma almeno uguale... Il resto, è evidente, sono favole per bambini scimuniti e, giustamente, Ettore Petrolini, entrando in scena, avrebbe detto: .. Ah regà, famo a capisse, ce stanno a pijà pper culo, mortacci sua... L'euro ci costa (a noi italiani) almeno 80 miliardi l'anno... e, visto che siamo in 60 milioni, fate voi il conto di quanto costa alla vostra famiglia... e, siccome non tutti i 60 milioni di italiani subiscono lo stesso danno (ricordate la media del pollo di Trilussa?) e ci sono quelli che invece ne hanno un vantaggio (circa il 21% della popolazione), significa che quelli che "pagano" (il restante 79%)... se la pijano doppiamente nder culo... Ora, è noto che agli italiani, fino all'anno scorso, quell'articolo (... pijarla nder culo...) piaceva di molto... ... Tuttavia, sul finire di quel terribile 2012, qualcosa è cambiato... pertanto, mi permetto di azzardare un pronostico elettorale molto nefasto per i nuovi cattocomunisti e per i sedicenti liberali alla Berlusconi & company che, predicando amorevolmente la necessità di ridurre le tasse, sono riusciti ad "infilarcene" altre... with no vaseline... Secondo me, gli ex Pci (Pd e Sel) staranno tra il 29% ed il 34%, mentre l'armata neo-democrista che sostiene il bocconiano che, finalmente, ha gettato la maschera (Mario Monti), non supererà il 12%... ... Insieme, i neo catto-comunisti non supereranno il 46%. Avranno (grazie al porcellum) la maggioranza alla Camera, e (sempre grazie allo stesso porcellum) potrebbero avere una maggioranza molto ristretta al Senato... ma non potranno governare... a meno che non facciano una proposta (di quelle che non si possono rifiutare) a Berlusconi: i voti dell'armata Brancaleone che segue il cavaliere, in cambio di "protezione" (finanziaria e giudiziaria) per la "mummia di Arcore"... ... E Silvio ed i suoi "banditori a gettone", si farebbero certamente convincere (...tengono famiglia...). ... Ma anche "quest'alleanza" durerebbe poco: con un milione di disoccupati in più nel 2013-2014... i catto-comunisti al governo comincerebbero ad avere davvero paura (esattamente come i governanti greci e spagnoli che, in giro, mandano le "controfigure"): a tirare troppo la corda, gli italiani potrebbero scendere in piazza pronti a menare la mani... Se (Monti, Bersani e Berlusconi) facessero quel patto scellerato, rischierebbero di essere travolti da "moti popolari" di gente davvero incazzata che sarebbe pronta a tutto... Coraggio, fratelli d'Italia, il peggio è passato... ed ai Monti, Bersani, Berlusconi, etc... glie tocca de stà 'n campana, perché un sacco di gente, in questo paese... s'è rotta li coijoni... ... Non so se mi ho capito...??

19 gennaio 2013

Deutsche Bank non è più intoccabile

Una volta la Deutsche Bank era rispettata come pilastro dell'economia tedesca basata sull'industria, ma oggi essa è un attore della bisca finanziaria internazionale come tutte le altre megabanche. Negli ultimi due anni essa è stata colpita da scandali e denunce che hanno inferto duri colpi alla sua immagine. Attualmente la banca è sotto inchiesta per falso in bilancio allo scopo di nascondere pesanti perdite sui derivati del ramo statunitense. Secondo Eric Ben-Artzi, ex funzionario della DB che ora è testimone della procura di New York, le perdite si aggiravano attorno ai 10 miliardi di dollari nel 2008. Oltre a queste accuse, c'è l'inchiesta sulla manipolazione del Libor compiuta assieme a numerose altre banche, che avrebbe fruttato alla DB "almeno 500 milioni di euro di profitti nel 2008 da scambi agganciati al tasso d'interesse", secondo il Wall Street Journal. Queste transazioni riguardavano l'8,5% dei profitti di DB nel 2008 (5,9 miliardi di euro). La DB ha respinto le accuse definendole "categoricamente false", ma questa è una difesa scontata. La manipolazione del Libor ha comportato pesanti oneri per enti locali, famiglie e imprese che avevano contratto prestiti e mutui con le banche, legati all'andamento del tasso interbancario e spesso agganciati a contratti swaps. Perciò ci si attende che la DB dovrà pagare ingenti multe e forse, come è accaduto per l'UBS, ci saranno conseguenze penali per i suoi dirigenti. L'azione di polizia era stata attivata nel contesto di una presunta complicità della banca in un caso di frode e ostruzione della giustizia che riguarda il traffico di certificati di emissione CO2. Quello dei certificati di emissione è un mercato già finito nel mirino degli inquirenti per casi di evasione dell'IVA e riciclaggio di denaro sporco. La lista dei guai giudiziari in cui è incappata la Deutsche Bank nel 2011-2012 comprende circa 20 casi, a partire dal divieto di negoziare derivati per sei mesi imposto nel febbraio 2011 in Sud Corea e dalla sentenza costituzionale sull'accordo swap con la ditta Ille nel marzo dello stesso anno. Per menzionarne alcuni: La Commissione UE sta indagando su casi di CDS fraudolenti che coinvolgono la DB assieme ad altre banche; La città di Los Angeles ha denunciato la banca per casi di esproprio illegale: La Federal Housing Financial Administration degli Stati Uniti ha aperto un'inchiesta su frodi immobiliari; Il Serious Fraud Office del Regno Unito sta indagando su cartolarizzazioni emesse dalla DB; Numerosi fondi pensione USA e enti locali in Italia hanno promosso azioni legali contro DB per i famigerati contratti derivati; Le recenti sentenze emesse contro la Deutsche Bank – nel caso del Comune di Milano e del gruppo Kirch nel dicembre 2012 – e un cambiato atteggiamento dei media, specialmente in Germania, mostrano che l'aura di intoccabilità che circondava finora la banca è svanita, e che è arrivato il "momento di Pecora". by (MoviSol)

18 gennaio 2013

Una campagna elettorale senza "futuro"

E' davvero possibile abolire l'IMU? E, soprattutto, può il Professor Monti, dopo averla introdotta, dichiararsi pronto a ridiscuterla? Ma se Berlusconi dovesse fare il Ministro dell'Economia chi sarà Premier? Cosa dire di quelle "giudichesse comuniste" che hanno condannato il Cavaliere a versare, ogni giorno, alla sua ex moglie più di quanto un italiano medio incassa in cinque anni? La lotta all'evasione è sufficiente a risanare le casse dell'Erario? Sono questi e tanti altri - ma non molti di più - gli argomenti attorno ai quali, da settimane sono - e ci resteranno ancora per settimane - al centro di dibattiti televisivi, talk show e tribune elettorali.

Pressione fiscale, lotta all'evasione, legalità, questione morale e mercato del lavoro sono le principali questioni - per non dire tutte - attorno alle quali i leader di tutti i piccoli e grandi schieramenti, vecchi o nuovi che siano nell'agone politico, si giocheranno la campagna elettorale, cercando di accaparrarsi più poltrone possibili in Parlamento.

E sono, naturalmente, gli stessi i temi sui quali i mezzi busti più famosi della scena televisiva italiana e le penne più in vista della nostra carta stampata amano intervistare veterani ed esordienti nella campagna elettorale.

Nessuno appare curioso di sapere cosa il Professor Monti, il Cavalier Berlusconi, il favorito Bersani o uno qualsiasi dei tanti sfidanti pensano di Internet e, più in generale, delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione come volano per la crescita culturale, democratica ed economica del Paese?

E, naturalmente, nessuno dei contendenti, aspiranti parlamentari - ivi incluso, per la verità, il Comico della Rete per antonomasia, Beppe Grillo - appare ansioso di dire la sua sull'argomento.

Eppure la Commissione Europea - e non un qualsiasi smanettone fanatico di Internet o un esponente del Partito Pirata - non ha alcun dubbio nel dire che "La crescita sostenibile e la competitività future dell'Europa dipendono in larga misura dalla sua capacità di accettare la trasformazione digitale in tutta la sua complessità" ed a stimare "che la metà della crescita complessiva della produttività dipenda dagli investimenti nelle tecnologie dell'informazione e della comunicazione".

Sono le parole con le quali si apre la Comunicazione della Commissione europea al Consiglio ed al Parlamento dello scorso 18 dicembre.

Ci sarà almeno un aspirante parlamentare o un giornalista politico che l'abbia letta? "In Europa i lavoratori impiegati nel settore delle TIC sono più di 4 milioni, ripartiti in diversi settori, e crescono del 3% l'anno malgrado la crisi" ma - sono sempre parole della Commissione - "entro il 2015, in Europa non saranno coperti tra i 700 000 e 1 milione di posti di lavoro nelle TIC a causa della mancanza di personale competente."

Possibile che a nessuno, neppure in campagna elettorale, interessi la possibilità di combattere la piaga della disoccupazione giovanile stimolando - come suggerito dalla Commissione "il numero complessivo degli esperti in materia di TIC [Tecnologie dell'informazione e della comunicazione], nonché la loro occupabilità e mobilità"?
Non è più facile, più serio e costruttivo proporre ricette per consentire ai giovani di occupare posti di lavoro già esistenti in Europa piuttosto che continuare a raccontare favole sulla creazione di nuove centinaia di migliaia di posti di lavoro?

"La piena attuazione dell'agenda digitale potrebbe aumentare il PIL europeo del 5% o di 1 500 EUR a persona nei prossimi otto anni, potenziando gli investimenti nelle TIC, migliorando il livello delle competenze digitali della forza lavoro e riformando le condizioni quadro dell'economia di internet. In tal modo, inoltre, a breve termine si creerebbero 1,2 milioni di posti di lavoro nella costruzione di infrastrutture e 3,8 milioni di posti di lavoro in tutti i settori dell'economia nel lungo termine."

Neppure numeri e previsioni di questo genere bastano per porre Internet ed il digitale al centro della campagna elettorale?

"Se il commercio elettronico crescesse fino a rappresentare il 15% del totale del settore del commercio al dettaglio e gli ostacoli al mercato unico fossero eliminati, si stima che i vantaggi complessivi in termini di benessere dei consumatori ammonterebbero a circa 204 miliardi di EUR, pari all'1,7% del PIL dell'UE", si legge nella Comunicazione della Commissione.

Ha senso davanti a certe prospettive concrete spendere tempo ed energie a confrontarsi sui cento mila euro al giorno che il Cavalier Berlusconi deve a Donna Lario? "Soltanto gli appalti elettronici consentono un risparmio di 100 miliardi di EUR all'anno e l'eGovernment può ridurre i costi amministrativi del 15-20%" senza contare che "il riutilizzo dei dati del settore pubblico...creerà un valore economico pari a 140 miliardi di EUR".

Eccola la più importante riforma della pubblica amministrazione della quale abbiamo bisogno.

Ce n'è abbastanza per scommetterci un'intera campagna elettorale senza neppure il bisogno di promettere agli elettori qualcosa che non si sarà poi in condizione di mantenere.

"La connettività internet ad alta velocità è il fondamento dell'economia digitale, senza il quale servizi essenziali come il cloud computing, la sanità online (eHealth), le città intelligenti, i servizi audiovisivi, nonché i benefici da essi derivati, semplicemente non potrebbero essere attuati. Un aumento del 10% della penetrazione della banda larga potrebbe determinare un aumento pari all'1-1,5% del PIL annuale30 o potrebbe aumentare la produttività del lavoro dell'1,5% nei prossimi cinque anni."

Come si fa dinanzi a certi dati a lasciare alzare un politico da una qualsiasi poltrona televisiva senza avergli domandato come pensa di garantire a tutte le imprese ed a tutti i cittadini italiani l'accesso ad un'infrastruttura di connettività efficiente e neutrale?

"La società e l'economia dell'UE devono trasformarsi in un'Europa digitale, in cui l'intera popolazione possa sfruttare le tecnologie, i mezzi di comunicazione e i contenuti digitali", scrive la Commissione, che, poi aggiunge come "la crescita incontenibile dell'utilizzo delle TIC nella vita quotidiana contribuisce più di qualunque altra innovazione tecnologica a mutare radicalmente l'economia e la società nel loro complesso. Nel prossimo decennio, le TIC potranno contribuire a un radicale cambiamento della società e dei sistemi di produzione, consentendo una crescita e un benessere maggiori grazie a un incremento dell'efficienza, a nuovi prodotti, a nuovi servizi e a servizi pubblici più sviluppati".

Come è possibile candidarsi alla guida del Paese senza aver chiaro in testa che questi sono gli argomenti, i problemi e le opportunità che fanno la differenza e che senza il Paese non ha futuro.

Ma non sarebbe giusto prendersela solo con i candidati.

La colpa è anche - e, forse, soprattutto - nostra e dei tanti giornalisti televisivi e della carta stampata che per pigrizia, accondiscendenza o arretratezza culturale non spingono Lorsignori a confrontarsi anche e soprattutto sul "futuro", raccontando al Paese come lo pensano di regalargliene uno anche e, soprattutto, in digitale.

Non lasciamo che, anche questa volta, la campagna elettorale sia senza "futuro".

