30 settembre 2013

Le armi chimiche segrete di Israele







Gli ispettori Onu, che controllano le armi chimiche della Siria, avrebbero molto più da fare se fossero inviati a controllare le armi nucleari, biologiche e chimiche (NBC) di Israele. Secondo le regole del «diritto internazionale», non possono però farlo. Israele non ha firmato il Trattato di non-proliferazione nucleare, né la Convenzione che vieta le armi biologiche, e ha firmato ma non ratificato quella che vieta le armi chimiche. Secondo «Jane's Defense Weekly», Israele - l'unica potenza nucleare in Medio Oriente - possiede da 100 a 300 testate e relativi vettori (missili balistici e da crociera e cacciabombardieri). Secondo stime Sipri, Israele ha prodotto 690-950 kg di plutonio, e continua a produrne tanto da fabbricare ogni anno 10-15 bombe tipo quella di Nagasaki. Produce anche trizio, gas radioattivo con cui si fabbricano testate neutroniche, che provocano minore contaminazione radioattiva ma più alta letalità. Secondo diversi rapporti internazionali, citati anche dal giornale israeliano «Haaretz», armi biologiche e chimiche vengono sviluppate all'Istituto per la ricerca biologica, situato a Ness-Ziona presso Tel Aviv. Ufficialmente fanno parte dello staff 160 scienziati e 170 tecnici, che da cinque decenni compiono ricerche di biologia, chimica, biochimica, biotecnologia, farmacologia, fisica e altre discipline scientifiche . L'Istituto, insieme al Centro nucleare di Dimona, è «una delle istituzioni più segrete di Israele» sotto la giurisdizione del primo ministro. La massima segretezza copre la ricerca sulle armi biologiche: batteri e virus che, disseminati nel paese nemico, possono scatenare epidemie. Tra questi il batterio della peste bubbonica (la «morte nera» del Medioevo) e il virus Ebola, contagioso e letale, per il quale non è disponibile alcuna terapia. Con la biotecnologia si possono produrre nuovi tipi di agenti patogeni verso i quali la popolazione bersaglio non è in grado di resistere, non disponendo del vaccino specifico. Vi sono anche seri indizi su ricerche per lo sviluppo di armi biologiche in grado di annientare nell'uomo il sistema immunitario. Ufficialmente l'Istituto israeliano compie ricerche su vaccini contro batteri e virus, come quelle sull'antrace finanziate dal Pentagono, ma è evidente che esse permettono di sviluppare nuovi agenti patogeni per uso bellico. Lo stesso espediente viene usato negli Stati uniti e in altri paesi per aggirare le Convenzioni che vietano le armi biologiche e chimiche. In Israele il manto di segretezza è stato in parte squarciato dall'inchiesta compiuta, con l'aiuto di scienziati, dal giornalista olandese Karel Knip. È emerso inoltre che sostanze tossiche sviluppate dall'Istituto sono state usate dal Mossad per assassinare dirigenti palestinesi. Testimonianze mediche indicano che, a Gaza e in Libano, le forze israeliane hanno usato armi di nuova concezione: lasciano intatto il corpo all'esterno ma, penetrandovi, devitalizzano i tessuti, carbonizzano il fegato e le ossa, coagulano il sangue. Ciò è possibile con la nanotecnologia, la scienza che progetta strutture microscopiche costruendole atomo per atomo. Allo sviluppo di tali armi contribuisce anche l'Italia, legata a Israele da un accordo di cooperazione militare e suo primo partner europeo nella ricerca & sviluppo. Nella finanziaria è previsto uno stanziamento annuo di 3 milioni di euro per progetti di ricerca congiunti italo-israeliani. Come quello, contenuto nell'ultimo bando della Farnesina, su «nuovi approcci per combattere gli agenti patogeni trattamento-resistenti». Così l'Istituto israeliano per la ricerca biologica potrà rendere gli agenti patogeni ancora più resistenti. 
di Manlio Dinucci 

29 settembre 2013

La verità sull'Euro






Euro si o euro no? Anche in Italia, dopo anni di passività e di fede cieca nelle virtù taumaturgiche della moneta unica, si è aperto il dibattito sull’euro. Ma la diatriba ha preso presto una brutta piega, tanto che sarebbe meglio chiuderla seduta stante, per non sprecare altro tempo prezioso inseguendo fantasmi verdi come bigliettoni.
Da un lato, il partito degli euro-faziosi sostiene che se l’Italia non avesse abbondonato la liretta per la valuta comune adesso avremmo un sistema allo sfascio, con i conti perennemente in rosso, senza competitività, in preda alla recessione e corroso dall’inflazione. In sostanza, è proprio quello che sta accadendo attualmente con l’euro imperante, anche se fingono di non vedere.
I “negazionisti”, invece, ritengono che laddove abbandonassimo la banconota forte e riadottassimo la divisa debole saremmo in grado di agire efficacemente sulla politica economica, stampando moneta quando occorre e svalutando quando serve, per non scaricare sull’economia reale gli imprevisti di quella di carta, ottenendo margini più ampi di correzione che adesso ci sono preclusi dai parametri di Maastricht. Così dichiarano ma non c’è la controprova. Soprattutto, manca una classe dirigente coraggiosa capace di prendere decisioni ardite. Lasciare l’euro per affidare i destini di una possibile transizione ad altro scenario agli stessi che ci sgovernano adesso non è garanzia di alcun mutamento. Ugualmente, nessun riscontro ci è dato circa gli scenari apocalittici disegnati dagli euro-convinti, i quali cercano di dissuadere la pubblica opinione dallo sposare simili idee antieuropeiste, paventando fame e miseria.
Probabilmente, hanno ragione entrambi, o, meglio, hanno tutti torto alla stessa maniera, perché il fulcro del problema, da loro nemmeno sfiorato, se ne sta ben coperto, sotto una coltre di fumo ideologico, in tutt’altro luogo analitico, ad un livello differente della realtà sociale che pertiene alla sfera politica e non a quella economica (se non liminarmente). Di fatti, alla base di qualsiasi decisione finanziaria c’è, o almeno dovrebbe esserci, una valutazione precisa da parte di tutta la classe dirigente, circa i pro e i contro che operazioni di questo tipo potrebbero generare, tenendo conto delle traiettorie geopolitiche mondiali e regionali e dei rapporti di forza internazionali. Senza una visione più complessiva dei fenomeni sociali e storici si finisce nella rete della “legisimilità” indiscutibile dei mercati la quale, dietro la  sua apparente neutralità, cela articolati piani politici, elaborati e studiati dagli Stati più attrezzati alle sfide dei tempi.
La verità è che quando il nostro Paese è entrato nell’euro ha scelto di non scegliere e di farsi trascinare dagli eventi che in quel momento erano favorevoli alla “corrente unionista”, supportata da una utopia falsamente globalista che sarebbe stata successivamente smentita dai fatti. Anzi, i fautori nostrani dell’ingresso dell’Italia nell’euro, i vari Amato, Ciampi, Prodi, erano superburocrati collegati ai centri finanziari sovranazionali (ma con base fissa oltreoceano) i quali, pur di legare lo Stivale alle consorterie che spingevano le loro carriere, accettarono un cambio estremamente svantaggioso per la nostra nazione. Quindi, l’errore fu fatto a monte e, forse, se si fosse contrattato adeguatamente il prezzo della nostra adesione alla moneta comune, non avremmo mai subito uno scossone così devastante per il sistema-paese. Dico forse perché anche questa ipotetica capacità concertativa non sarebbe stata bastevole senza una adeguata progettualità politica portata avanti da una élite direttiva gelosa della sua sovranità politica e del funzionamento non eterodiretto dell’intera macchina statale. E’ accaduto il contrario di quel che era saggio fare ed abbiamo ceduto potere a Bruxelles senza contropartite proporzionate.
Gli euro-partigiani, quantunque il fallimento delle loro idee sia palese, continuano a premere sull’acceleratore europeo senza alcun ravvedimento. Ancora ieri, in una trasmissione televisiva su LA7, Piazza Pulita, trattando della questione, veniva ripetuta la solita tiritera sull’euro che ci avrebbe salvati da danni ancor maggiori. Presente in studio un mio concittadino che si chiama come me, imprenditore nel settore dei velivoli ultraleggeri, il quale s’improvvisava storico ed economista, commettendo un grave e comune strafalcione. Costui asseriva che fuori dall’euro avremmo patito la medesima sorte della Repubblica di Weimar, costretti a trasportare il denaro con il carrello della spesa per comprare beni di prima necessità.  Al mio omonimo vorrei rammentare che semmai è vero il contrario, cioè che la Germania weimariana si ritrovò in quelle condizioni catastrofiche proprio a causa di vincoli vessatori esterni, tra esorbitanti riparazioni di guerra, imposizione di tagli alla spesa pubblica per la sostenibilità del bilancio e la solvibilità dei debiti contratti, nonché per le  scorrerie della finanza internazionale che speculava e si ingrassava a spese dei tedeschi. Vi ricorda qualcosa? La decadenza si arrestò con la nomina di Hitler a Cancelliere. Hitler compì il miracolo, impensabile solo qualche mese prima, contravvenendo a quasi tutti gli obblighi imposti a Berlino dalle Potenze vincitrici della I guerra mondiale e ripristinando la struttura politica-militare del Reich (rimando, per una miglior comprensione di queste circostanze, ad un ottimo articolo di Sylos Labini). Il rilancio dell’economia nazista seguì questi atti d’imperio politico e non viceversa.
Ribadire, pertanto, anche al cospetto delle innumerevoli smentite portate dai fatti e dalla storia, siffatte bizzarre teoresi che si fondano sull’incoscienza, o, peggio, sulla menzogna, ovverosia che l’Italia ha bisogno di vincoli esterni per rimettersi in marcia, vuol dire consegnarsi mani e piedi a chi ci vuole ancor più sfiancati e dipendenti, al fine di derubarci anche di quel poco che ci resta di buono.
Le terapie d’urto hanno un senso quando sono brevi e mirate, se si protraggono a lungo possono sortire l’effetto opposto. Come per il nostro Paese che ormai stordito non ha quasi più la capacità di rialzarsi. Gli euro-settari si mettano l’anima in pace e non persistano in questo assurdo malinteso che ci condurrà alla completa rovina. Forse, al Belpaese serviva effettivamente un elettrochoc per recuperare lucidità ma gli elettrodi sono stati applicati sul posto sbagliato da persone senza nessuna competenza. Questi andavano messi sulla testa e non sui coglioni, perciò il trattamento da curativo è diventato semplicemente una tortura menomante.
C’è però da dire che le banalità si sprecano anche sull’altro versante,quello degli euro-contrari. Sempre su La7, nel programma del pur bravoGianluigi Paragone, una specie di filosofo, uno dei nouveaux “filosofessophes” di questa fase senza speranza, ha dichiarato che il nuovo nazismo è l’egemonia della moneta e che i teologi della globalizzazione sono i nazisti del nostro tempo. Bella stupidaggine e le motivazioni che dovrebbero allontanare da noi simili sciocchezze  sono le medesime del discorso fatto sopra, ben chiarite anche nell’articolo di Sylos Labini. Il nazismo non c’entra proprio niente con quello che sta accadendo oggi, anzi questo fu proprio una reazione verso umiliazioni geopolitiche intollerabili, condotte con strumenti differenziati, compresi quelli finanziari. Un presunto intellettuale che usa le parole così a cazzo di cane per ottenere un’eco mediatica non è un pensatore ma, appunto, un cazzone.
Sono convinto che la rilevanza data dal circuito mainstream alla controversia pro e contro l’euro è qualificabile come un tentativo di saturare surrettiziamente la scena pubblica con dispute di secondo e terzo grado, apposta per togliere spazio al tema dirimente, quello della sovranità politica vietata all’Italia da una sordida sottomissione alle grandi capitali atlantiche ed europee, dalla quale discendono a cascata tutti i nostri casini. Sicuramente, non saranno i filosofi che frequentano l’accademia, né gli economisti che se la intendono col Financial Times (leggi qui), a tirarci fuori dai guai, perché il guaio è che il loro naso è il punto più lontano dove riescono a guardare.