31 gennaio 2013

L'Italia nel tunnel





Secondo i dati di Bankitalia, (1) diffusi a dicembre scorso, alla fine del 2010 la ricchezza netta delle famiglie italiane era pari a 8 volte il reddito disponibile (contro l’8,2 del Regno Unito, l’8,1 della Francia, il 7,8 del Giappone e il 5,3 degli USA). Il debito delle famiglie italiane era pari al 70% del reddito disponibile (contro circa il 100% di Francia e Germania, il 125% di USA e Giappone e il 165% del Regno Unito). Il 10% delle famiglie più ricche deteneva il 45,9% della ricchezza, la metà più povera soltanto il 9,4%.
Alla fine del 2011 la ricchezza netta delle famiglie italiane ammontava a 8619 miliardi di euro (la ricchezza in abitazioni ammontava a oltre 5000 miliardi e quella in attività finanziarie a oltre 3500 miliardi). Una ricchezza leggermente inferiore a quella del 2010 (8683 miliardi) a prezzi costanti, ma se calcolata a prezzi 2011 nettamente inferiore a quella registrata negli anni successivi al 2007, ad ulteriore conferma dell’impatto negativo sulla nostra economia della crisi finanziaria del 2008. Una ricchezza comunque sempre pari a quattro volte l’ammontare complessivo del debito pubblico.
Vi sono pochi dubbi perciò che, se in Italia vi fosse una classe dirigente degna di tale nome, la campagna elettorale verterebbe alla luce di queste cifre  soprattutto sulle conseguenze che derivano dall’obbligo di pareggio di bilancio e dal patto fiscale europeo (il cosiddetto “fiscal compact“), che ci costringe a ridurre il debito pubblico del 50% nell’arco dei prossimi vent’anni. Si tratta di misure d’austerità imposte al nostro Paese dal governo del “commissario tecnico” Mario Monti, e fondate sulla previsione (gravemente errata) che la diminuzione di un punto del deficit pubblico avrebbe causato la riduzione di mezzo punto di crescita, mentre in realtà ne ha prodotto il triplo (ossia un punto e mezzo di crescita in meno).
Misure che alimentano una recessione che sta dilagando in tutta Europa. E che, oltre a far impennare il tasso di povertà e quello di disoccupazione (specialmente del tasso di disoccupazione giovanile), stanno compromettendo addirittura la base produttiva del nostro Paese – un Paese notoriamente privo di materie prime e dagli anni Novanta anche di quel “pungiglione strategico” che una “mano pubblica”, esperta e decisa, oggi avrebbe potuto (e dovuto) sfruttare per trarre il massimo profitto dal mutamento geopolitico che sta rivoluzionando gli equilibri del sistema internazionale. Invece, essendovi in Italia tutto fuorché una classe dirigente, non solo non vi è alcun serio dibattito su tali problemi, ma si trova perfino del tutto normale che anche quel poco che resta del settore strategico pubblico venga ceduto allo “straniero”. E ci si limita a ripetere il mantra liberista lamentandosi del fatto che in questi anni non vi sia stata alcuna vera “rivoluzione liberale”, come se il terremoto finanziario del 2008 fosse il risultato delle scelte sbagliate del nostro Paese. Ma soprattutto “ci si balocca” con alcuni dati macroeconomici, senza nemmeno tener conto del fatto che la causa principale dell’andamento dello spread sui tassi d’interesse dipende, come in definitiva la stesso Fmi e Bankitalia riconoscono – non tanto dal debito pubblico quanto dalla mancanza di un autentico “soggetto politico europeo” e di conseguenza dal possibile collasso dell’eurozona, che proprio le politiche di austerity rendono più probabile.
Del resto, indipendentemente dalla internazionalizzazione (voluta da Amato e dagli altri tecnocrati “europeisti”) del nostro debito pubblico, dopo aver deciso, all’inizio degli anni Ottanta, il divorzio tra ministero del Tesoro e Bankitalia (divorzio che causò una crescita vertiginosa del debito pubblico), si sa che il Giappone, che ha un tasso di disoccupazione del 4,5% (contro l’11% dell’Europa) e che è la terza economia del pianeta, intende ampliare la propria spesa pubblica con un primo intervento di 85 miliardi, pur avendo un debito pubblico che è del 236% del Pil e un rapporto deficit/Pil al 10%. (2) Indubbiamente, ciò dipende pure dal fatto che il debito pubblico del Giappone è pressoché completamente detenuto dai giapponesi, ma la sostanza è che non vi può essere alcuna crescita né alcuna vera ripresa dell’economia reale senza rinunciare a misure d’austerity, il cui fallimento è sotto gli occhi di tutti.
D’altra parte, si può ragionevolmente ritenere che l’oligarchia che detiene le leve del potere in Europa consideri più importante liquidare una volta per tutte il “vecchio” Welfare e imporre un modello liberista di tipo americano, in particolare nei Paesi europei più deboli, garantendo da un lato i “mercati finanziari” e dall’altro gli interessi geopolitici degli Stati Uniti. Questi ultimi infatti, hanno tutto l’interesse a impedire una qualsiasi politica europea distinta da quella atlantista e al tempo stesso devono saldare la Germania all’Atlantico, per bloccare “preventivamente” ogni tentativo di dar vita a una nuova Ostpolitik, soprattutto ora che la sfida con la Cina (e con la Russia) è decisiva per il futuro degli Usa. Non a caso, gli statunitensi o i loro “agenti” si adoperano perché si lasci alla Francia sufficientemente spazio per poter fare una politica di tipo neocoloniale in Africa e agiscono in modo tale da approfondire sempre più il solco tra il Baltico e il Mediterraneo.
Insomma, si applica la solita strategia del divide et impera, con la differenza però che se nelle aree più calde del pianeta questa strategia non si distingue da una geopolitica del caos, che può giocare non pochi brutti scherzi agli apprendisti stregoni occidentali (dalla Libia al Mali, dall’Egitto alla Siria), in Europa si può facilmente far leva su gruppi subdominanti che, avendo ormai rinnegato ogni ideale, sono disposti a tutto pur di non perdere i favori degli amici “d’oltreoceano”. In questo senso, il nostro Paese sta giocando un ruolo di primo piano, sia sotto il profilo della ridefinizione in chiave mercantile dei rapporti sociali, sia sotto quello geopolitico, configurandosi come una base sicura per la NATO e la politica di potenza statunitense. Tanto che Difesa ed Esteri sono di fatto gestiti direttamente dagli statunitensi, essendo palese che si tratta di ministeri controllati rispettivamente dal Pentagono e dal Dipartimento di Stato degli Stati Uniti, e che non rappresentano né tutelano in alcun modo i reali interessi del nostro Paese. Ragion per cui anche coloro (come Luciano Gallino e Stefano Sylos Labini) che difendono le ragioni di un intervento pubblico per far uscire l’Itala da una spirale recessiva che minaccia di far compiere alla maggioranza degli italiani un drammatico “balzo all’indietro”, dovrebbero rendersi conto che non vi sono solo ostacoli di tipo economico da superare. Anzi gli ostacoli maggiori sono di ben altra natura. E se si può concedere che la Fornero non ne sia consapevole, Mario Monti e certamente Mario Draghi sanno sicuramente quel che bolle in pentola. E agiscono di conseguenza.
In ogni caso, l’azione politico-strategica dei “mercati” è favorita dallo pseudoeuropeismo dei tecnocrati atlantisti (il cosiddetto “euroatlantismo”) e da una lotta tra forze politiche il cui vero obiettivo è diventare i portavoce degli strateghi d’oltreoceano, infischiandosene della sorte della maggioranza degli italiani. I quali, tuttavia, non hanno fatto molto in questi ultimi lustri per cercare di far prevalere l’interesse generale, badando perlopiù al proprio “particulare” e prestando ascolto ai soliti gazzettieri e intellettuali mercenari che infestano il nostro Paese da decenni. Non c’è dubbio quindi che gli italiani sapranno premiare i peggiori pure questa volta. Anche perché non pare che vi siano vere alternative, se non vi è nessuna forza politica che difenda princìpi e valori di tipo socialista e nazionalpopolare e che allo stesso tempo intenda battersi per i diritti dei popoli europei contro la prepotenza dei “mercati” e della oligarchia euroatlantista. Quel che però è certo è che quei (pochi) italiani che non hanno dimenticato che anche il comandante in capo delle forze armate statunitensi nel Vietnam del Sud, generale William Westmoreland, disse che vedeva la luce in fondo al tunnel poco prima della famosa offensiva del Tet, che sancì la sconfitta degli Stati Uniti nella guerra del Vietnam, non possono non essere d’accordo con chi sostiene che l’ottimismo è l’oppio degli insipienti e che, se veramente si vuole il bene dell’Italia, sarebbe invece opportuno non nascondere il timore che il peggio debba ancora venire.
Con ciò non si vuole affermare che non vi sia via d’uscita. Si tratta piuttosto di prendere atto che solo uno “squilibrio” derivante da una (invero non impossibile) nuova crisi internazionale potrebbe liberare una “quantità d’energia” tale da indurre la Germania (e la Francia) a decidersi per un cambiamento di paradigma (geo)politico. Si concederà però che, rebus sic stantibus, non vi è nulla che faccia ritenere che vi sia in Europa la volontà di dar inizio ad un tale nuovo corso politico, che avrebbe effetti positivi anche in un Paese come il nostro in cui funzione politica e innovazione strategica sembrano quasi del tutto scomparse.

di Fabio Falchi 

(1)Bancaditalia.it
(2) IlSole24ore.com

30 gennaio 2013

L'ineffabile ombra della finanza mondiale




   
   

Il missionario e giornalista P. Giulio Albanese ha inserito in un articolo del numero di Gennaio della sua rivista “Popoli e missione”, un’informazione tanto fondamentale quanto ignorata dalla stampa e che riportiamo qui sperando di aiutare in questo modo a divulgarla. Vorremmo anche che i nostri governanti, astutissimi banchieri che non trovano mai sufficiente la cosiddetta “trasparenza e tracciabilità” dei nostri miseri redditi, inseguendo con la forza di quella che ormai possiamo considerare la loro particolare Polizia, i militari della Finanza, ogni nostro scontrino, ogni più piccola ricevuta, ci spiegassero quali sono i “loro” interessi a mantenere nell’ombra queste operazioni. Dei nostri politici è inutile tenere conto: una volta ridotto il Parlamento alla farsa del dire “sì” ai banchieri, sono diventati come le famose scimmiette che non vedono, non sentono, non parlano, impegnati esclusivamente nella salvaguardia della propria carriera.

“Si tratta di un importante studio sul "sistema bancario ombra", lo shadow banking mondiale, pubblicato dal Financial Stability Board (Fsb), l'istituto internazionale di coordinamento dei governi, delle banche centrali e degli organi di controllo per la stabilità finanziaria a livello globale. Leggendo attentamente questo testo, si scopre che qualcosa di aberrante è all'origine della crisi finanziaria planetaria. Lo studio, incentrato sulla cosiddetta eurozona e su altri 25 Paesi, evidenzia infatti che a fine 2011 ben 67mila miliardi di dollari erano gestiti da una "finanza parallela", al di fuori, quindi, dei controlli e delle regole bancarie vigenti; una cifra che equivale al 111% del Pil mondiale ed è pari alla metà delle attività bancarie globali e a circa un quarto dell'intero sistema finanziario.

Leggendo questo studio si ha l'impressione d'essere al cospetto di un movimento sovversivo che specula impunemente ai danni degli Stati sovrani e soprattutto dei ceti meno abbienti. In altre parole, se da una parte ci sono i conti correnti con i risparmi dei cittadini e delle imprese, dall'altra abbiamo questo sistema bancario occulto, composto da tutte le transazioni finanziarie fatte fuori dalle regolari operazioni bancarie.

Come spiegato in più circostanze su questa rivista dal 2008, in coincidenza col fallimento della Lehman Brothers e dall'inizio della crisi sistemica dei mercati, si tratta di operazioni fatte da differenti intermediari finanziari, come certi operatori specializzati nel collocamento dei “derivati”, quei prodotti finanziari che, in larga misura, hanno inquinato i mercati. Tutte attività, queste, rigorosamente over the counter (otc), cioè stipulate fuori dai mercati borsistici e spesso tenute anche fuori dai bilanci. Alcuni autorevoli economisti ritengono che il "sistema ombra" sia spesso un'emanazione delle grandi banche internazionali che hanno interesse ad aggirare le regole e i controlli cui sono sottoposte.”


Naturalmente nulla di tutto ciò è nuovo: se ne è parlato in libri e articoli (vedi “La Dittatura europea”) già diversi anni fa e discusso abbondantemente in molti siti internet, incluso il nostro, ma come è successo sempre per quanto riguarda l’Unione europea e la moneta unica, politici e governanti ignorano qualsiasi domanda, passano sopra con dittatoriale indifferenza alle richieste e ai bisogni dei sudditi, intenti esclusivamente a condurre in porto il proprio progetto di potere: l’unificazione del mondo governato dai banchieri. Non ha nessuna importanza il fallimento evidente di tante delle loro imprese, inclusa quella dell’euro, visto che se ne sono arricchiti in denaro e in potere, togliendoli ai cittadini. La bilancia, infatti, è proprio questa: tanto hanno perso in sovranità e in denaro i cittadini d’Europa, tanto hanno acquistato in potere e in denaro i banchieri. Come abbiamo già detto, i politici non contano: sono esclusivamente al servizio dei banchieri, forse perché altrimenti perderebbero pure le apparenze del potere e le connesse prebende di cui ancora godono.