I difetti dell’euro – che sono un effetto di ciò che ci sta capitando ma non la causa primigenia delle nostre sventure – sono i difetti della nostra mancanza di sovranità. Senza recupero d’indipendenza e di autonomia nazionale, attraverso nuove alleanze geopolitiche che ci sottraggano all’influenza atlantica  e ci spalanchino il subrecinto europeo, non avremo nessuna via di scampo. Se le cose stanno in questi termini, come credo, dobbiamo prendercela con noi stessi e con chi ci sgoverna, non con la Germania che fa il suo sporco lavoro e non fa le nostre stesse sporche figure  in campo mondiale, dove riusciamo sempre a rinnegare i nostri interessi ed a tradire i patti con i partner. Nessuna critica alla nazione tedesca sarà mai accettabile se chi lamenta le chiusure e le rigidità teutoniche non avrà prima detto, chiaro e tondo, qual è l’Amministrazione (per antonomasia) che ci sta tenendo, da lustri, sotto il suo tallone di ferro politico e militare (servendosi anche dei nostri vicini e degli organi burocratici dell’UE da essa controllati) e chi sono i suoi complici interni. Nessuna disapprovazione della speculazione finanziaria avrà per noi valore scientifico e veritativo se questa verrà fondata su presupposti moralistici e umanitaristici (vedi le campagne contro i banchieri deviati, per il  recupero dell’onestà negli affari), o astratti  e metafisici (vedi le crociate contro il globalismo disantropomorfizzante, il capitalismo assoluto ed altre baggianate del tipo), anzichè sulla denuncia dei reali manovratori, governi organizzati in apparati e uomini  in carne ed ossa, che si muovono alle sue spalle. Speriamo con ciò, finalmente, di esserci capiti. Le querelles che ho descritto sono tutte interne allo stato di cose presente, non c’è nulla di meglio al mondo di una finta opposizione per puntellare un sistema. Pro-euristi e anti-euristi sono due facce della stessa medaglia.
di Gianni Petrosillo 

24 settembre 2013

L’Europa e la politica ancella della finanza



Alain_De_BenoistAdesso ci sono arrivati in tanti alla «decrescita» e allo scetticismo nei confronti della religione europeista che impazzava negli Anni 90 e all’ inizio del Duemila. Ma si tratta di idee e atteggiamenti che Alain De Benoist aveva teorizzato e coltivato già negli ultimi 40 anni. Critico (con argomenti precisi) nei confronti dell’Europa, diffidente (in maniera articolata) verso il dio mercantilista, il politologo francese fondatore della Nouvelle Droite era stato per anni relegato, in maniera liquidatoria, nella casella dei pensatori di estrema destra.
Ora che la contrapposizione ideologica destra-sinistra che ha segnato il ’900 non sembra più in grado di orientare le visioni politiche in maniera ferma e forte, e soprattutto ora che che la crisi economica sembra inverare timori e tremori per un tramonto d’Occidente, le riflessioni che De Benoist aveva disseminato riemergono come una trama nascosta, dietro le considerazioni di tanti, sempre più accreditati, maestri di pensiero.

 Friedrich Nietzsche scrisse “L’Europa si farà sull’orlo di una tomba”. Scusi l’inizio “a lutto”, ma le sembra che, su quest’orlo finalmente ci siamo arrivati?
Non ci siamo molto lontani. Alla crisi economica e sociale (tutti gli indicatori sono in rosso) si aggiungono ormai una crisi morale e un’evidente allontanamento del popolo nei confronti della classe politica. Tutti i sondaggi di cui disponiamo confermano delle tendenze “pesanti”, che rivelano una sfiducia generalizzata che va ben al di là delle istituzioni. Ora, la fiducia sociale è il fondamento della coesione sociale. Lo sprofondare della fiducia va di pari passo con l’aumento dell’amarezza e della delusione, della frustrazione e del rancore, cose che possono generare un’ondata di collera.Ciò non vuol dire che si va “a fare l’Europa” (non farò l’errore di confondere con l’Unione Europea), ma che un ciclo sta per terminare. 
Decrescita. Per lei, come per altri (vedi Serge Latouche) è un imperativo motivato dalla finitezza delle risorse. Ma, osservando la situazione europea, più che un modello etico sembra un dato di fatto. Forse si tratta solo di prendere atto che l’Europa non potrà più vivere un periodo di prosperità economica paragonabile a quello dei decenni passati? 
Nel 19 simo secolo si credeva ancora che le risorse naturali fossero gratuite e inesauribili. Adesso sappiamo che non lo sono. Prima di essere una teoria la decrescita è una constatazione: non ci può essere crescita materiale infinita in uno spazio finito. In altri termini, gli alberi non possono crescere fino al cielo. Questo fatto ci colpisce, perché noi abbiamo preso l’abitudine di considerare la crescita economico come qualcosa di naturale. In realtà questa idea è recente. Storicamente è legata all’ideologia del progresso, che, anch’essa, al giono d’oggi è in crisi. Ma la decrescita non significa l’arresto di ogni attività economica, il ritorno indietro, o la fine della storia. Bisogna soltanto abituarsi a moderare i nostri modi di vita. Cioè capire che “più” non è sempre sinonimo di “meglio”.L’austerità al giorno d’oggi messa in atto dai governi europei per soddisfare le esigenze delle banche e dei mercati finanziari si traduce in un abbassamento del potere d’acquisto e in un aumento della disoccupazione, cioè in risultati inversi a quello che si pensava.Provoca l’impoverimento delle classi medie e  di quelle popolari, ma non impedisce che i più ricchi si arricchiscano sempre più. Tutto questo, evidentemente, non ha nulla a che vedere con la decrescita.