Lo spettacolo che le migliaia di pirati all’arrembaggio hanno offerto ai nostri occhi in questi giorni per candidarsi alle prossime elezioni, per appropriarsi, come affamate cavallette, degli ultimi resti del corpo dilapidato dell’Italia, ha dato la misura di una involuzione ormai irreversibile. Nessuno ha minimamente messo in dubbio che si debba dipendere dai banchieri, dall’alta finanza che governa l’Europa. Nessuno ha detto che, senza la sovranità monetaria, è impossibile ricominciare ad avere un vero mercato e salvare qualche briciola dalla competizione con gli Stati emergenti. Nessuno ha parlato della fine degli Stati nazionali e della loro indipendenza. Addirittura si è deciso di partecipare ad una guerra (quella in Mali) senza discuterne in Parlamento. Nessuno ha preso in considerazione, in un’Europa che si vanta della propria civiltà, la criminalità di strutture di governo che dominano i sudditi attraverso il denaro, attraverso il fisco, assurto ad unico “valore”. Non parliamo dei “cattolici” visto che si vantano di esserlo anche molti dei governanti banchieri, pur calpestando il Vangelo ad ogni passo. Parliamo, però, della gerarchia della Chiesa la quale non ha mai condannato l’unificazione europea, pur voluta dall’alta finanza e guidata dai banchieri, e non ha neanche mai condannato i governanti banchieri che attraverso il fisco hanno spinto i sudditi alla disperazione fino al suicidio. Ma soprattutto parliamo della gerarchia della Chiesa che adopera essa stessa il linguaggio del mercato laddove parla di valori “non negoziabili”. Formula atroce che fa rabbrividire chi sa che nel Vangelo non esiste nessun valore “non negoziabile” perché soltanto di una specie di peccatori Gesù ha detto che “non entreranno nel regno dei cieli”: i ricchi.

di Ida Magli

28 gennaio 2013

MPS: un caso di crisi finanziaria sistemica








Lo scandalo dei derivati del Monte dei Paschi di Siena è più grave di quanto lo si stia dipingendo. Però vediamo di non trasformarlo nella solita bega provinciale a metà strada tra la politica e i giochi elettorali.
Si tratta, invece, della nota questione, profonda e sistemica, della finanza globale e delle sue crisi mai affrontate.
I responsabili dello scandalo e della truffa, se la magistratura li individuerà e ne accerterà le violazioni del codice penale, meritano la galera ed il sequestro dei beni.
I controllori, che non hanno saputo controllare, a cominciare dalla Banca d’Italia, devono comunque spiegare il loro operato e trarne eventualmente le necessarie conclusioni.
A noi preme anche sottolineare e mostrare gli aspetti sistemici ed internazionali che stanno all’origine della crisi e, anche in questo caso, a monte e a valle della frode.
E’ sorprendente l’indignazione di fronte a questo scandalo. Come se ogni frode sia scollegata dalle tante altre e abbia una semplice valenza locale.
Non tutti sanno che tra gli azionisti di Mps c’è anche la banca americana JP Morgan Chase. Essa è la prima al mondo per operazioni in derivati finanziari. L’ultimo rapporto dell’Office of the Comptroller of the Currency (Occ) negli Usa indica che alla fine del terzo trimestre del 2012 essa deteneva derivati over the counter (otc) per un valore nozionale di ben 71 trilioni di dollari!
Come è noto gli otc sono contrattati nell’assoluta opacità, al di fuori dei mercati ufficiali e tenuti fuori bilancio.
Anche la frode Mps ne è la prova provata. Vi era, infatti, un contratto tenuto segreto in cassaforte e mai riportato sui libri contabili.
Questi casi esplodono quando bisogna coprire le perdite di qualcosa che ufficialmente “non esiste” o non dovrebbe esistere.
La JP Morgan quindi controlla quasi un terzo di tutti i derivati attivati dalle banche americane, che sono 227 trilioni di dollari. Detiene inoltre un nono di tutte gli otc mondiali che, secondo l’ultima stima della Banca dei Regolamenti Internazionali di Basilea, ammontano a 639 trilioni di dollari!
Con una presenza attiva della succitata banca americana, non è sorprendente che anche Mps si sia immersa nella palude dei più rischiosi derivati finanziari. Chi va con lo zoppo impara a zoppicare!
Dai risultati delle indagini finora emersi apprendiamo che Mps, per coprire le rilevanti perdite derivanti da operazioni in derivati, noti come “Alexandria”, fatte tra l’altro con la Dresdner Bank tedesca, nel luglio 2009 aveva sottoscritto un altro cosiddetto “veicolo strutturato” in derivati. Ancora più rischioso e segreto con la finanziaria giapponese Nomura.
Con tale operazione apparentemente sparivano le perdite ma Mps si impegnava a sostenere i costi  del nuovo derivato finanziario per almeno trenta anni.
Dopo il fallimento della Lehman Brothers nell’autunno del 2008, la Nomura è diventata la più aggressiva finanziaria impegnata nei più esotici e rischiosi derivati. Nel 2009, infatti, essa ha rilevato tutte le strutture europee e asiatiche della Lehman, “arruolando” anche i suoi massimi manager e circa 8.500 operatori finanziari. Non è un caso che la Nomura sia coinvolta in moltissime operazioni finanziarie internazionali ad alto rischio. Molte delle quali anche in Italia.
Un altro “veicolo” speculativo in derivati finanziari, emerso dalle indagini, è il “Santorini”, stipulato da Mps con la Deutsche Bank, la quale nell’ultimo periodo è nell’occhio del ciclone per tantissime indagini per truffa da parte delle autorità tedesche.
Un certo sconcerto suscita il “regalo” di  4 miliardi di euro fatto al pericolante Banco Santander spagnolo nell’acquisizione di Antonveneta.
Come si può notare molte di queste operazioni sono state fatte dopo l’esplosione della crisi del 2007-8. Gli attori, come da noi ripetutamente evidenziato, hanno continuato a muoversi con la stessa spregiudicatezza e irresponsabilità. Essi contavano e ancora contano su due cose: essere troppo grandi e sistemici per poter essere lasciati fallire e sulle politiche conseguenti di salvataggio bancario da parte dei governi.
E’ un gioco mortale per le economie e per i paesi coinvolti. Deve finire. Riteniamo che il caso Mps debba diventare per l’Italia e per l’Europa l’occasione per costringere anche gli Usa, il Giappone e gli altri paesi del G20 a ripulire la finanza dai titoli tossici. Altrimenti si rischiano nuove “bombe finanziarie” con ulteriori devastazioni delle economie e con la frustrazione di ogni speranza di ripresa. Anche in Italia. 


di Mario Lettieri e Paolo Raimondi

Disintossichiamoci o l’ultima dose sarà letale



Che l’agenda Monti sia stata un disastro su tutti i fronti lo hanno capito anche gli stessi sostenitori di tale governo pseudo tecnico. Tutti i parametri, e sottolineo i “loro parametri” sono peggiorati, è un dato storico. Ma allora perché tale “uomo” ha ancora il coraggio di ripresentarsi per continuare la sua “agenda”? Semplice, ubbidisce agli ordini. Il motivo è che il suo operato, per chi lo ha mandato a fare quello che doveva fare, è andato benissimo. Sfasciare l’Italia per favorire la Germania, e far recuperare soldi alle banche internazionali. L’italiota teledipendente non riesce ad avere una visione complessiva sui meccanismi della finanza internazionale e continua a pensare che destra, sinistra e ancor peggio il "centro" possa essere una soluzione politica alla questione.
La crisi indotta dal sistema finanziario non  dipende dal popolo (cattivo evasore) cosi come non dipende dal sistema produttivo (che chiude per mancanza di liquidità), dipende da "meccanismi internazionali" a cui dobbiamo obbedire. ll sistema produttivo certamente si rovinerà continua questa anemia  monetaria forzata. Se si continua a credere che la credibilità italiana dipende da un certo "Monti" che estorce ricchezza al popolo italiano per darla ai mercati speculativi sanguinari, la strada per la catastrofe è segnata. Sempre tardi sarà la benvenuta la divisione tra banche d'affari e banche commerciali, ma gli alieni arriveranno certamente prima.
L’applicazione pedissequa del neoliberismo dove il profitto per il profitto giustifica qualsiasi mezzo con l’imposizione coatta di una "moneta debito" privata non controllabile da una politica unitaria europea assolutamente inesistente, fa succedere che: la "BCE" pensa solo a salvare i suoi azionisti a scapito della popolazione europea, i mercati pensano solo a fare il proprio profitto, gli stati sono solo dei miseri crumiri  a servizio delle lobby bancarie a danno dei popoli. Lo ribadisco da tempo non può esistere una politica economica se non strettamente correlata ad una politica monetaria.
Con l'euro nessuno stato, compresa la Germania, può seriamente fare politiche economiche poiché questo euro vive di autonomia emissiva propria secondo criteri completamente staccati dal tessuto produttivo. Gli interessi sul denaro si dovrebbero calcolare secondo la capacità produttiva del paese ed invece vengono stabiliti da società di rating controllate dagli stessi investitori. Uno stato con propria capacità ed autonomia monetaria può regolare la quantità di liquidità secondo le proprie esigenze produttive senza dover sottostare agli umori degli investitori internazionali. 
Continuare a pensare che un'unica politica monetaria, tra l’altro perversa come quella della BCE, possa essere di aiuto ad economie completamente diverse come quelle delle nazioni europee, è da pazzi, da TSO giornaliero. Ma allora perché si continua per questa strada? Probabilmente perché ormai tutti, soprattutto la Germania è entrata nell’ottica di raccogliere al più presto tutto quello che si può raccogliere e poi abbandonare la "nave euro" piena di drogati, "ognun per se e Dio per tutti". Tra l’altro bisogna anche sbrigarsi a trasformare le liquidità in beni reali prima del crollo.
L’anemia monetaria indotta serve anche a questo, a comprarsi beni e aziende di stato e lasciare il cerino (euro) in mano all’ultimo coglione pensando di aver saldato parte del debito. La svendita del patrimonio come vorrebbe qualche lista (tra le migliaia che stanno sorgendo come funghi) è l’errore più grande che si possa fare, perché è proprio la strada che ci hanno preparato per caderci dentro. I beni e le aziende non devono essere vendute, ma messe a redito, e non farci profitto vendendole, tanto e vero che le caserme non siamo riusciti a venderle mente Finmeccanica ed ENI si.
Allora se queste aziende facevano profitto perché si sono vendute? Vogliamo dire che la politica è complice? Sarebbe da alto tradimento allo stato italiano ma lasciamo stare. Le politiche Keynesiane che sono spesso troppo bistrattate sono l’unica soluzione, certamente vanno rivisitate secondo il nuovo contesto storico e sociale, in una economia sempre più tecnologica che erode posti di lavoro. La piena occupazioni lasciando i modelli vecchi è una utopia come è una utopia realizzarla con la flessibilità se non in minimissima parte. La logica dei servizi deve ritornare, solo per fare un esempio siamo stufi di sentire dischetti registrati, basterebbe una stupida legge che imponesse la risposta obbligatoria di una persona fisica.
E' chiaro che se questa azienda deve rispondere ad un sistema ci competizione sfrenata per produrre profitto di cui oltre il 50% va allo stato ciò non potrà avvenire mai perché si è perso il principio della "natura sociale" dell'impresa.  Che il libero mercato si autoregoli è la più grande barzelletta mai inventa, in quanto i fenomeni di "cartello" la dicono lunga sulla libera concorrenza. Non a caso il neoliberismo predica uno “stato snello”, proprio perché cosi da meno fastidio ai poteri finanziari, alle multinazionali alle banche d’affari. Diversa è la burocrazia statale che certamente va snellita, ma non bisogna confondere le cose, uno stato snello anche di sovranità monetaria non è più uno stato che può occuparsi del suo popolo.
Lo stato compatibilmente alla evoluzione tecnologica deve essere il "motore dell’economia" sia con interventi diretti ossia con "potere di spesa" senza sottostare al vincolo di usura internazionale, sia con interventi indiretti, facilitando settori con detassazioni e sburocratizzazioni. Introdurre le politiche keynesiane senza prevedere una trasformazione della economia e una ridistribuzione reale del redito (C.H. Douglas), significa non voler arrivare al risultato. In tutto questo è fondamentale ragionare fortemente in termini di "autonomia", poiché il primo intoppo che si avrà è proprio sulla bilancia con l’estero.
Ridurre al massimo le dipendenze soprattutto energetiche, oltre che culturali e politiche. In una famiglia prima di compare altre bottiglie di vino si va a vedere se nella dispensa siano rimaste bottiglie e solo dopo avere appurato che non c’è niente si va a comprare e solo se è necessario. Le multinazionali, le compagnie petrolifere, le società finanziarie non vogliono sentire parlare di questi argomenti, tacciandoli come “orrore” poiché ogni nazione deve approvvigionarsi da queste, infatti queste vengono si comprano le nostre industrie e poi ci vendono ciò che era nostro.
Per far si che funzioni quindi il sistema keynesiano (ma anche sistema MATTEI) è importante che ci siamo della premesse chiare: attuare un sistema massimo di ottimizzazione di *risorse locali* (in altri tempi si sarebbe chiamato protezionismo) in termini di  risorse, energia, idee, uomini, tutto quello che si può produrre, fare in Italia va fatto in Italia, con italiani. Poi avere una "moneta sovrana" proprietà del popolo con  la possibilità anche di monete locali, questo per radicare il più possibile la ricchezza al territorio. Piano di riconversione industriale con studi e ricerche (il più possibile italiane) per la bonifica dei territori, mari inquinati, ristrutturazione di tutto il patrimonio immobiliare pubblico e privato con finanziamenti diretti ed indiretti. Sistemazione del sistema idrogeologico e forestale nazionale. Creazione di cooperative di servizi per la sanità e gli anziani visto che la popolazione italiana sta lentamente invecchiando.
Redito minimo di cittadinanza a tutti. Finanziamento della ricerca in ogni settore soprattutto nel settore delle energie rinnovabili. Ristrutturazione e riforma di tutto il sistema d’istruzione, dagli edifici, ai programmi, ai testi, ai corsi, alla valorizzazione dei docenti. Piano di riqualificazione e risparmio energetico di tutti gli edifici pubblici e privati. Piano di consolidamento degli edifici sotto il profilo sismico. Piano di ingegnerizzazione ed infrastruttura per internet sia via cavo che WIFI libero per tutti. Mi sono limitato solo ad alcuni settori tralasciando per esempio il turismo e l’arte che sono un altro immenso settore di lavoro potenziale, solo per dire che la “mancanza di lavoro” è una pura illazione se solo ci fosse una classe dirigente che non ragionasse con le mutande sopra gli occhi del profitto facile e mentalmente drogati di neoliberismo con visione solo dell'oggi.
Se solo si capisse che i signori che odiano il protezionismo sono i primi ad aver creato dei monopoli monetari, energetici, alimentari,ecc super potetti, si invertirebbe subito la tendenza. La strada è lunga tortuosa perché siamo stati drogati di neoliberismo da oltre venti anni dove ci hanno raccontato una storia distorta per farci credere che i buoni erano cattivi e che i cattivi erano
buoni e questo è il risultato, "spogliati di ogni ricchezza". La disintossicazione è lunga e difficile e spesso fallimentare. L’euro è stata l’ultima droga in ordine di tempo che ci hanno somministrato per distruggere la “nazione” e ridurci solo a un “paese” (come un altro). Certo si potrebbero  rinegoziare i trattati di Lisbona,  Maastricht, il MES, nonché il funzionamento della stessa BCE, ma è più facile  che “Israele faccia pace con la Palestina” che questa macchina da guerra civile dell’Europa cambi!!! (e gli hanno dato pure il Nobel).
Restare nell’euro equivale a suicidarsi.
Giuseppe Turrisi