L’idea di Europa che a un certo punto ci è stata presentata come ineludibile, in realtà storicamente e culturalmente non ha avuto una gran consistenza. Dalla battaglia di Teutoburgo in poi, tentativi imperiali compresi, l’Europa è stata quasi sempre divisa almeno in due aree culturali, quella mediterranea e quella “nordica” (tedesca e anglosassone). Cosa ne pensa? 
Ma si potrebbe anche parlare di un’Europa divisa in tre, che corrispondono ad antiche zone di influenza religiosa (cattolicesimo al Sud, protestantesimo al Nord, Ortodossia all’Est). Personalmente non ho mai pensato che queste “divisioni” fossero un ostacolo all’unificazione politica dell’Europa. Esse confermano solamente la grande diversità dei popoli e delle culture europee, diversità che deve essere preservata e non soppressa.Quello che è in realtà sorprendente è che l’UE merita ogni giorno un po’ meno il suo nome.L’introduzione dell’euro, che doveva fare convergere le economie europee in realtà ha aggravato le loro divergenze.L’attuale costruzione europea si è infatti effettuata fin dall’inizio contro il buon senso. Si è dapprima scommesso sul commercio e l’industria anziché sulla politica e la cultura. Dopo la caduta del sistema sovietico, anziché cercare di approfondire le sue strutture politiche l’EU ha scelto di allargarsi a paesi desiderosi soprattutto di entrare nella Nato, ciò che ha portato alla sua impotenza e alla sua paralisi. I popoli non sono mai stati realmente associati alla costruzione europea. Infine, le finalità di questa costruzione non sono mai state chiaramente definite. Si tratta di creare un’Eu-Mercato o un’Eu-Potenza? La domanda è questa. 
Il caso del Belgio, per 540 giorni senza governo, ma con buoni risultati economici, non le sembra un gigantesco, epocale, esperimento che dimostra, in maniera quasi beffarda e umoristica, l’irrilevanza della politica nel contesto contemporaneo? 
Il Belgio ha fatto a meno del Governo, ma l’assenza del Governo non ha prodotto la sparizione delle amministrazioni! Non dimentichi neanche che il Belgio è un piccolo paese, che non ha reali ambizioni internazionali. Quello che succede in tutti gli altri paesi d’Europa, toccati in pieno dalla crisi (Grecia, Portogallo, Italia, Spagna) mostra al contrario quello che succede quando la politica capitola davanti alle esigenze della finanza. La crisi attuale, da questo punto di vista, non dimostra l’insignificanza della polutica, ma al contrario la sua importanza essenziale. 
E’ uno dei fondatori della Nouvelle droite, e, conoscendola da lontano, qualcuno la ha associata a Le Pen. Ma pare che i punti di disaccordo tra lei e quest’ultimo siano diversi. Quali sono, in estrema sintesi? 
Le posizioni del Fronte Nazionale hanno subito molte variazioni nel corso della sua storia, cosa particolarmente evidente in ambito economico. Trent’anni fa il FN si definiva volentieri liberale e reaganiano. Al giorno d’oggi, dopo che Marine Le Pen è succeduta a suo padre, lo stesso movimento milita contro il libero scambio, reclama l’introduzione di un  certo protezionismo, e denuncia con vigore la deregulation economica, che ha dato libero corso alle esigenze dei mercati. Personalmente io sono d’accordo con con questa opinione, che spiega, d’altronde, come una grande parte dell’elettorato frontista provenga, ormai, dalla classe operaia. Resto invece in disaccordo con il “giacobinismo” repubblicano del Fronte Nazionale, con la sua ostilità di principio verso il regionalismo e le “comunità” e col suo laicismo islamofobo. 
La perdita di significato delle categorie novecentesche di destra e sinistra è un fatto evidente. Ma, almeno in Italia, si continua a ragionare secondo quei parametri. 
In Italia come in Francia le parole destra e sinistra continuano a essere impiegate in riferimento al gioco politico parlamentare. Ma nello stesso tempo la gente vede bene che i governi di “destra” e “di sinistra” fanno più o meno la stessa politica. E’ il sistema dell’”alternanza unica” (Jean-Claude Michéa) cioè dell’alternanza senza alternativa. La verità è che la destra e la sinistra sono oggi arrivate a una crisi di identità profonda, tantopiù che i grandi avvenimenti creano delle fratture inedite che attraversano la famiglie politiche tradizionali. Penso che le contrapposizioni destra-sinistra non siano più adeguate per analizzare i problemi attuali, che siano divenute obsolete.Una nuovo contrasto, molto più reale, è quello che ormai oppone le classi popolari (di destra e di sinistra) a una “nuova classe” mondializzata oggi totalmente distaccata dal popolo.Sul piano intellettuale è ancora più evidente. La distinzione destra-sinistra non permette assolutamente più di definire degli autori come: Régis Debray, Jean Baudrillard, Serge Latouche, Emmanuel Todd, etc., in Francia, o come Massimo Cacciari, Danilo Zolo, Marco Tarchi o Costanzo Preve in Italia.

E’ un sostenitore di un modello politico federalista, ma non nazionale. Piuttosto “imperiale”. In che senso? 
L’Europa ha conosciuto, nel corso della sua storia, due grandi modelli politici: quello dello stato-nazione, di cui la Francia è l’esempio più tipico, e quello dell’Impero, che è stato prevalentemente quello della Germania e dell’Italia (impero Romano, Sacro romano impero, impero autro ungarico). Il modello stato nazionale è caratterizzato dal centralismo e dal “giacobinismo”, mentre il modello imperiale poggia sul rispetto dei diversi componenti, che possono eventualmente beneficiare di una certa autonomia. Il federalismo mi sembrerebbe il sistema politico che ha maggiormente recepito le caratteristiche del modello imperiale, nella misura in cui oppone il principio di una sovranità condivisa al principio della sovranità una e indivisibile, teorizzata da Jean Bodin, e anche nella misura in cui si fonda sul principio di competenza sufficiente, detto anche principio di sussidiarietà. L’UE, che certi qualificano talvolta come “federale”, da questo punto di vista è perfettamente giacobina, perché è diretta dall’altro verso il basso, da una commissione di Bruxelles che si ritiene onnicompetente. Una vera Europa federale dovrebbe funzionare dalla base verso l’alto, nel rispetto dell’autonomia delle nazioni e delle regioni. 
La tutela delle “piccole patrie” locali come potrebbe avvenire, nei fatti? 
I piccoli paesi potrebbero federarsi tra di loro, mentre i grandi potrebbero federalizzarsi. Un posto tutto particolare dovrebbe anche essere attribuito alle regioni di frontiera. Che sono “vocate” a trasformarsi in euroregioni. Ma come precedente tutto questo suppone un’azione di base che privilegi il localismo e la vita comunitaria locala al fine di favorire la democrazia partecipativa (dem di base, diretta) di rimediare allo scollamento sociale e di creare una nuova forma di vita pubblica, cioè di cittadinanza. 
Lei ha parlato di una “rivoluzione interiore”, come rimedio al capitalismo finanziario e deterritorializzato. Ma come è possibile questa prospettiva se manca un forte indirizzo culturale/ ideale? Oggi viviamo nella cosiddetta “società liquida”. 
In effetti viviamo in una “società liquida” (Baumann) cioè una società dove tutto ciò che un tempo era stabile e durevole tende a essere sostituito dall’instabile e dall’effimero. Simao ormai entrati nel mondo dei flussi e dei riflusso. Questa evoluzione va di pari passo con un “presentismo” che tende a svuotare le dimensioni storiche dell’avvenire e del passato, impedendo nel medesimo tempo di mettere in prospettiva il presente. Questa società liquida è anche per riprendere la formula di Cornelus Castoriadis, una “società delle acque basse”. Il tipo umano che vi predomina è quello dell’homo oeconomicus (individuo consumatore che cerca continuamente di massimizzare il suo miglior interesse materiale), associato a quello del narcisista immaturo. Da questo punto di vista una vera “riforma intellettuale e morale” esigerebbe già una “decolonizzazione” dell’immaginario simbolico, oggi quasi totalmente assoggettato all’immaginario del mercato. Per adesso le condizioni non sembrano in effetti concrete. Ma quello che si vede oggi non ci dice niente di ciò che succederà domani. La grande caratteristica della storia umana è di essere imprevedibile, la storia, per definizione è sempre aperta. 
Chiarisco la domanda: i modelli su cui si appoggiavano le società pre-capitalistiche avevano spesso una forte impronta metafisica e religiosa, che le indirizzava anche socialmente e politicamente. Com’è possibile ottenere una decrescita e una rivoluzione interiore nell’era del nichilismo e del postmoderno? 
A mio avviso è un errore opporre senza sfumature antiche società in cui l’influenza religiosa era forte a società moderne o postmoderne dove la religione è quasi scomparsa. Le cose sono più complicate di così. Il fenomeno della secolarizzazione, che ha segnato tutta la modernità, è da considerare esso stesso come una dialettica. Da un lato le chiese istituzionali hanno finito di dirigere i valori sociali e le istituzioni politiche; ma dall’altro le grandi tematiche religiose che erano formulate un tempo in maniera teologica sono state trasposte nella vita secolare sotto una forma profana. L’ideologia del progresso riprende la parte sua la concezione biblica di una storia lineare, ma orientata verso il meglio. La “felicità” si sostituisce alla salute, la “mano invisibile” sostituisce la Provvidenza. L’ideologia dei diritti dell’uomo ha acquistato la dignità di una religione civile.D’altra parte il bisogno che l’uomo ha di riferirsi a qualcosa di più alto di lui è secondo me una costante antropologica. Appartiene alla natura umana. Ciò non significa che solo le religioni tradizionali possano rispondere a quest’esigenza. Io penso soltanto che il sacro risorge in generale dove uno non se l’aspetta, e che l’uomo ha sempre bisogno di superare se stesso per dare un senso alla sua esistenza. Quanto al nichilismo contemporaneo mi sembra soprattutto il risultato di una scomparsa generale dei riferimenti che fa ritenere una qualsiasi opinione o un qualsiasi desiderio come dotato di ugual valore. Non dimentichiamo, infine, che per Heidegger il nichilismo non è altro che il compimento stesso della metafisica.

Tra l’altro lei non è né un nostalgico, né un tradizionalista. 
Il passato è sempre ricco di insegnamenti, ma  “Non faremo tornare gli antichi greci” diceva Nietszche. Io condivido quest’opinione: è per questo che ho sempre rifiutato il “restaurazionismo” che sostengono gli autori reazionari. Gli ambienti reazionari sono ambienti in cui il riferimento al passato serve da rifugio o da consolazione. Ma la nostalgia (“era meglio prima”!) non è un programma…A meno che non sia la nostalgia dell’avvenire. Penso d’altronde che il passato non può essere definito soltanto come qualche cosa che è successo “prima di noi”. Esso costituisce invece, piuttosto, una dimensione del presente. D’altronde se ci si riflette bene, è soltanto nel presente che il passato può essere percepito come passato. E’ questo che permette di capire e lezioni che possiamo trarre da questo passato. Heidegger per il quale i greci rappresentavano l’inizio della nostra storia, diceva che noi dovremmo essere “più greci dei greci”. Voleva dire con ciò che noi non dobbiamo cercare di rifare quello che hanno fatto i greci, ma ispirarci al loro esempio per mettere in atto un nuovo inizio. 
Con la questione Corea del Nord-Usa molta dell’informazione torna al tema dei cosiddetti “stati canaglia”. La sua opinione riguardo a questo caso specifico? 
C’è poco da dire sul regime nordcoreano, che mette insieme  la dittatura familiare, il dispotismo asiatico, e una forma caricaturale di stalinismo. Ma per qualificare la Corea del Nord piuttosto di “stato canaglia” sarei tentato di parlare di “stato surrealista”. La definizione di stato canaglia in realtà non vuol dire granché. E’ stata impiegata soprattutto dagli Stati Uniti per squalificare i paesi che contrariano la loro politica. Ora, quando si guarda da vicino quello che gli americani rimproverano agli stati canaglia, ci accorgiamo subito che gli stessi rimproveri potrebbero essere rivolti a loro stessi. 
Come giudica il movimento di Beppe Grillo? Sembrate avere in comune diversi temi, a prima vista: reddito minimo, attenzione al locale, decrescita…. 
Guardo il recente successo del movimento Cinque stelle come un sintomo rivelatore dello stato dell’opinione pubblica, e specialmente del discredito in cui è caduta la classe politica.  Il fossato che si è scavato tra la gente e i partiti di governo classici è ormai tale che le persone si volgono a torto o a ragione verso tutto quello che sembra loro non inquadrato e diverso. E’ per questo che il loro voto ha valore di sintomo. Quanto a quelli che si limitano ad agitare lo spettro del “populismo” è facile rispondere loro che le elité in carica non sono meno demagogiche dei populisti e soprattutto che sono le parti del sistema i primi responsabili della comparsa e dello sviluppo dei movimenti populisti. Se gli elettori si sentissero rappresentati da quelli che hanno eletto o incaricati a questo fine, non si rivolgerebbero ai populisti! Quello che Beppe Grillo  e i suoi amici potranno fare dal loro successo, evidentemente è un’altra faccenda.
 Ma da Parte di Grillo, poi, c’è anche il tema della democrazia “diretta” via Internet, che finora sembra dare risultati disastrosi: i rappresentanti e gli elettori che dialogano via blog generano una confusione impressionante. E molti hanno il sospetto che si tratti di una “democrazia diretta”, sì ma da Casaleggio, il guru politico-mediatico di Grillo. Da studioso di politica, che ne pensa di questa idea di democrazia 2.0? Ci sono dei precedenti o dei paragoni storici che ci possono aiutare a illuminarla? 
Internet gioca oggi un ruolo insostituibile nel campo dell’informazione “alternativa”. E grazie a lui che si può sperere di sbriciolare il conformismo mediatico, o anche di far nascere delle vere discussioni. Sono molto scettico sulla possibilità di sviluppare su questo mezzo una vera democrazia diretta. La democrazia diretta esige un confronto diretto nello spazio pubblico. Gli internauti possono anche connettersi fra loro a migliaia, ma restano nella sfare del privato. Non è soltanto diventando degli addict dello schermo, dipendenti da un telecomando o da uno smartphone, che possiamo rimediare alla scomparsa del legame sociale. La socialità implica anch’essa l’esperienza diretta, il contatto diretto. Internet non può svolgere questo ruolo. Ne dà solo l’illusione, proprio come Facebook dà l’illusione di avere degli “amici”. E’ questa la ragione per cui mi rifiuto di figurare sui social network, ma è vero che non ho neanche il telefono portatile!
di Alain de Benoist 