27 gennaio 2013

Astensione o voto di protesta? Breviario per delegittimare il sistema




Come delegittimare in una logica parlamentare l’intera classe politica italiana?
La classe politica italiana: asservita, complice, coesa
Il governo tecnico è stato il culmine della decadenza intellettuale e morale della Seconda Repubblica e dell’intera classe politica italiana. Le ricette “lacrime e sangue” del curatore fallimentare Mario Monti architettate ad arte dalla Troika (Fmi, Bce e Ue) ed inclini a far pagare ai lavoratori italiani i tassi d’interesse sui titoli di Stato al fine di risanare il debito pubblico (che nel frattempo è pure aumentato rispetto agli anni precedenti!) sono state sostenute per un anno intero da tutti i partiti (eccetto qualcuno), Pd, Pdl e Udc in primis. L’attuale campagna elettorale? La dialettica? Santoro vs Berlusconi? Un teatrino tutto democratico, un sistema che si regge su due gambe contrapposte ma che permettono comunque sia al corpo oligarchico di camminare.
La logica parlamentare: l’astensione, la scheda bianca o la scheda annullata come diritto e non come imposizione 
Le elezioni sono la massima espressione di un regime democratico. Sono anche l’unica modalità con cui poter decidere i propri rappresentanti all’interno degli organi legislativi e di fatto intavolare il destino politico del Paese in cui si risiede e vive. Tuttavia il voto è un diritto e non un’imposizione. Il non-voto, che una legge abolita nel 1990 e mai applicata penalizzava, è oggi legittimo né più né meno del voto. Essa corrisponde esattamente a una volontà dell’elettore, così come andare a votare e mettere una croce su un simbolo, o su un sì o un no. Chiunque non sia soddisfatto delle offerte sulla scheda o non sia interessato a fare quella scelta ha l’astensione dal voto come strumento e come diritto. Punto.
Come delegittimare un intero sistema? Che fare?
Pertanto l’astensionismo strategico non è una vera e propria soluzione per scardinare la partitocrazia ed esprimere il dissenso, poiché l’astensione dal voto non ha una proiezione istituzionale. Inoltre dalle esperienze anglo-americane ed europee degli ultimi anni, le classi dirigenti democraticamente “elette” si sono auto-legittimate con delle percentuali ridicole di votanti. Di fatto astenersi dal voto vorrebbe dire concretamente permettere proprio a quella classe politica asservita, complice e coesa di governare il Paese.
È anche vero però che se gli astenuti fossero almeno il 75 per cento dell’elettorato e questi ultimi si rivoltassero (in piazza) contro l’auto-legittimazione degli eletti, l’intera macchina sistemica sarebbe destinata a crollare. Tuttavia il blocco degli astenuti non è un corpo organico, organizzato, omogeneo e per questo, difficilmente, riuscirebbe a spodestare un sistema “democraticamente” eletto il quale, comunque, soffocherebbe la protesta in maniera democratica e subdola come avviene ormai da decenni. Di fatto l’astensione potrebbe essere un’arma utile unicamente per chi ha l’intenzione di partorire un gruppo, un movimento o un’associazione politica con prospettive istituzionali in un’ottica rivoluzionaria o riformista, in poche parole influente e di opinione al livello nazionale.
Mentre per chi desiderasse manifestare il proprio dissenso senza inclinazioni politico-associazionistiche sarebbe meglio concedere il suffragio a quelle formazioni extra-parlamentari che si sono opposte da sempre nella società ad un esecutivo tecnico e antidemocratico ed ai partiti che lo hanno consentito. Senza fornire indicazioni di voto specifiche, è necessario votare per i partiti della protesta. In questo caso “il voto utile”, anche se con i suoi limiti, andrebbe sicuramente al Movimento 5 Stelle, tuttavia il 24 e 25 febbraio Beppe Grillo non sarà il solo portavoce del dissenso nazionale dato che a concorrere ci sono tanti partiti anti-sistema, come ci sono tante liste territoriali prive di ideologia che potrebbero avere soluzioni interessanti.

di Sebastiano Caputo 

26 gennaio 2013

Servi della gleba e debito pubblico

Alessandro II, Zar di tutte le Russie, il 3 marzo del 1861 con il “Manifesto per l’Emancipazione dei Servi” pose fine alla schiavitù della gleba in Russia. Per 23 milioni di Russi, suoi devoti sudditi, resi schiavi per secoli dal feudalesimo della nobiltà russa, tante povere “anime morte”, fu un giorno di grande giubilo. Tuttavia subito dopo ci si accorse che la tanto agognata libertà era ancora molto lontana. Infatti le banche dello Zar, per concedere ai servi della gleba i prestiti per pagare quanto dovuto ai padroni della terra riscattata… Le autorità non erano tanto ben disposte verso la massa dei miserabili contadini, praticamente analfabeti, ignoranti e superstiziosi. I rischi di non essere ripagati in tempo erano molto alti. Non solo. Non si poteva concedere soldi a chi non aveva ancora nulla. Gli interessi sul prestito, si rivelarono assai pesanti: si doveva rimborsare la somma avuta con il 6% anno per anno, per la durata di 49 anni. Ciò significava ancora nuovi pesanti sacrifici, miseria, insicurezza e difficoltà di ogni genere. Parimenti, il contenzioso legale con l’amministrazione centrale dello zar, diventava giorno dopo giorno ingestibile. La nostra situazione – di debito pubblico - oggi ammonta ad oltre 2000 miliardi di euro. Orbene, tale debito è, “mutatis mutandis” praticamente la stesso debito che i contadini russi dovevano allo Zar. Situazione, la nostra, assai peggiorata, rispetto a quella dei sudditi contadini-servi della gleba dello Zar Alessandro II. Infatti, il nostro debito pubblico, di oltre 2000 miliardi di euro, una somma praticamente impossibile da restituire, con tassi d’interessi composti crescenti, che impongono sacrifici , lacrime e sangue, per molte future generazioni. Il nostro futuro è incerto, quello dei nostri nipoti è tutto nero. Tutto questo enorme debito da restituire alle banche estere, rappresenta il conto salato che dobbiamo saldare per ritornare ad essere liberi. Oggi non lo siamo. Siamo tornati ad essere schiavi. Siamo tanti servi della gleba. Il governo, i Partiti, le Liste, come la RAI-Tv e molta stampa ipocrita, corrotta, continuano a mentire. Le elezioni politiche di questo febbraio non faranno che produrre nuovi pesanti debiti. Lo zar Alessandro II venne barbaramente ucciso mentre stava passeggiando in carrozza domenica 13 marzo 1881 a San Pietroburgo, sulla Nevsky Prospekt, da Nikolai Rysakov.e da Ignaty Grinevitsky.

di Michele Sequenzia

 N.B: L’espressione servitù della gleba (dal lat. servus, schiavo) designa la condizione di uomini o donne che non godevano di libertà personali, appartenevano a un signore ed erano vincolati alla gleba, ovvero alla terra che coltivavano (Contadini); l’equivalente franc. servage deriva dal lat., mentre il termine ted. Leibeigenschaft da Leib (corpo) ed Eigenschaft (proprietà).

25 gennaio 2013

Con i partiti "Cambiare (non) si può"

"A partiti e politici in disarmo non sembrava vero di aver trovato un bell’autobus che li riportasse nel loro nido naturale che è il parlamento, sede di ogni possibile parassitismo" Si è concluso il circo delle candidature elettorali e se qualcuno aveva ancora qualche dubbio sul fatto che dai partiti ci si possa aspettare qualcosa di positivo, le vicende della corsa ai candidati hanno sgomberato il campo. Sembrava un incrocio fra le partite a figurine dei bambini e il mercato delle vacche dei grandi. Fra le varie comiche, tutti a cercare di scimmiottare quello che dice Grillo rifacendosi impossibili verginità nelle liste elettorali mettendo da parte due o tre dei maggiori compromessi fra i vari impresentabili di cui sono assortiti i partiti. Uno spettacolo pietoso e indegno. In questo quadro mi soffermo sul tentativo di “Cambiare si può” che è stato illustrato anche sulle pagine di questo giornale e sull’impossibile speranza che la società civile possa contare qualcosa attraverso i partiti. I partiti non fanno mai nulla per nulla e se sembra che diano qualcosa è solo perché sanno che in cambio avranno molto di più di quello che apparentemente danno. Possono anche perdere molto pelo ma di sicuro non il vizio. Quei personaggi, soprattutto con un background di partito, che parlano di società civile, di 'nuovi soggetti politici' e così via, cercando di attirare a sé movimenti, comitati o simili, non fanno altro che cercare di avere il consenso per salire su qualche poltrona. Tutti i tentativi di unione di vari gruppi e istanze falliscono miseramente perché c’è una insanabile contraddizione di partenza nel fatto che chi parla di unione lo fa spesso pensando che il suo punto di vista sia poi l’unico da seguire. Ridicoli ducetti malati di protagonismo adolescenziale cercano di attrarre a sé più persone possibili con ogni mezzo apparentemente onesto e condivisibile per poi improvvisamente giocare la carta del partito finalmente e veramente diverso, nuovo, indispensabile, mettendosi in questo modo al di sopra e in conflitto con tutti. Di fronte a mille di questi episodi e trasformismi non è un caso che le fortune di Grillo sono anche derivate da una presa di posizione netta contro i partiti e chi agisce con la loro logica. In una situazione del genere credo che non si sia dato sufficientemente risalto alla grande rilevanza morale e significato della scelta di Carlo Petrini di Slow food di non candidarsi con nessuno, nonostante gli avrebbero fatto ponti d’oro. Di sicuro Petrini fa più così con la sua organizzazione che non ostaggio e trofeo da mostrare da parte di qualche partito. Il progetto di Cambiare si può, come altri tentativi del genere fatti in passato e che verranno fatti in futuro, servono solo ai partiti per avere una possibilità, fornita più o meno inconsapevolmente da persone volenterose e in buona fede, di rientrare dalla finestra dopo che come nel caso attuale, erano usciti dalla porta del parlamento. A partiti e politici in disarmo non sembrava vero di aver trovato un bell’autobus che li riportasse nel loro nido naturale che è il parlamento, sede di ogni possibile parassitismo. Dopo discussioni di mesi, preparazioni, programmi, propositi, fiumi di parole, tempo, energia e soldi sprecati, piove dal cielo tale Ingroia che in base alla sua visibilità mediatica in pochissimo tempo si impadronisce di tutto il palcoscenico. Si accorda con partiti malconci e personalità decadute, piazza i suoi capetti a destra e sinistra con qualche condimento di un paio di rappresentanti della cosiddetta società civile e il giochetto è fatto con tanti saluti a chi ha creduto l’ennesima volta nella 'politica dal basso'. Cosa altro c’è da capire, accertare, valutare? Ma non sarà che invece di seguire sterili programmi politici bisogna costruire solidi progetti? Ma non sarà che la vera unione da cercare è sul cambiamento concreto e non sulla mozione numero uno, due o tre su cui scannarsi? Quando intellettuali, politici, ex politici, teorici di ogni risma e così via si mettono a capo di qualcosa difficilmente se ne cava qualcosa di buono, se non fiumi di parole su cui si cavilla all’infinito inutilmente e si finisce per spararsi addosso fra galli che si massacrano per essere padroni del pollaio anche se si tratta di due galline. Chissà se l’ennesimo e non ultimo fallimento di una utopica gestione dal basso della politica istituzionale possa insegnare che questa politica ha fatto il suo tempo, che è arrivato il momento di elaborare proposte di cambiamento su progettualità concrete ora e qui e non su pii desideri che si realizzeranno “quando avremo preso il potere”, cioè mai. Il potere oggi è di chi con le sue scelte decide di cambiare. Il potere oggi è di chi boicotta, rifiuta, coltiva, scambia, agisce, cammina, autoproduce, riduce, impara, apprezza e soprattutto sa essere umile pur essendo fermo nelle sue scelte e nella sua voglia di cambiare. Il potere oggi è di chi non segue nessun gatto e volpe ma decide anche assieme ai suoi simili che ce la può fare e ce la farà. di Paolo Ermani