* Intervista a cura di  Bruno Giurato pubblicata su Lettera43

23 settembre 2013

Germania, la ricchezza dai lavoratori alle imprese. Così nasce la "locomotiva


La Germania ha fatto le riforme, ha saputo tenere i conti in ordine, è la locomotiva d’Europa. In Germania un operaio guadagna il doppio del suo collega italiano. Nella mitopoiesi europea del nuovo millennio, la nazione che Angela Merkel si appresta a governare per altri quattro anni è divenuta una sorta di Eldorado in cui i fannulloni mediterranei dovrebbero specchiarsi per impararne le straordinarie virtù. Quanto ai conti pubblici non tutto è come sembra (per il Fmi il Pilfarà solo +0,3% quest’anno).
All’inizio dell’epoca dell’euro, Berlino era “la grande malata d’Europa”. La reazione al declino è stata improntata a un unico obiettivo: comprimere i salari per spingere le esportazioni. Ha spiegato Roland Berger, uno dei consulenti economici di Angela Merkel: “Le riforme tedesche hanno avuto successo: iniziate nel 2003 con una liberalizzazione del mercato del lavoro e un aumento degli stipendi reali inferiore all’incremento della produttività. Poi è seguito il taglio dei costi del sistema sociale (sanità, sussidio di disoccupazione, ndr), l’aumento dell’età pensionabile a 67 anni, la creazione di un segmento di bassi salari. Nel frattempo la Germania ha ridotto le imposte all’industria ma aumentato quelle indirette”. Risultato: “Fra il 2000 e il 2010 i costi del lavoro per unità di prodotto in Germania sono aumentati del 3,9%, in Italia del 32,5%. I costi dei prodotti tedeschi così sono diminuiti del 18,2 % rispetto agli altri Paesi dell’euro”.
Strana locomotiva. La politica scelta da Berlino ha un nome: si chiama beggar thy neighbour, “frega il tuo vicino”. La compressione dei salari tedeschi ha segnato la “vittoria” della Germania non tanto nei confronti di concorrenti tipo Cina (con la quale la bilancia commerciale resta negativa), ma verso i partner dell’Eurozona: nonostante la crescita asfittica di Italia, Spagna, Francia, negli anni pre-crisi il saldo tedesco nei confronti di questi paesi è più che triplicato (dall’8,44 al 26,03%), mentre crollavano i consumi privati e gli investimenti. Questa politica ha mandato in deficit i Paesi periferici causando la crisi dell’Eurozona. Lo sostiene, tra gli altri, l’Ilo, l’istituto Onu che si occupa di lavoro: “L’aumento delle esportazioni tedesche è ormai identificato come la causa strutturale dei recenti problemi dell’area euro”.
La svolta tedesca. Agenda 2010 – le riforme del lavoro di Schröder firmate da Peter Hartz, già capo del personale in Volkswagen – ha comportato per la Germania un trasferimento di ricchezza dai lavoratori alla rendita e alle imprese. Scrive l’Ocse: “La diseguaglianza dei redditiin Germania è salita rapidamente dal 2000 in poi”. Secondo una ricerca della Conferenza Nazionale sulla Povertà (Nak) presentata nel dicembre scorso, il 10% della popolazione tedesca possiede oggi il 53% della ricchezza, nel 1998 era il 45% e nel 2003 il 49%. Il patrimonio delle classi medie, negli stessi anni, è diminuito dal 52 al 46%, mentre nel 2010 metà della popolazione si divideva appena l’1% della ricchezza. Strano per una nazione che tra il 2007 e il 2012 ha visto crescere il patrimonio nazionale di 1.400 miliardi di euro.
Mini-job per tutti. Gerhard Schröder si è vantato dei risultati di Agenda 2010: nel 2003 avevamo oltre cinque milioni di disoccupati, ha detto, ora meno di 3 e abbiamo creato 2,6 milioni di posti di lavoro. Vero, ma anche no. Rispondendo a una interrogazione di Die Linke proprio quest’anno, il ministero del Lavoro ha rivelato quanto segue: dal 2000 al 2011 le ore di lavoro sono aumentate soltanto dello 0,3 per cento, mentre i posti di lavoro a tempo indeterminato sono diminuiti di 1,8 milioni di unità. Non è stato creato alcun nuovo lavoro, si è solo diviso in un altro modo quello che c’era: Schröder ha infatti regalato ai tedeschi i “mini jobs”, contratti iperflessibili da circa 20 ore settimanali con uno stipendio di 450 euro netti, cui vanno aggiunti meno di 150 euro di contributi. Con questa cifra non si vive e allora lo Stato tedesco contribuisce all’affitto, alle spese di trasporto, alla scuola dei figli, in un massiccio trasferimento di risorse che tiene il “mini-lavoratore tedesco” appena sopra la linea di galleggiamento. E rappresenta, di fatto, un aiuto di Stato indiretto alle imprese costato almeno un centinaio di miliardi in dieci anni. I mini jobs, al momento, riguardano 7,3 milioni di persone, il 70% delle quali non ha alcun altro reddito, cui andrebbero aggiunti un milione di “contrattini” a termine e altri 1,4 milioni di lavoratori che guadagnano meno di quattro euro l’ora.
I conti (non) tornano. Jürgen Borchert, presidente del VI tribunale sociale del Land Hessen a Darmstadt, ha “denunciato” i mini jobs alla Corte costituzionale: “Quando un’economia non riesce a garantire quanto basta per vivere alle persone che lavorano duramente, mentre una piccola fascia di persone ad alto reddito accumula ricchezze impensabili, siamo alla fine dell’economia sociale di mercato”. L’Università di Duisburg ha calcolato che la quantità di tedeschi sul fondo del mercato del lavoro è passata dai 2,3 milioni del 1995 agli oltre 8 del 2010, il 23% dell’intera forza lavoro. È così che l’indice di disoccupazione scendeva facendo contenti i politici e i salari reali tedeschi (di quasi il 6% dal 2003 al 2008) e facendo contenti gli imprenditori. Questo dato può essere anche chiamato “crescita della produttività”, la stessa cosa che viene richiesto di fare a noi

di Marco Palombi 

22 settembre 2013

Mala tempora currunt








Tutti coloro fortemente convinti del fatto che l'Italia avesse toccato il fondo durante lo scorso autunno, quando il governo golpista di Mario Monti, dopo avere dissanguato il paese, si apprestava ad esalare l'ultimo respiro, devono avere ormai compreso come in realtà al peggio non ci sia mai fine ed esista sempre un buco più profondo nel quale sprofondare.
L'accanimento terapeutico con il quale il circo mediatico tenta di mantenere in vita il fantasma di Berlusconi, unitamente alle migliaia di pagine dedicate alle diatribe, in perfetto stile mafioso, che intercorrono all'interno del PD ed alla spettacolarizzazione di qualsiasi litigio da bar dello sport che abbia fra i protagonisti qualche esponente del bestiario politico nostrano, dimostrano inequivocabilmente come l'ordine impartito alla scuderia del mainstream sia in fondo uno solo. Nascondere la spazzatura sotto il tappeto ed inebetire il cervello (o quel che ne resta) degli italiani con un chiacchiericcio petulante, commisto ad alte dosi di disinformazione urlata, fino ad ottenere l'effetto cacofonico voluto....


Gli italiani devono continuare a vivere nel proprio mondo di fantasia, all'interno del quale scannarsi (metaforicamente) nell'attaccare o difendere il salapuzio di Arcore, quasi ne andasse della loro vita. Devono continuare a sentirsi di destra o di sinistra, attori di un mondo dicotomo dove gli altri sono sempre i "cattivi" e loro i "buoni". Devono vivere nel profondo convincimento che Enrico Letta guidi realmente il paese ed abbia titolo per decidere del loro futuro, per abbassare o alzare le tasse e prendere le decisioni economiche. Devono restare convinti del fatto che la loro crocetta conti veramente qualcosa, che il progetto europeo sia stato imbastito per il bene dei popoli, che a regolare le loro vite ci sia una carta chiamata Costituzione e che prima o poi sarà possibile scorgere una luce in fondo a quel tunnel che la TV chiama crisi.

Non esiste alcuno spazio per la realtà e agli italiani deve essere impedito con ogni mezzo di alzare il tappeto per guardare cosa c'è sotto. Potrebbero trovarci il progetto della nuova società globalizzata e mondialista, dove i governi servono a tavola una portata unica ed uguale per tutti, cucinata a Bruxelles ed a Washington. Potrebbero scoprire che Berlusconi, Letta, Renzi, Monti e qualsiasi altro mestierante della politica, non sono altro che marionette prive di qualsiasi potere che prescinda dal recitare il loro copione e rimpinguare il proprio conto in banca. Potrebbero realizzare che dopo l'esproprio coatto della sovranità nazionale, inizieranno gli espropri altrettanto coatti dei beni famigliari, perché nel mondo che verrà ( e sta arrivando a grandi falcate) ci sarà posto per due sole categorie: gli schiavi e coloro che usano la frusta, con pochissime fruste ed una moltitudine di schiene sanguinanti.