L'IMU era per Monte dei Paschi di Siena

Riassumendo MontePaschi a dicembre scorso ha ricevuto 23 miliardi dalla BCE con l'LTRO all'1%, con cui ha comprato BTP che in media le pagano un 5% e su cui guadagna quindi un miliardo circa come differenziale di interesse. Nonostante questo regalo ora riceve dallo stato altri 3.9 miliardi, ma su questi pagherà un 10% circa, quindi 10 volte di più di quello che potrebbe pagare se emettesse debito a breve che oggi per le banche italiane è sotto 1%. Mps: Viola, 'cedola annua Monti bond al 9%, +0,5% ogni due anni' (Il Sole 24 Ore Radiocor) - Roma, 23 gen - "La banca sui Monti bond paga un interesse annuo del 9% che si incrementa dello 0,5% ogni due anni". Lo ha detto l'amministratore delegato di Banca Mps, Fabrizio Viola, intervistato da Sky Tg24, spiegando che "la banca e' impegnata al rimborso fino all'ultimo euro di questo prestito su un orizzonte temporale a medio termine. Per lo Stato si tratta di un investimento finanziario e non di una spesa, un investimento finanziario che ha un buon rendimento, superiore a quello che e' il costo medio che lo Stato paga per il suo debito pubblico". (1) non è un errore di stampa o di agenzia... se pagano un 9-10% su 3.9 miliardi di Monti Bond come razzo fanno a chiudere un bilancio non in perdita nei prossimi anni ? Ovvio che vanno sotto e infatti "si ragiona su un aumento di capitale da 1 miliardo (2) , che finirà per ridurre definitivamente al ruolo di comprimario la Fondazione Mps, oggi ancora azionista di riferimento con il 36 per cento. Viola ha anche chiarito l'utilizzo dei cosiddetti Monti-bond: "Sono delle obbligazioni emesse dalla banca - ha spiegato - e sottoscritte dallo Stato, che per le loro caratteristiche sono equiparati al capitale...". Sicuro, non esiste oggi un solo bonds nemmeno nell'Africa nera che paghi un 9%, questo è un altro aumento di capitale mascherato che però costerà così caro da necessitare un aumento di capitale a scapito degli azionisti A proposito Monti questi 3.9 miliardi da dare a MontePaschi li ha presi con l'IMU, in pratica. In TV Monti ha dichiarato che "l'IMU è necessaria ...perchè le case consumano risorse pubbliche" tipo illuminazione pubblica, asfaltare strade...cioè se tu ti compri una casa costi allo stato (anche se paghi già tasse per acqua, luce, gas, spazzatura...). Balle ovviamente, gli servivano alcuni miliardi per evitare di nazionalizzare MontePaschi. Ma gli italiani sono dei masochisti e tra un mese rimandano Monti al governo "Mps: Viola (Ad), Consob e Bankitalia non informate su derivati" (3) cioè hanno falsificato i conti per nasconderli alle autorità. Peccato che il magistrato Ingroia sia ora impegnato con le elezioni, se era ancora in magistratura poteva incriminare tutti al MPS a partire dall'avvocato calabrese Mussari (perchè dicono sempre che MPS è un istituzione "tutta senese" ? la comandava un calabrese che rispondeva al pugliese D'Alema e all'emiliano Bersani) Leggi anche il pezzo di Fabio Bolognini qui su MPS (4) che illustra le sfacciate balle raccontate per due anni dai suoi capi. di Giovanni Zibordi NOTE: 1) http://finanza-mercati.ilsole24ore.com/azioni/pagine/dettaglioazioninotiziepull/dettaglioazioninotiziepull.php?QUOTE=%21BMPS.MI&PNAC=nRC_23.01.2013_18.53_487 2) http://www.lorenzonipartners.com/index.php/138-l-europa-da-l-ok-ai-monti-bond-e-mette-sotto-esame-il-piano-mps 3) http://www.agi.it/in-primo-piano/notizie/201301231937-ipp-rt10378-mps_viola_ad_consob_e_bankitalia_non_informate_su_derivati 4) http://www.linkerblog.biz/2013/01/23/monte-paschi-bugie-con-le-gambe-corte/

24 gennaio 2013

La vera evasione fiscale è... multinazionale

Non tutti in Italia sanno dell’esistenza di un numero telefonico anti-evasione, il 117. Eppure, recenti inchieste giornalistiche hanno rivelato che molti nostri connazionali lo conoscono e come, giacché lo compongono spesso. Contestualmente all’attuazione di una massiccia campagna governativa di lotta all’evasione fiscale, infatti, le chiamate effettuate a questo centralino gestito dalla Guardia di Finanza sono lievitate in modo esponenziale. Nel 2012 l’incremento, con quasi 24mila chiamate, è stato del 228%. La nuova psicosi degli italiani: la lotta all’evasione Ma che tipo di denunce passano attraverso questa sorta di “spy-line” tutta italiana? Per esempio questa: il vicino di casa che, pur con un lavoro a basso reddito, si crogiola in qualche lusso. Oppure quest’altra: il barista che non rilascia lo scontrino per l’acquisto di cornetto e latte macchiato. I media che riportano la notizia non hanno dubbi: l’aumento di segnalazioni al 117 racconta di un senso civico finalmente manifestatosi in seno allo storicamente negligente popolo italiano. Ecco la dimostrazione di quanto efficace sia stato instillare – attraverso sinistri spot televisivi e terroristiche dichiarazioni dei tecnocrati – il seme dell’odio anti-evasori. Evade più il barista o la multinazionale? Lo sdegno verso il barista e il vicino di casa, tuttavia, rappresenta il lato più meschino della lotta all’evasione. Del resto, il denaro contante, quello che passa per le mani del piccolo commerciante, è solo una parte infinitesimale rispetto a quello virtuale. È dunque logico pensare che le maggiori falle d’evasione si concentrino laddove circola quest’ultimo. Ovvero, nei paraggi delle industrie multinazionali. Esperte in trucchi contabili atti ad eludere gli ispettori fiscali dei vari Paesi in cui esse operano. Uno degli espedienti più usati a tal fine dalle multinazionali è quello di creare anzitutto una complicata rete di società affiliate, consociate e reti di vendita a livello internazionale. La seconda fase consiste poi nello spostamento dei costi nei Paesi dove la tassazione è maggiore – dunque imprese in rosso che in un determinato Paese non pagheranno tasse – portando invece gli utili in tutti quei Paesi dove il regime di tassazione è vicino, se non prossimo, allo zero. Se si pensa che il 60% del commercio mondiale passa ormai per questi monopolisti internazionali (dato dell’Osce, l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo economico), si può immaginare il volume di evasione fiscale che le grandi aziende causano ai danni delle casse degli Stati. L’Osce e le misure contro i grandi evasori Mentre gli italiani si preoccupano della furbizia del barista o delle ricchezze sospette del vicino, altrove, finalmente, sembra che qualcuno si stia accorgendo del reale problema. Il quotidiano francese Le Figaro annuncia che la stessa Osce è intenzionata a promuovere iniziative tese a smantellare questa complessa rete anti-fisco messa a punto dalle lobby multinazionali. Il 15-16 febbraio prossimo, a Mosca, durante la riunione del G20, l’Organizzazione presenterà un piano che prevede la cooperazione di diversi Stati per trovare il modo di bloccare gli enormi meccanismi di elusione di questo tipo. E il governo italiano aiuta banche e multinazionali Un segnale positivo. O, se non altro, più rassicurante di quanto sta avvenendo in Italia, dove raffiche di imposte vengono gettate sui contribuenti e le grinfie di una mai così solerte Guardia di Finanza puntano i piccoli esercizi commerciali. La nascita del Redditometro, poi, fa già avvertire ai cittadini nuove gelide folate del fiato di Equitalia sul collo. Questa spietata operazione anti-evasori ordita dal governo Monti, tuttavia, è come una piccola rete che impiglia i pesci piccoli e lascia sfuggire gli squali della finanza. Basti pensare che la regolamentazione dell’elusione fiscale (tecnicamente chiamata anche “abuso di diritto“), introdotta dal governo nel Disegno di legge di delega fiscale, contiene alcune misure che in molti non hanno esitato a definire “un regalo a banche e multinazionali che evadono”. Oltre all’esistenza di una sorta di “condono” delle operazioni finanziarie sospette poste in essere finora, si esclude espressamente la rilevanza penale nei confronti di comportamenti ascrivibili in fattispecie abusive. L’articolo 6 del Ddl in sostanza introduce ai fini penali un discrimine tra i grandi contribuenti e tutti gli altri. La “mela morsicata” elude il Fisco La lista delle multinazionali, o delle grandi banche, che traggono beneficio da questa depenalizzazione nei confronti del loro truffaldino modus operandi è troppo lunga. Almeno un’azienda val la pena citarla però: la Apple, che, secondo gli esperti fiscali internazionali, nel 2011 ha pagato la miseria – si fa per dire – di 130milioni di dollari rispetto ai 13miliardi dichiarati. Forse, quei 24mila italiani delatori, prima di compilare il numero 117, se proprio avessero voluto individuare la sorgente prima e preminente dell’evasione, avrebbero dovuto rivolgere uno sguardo non ai tasti, ma alla mela morsicata che campeggia sul loro telefonino. di Federico Cenci

23 gennaio 2013

Se Berlusconi restasse senza platea

LA COSA sorprendente di questa campagna elettorale è che l'ex primo ministro, lo stesso che ha avuto a disposizione decenni di comunicazione televisiva e giornalistica, oggi torna a pretendere e ottenere un pulpito. E da esso conquisti anche larga audience. Accade poi che, grazie a quel pulpito, sembra guadagnare come decorazioni al merito, un'immagine nuova, diversa, svecchiata. Quella che doveva apparire come la più logora e stantia delle proposte politiche, d'improvviso sembra diventare, per un trucco mediatico, il nuovo che attrae. Lo si segue in televisione, si cliccano i video delle sue interviste, si resta lì, incollati allo schermo, ipnotizzati, invece di cambiare canale, per decenza. Ci dovrebbe essere un unanime "ancora lui, basta" e invece no. E ciò che tutti un anno fa credevamo sarebbe stata l'unica reazione possibile alla incredibile ricomparsa sulla scena politica di Silvio Berlusconi non si sta verificando. Una certa indignazione - naturalmente - talvolta una presa di distanza, ma non rifiuto, non rigetto. Quando Berlusconi va in tv sa esattamente cosa fare: la verità è l'ultimo dei suoi problemi, il giudizio sui suoi governi, il disastro economico, le leggi ad personam, i fatti - insomma - possono essere tranquillamente aggirati anche grazie all'inconsapevolezza dei suoi interlocutori. Il Cavaliere mette su sipari, sceneggiate, battutine. È smaliziato, non ha paura di dire fesserie, non ha paura di essere insultato, di cadere in luoghi comuni, di ripetere storielle false sulle quali è già stato smascherato. Occupa la scena. E c'è chi cade nel tranello: questo trucco da prim'attore, incredibilmente, ancora una volta crea una sorta di strana empatia, di immedesimazione. C'è chi dice: sarà anche un buffone, ma meglio lui dei sedicenti buoni. E allora sedie spolverate, segni delle manette, lavagnette in testa. Torna lui, lui che ci ha ridotti sul lastrico, lui che ha candidato chiunque, lui che ha detto tutto e il contrario di tutto ed è stato smentito mille volte. Eppure quei pulpiti diventano per lui nuove possibilità di partenza: chi vuole ostacolare questo processo già visto e già vissuto dovrebbe evitare di fare il suo gioco, di prestarsi al ruolo di spalla - come al teatro - dovrebbe impedirgli di montare e smontare sipari. Più Berlusconi va in tv, più dileggia chi gli sta di fronte, più piace. Perché sa disinnescare chi lo intervista. Non ha paura, anzi sembra divertito dalla paura degli altri. Sente l'odore del sangue dei suoi avversari e attacca. In una competizione in genere vince chi non ha nulla da perdere e lui, screditato sul piano nazionale, internazionale, politico e personale; con processi pendenti che riguardano le sue aziende e le sue abitudini privatissime; con l'impero economico che cola a picco, è l'unico vero soggetto che da questa situazione non ha nulla da perdere e tutto da guadagnare. E se la sta giocando fino in fondo. Appunto, giocando. È divertito, esaltato. Berlusconi non può più essere considerato un interlocutore, chi lo fa gli dà la possibilità di mentire laddove i fatti lo hanno già condannato. Fatti politici, ancor prima che giudiziari. Più lo si fa parlare, più lo si aiuta, più si asseconda la sua pretesa alla presenza perenne, all'onnipresenza televisiva come fosse un diritto da garantire a un candidato, cosa che non è. E tutto come se prima di questo momento non avesse mai avuto la possibilità di farci conoscere le sue idee e i suoi programmi. Come se non avesse avuto modo di esprimersi, da primo ministro, sui temi che oggi sta affrontando spacciandosi da outsider, da nuovo che avanza, da nuovo che sgomita e lotta per riconquistare lo spazio che gli è dovuto. Ha avuto una maggioranza che gli avrebbe consentito di poter modificare le leve e cambiare tutto. E non lo ha fatto. Ha solo legittimato quel "liberi tutti" fatto di evasione e deresponsabilizzazione che ha reso il nostro paese un paese povero. Povero di infrastrutture, povero di risorse, povero di speranza e invivibile per la maggior parte degli italiani. Anche per chi Berlusconi lo ha votato, anche per chi in lui si è riconosciuto. E allora smettiamola di prenderlo sul serio, smettiamola di ridere alle sue battute per tremare poi all'idea che possa riconquistare terreno. Trattiamolo piuttosto per quello che è: un bambino di settantasei anni. Quando i bambini esagerano con le parolacce, con i capricci, i genitori li ignorano, fingono di non aver sentito. È l'unico modo perché il bambino perda il gusto della provocazione. La stessa cosa dovremmo fare con lui: farlo parlare, ma senza prestargli attenzione. Evitiamo i sorrisi alle sue battute stantie, perché non possa più ostentare sicurezza davanti ai suoi, perché non possa più spacciare la falsa tesi secondo cui i politici sono tutti uguali. Non sarò mai per la censura: Berlusconi ovviamente deve parlare in tv - certo dovrebbe farlo nelle regole sempre infrante della par condicio - come tutti i leader delle coalizioni. Siamo noi che dobbiamo smetterla di giocare con lui. Lasciamolo senza platea. di ROBERTO SAVIANO

22 gennaio 2013

Populismo

Come il “comunitarismo”, il “populismo” è diventato oggi una parola per nascondere di tutto. Ne è prova il fatto che personaggi molto differenti tra loro come Nicolas Sarkosy, Ségolène Royl, Georges Marchais, Jean –Luc Mélenchon, Bernard Tapie, José Bové, Marine Le Pen, Christophe Blocher, Jörg Haider, Geert Wlider, Silvio Berlusconi, ma anche Mao Zedong, Mussolini, Juan Peron, Getùlio Vargas, Fidel castro, il colonnello Gedhafi, Umberto Bossi, Ahmed Ahmadinejad, Luis Inàcio”Lula” da Silva o Hugo Chàvez si sono visti attribuire questa etichetta. “La parola è dovunque, la sua definizione da nessuna parte” diceva qualche mese fa lo storico Phlippe Roger. “ Semplicemente noi non disponiamo di niente che assomigli ad una teoria del populismo”, aggiungeva il politologo Jean-Werner Mueller: Cerchiamo dunque almeno di definire questo termine in un modo più rigoroso di quanto lo si faccia d’abitudine. L’emergenza del “populismo” è certamente anzitutto il segnale di una crisi, in occasione di una disfunzione della democrazia, i cui sintomi più evidenti sono stati descritti parecchie volte: discredito dell’intera classe politica, aumento dell’astensionismo, voti di pura protesta, fossato che si scava tra “l’alto e il basso”, sentimento comune di uno spodestamento dei valori democratici. Interrogati nell’autunno 2005, su come percepivano la classe politica, il 71% dei francesi dichiara di avere una cattiva opinione della loro classe dirigente, il 76% afferma di non avere fiducia, il 49% la giudica addirittura corrotta. Secondo un altro sondaggio, più recente, sette francesi su dieci circa dichiarano di non avere “ fiducia né nella destra né nella sinistra”. si tratta dunque di un discredito di massa, che tocca anzitutto le persone, ma che si estende anche alle istituzioni. I cittadini non hanno fiducia nella capacità d’azione di una classe politica che non cessa di presentare come possibili da raggiungere degli obiettivi che essa non raggiunge mai, e il suo atteggiamento più comune oscilla tra il disinteresse e il rifiuto, l’astensione o l’opposizione sistematica. Un altro sondaggio del 2006 dimostra ancora che 6 francesi su 10 non arrivano più a differenziare la destra dalla sinistra. È evidentemente una conseguenza della rifocalizzazione dei programmi dei partiti, risultato di un consenso implicito sulle finalità sociali che lega tra di loro i principali partiti e impedisce ogni messa in discussione del sistema. Convinti che le elezioni “ si vincono al centro” – secondo la teoria dell’”elettore moderato” sviluppata dal politologo Anthony Downs – i grandi partiti non hanno smesso di rifocalizzare i loro discorsi per convincere gli elettori incerti. Le posizioni “di destra” e “di sinistra” sono così diventate sempre di più indistinguibili e questo ha rafforzato l’idea di una complicità oggettiva delle élites ( la “banda dei quattro” diceva Jean –Marie Le Pen, la coalizione “UMPS” secondo la figlia). Improvvisamente l’alternativa (sostituita dalla semplice alternanza) diventa impossibile ed un numero crescente di elettori hanno la sensazione che il sistema politico è cifrato in anticipo affinché possano vincere solo coloro di cui è certo che non cambieranno niente del sistema. Noi siamo dunque, come hanno già constatato molti osservatori, davanti ad una crisi evidente della rappresentanza Questo può condurci ad interrogarci sui limiti della democrazia rappresentativa, ma anche sui rapporti che esistono tra la democrazia e rappresentanza. Il concetto di rappresentanza appare all’inizio del Medioevo, epoca in cui si forma all’interno del diritto pubblico sotto l’influenza del diritto privato. A partire dal XVIII secolo tale concetto diviene un elemento chiave per il funzionamento dei regimi “liberali rappresentativi”. Montesquieu è uno dei primi a difendere l’idea , ripresa in seguito mille volte, secondo la quale il popolo, pur non in grado di decidere da solo, è di fatto capace di scegliere i propri rappresentanti. Rousseau ha difeso, si sa, la tesi contraria a quella di Montesquieu. Difensore del mandato imperativo, egli sostiene che un popolo non possa che perdere la propria sovranità dal momento in cui se ne priva a vantaggio dei rappresentanti. Da allora in poi quasi tutte le democrazie occidentali sono state democrazie rappresentative, costituzionali, parlamentari e liberali. Ora, la rappresentanza è, per essenza, un sistema oligarchico, dal momento che essa sfocia necessariamente nella formazione di un gruppo dominante, i cui membri si coalizzano tra di loro per difendere a priori i loro interessi. La sfiducia del popolo deriva oggi dal fatto che non si sente più rappresentato da coloro che pretendono di parlare a nome suo, essendo costoro anzi accusati di non cercare altro che mantenere i propri privilegi e servire ai propri interessi particolari. Si è così scavato un fossato tra le élites ed il popolo, un fossato ideologico e sociologico che non cessa di allargarsi. Il divario tra la classe politica e l’elettorato rappresenta un problema soprattutto per la sinistra che, nel passato, aveva sempre preteso di rappresentare più della destra le aspirazioni del popolo.Ma oggi la sinistra si è progressivamente distaccata dal popolo.Gli intellettuali di sinistra hanno abbandonato le speranze messianiche che poco tempo fa essi riponevano nella classe operaia, mentre le élites politiche sempre di più per disprezzo di classe hanno perso il contatto con l’ambiente popolare. Esattamente come la destra, la sinistra si è installata nelle classi medie superiori, quando non è nell’apparato statale. Aderendo all’economia di mercato, privilegiando le rivendicazioni marginali a discapito di coloro che sono maggiormente minacciati dalla disoccupazione e dalla insicurezza sociale, offrendo lo spettacolo di un’élite installata nella scena mediatica, essa ha profondamente deluso coloro ai quali aveva presunto di dare la precedenza. II parte Allo stesso modo, la crescita di una cultura di sinistra d’ispirazione edonistico-libertaria ha contribuito a separare i partiti di sinistra dagli strati popolari, che hanno assistito con stupore alla formazione di una sinistra mondana e arrogante, più incline a difendere l”omogenitorialità”, l”arte contemporanea”, i diritti delle minoranze, il “politicamente corretto”, che a difendere gli interessi della classe operaia. La “gente” ha così preso il posto del popolo. Eletta dalla mondializzazione, si è installata una nuova classe politico-mediatica, che unisce, all’interno di una medesima situazione elitaria di potere e di apparenza, dirigenti politici, uomini d’affari e rappresentanti dei media, tutti intimamente legati gli uni agli altri, tutti convinti della pericolosità delle aspirazioni popolari. L’adesione al Fronte nazionale di una larga parte della vecchia classe operaia ha giocato a tale proposito un ruolo decisivo: Ha permesso alla sinistra parlamentare di ripudiare il popolo col prestesto che “pensava male”, mentre un antirazzismo di convenienza le permetteva di nascondere le proprie derive ideologiche. L’ “antilepenismo (Jean-Marie Le Pen è l'ex presidente del partito di estrema destra Fronte nazionale) ha preso il posto dell’anticapitalismo, prezioso alibi per giustificare di aver messo in secondo piano la questione sociale nel momento stesso in cui essa risorgeva con una forza sconosciuta dal periodo dei 30 anni di forte crescita ( dal 1945 al 1973) Nell’ultima elezione presidenziale, in base ad un sondaggio Ipsos, Marine Le Pen (figlia di Jean-Marie Le Pen) ha sedotto circa un terzo dell’elettorato operaio. Il voto operaio a favore della sinistra ( il voto di classe), scontato dal dopo guerra alla fine degli anni settanta, è scomparso. Progressivamente numerosi operai sono passati al Fronte nazionale, in particolare i nati a partire dal 1960, più colpiti dai problemi dell’immigrazione e della disoccupazione . Queste generazioni hanno vissuto la cristallizzazione di una frattura prodotta dalla mondializzazione nel gioco politico francese, allo stesso modo in cui i gruppi operai del periodo tra le due guerre avevano vissuto la cristallizzazione della frattura di classe. Ricordiamo anche che in occasione del referendum sul progetto di trattato costituzionale europeo il 60% dei giovani, l’80% degli operai e il 60% degli impiegati, così come la maggioranza dei salariati, hanno votato no; il sì era maggioritario solo presso l’alta borghesia, i quadri superiori e i pensionati. Ciò non significa che gli operai costituiscano la maggioranza dell’elettorato del Fronte Nazionale ( ne rappresentano circa il 13%), ma la presenza del mondo del lavoro all’interno di questo elettorato ha contribuito in modo indelebile a squalificare il popolo agli occhi delle élites. Da qui deriva la questione posta da Annie Collovad: “Il populismo del fronte Nazionale non potrebbe essere il segno di una nuova congiuntura intellettuale e politica nella quale le élites politiche d’oggi non vedono più nei gruppi popolari una causa da difendere, bensì un “popolo senza classe” diventato un problema da risolvere?” Regolarmente definito come “irrazionale” ( preferisce gli attori politici fuori dal sistema dei partiti, non vota come gli si dice di fare) e sensibile alle tesi “autoritarie”, cosa che spiegherebbe la sua tendenza ad affidarsi ai attivi pastori, il popolo può essere rappresentato come pericoloso, grossolano, incolto, come un segmento di popolazione composto da “buoi” che non riescono a liberarsi dai loro pregiudizi arcaici, anacronistici, e incapaci di mettersi al passo con la prospettiva di una “mondializzazione felice”. Diviene così evidente, sia che il popolo non sa ciò che vuole, sia , quando esso fa sapere di volere qualcosa, che non è il caso di tenerne conto. È dunque inutile parlare con lui prima di parlare a nome suo. Ed è soprattutto pericolo consultarlo, dal momento che non vota mai come ci si aspetta che faccia. è per questo che sotto il termine di “populismo” si tende oggi a riunire, per meglio mantenerne le distanze, tutte le forme di secessione riguardo al consenso dominante. Un tale modo di fare, scrive Jacques Rancière, “ nasconde e al medesimo tempo rivela il grande desiderio dell’oligarchia: governare senza il popolo”. Chi oggi parla del popolo si espone necessariamente al rimprovero di “populismo”: Divenuto oggi un’ingiuria politica, accusato di risvegliare le cattive inclinazioni delle classi popolari, utile alle classi dirigenti per stigmatizzare quanti rimproverano loro di aver confiscato il potere a proprio vantaggio, il populismo è presentato in una prospettiva insieme peggiorativa e screditante, con lo scopo, come ha ben osservato Alexandre Dorna, di “gettarlo fuori dalla storia, come se si trattasse di un fenomeno senza radici né vere cause”. L’idea di fondo è che sarebbe sufficiente di far sparire il popolo – o di cambiarlo – per sbarazzarsi del populismo! La parola “populismo” compare nel 1929 negli scritti di André Thérive e Léon Lemonnier per designare una nuova scuola letteraria ( il primo premio populista fu attribuito a Eugène Dabit per l’opera Hotel du Nord). Ma il populismo, in quanto fenomeno politico , è di gran lunga anteriore. È in Russia e negli stati Uniti che si devono ricercare le radici, all’interno dei movimenti che, nell’uno e nell’altro caso, cercavano di smuovere i gruppi più deboli contro le élites del momento. I narodniki (“gente del popolo”) della Russia zarista volevano avvicinarsi al popolo per ritrovare una comunità perduta e proponevano la nascita di un sistema di economia socialista agraria. Nello stesso periodo, alla fine del XIX secolo, il populismo americano indica un movimento principalmente rurale. Di fronte ai prezzi proibitivi che un accesso privilegiato al potere pubblico ha permesso alle compagnie ferroviarie di imporsi, i populisti spingono per un ritorno alle sorgenti della democrazia americana. Il populismo appare dunque chiaramente a sinistra, anche se questo populismo di sinistra è sempre stato ostile all’ideologia del progresso ( ciò spiega l’ostilità dei bolscheviki nei confronti dei narodniki russi). Da questo punto di vista, lo storico Michel Vinock non ha torto a scrivere: “ Il populismo non è specificamente di estrema destra. La parola designa una fiducia nel popolo che si ritrova nei discorsi di Robespierre o negli scritti di Michelet”. Ma il populismo supera di fatto tutte le fratture. è ciò che constata Christophe Guily, autore del saggio Fractures françaisess, quando fa osservare che oggi “ la frattura non è più tanto tra la sinistra e la destra quanto tra le classi dominanti, indifferentemente di destra e di sinistra, e le classi popolari.” Questo spiega anche il fato che il populismo sia stato criticato sia dalla destra che dalla sinistra. III Parte La democrazia liberale si richiama al popolo, ma ha sempre fatto moltissima fatica a tollerare che le classi popolari si interessino alla politica. Dei teorici liberali come Jones o Seymour Martin Lipset incoraggiano l’astensione ( che ha sempre un significato politico) e persino l’apatia politica, col pretesto che serve di più lasciare agli esperti e a “coloro che sanno” la preoccupazione di condurre le questioni pubbliche. Il problema è che, in queste condizioni, le democrazie si trasformano in oligarchie “formattate” dal “pensiero unico”, con la conseguenza che il popolo è obbligato a constatare che i risultati ottenuti sono poco brillanti.. Quanto alla sinistra, che ha a lungo ricusato questo atteggiamento, si ü a sua volta separata nettamente dal popolo, fissandosi su riforme “societali” che non interessano se non a minoranze, recitando la “preferenza straniera”, e perfino tenendo a distanza le classi sociali “pericolose” reputate tanto incapaci di riflettere quanto imprevedibili. Pierre-André Taguieff denuncia così “l’illusione populista, Dominique Reynié vi vede da parte sua una “china fatale”, mentre altri intellettuali di posizioni molto diverse, da Christopher Lasch a Ernesto Laclau, propongono al contrario un approccio più sfumato. Il primo errore da non commettere quando si parla di populismo è quello di ricercare in esso un’ideologia. La diversità degli uomini politici che sono stati tacciati di populismo, la polisemia del termine ( nazional –populismo, populismo di sinistra, populismo liberale, etc.) dimostrano che il populismo non è un’ideologia. Il politologo e filosofo argentino Ernesto Laclau ritiene a ragione che si tratti di un termine “neutro”. Il populismo non ha contenuto, ma è uno stile – e questo stile si può adattare a quasi tutti i discorsi politici. Il secondo errore è quello d’analizzare il populismo in termini di “demagogia”. Per numerosi osservatori, il leader populista è semplicemente un demagogo. Il populismo semplificherebbe i problemi attraverso la demagogia e questa demagogia risveglierebbe o cristallizzerebbe gli istinti cattivi del popolo. Pierre-André Tguieff definisce il populismo come la “ forma assunta dalla demagogia nelle società contemporanee”. Questa critica non è sempre sbagliata: c’è una grande differenza tra pretendere di parlare in nome del popolo e impegnarsi a dare al popolo i mezzi per potersi esprimere da solo.ma questa visione dimentica che la demagogia delle élites val bene quella dei populisti e che la demagogia è anzitutto l’arte di governare adulando il popolo. Ridurre il populismo a demagogia significa di fatto fraintendere l’essenziale, ossia la nozione stessa di popolo. Come scrive Vincent Coussedière, “ se la scienza politica e dietro di lei i discorsi critici e mediatici cercano di ridurre il populismo a una forma di demagogia. è perché non dispongono di un concetto di popolo che permetterebbe di mettere veramente a fuoco il fenomeno.” Ora, “non c’è politica senza popolo, né popolo senza politica”. Il popolo, aggiunge Coussedière, è una “realtà vivente il cui essere insieme è politico (…) L’essere insieme populista è un essere che reagisce al posto vuoto della direzione politica. Corrisponde a quel momento della vita delle democrazie in cui il popolo si mette a malincuore a fare politica, poiché è demoralizzato dall’atteggiamento dei governanti che non ne fanno più”. Si sa che il concetto di popolo può essere inteso come ethnos ( popolo come origine e storia ) o come demos ( in senso politico) o come classe sfruttata. Il populismo prende spesso queste tre accezioni, che mescola in proporzioni variabili. Se rinvia ad una base social specifica ( le classi popolari alleate alle classi medie), esso rappresenta ugualmente una forma d’immagine politica in cui il popolo è anzitutto concepito come radunato. Questo perché tende a dimenticare l’importanza del pluralismo all’interno della società, cose che gli rimprovera la destra liberale, e anche quella della lotta di classe, cosa che gli viene rimproverata dall’estrema sinistra. Il popolo si definisce in primo luogo per una socievolezza comune, della quale Aristotele faceva il fondamento della philia politikè, l’amicizia politica. È necessario distinguere l’amicizia politica dal “societale”, che non è la sociabilità prodotta dalla macchina dello Stato- Provvidenza. Questa sociabilità comune tuttavia non può essere ricondotta neppure a una “identità” più o meno fantasma. È il risultato di “imitazione-consuetudine” che è al medesimo tempo l’essenza del legame sociale e la base delle tradizioni, e che permette ai cittadini di fare l’esperimento di ciò che essi hanno in comune. “Il populismo – scrive ancora Vincent Coussedière – è l’espressione del conservatorismo del popolo e del suo attaccamento all’imitazione-consuetudine, al di fuori di ogni forma partitica definitiva.. Il populismo è il partito dei conservatori che non hanno partito”. “Il populismo – conclude Coussedière – è un momento in cui il popolo lotta per la sua sopravvivenza riscoprendo la solidarietà del suo essere sociale e del suo essere politico. Volendo conservare la sua sciabilità, il popolo riscopre la necessità della politica come condizione e come rafforzamento di essa. Il momento populista è quello in cui questa politica non esiste o contribuisce, al contrario, a distruggere l’essere-insieme del popolo. IL populismo è l’aspirazione non ancora realizzata a ritrovare questa politica che permette al popolo di continuare ad essere un popolo”. È “entrata in campo di un popolo contro le sue élites, avendo compreso che queste lo conducono verso l’abisso. Idealizzazione del popolo? Può essere il caso. ma l’idea che “il popolo non è mai corrotto” non deve essere mal interpretata. Il popolo può essere ingannato, manipolato. Nonostante questo, anche in circostanze del genere, non dimentica che “ci sono delle cose che non si fanno”, convinzione che non si ritrova nelle classi superiori o borghesi. E soprattutto, il popolo sa molto bene riconoscere quando i suoi dirigenti non governano conformemente a ciò che percepisce come bene, ovvero le condizioni che gli permettono di rimanere se stesso. Il popolo constata che oggi la politica è soffocata dall’economia, la morale, il giuridismo delle procedure e l’espertocrazia. Il popolo chiede un ritorno del politico, dato che è solo politicamente che può esistere in quanto popolo. Il popolo si oppone dunque alla dottrina tecnocratica di Saint-Simon secondo la quale “bisogna sostituire il governo degli uomini con l’amministrazione delle cose”. Interrogarsi sul populismo non significa solo interrogarsi sulla legittimità delle rivendicazioni popolari, ma anche sulla ragione d’essere della sovranità popolare, che è il fondamento dei regimi democratici. E sussidiariamente significa darsi i mezzi per analizzare lo “smantellamento del popolo politico francese”, cominciato ormai da mezzo secolo. di Alain de Benoist