Molto meglio il mondo di fantasia, vissuto all'insegna dei facili convincimenti e con gli occhi fissi allo specchietto retrovisore. Ci sarà tempo per guardare avanti, quando le catene saranno strette per bene e non sarà più possibile alcun movimento.
 

di Marco Cedolin 

21 settembre 2013

L'Islanda non vuole più l'Europa, chiusi i negoziati con l'Ue





Il governo islandese sospende a tempo indeterminato le trattative per l'ingresso del paese nell'Unione europea. Lo stop ai colloqui di adesione ed un generale rifiuto delle politiche di austerità europee sono state il cavallo di battaglia della coalizione vincitrice durante la campagna elettorale e la promessa agli elettori e' stata mantenuta.

Islanda no Ue
A partire dal 12 settembre i negoziati per l’ingresso dell’isola all’interno della Ue sono ufficialmente sospesi a tempo indeterminato
L’Islanda e l’Europa si allontanano. Non geograficamente, s’intende: l’isoletta spersa nel mare del Nord resta sempre lì, a circa 1500 chilometri dalla Gran Bretagna. Ma politicamente, quello sì. Dall’interno dell’Althingi, il parlamento islandese, Bragi Sveinsson, ministro degli Esteri della coalizione di centro-destra al governo da aprile, ha messo un freno alla procedura di adesione dell’Isola all’Unione europea.
A partire dal 12 settembre i negoziati per l’ingresso dell’isola all’interno della Ue sono ufficialmente sospesi a tempo indeterminato. Lo stop ai colloqui di adesione ed un generale rifiuto delle politiche di austerità europee erano stato il cavallo di battaglia dei vincitori durante la campagna elettorale e la promessa agli elettori è stata mantenuta.
I negoziati non erano mai stati facili: c'erano alcune questioni spinose sulle quali l'isola avrebbe dovuto fare delle concessioni economiche a Bruxelles. L’Europa chiedeva all’Islanda di aderire alle normative europee relativamente a 30 punti, fra cui figuravano la libera circolazione di capitali, la politica economica e monetaria, le politiche di pesca e di sviluppo agricolo e rurale. Tutti punti su cui gli islandesi non sono più disposti a negoziare. Non dopo la crisi e le rivolte.
E poi c’era la denuncia pendente alla Corte di giustizia Ue per la bancarotta del 2008. E la questione del debito Icesave, per la quale l’Ue si era schierata a spada tratta a fianco di Inghilterra ed Olanda nel pretendere che il debito contratto dalla Landsbanki, banca privata ripubblicizzata in seguito alla crisi, venisse socializzato e gravasse sulle spalle dell’intera popolazione isolana.
La vittoria della coalizione di centro-destra alle ultime elezioni è passata anche, soprattutto, per la diffidenza degli islandesi nei confronti dell’Unione. Quella sovranità popolare che gli isolani si sono ripresi di fatto dopo la crisi, con le proteste prolungate che hanno portato alla caduta del governo nel 2009 ed il rifiuto di socializzare un debito ingiusto contratto da banche private, non verrà certo ceduta di nuovo in favore di Bruxelles.
Certo, è strano che a prendere questo genere di decisioni siano gli stessi partiti – e in parte gli stessi soggetti – che condussero il paese sull’orlo del baratro nel 2008. Ed il rischio che la questione europea venga strumentalizzata c’è. Ad esempio rischia di passare inosservato il fatto che, a distanza di quasi un anno, la nuova costituzione partecipata, simbolo stesso della “nuova Islanda”, approvata con un referendum dal popolo islandese nell’ottobre 2012, non abbia ancora passato il vaglio dell’Althingi. “Quale sarà il suo destino?”, si chiedono in molti; riuscirà mai ad entrare in vigore?

Tuttavia la decisione di sospendere i negoziati per entrare a far parte dell’Unione non può non essere condivisa. Nell’ottica degli islandesi, entrare in Europa rappresenterebbe una nuova fuga del potere e della sovranitàverso l’alto, verso luoghi distanti chilometri e chilometri di oceano. Una fuga che gli islandesi non vogliono permettere.
di Andrea Degl'Innocenti 

20 settembre 2013

Gli Stati Uniti giocano a monopoli, la Russia a scacchi




Gli Americani guardano ai vari pezzi del patrimonio immobiliare geopolitico come oggetti distinti l’uno dall’altro, mentre i Russi seguono l’interazione di tutte le loro sfere di interesse nel mondo. 

La Siria non è di alcun interesse strategico per la Russia e per altri. E’ un rottame di paese, con un economia irrimediabilmente compromessa, senza energia, acqua o cibo sufficienti da poter sostenere una fattibilità economica a lungo termine. 

Il miscuglio etnico lasciato dai cartografi britannici e francesi dopo la prima guerra mondiale, ha inevitabilmente prodotto, in seguito, una guerra di reciproco sterminio, che poteva avere come unico risultato il forte calo demografico e la spartizione territoriale sul modello iugoslavo. 



La sola importanza che ha la Siria risiede nella minaccia che la sua crisi possa debordare nelle aree limitrofe di maggiore importanza strategica. 

Vivaio di movimenti jihad, la Siria rischia di diventare terreno di addestramento di una nuova generazione di terroristi, lo stesso ruolo che ebbe l’Afghanistan negli anni ’90 e 2000.

Banco di prova per l’utilizzo di armi di distruzione di massa, la Siria rappresenta un laboratorio diplomatico, per verificare, con minimo rischio per le parti in causa, la risposta dei poteri mondiali ad atroci azioni criminali. 

E’ inoltre un’incubatrice di movimenti nazionali: esempio, la nuova libertà di azione conquistata dai due milioni di curdi nel paese rappresenta uno strumento di destabilizzazione per la Turchia e di altri paesi che hanno al loro interno minoranze curde. Inoltre, come fosse un ponte di comando per le guerre confessionali tra sunniti e sciiti, la Siria potrebbe diventare il trampolino di lancio per conflitti più estesi che potrebbero riguardare l’Iraq ed altri paesi dell’area. 

Io non so cosa cerchi Putin in Siria. A questo punto penso che il Presidente della Russia non lo sappia neanche lui. Un bravo giocatore di scacchi che si mette contro un avversario a lui inferiore, creerebbe delle complicazione senza un immediato obiettivo strategico, per provocare sbandamenti dell’altra parte e trarne vantaggi opportunistici. 

Ci sono molte cose che Putin vuole. Ma più di tutte, ce n’e’ una grossa a cui ambisce, e cioè ripristinare il ruolo di superpotenza della Russia. Ed il ruolo diplomatico della Russia in Siria apre la porta a diverse opzioni per il raggiungimento di questo scopo. 

Come maggioer produttore mondiale di energia, la Russia vuole accrescere il suo potere contrattuale verso l’Europa Occidentale, della quale è anche il maggior fornitore. 

Vuole influenzare il mercato del gas naturale prodotto da Israele e altri paesi del Mediterraneo orientale. 

Vuole che altri paesi produttori di energia diventino suoi dipendenti per quanto riguarda la sicurezza delle loro esportazioni. Vuole accrescere il suo ruolo di fornitore di attrezzature militari per sfidare gli F-35 e gli F-22 Americani specialmente con il suo nuovo caccia Sukhoi T-50. 

Vuole carta bianca nel controllo del terrorismo tra le minoranze musulmane nel Caucaso. 

E vuole mantenere la sua posizione d’influenza con la vicina Asia Centrale.

Alcuni commentatori americani si sono mostrati sorpresi e in alcuni casi sconvolti dalla pretesa della Russia di ergersi ad arbitro della crisi siriana. In effetti, il ruolo sempre più influente della Russia nell’area era già chiaro al momento in cui il Capo dell’Intelligence Saudita, il Principe Bandar, era volato a Mosca durante la prima settimana di Agosto per incontrare Putin. 

I Russi e i Sauditi hanno poi annunciato che avrebbero collaborato per stabilizzare il nuovo governo militare in Egitto, al contrario dell’amministrazione Obama. 
La Russia si è poi offerta di vendere all’Egitto qualsiasi arma che gli U.S.A. non gli avrebbe venduto, e l’Arabia Saudita si è offerta di pagarla.