21 gennaio 2013

In arrivo dagli Usa una valanga di debiti!

L’accordo di capo d’anno per scongiurare che il fantomatico “fiscal cliff” potesse portare ad uno choc fiscale, alla recessione e al blocco del bilancio dello stato federale Usa, non è una vittoria della stabilità. Dovrebbe invece essere considerato un rischio ulteriore di instabilità per il resto del mondo, in primis per l’Europa. L’evento ha una valenza tutta americana, molto importante per i giochi di potere interni. Sancisce però una politica complessivamente fallimentare, sia dei democratici che dei repubblicani, nella gestione della finanza. Si sono trovati i 600 miliardi di dollari necessari per evitare, almeno sulla carta, che alcune spese per il welfare vengano automaticamente bloccate e alcune agevolazioni fiscali siano cancellate. In realtà l’accordo “partorisce” un aumento del debito per ben 4.000 miliardi di dollari nel prossimo decennio!. La stima non è fornita da una qualche fucina ideologica neoliberista anti Obama, bensì dal prestigioso e indipendente Congressional Budget Office. Come noto, il Cbo è un’istituzione finanziata dal Congresso per analizzare i costi delle politiche di bilancio. Il suo direttore viene nominato congiuntamente dai presidenti della Camera e del Senato. L’attuale direttore, Douglas Elmendorf è stato scelto nel gennaio 2009 quando entrambi i presidenti erano democratici. Il “fiscal cliff” quindi non è la vera emergenza finanziaria americana. Si è trattato piuttosto di un “preparativo” psicologico. La vera emergenza che gli Usa devono affrontare è invece lo sfondamento del tetto del debito pubblico! A fine anno infatti il debito pubblico americano ha raggiunto il “ceiling”, cioè il tetto massimo stabilito dalla legge finanziaria di bilancio che è di 16.400 miliardi di dollari, equivalente al 103% del Pil. Sarebbe dovuto bastare fino al 30 settembre 2013, cioè fino alla scadenza del bilancio annuale. Ma così non sarà. Che succederà adesso? Fino a settembre di fatto non c’è copertura per le spese di bilancio, per tutte le spese. Il ministro del Tesoro Tim Geithner ha detto che il suo Ministero ha già raggiunto il limite dei prestiti possibili e ha affermato che possono trovarsi “altri mezzi per raccogliere fondi per pagare il debito” per un periodo massimo di 6-8 settimane. Al di là dei trucchetti contabili, il dato è che gli Usa sarebbero tecnicamente già in default!. Una situazione simile si era già creata nell’agosto del 2011, quando il bilancio federale era stato prosciugato e mancavano i soldi per i pagamenti dei dipendenti pubblici, dei fornitori, degli assegni di disoccupazione, delle pensioni, ecc. Allora, come si ricorderà, si decise di alzare il tetto del debito pubblico di ben 2.000 miliardi di dollari! In poco più di un anno però questi fondi sono stati “bruciati” senza significativi effetti per l’economia americana. Certo sì evitato l’immediato aumento della disoccupazione e della povertà ma non si è rimesso in moto l’economia. Sono mancate una vera strategia di ripresa della produzione e degli investimenti e una più giusta riforma fiscale. In sintesi, al di là delle note schermaglie ideologiche, gli Usa, sia il governo Obama che il Congresso nel suo insieme, si stanno muovendo verso un ulteriore aumento del debito pubblico. Nulla di nuovo sotto il cielo. Infatti la politica di crescita del debito e della liquidità è quella che da anni porta avanti la Federal Reserve di Ben Bernanke. Il suo bilancio (balance sheet) è passato da 869 miliardi del 2007 a 2.880 miliardi del 2012. Ben 2/3 dei titoli del Tesoro americano che arrivano sul mercato vengono comprati dalla Fed. Dopo aver deciso lo scorso settembre l’acquisto di mortgage-backed securities, quei titoli tossici legati ai mutui subprime, per 40 miliardi di dollari ogni mese, la Fed a novembre ha deciso di acquistare mensilmente 45 miliardi di dollari di bond del Tesoro e di altre obbligazioni simili a lungo termine e in cambio di vendere i ben più appetibili titoli a breve scadenza in suo possesso. E’ un altro bel regalo al sistema bancario americano! Queste decisioni non potranno che produrre uno choc per l’intero sistema finanziario mondiale. I paesi emergenti lo dicono da tempo denunciando i riverberi negativi sulle loro economie e sulle loro monete. In questo scenario l’Europa è spiazzata. In un sistema globalizzato, dove la finanza opera per vasi comunicanti, i governi europei si sono ingessati con il “fiscal compact”, mentre gli Usa alzano a piacere il tetto del loro debito pubblico. Inoltre, in un sistema bancario senza riforme, le banche americane sono agevolate dalle politiche della Fed, mentre quelle europee sono compresse dai parametri richiesti da Basilea III. Purtroppo in Europa c’è chi irresponsabilmente chiede di fare come negli Usa. Secondo noi, invece, queste ricette sono disastrose. Non ci sono scorciatoie, né serve l’illusione psicologica di chi vuol vedere “la luce alla fine del tunnel”. Occorre affrontare insieme e alla radice le cause della crisi globale e rimuoverle, senza nasconderle come si continua a fare. di Mario Lettieri e Paolo Raimondi

20 gennaio 2013

quando torneremo come eravamo?

... Ah regà, famo a capisse, ce stanno a pijà pper culo, mortacci sua... Così introduceva i suoi spettacoli il grande Ettore Petrolini che, pur sotto la severissima censura fascista, riusciva a fare filtrare i suoi "messaggi" per gli italiani che volevano "capire"... Oggi non c'è più (almeno ufficialmente) il Minculpop (Ministero della cultura popolare) e, quindi, la "censura" non opera direttamente "tagliando" l'informazione sgradita al regime, ma sono gli stessi "giornalisti" (ammesso che così si possano ancora chiamare) che, "imponendo" i temi del dibattito elettorale (graditi ai loro partiti di riferimento), oscurano completamente le questioni che, invece, di quel dibattito dovrebbero essere i temi centrali. Osservate la tabellina seguente:

 

1999

2012

Differenza

Produzione industriale

106

82

-23%

Saldo esportaz.- importaz.

+33 miliardi

-45 miliardi

-78 miliardi

Disoccupazione

7.9%

11.0%

+ 1.4 milioni di disoccupati

Pressione fiscale

41.3%

45.4%

+ 60 miliardi anno di tasse

Debito pubblico/Pil

109%

127%

+270 miliardi di debito

Crescita Pil

+2.0%

-2.5%

-80 miliardi anno di Pil

In essa, come vedete, sono riportati i numeri chiave dell'economia italiana nel 1999, all'entrata nell'euro, e 13 dopo, nel 2012, quando gli effetti di quella "maestosa minchiata" si erano già manifestati in pieno. E dunque, ah regà, famo a capisse, non dovrebbe essere questo il vero dibattito elettorale... ovverosia chiederci e chiedere ai nostri politici: ma che cazzo di vantaggio abbiamo avuto ad entrare nell'euro e per quale cazzo di motivo ci restiamo ancora? Non c'è un solo risultato economico positivo... la situazione di questo paese, dall'ingresso nell'euro ad oggi, è peggiorata in modo drammatico... e nessuno di quei saltafossi in giacca e cravatta o loden, sente l'obbligo di spiegarci perché ci siamo entrati e perché ci restiamo nonostante l'evidenza del disastro che esso ci ha causato? Volete fare un favore all'Italia? ... Fate circolare la tabellina sopra tra i vostri conoscenti e ponetegli la stessa domanda (... perché siamo entrati nell'euro e perché ci restiamo...?)... Se, come credo, nessuno sarà in grado di dare una risposta (... e come potrebbe, se anche un bambino scimunito capirebbe che è stata un'evidentissima cazzata?), allora chiedetegli perché ha accettato ed accetta ancora di farsi "spogliare ed impoverire" (così come la tabellina sopra dimostra inequivocabilmente) senza neanche protestare, e perché, soprattutto, non pretende una risposta chiara e documentata (alla domanda "perché siamo entrati e perché restiamo nell'euro") dai candidati del partito che intende votare? Cosa cazzo ce ne frega delle frecciatine (... del tipo di quelli che oggi fanno finta di litigare, mentre fino ad ieri si sostenevano l'un l'altro, tutti insieme appassionatamente...) di Monti verso Bersani e Berlusconi (o delle risposte piccate di quest'ultimi)... quando ciò che brucia sulla pelle di tutti noi è la devastazione che l'euro ha prodotto e continua a produrre nel nostro paese? Ciò che ci interessa è: che previsione fanno Monti, Bersani e Berlusconi per tutte le sei grandezze economiche della tabellina sopra nei prossimi cinque anni... Ciò che devono dirci è: quando ritorneremo alla stessa situazione economica di prima dell'euro? Cazzo, non dico meglio (come sarei autorizzato a pretendere)... ma almeno uguale... Il resto, è evidente, sono favole per bambini scimuniti e, giustamente, Ettore Petrolini, entrando in scena, avrebbe detto: .. Ah regà, famo a capisse, ce stanno a pijà pper culo, mortacci sua... L'euro ci costa (a noi italiani) almeno 80 miliardi l'anno... e, visto che siamo in 60 milioni, fate voi il conto di quanto costa alla vostra famiglia... e, siccome non tutti i 60 milioni di italiani subiscono lo stesso danno (ricordate la media del pollo di Trilussa?) e ci sono quelli che invece ne hanno un vantaggio (circa il 21% della popolazione), significa che quelli che "pagano" (il restante 79%)... se la pijano doppiamente nder culo... Ora, è noto che agli italiani, fino all'anno scorso, quell'articolo (... pijarla nder culo...) piaceva di molto... ... Tuttavia, sul finire di quel terribile 2012, qualcosa è cambiato... pertanto, mi permetto di azzardare un pronostico elettorale molto nefasto per i nuovi cattocomunisti e per i sedicenti liberali alla Berlusconi & company che, predicando amorevolmente la necessità di ridurre le tasse, sono riusciti ad "infilarcene" altre... with no vaseline... Secondo me, gli ex Pci (Pd e Sel) staranno tra il 29% ed il 34%, mentre l'armata neo-democrista che sostiene il bocconiano che, finalmente, ha gettato la maschera (Mario Monti), non supererà il 12%... ... Insieme, i neo catto-comunisti non supereranno il 46%. Avranno (grazie al porcellum) la maggioranza alla Camera, e (sempre grazie allo stesso porcellum) potrebbero avere una maggioranza molto ristretta al Senato... ma non potranno governare... a meno che non facciano una proposta (di quelle che non si possono rifiutare) a Berlusconi: i voti dell'armata Brancaleone che segue il cavaliere, in cambio di "protezione" (finanziaria e giudiziaria) per la "mummia di Arcore"... ... E Silvio ed i suoi "banditori a gettone", si farebbero certamente convincere (...tengono famiglia...). ... Ma anche "quest'alleanza" durerebbe poco: con un milione di disoccupati in più nel 2013-2014... i catto-comunisti al governo comincerebbero ad avere davvero paura (esattamente come i governanti greci e spagnoli che, in giro, mandano le "controfigure"): a tirare troppo la corda, gli italiani potrebbero scendere in piazza pronti a menare la mani... Se (Monti, Bersani e Berlusconi) facessero quel patto scellerato, rischierebbero di essere travolti da "moti popolari" di gente davvero incazzata che sarebbe pronta a tutto... Coraggio, fratelli d'Italia, il peggio è passato... ed ai Monti, Bersani, Berlusconi, etc... glie tocca de stà 'n campana, perché un sacco di gente, in questo paese... s'è rotta li coijoni... ... Non so se mi ho capito...??

19 gennaio 2013

Deutsche Bank non è più intoccabile

Una volta la Deutsche Bank era rispettata come pilastro dell'economia tedesca basata sull'industria, ma oggi essa è un attore della bisca finanziaria internazionale come tutte le altre megabanche. Negli ultimi due anni essa è stata colpita da scandali e denunce che hanno inferto duri colpi alla sua immagine. Attualmente la banca è sotto inchiesta per falso in bilancio allo scopo di nascondere pesanti perdite sui derivati del ramo statunitense. Secondo Eric Ben-Artzi, ex funzionario della DB che ora è testimone della procura di New York, le perdite si aggiravano attorno ai 10 miliardi di dollari nel 2008. Oltre a queste accuse, c'è l'inchiesta sulla manipolazione del Libor compiuta assieme a numerose altre banche, che avrebbe fruttato alla DB "almeno 500 milioni di euro di profitti nel 2008 da scambi agganciati al tasso d'interesse", secondo il Wall Street Journal. Queste transazioni riguardavano l'8,5% dei profitti di DB nel 2008 (5,9 miliardi di euro). La DB ha respinto le accuse definendole "categoricamente false", ma questa è una difesa scontata. La manipolazione del Libor ha comportato pesanti oneri per enti locali, famiglie e imprese che avevano contratto prestiti e mutui con le banche, legati all'andamento del tasso interbancario e spesso agganciati a contratti swaps. Perciò ci si attende che la DB dovrà pagare ingenti multe e forse, come è accaduto per l'UBS, ci saranno conseguenze penali per i suoi dirigenti. L'azione di polizia era stata attivata nel contesto di una presunta complicità della banca in un caso di frode e ostruzione della giustizia che riguarda il traffico di certificati di emissione CO2. Quello dei certificati di emissione è un mercato già finito nel mirino degli inquirenti per casi di evasione dell'IVA e riciclaggio di denaro sporco. La lista dei guai giudiziari in cui è incappata la Deutsche Bank nel 2011-2012 comprende circa 20 casi, a partire dal divieto di negoziare derivati per sei mesi imposto nel febbraio 2011 in Sud Corea e dalla sentenza costituzionale sull'accordo swap con la ditta Ille nel marzo dello stesso anno. Per menzionarne alcuni: La Commissione UE sta indagando su casi di CDS fraudolenti che coinvolgono la DB assieme ad altre banche; La città di Los Angeles ha denunciato la banca per casi di esproprio illegale: La Federal Housing Financial Administration degli Stati Uniti ha aperto un'inchiesta su frodi immobiliari; Il Serious Fraud Office del Regno Unito sta indagando su cartolarizzazioni emesse dalla DB; Numerosi fondi pensione USA e enti locali in Italia hanno promosso azioni legali contro DB per i famigerati contratti derivati; Le recenti sentenze emesse contro la Deutsche Bank – nel caso del Comune di Milano e del gruppo Kirch nel dicembre 2012 – e un cambiato atteggiamento dei media, specialmente in Germania, mostrano che l'aura di intoccabilità che circondava finora la banca è svanita, e che è arrivato il "momento di Pecora". by (MoviSol)

18 gennaio 2013

Una campagna elettorale senza "futuro"

E' davvero possibile abolire l'IMU? E, soprattutto, può il Professor Monti, dopo averla introdotta, dichiararsi pronto a ridiscuterla? Ma se Berlusconi dovesse fare il Ministro dell'Economia chi sarà Premier? Cosa dire di quelle "giudichesse comuniste" che hanno condannato il Cavaliere a versare, ogni giorno, alla sua ex moglie più di quanto un italiano medio incassa in cinque anni? La lotta all'evasione è sufficiente a risanare le casse dell'Erario? Sono questi e tanti altri - ma non molti di più - gli argomenti attorno ai quali, da settimane sono - e ci resteranno ancora per settimane - al centro di dibattiti televisivi, talk show e tribune elettorali.

Pressione fiscale, lotta all'evasione, legalità, questione morale e mercato del lavoro sono le principali questioni - per non dire tutte - attorno alle quali i leader di tutti i piccoli e grandi schieramenti, vecchi o nuovi che siano nell'agone politico, si giocheranno la campagna elettorale, cercando di accaparrarsi più poltrone possibili in Parlamento.

E sono, naturalmente, gli stessi i temi sui quali i mezzi busti più famosi della scena televisiva italiana e le penne più in vista della nostra carta stampata amano intervistare veterani ed esordienti nella campagna elettorale.

Nessuno appare curioso di sapere cosa il Professor Monti, il Cavalier Berlusconi, il favorito Bersani o uno qualsiasi dei tanti sfidanti pensano di Internet e, più in generale, delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione come volano per la crescita culturale, democratica ed economica del Paese?

E, naturalmente, nessuno dei contendenti, aspiranti parlamentari - ivi incluso, per la verità, il Comico della Rete per antonomasia, Beppe Grillo - appare ansioso di dire la sua sull'argomento.

Eppure la Commissione Europea - e non un qualsiasi smanettone fanatico di Internet o un esponente del Partito Pirata - non ha alcun dubbio nel dire che "La crescita sostenibile e la competitività future dell'Europa dipendono in larga misura dalla sua capacità di accettare la trasformazione digitale in tutta la sua complessità" ed a stimare "che la metà della crescita complessiva della produttività dipenda dagli investimenti nelle tecnologie dell'informazione e della comunicazione".

Sono le parole con le quali si apre la Comunicazione della Commissione europea al Consiglio ed al Parlamento dello scorso 18 dicembre.

Ci sarà almeno un aspirante parlamentare o un giornalista politico che l'abbia letta? "In Europa i lavoratori impiegati nel settore delle TIC sono più di 4 milioni, ripartiti in diversi settori, e crescono del 3% l'anno malgrado la crisi" ma - sono sempre parole della Commissione - "entro il 2015, in Europa non saranno coperti tra i 700 000 e 1 milione di posti di lavoro nelle TIC a causa della mancanza di personale competente."

Possibile che a nessuno, neppure in campagna elettorale, interessi la possibilità di combattere la piaga della disoccupazione giovanile stimolando - come suggerito dalla Commissione "il numero complessivo degli esperti in materia di TIC [Tecnologie dell'informazione e della comunicazione], nonché la loro occupabilità e mobilità"?
Non è più facile, più serio e costruttivo proporre ricette per consentire ai giovani di occupare posti di lavoro già esistenti in Europa piuttosto che continuare a raccontare favole sulla creazione di nuove centinaia di migliaia di posti di lavoro?

"La piena attuazione dell'agenda digitale potrebbe aumentare il PIL europeo del 5% o di 1 500 EUR a persona nei prossimi otto anni, potenziando gli investimenti nelle TIC, migliorando il livello delle competenze digitali della forza lavoro e riformando le condizioni quadro dell'economia di internet. In tal modo, inoltre, a breve termine si creerebbero 1,2 milioni di posti di lavoro nella costruzione di infrastrutture e 3,8 milioni di posti di lavoro in tutti i settori dell'economia nel lungo termine."

Neppure numeri e previsioni di questo genere bastano per porre Internet ed il digitale al centro della campagna elettorale?

"Se il commercio elettronico crescesse fino a rappresentare il 15% del totale del settore del commercio al dettaglio e gli ostacoli al mercato unico fossero eliminati, si stima che i vantaggi complessivi in termini di benessere dei consumatori ammonterebbero a circa 204 miliardi di EUR, pari all'1,7% del PIL dell'UE", si legge nella Comunicazione della Commissione.

Ha senso davanti a certe prospettive concrete spendere tempo ed energie a confrontarsi sui cento mila euro al giorno che il Cavalier Berlusconi deve a Donna Lario? "Soltanto gli appalti elettronici consentono un risparmio di 100 miliardi di EUR all'anno e l'eGovernment può ridurre i costi amministrativi del 15-20%" senza contare che "il riutilizzo dei dati del settore pubblico...creerà un valore economico pari a 140 miliardi di EUR".

Eccola la più importante riforma della pubblica amministrazione della quale abbiamo bisogno.

Ce n'è abbastanza per scommetterci un'intera campagna elettorale senza neppure il bisogno di promettere agli elettori qualcosa che non si sarà poi in condizione di mantenere.

"La connettività internet ad alta velocità è il fondamento dell'economia digitale, senza il quale servizi essenziali come il cloud computing, la sanità online (eHealth), le città intelligenti, i servizi audiovisivi, nonché i benefici da essi derivati, semplicemente non potrebbero essere attuati. Un aumento del 10% della penetrazione della banda larga potrebbe determinare un aumento pari all'1-1,5% del PIL annuale30 o potrebbe aumentare la produttività del lavoro dell'1,5% nei prossimi cinque anni."

Come si fa dinanzi a certi dati a lasciare alzare un politico da una qualsiasi poltrona televisiva senza avergli domandato come pensa di garantire a tutte le imprese ed a tutti i cittadini italiani l'accesso ad un'infrastruttura di connettività efficiente e neutrale?

"La società e l'economia dell'UE devono trasformarsi in un'Europa digitale, in cui l'intera popolazione possa sfruttare le tecnologie, i mezzi di comunicazione e i contenuti digitali", scrive la Commissione, che, poi aggiunge come "la crescita incontenibile dell'utilizzo delle TIC nella vita quotidiana contribuisce più di qualunque altra innovazione tecnologica a mutare radicalmente l'economia e la società nel loro complesso. Nel prossimo decennio, le TIC potranno contribuire a un radicale cambiamento della società e dei sistemi di produzione, consentendo una crescita e un benessere maggiori grazie a un incremento dell'efficienza, a nuovi prodotti, a nuovi servizi e a servizi pubblici più sviluppati".

Come è possibile candidarsi alla guida del Paese senza aver chiaro in testa che questi sono gli argomenti, i problemi e le opportunità che fanno la differenza e che senza il Paese non ha futuro.

Ma non sarebbe giusto prendersela solo con i candidati.

La colpa è anche - e, forse, soprattutto - nostra e dei tanti giornalisti televisivi e della carta stampata che per pigrizia, accondiscendenza o arretratezza culturale non spingono Lorsignori a confrontarsi anche e soprattutto sul "futuro", raccontando al Paese come lo pensano di regalargliene uno anche e, soprattutto, in digitale.

Non lasciamo che, anche questa volta, la campagna elettorale sia senza "futuro".