E’ stata una vera rivoluzione diplomatica (1) senza precedenti. Non solo i Russi sono tornati in Egitto dopo 40 anni, dopo essere stati da lì cacciati durante la seconda guerra mondiale; ma ci sono tornati con un’alleanza tattica insieme all’Arabia Saudita, fino ad allora nemico storico nell’area.

L’Arabia Saudita ha un urgente bisogno di dare stabilità all’Egitto e di sopprimere i Fratelli Musulmani, che la monarchia saudita vede come un rischio alla sua legittimazione. 

Il sostegno Saudita all’esercito egiziano contro i Fratelli non deve sorprendere. Quello che invece sorprende è che i Sauditi abbiano sentito il bisogno di coinvolgere i Russi.

Benché ci siano delle ovvie ragioni di collaborazione tra Sauditi e Russi, ad esempio il controllo degli jihad all’interno dell’opposizione siriana, non si riescono ancora a capire tutte le implicazioni del loro riavvicinamento.

I Sauditi hanno fatto circolare la notizia che gli era stato chiesto dai Russi di comprare armi russe per un valore di $15 miliardi in cambio dell’aiuto con Assad. Voci di questo tipo non andrebbero prese alla lettera. Potrebbero essere fuorvianti. Ma fuorvianti verso cosa? 

La scacchiera di Putin comprende tutto il pianeta. Comprende cose come la sicurezza delle esportazioni di energia dal Golfo Persico, la trasmissione di petrolio e gas attraverso l’Asia Centrale; il mercato delle esportazioni di armi russe; contrattazioni energetiche tra Russia e Cina, ora in corso; la vulnerabilità delle forniture energetiche europee; e la stabilità interna di paesi limitrofi, compresa la Turchia, l’Iraq e l’Iran.

Per gli analisti americani, la gran parte di questa scacchiera potrebbe essere pure sul lato oscuro della luna. Noi vediamo solo quello che i russi ci permettono di vedere. 

Ad esempio, Mosca è stata la prima a offrire alla Siria un sistema di difesa aereo (S-300), ma poi ritirò l’offerta. Nei primi giorni di Agosto l’Arabia Saudita fece sapere che era pronta ad acquistare le armi russe del valore di 15 miliardi di dollari in cambio di supporto in Siria. E’ in corso quindi una trattativa di qualche tipo, ma non abbiamo alcuna idea di quanti e quali “bastoni e carote” essa comporti.

Quello che possiamo certamente desumere è che la Russia ha ora una maggiore influenza negli avvenimenti in Medio Oriente, compresa la sicurezza degli approvvigionamenti energetici, cosa che ha sempre avuto fino dalla Guerra dello Yom Kippur del 1973. Per il momento, è negli interessi della Russia mantenere questo suo ruolo interlocutorio e far accrescere, nel frattempo, le sue varie opzioni strategiche. La Russia, in effetti, si è liberata del fardello dell’incertezza, scaricandolo addosso al resto del mondo, in particolare su quelle grandi economie che dipendono fortemente dalle esportazioni di energia dal Golfo Persico.

Evidentemente il Presidente Obama considera questa sistemazione favorevole per la sua “agenda”. Il Presidente non alcun interesse a promuovere ulteriormente nel mondo le posizioni strategiche dell’America; il suo scopo potrebbe forse essere quello di diminuirlo, come ha accusato Norman Podhoretz (2) la settimana scorsa sul Wall Street Journal, e come io stesso anticipai cinque anni fa (3). Obama è concentrato sulla sua agenda interna. 

Da questo punto di vista, scaricarsi la responsabilità del caos siriano è un esercizio semplice e senza alcun rischio. L’avversione degli americani per gli interventi militari esterni è talmente forte che accetterebbero qualsiasi cosa pur di ridurre la responsabilità statunitense all’estero. Anche se l’élite del Partito Democratico è internazionalista-liberale, l’elettorato di Obama non ha alcun interesse alla Siria.

Date le circostanze, i commenti pubblici sulla politica estera sono invece un esercizio altamente frustrante. Poichè l’America è una democrazia, e un importante impegno di risorse richiede un minimo di consenso pubblico, e finchè l’America ha dominato il campo, la diplomazia è stata piuttosto trasparente. Gruppi di studio, accademici e mezzi d’informazione fungevano da casse di risonanza per qualsiasi iniziativa importante, in modo che le decisioni cruciali fossero prese, almeno in parte, con il consenso del pubblico. Questo non accadrà sulla scacchiera di Vladimir Putin. La Russia perseguirà una serie di obbiettivi strategici, ma noi, occidentali, non sapremo quali fino a cose fatte, se mai lo sapremo davvero. 

Complicazioni potrebbero giungere dalla risposta degli altri “giocatori” possibili, in particolare, la Cina, ma anche il Giappone. L’auto-riduzione da parte dell’America della propria posizione strategica consente alla Russia di poter scegliere tra più opzioni, non solo una. Al contrario, la Russia può veder crescere la sua posizione e i suoi obiettivi strategici tra cui scegliere liberamente. E Putin, seduto, in silenzio, su un lato della scacchiera, farà andare l’orologio per la mossa del suo avversario. 

Putin, agendo in questo modo, ha prevenuto una simile strategia da parte dell’Occidente. Fyodor Lukanov (4) ha scritto in Marzo scorso sul sito Al Monitor: 

Dal punto di vista della leadership russa, la guerra in Iraq sembra essere stata l’inizio di un’accelerata distruzione della stabilità regionale e globale, un attacco agli ultimi principi di un ordine mondiale sostenibile. Tutto quello che è accaduto da allora - compreso il simpatizzare con gli Islamisti durante la Primavera Araba, le politiche statunitensi in Libia e quelle attuali in Siria – sono la prova della follia strategica che si è impossessata dell’ultima superpotenza rimasta.

La persistenza della Russia nel problema siriano è il prodotto di questa percezione. Il punto non è la simpatia per il dittatore siriano, tantomeno gli interessi commerciali e neanche le basi navali a Tartus.

Mosca è certa che se il continuo crollo dei regimi autoritari secolari avviene perchè l’America e l’Occidente sostengono la “democrazia”, si arriverà a un punto di tale destabilizzazione che tutti ne verranno compromessi, Russia compresa. Per la Russia è quindi necessario resistere, soprattutto in un momento in cui l’Occidente e gli Stati Uniti sono colti da dubbi crescenti.


E’ tipico dei Russi pensare che gli Americani pensano nel modo in cui agiscono, valutando ogni mossa nella misura in cui questa possa influenzare la loro posizione generale sulla scacchiera. La nozione che è l’incompetenza, più che la cospirazione, che spiega la maggior parte delle azioni americane è piuttosto estranea al pensiero russo. Qualsiasi cosa stia pensando il leader russo, in ogni caso, se la terrà per se stesso.

Dopo dodici anni di articoli di politica estera in quest’area, non ho davvero altro da dire. L’Amministrazione Obama ha consegnato l’iniziativa strategica nelle mani di paesi in cui le politiche vengono portate avanti notoriamente dietro un muro di opacità. Mi vengono in mente le parole di Robert Frost:

E per le brutte notizie, 
della destituzione di Belshazzar,
Perché mai correre a dirlo a Belshazzar 
se presto lo saprà lui stesso?


O una vecchia scenetta del primo Robin Williams che impersonava Jimmy Carter in un suo discorso alla nazione nell’imminenza della Terza Guerra Mondiale: “E’ tutto, buona notte, ora ve la vedete voi”.


di David P Goldman

Spengler è trasmesso da David P Goldman, Ricercatore Emerito al Centro di Ricerche Politiche di Londra, e Membro Associato del Forum sul Medio Oriente. Il suo libro: Come muoiono le civiltà (e perchè anche l’Islam sta morendo) è stato pubblicato da Regnery Press nel Settembre del 2011. Un suo volume di saggi su cultura, religione ed economia, Non è la fine del mondo, è solo la tua fine, è stato pubblicato nello stesso periodo da Van Praag Press.

Fonte: www.atimes.com
Link: http://www.atimes.com/atimes/World/WOR-01-160913.html
16.09.2013

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di SKONCERTATA63

18 settembre 2013

Il dollaro e la crisi siriana







254627L’iniziativa di Mosca di trasferire le armi chimiche siriane sotto controllo internazionale, ha influenzato positivamente gli Stati Uniti, che prevedevano di lanciare un’aggressione contro la Siria. Nel frattempo, il successo diplomatico porterà solo a una pace temporanea in Medio Oriente, poiché Washington, in ultima analisi, non metterà da parte i suoi piani ostili. Da un lato, l’opinione pubblica è fortemente contraria ai piani d’intervento degli USA, ed è un fattore che conta. Questo è ciò che dovrebbe essere preso in considerazione: a) secondo i sondaggi, oltre il 70 per cento degli statunitensi sono contro i piani d’attacco di Obama. b) L’opinione pubblica mondiale vede l’iniziativa della Russia come una via d’uscita dalla pericolosa situazione di stallo. È sbalorditivo come gli USA giochino con il fuoco in una regione chiamata la “polveriera” del mondo. Non dimentichiamo che Ban Ki-Moon, segretario generale delle Nazioni Unite, ha fatto una dichiarazione ufficiale a sostegno della proposta della Russia.
D’altra parte, gli Stati Uniti conservano ancora l’inesorabile desiderio di lanciare un attacco. Ma è una strada sconnessa con molti ostacoli. Com’è noto, l’attacco chimico del 21 agosto nella periferia di Damasco, non è stato perpetrato dall’esercito regolare siriano, ma piuttosto dai suoi nemici. Ci sono stati altri casi in cui le armi chimiche furono utilizzate dalle bande armate. Questo è ciò che la relazione di 100 pagine della Russia sull’attacco chimico a Khan al-Assal, vicino Aleppo, dice. L’attacco avvenne il 19 marzo, nella parte settentrionale del Paese. La relazione è stata presentata alle Nazioni Unite. A maggio, l’inquirente dell’ONU Carla Del Ponte aveva detto che c’erano forti sospetti che i ribelli siriani avessero usato gas nervino sarin. Ci sono ragioni per credere che gli attacchi possano essere ripetuti. Le provocazioni perseguono lo stesso obiettivo, forniscono a Stati Uniti, Francia e agli altri Stati della coalizione anti-Siria, che possiedono enormi arsenali chimici, una giustificazione per avanzare le richieste per un ulteriore disarmo unilaterale di Damasco, minacciando un attacco con il pretesto della “lotta al terrorismo”. Ma le armi chimiche non sono l’unico deterrente della Siria contro un intervento.
Per esempio, le forze per le operazioni speciali siriane sono pronte ad essere utilizzate negli Stati Uniti, il risultato può andare al di là di ogni più inverosimile aspettativa. Secondo il Ministero della Difesa della Siria, centinaia di soldati per le operazioni speciali dell’esercito siriano, sono attualmente situati nel territorio degli Stati Uniti. Tutti i combattenti sono raggruppati in unità di 3-7 elementi impiegati dalle forze speciali siriane “al-Qassam”, e sottoposti a un addestramento completo. Sono abilitati ad effettuare operazioni di sabotaggio negli Stati Uniti. Gli obiettivi potenziali che possono essere danneggiati comprendono ferrovie, centrali elettriche, acquedotti, terminali petroliferi e del gas, e obiettivi militari, per lo più basi aeree e navali. Una fonte ha detto che la leadership siriana ha scelto questa strategia, basandosi sulle esperienze delle guerre in Jugoslavia, Iraq e Libia, dove l’aggressione si rifletté nella posizione difensiva di questi Paesi, destinata al fallimento. Le forze speciali siriane hanno una ricca esperienza, avendo affinato le loro capacità nelle guerre contro Israele, e nelle azioni di combattimento che si svolgono in Libano e in Siria. I soldati non devono andare negli Stati Uniti, per causargli gravi danni. La collaborazione con squadre per operazioni speciali iraniane, farà aumentare immensamente l’efficacia delle operazioni in dimensioni, numeri e perdite economiche. Tali forze possono colpire gli interessi statunitensi in Israele, Turchia, Arabia Saudita, ecc.
L’Arabia Saudita è uno dei guerrafondai più attivi. Non senza ragione è preoccupata dalla prospettiva dei disordini sciiti, diventati imminenti di recente. Gli sciiti costituiscono il 15 per cento della popolazione, ma nutrono forti sentimenti filo-iraniani (con il sostegno di altri sciiti che costituiscono la maggioranza della popolazione in Iraq, Bahrein e delle grandi comunità sciite in Libano). La maggior parte degli sciiti sauditi si concentra a Qasa, sulle rive del Golfo Persico, dove si trova il maggiore giacimento di petrolio del Paese. L’Egitto è anch’esso una sorta di deterrente. Si sta preparando al braccio di ferro tra il governo e gli islamisti supportati da Ankara. Un intervento contro la Siria potrebbe provocare la guerra civile in Egitto, bloccando il traffico di petroliere nel canale di Suez. Per circumnavigare l’Africa occorrono oltre due settimane. La rotta della Russia settentrionale è il percorso più breve che colleghi i principali poli economici del pianeta (Europa occidentale, Nord America e Sud-Est asiatico), ma non è ancora pronto ad affrontare un compito di questa portata. Nel caso in cui l’attacco contro la Siria venga effettuato, sorgeranno problemi anche per i prezzi del petrolio, che inesorabilmente saliranno, e il dollaro non sarà più la valuta di riserva mondiale: nella prima metà del 2013 Iran, Australia e cinque dei dieci leader economici mondiali, tra cui Cina, Giappone, India e Russia, hanno deciso di abbandonare l’uso del dollaro per le transazioni commerciali internazionali. Mosca, il più grande esportatore di petrolio, e Pechino, il primo importatore mondiale di petrolio, sono pronte a rimuovere il dollaro come valuta di scambio del petrolio, in qualsiasi momento. Ciò costituisce una grave minaccia per gli Stati Uniti d’America. Perciò l’intenzione di intervenire contro la Siria appare un tentativo per rimandare il crollo della valuta statunitense. Non è un caso che l’aggravamento della situazione in Siria coincida con il rinvio del dibattito sul default negli Stati Uniti, da febbraio a questo autunno. Non è la democrazia in Siria che suscita grande preoccupazione a Washington, ma piuttosto il tetto del debito, il problema che può trasformare gli Stati Uniti in uno “stato fallito”…

di Nikolaj Malishevskij 
La ripubblicazione è gradita in riferimento alla rivista on-line della Strategic Culture Foundation.

Traduzione di Alessandro Lattanzio – SitoAurora

17 settembre 2013

Craxi e i comici silenzi-dissensi di Giuliano Amato

  


Questa 'stroncatura', a suo modo preveggente, di Giuliano Amato è stata scritta nel gennaio del 2007 sul mensile 'Giudizio Universale'.

La prima volta che vidi Giuliano Amato fu a un dibattito televisivo agli inizi degli anni Ottanta. Accesi la Tv proprio mentre diceva: «Io parlo uno splendido italiano». Poichè eravamo ancora molto lontani dall'era delle volgarità berlusconiane mi colpi' la prosopopea di questo professorino allora totalmente sconosciuto ai più e ai meno perchè, benchè ordinario dal 1975 di Diritto costituzionale comparato alla Sapienza, non aveva pubblicato nulla, com'è ormai usanza dei nostri docenti universitari, da Panebianco a Della Loggia. Questa alta considerazione di sé la si ritrova in una recente minibiografia autorizzata dove Amato si fa descrivere cosi': «Uomo politico, noto per la sua leggendaria intelligenza e raro acume nell'esaminare gli eventi». In realtà è uno straordinario specialista di surfing politico. Parte come «psiuppino», cioè all'estrema sinistra, al di là dello stesso Pci, ma quando il Psi riformista comincia la sua scalata al potere entra nelle sue file e, nel 1983, si fa eleggere deputato. Prima è oppositore di Craxi ma allorchè il segretario del Psi, divenuto premier, gli offre il posto di sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, ne diventa uno dei più fedeli 'consigliori'. Quando il Psi, sotto le mazzate di Mani pulite, crolla, non si schiera con Craxi ma nemmeno contro. Semplicemente diserta e si rifugia nella villa di Ansedonia a giocare a tennis con Giuseppe Tamburrano, e a curare gli 'amati studi' dove continua a non produrre assolutamente nulla. Dopo una lucrosa parentesi come presidente dell'Antitrust sarà pronto per diventare uno dei più eccellenti e potenti riciclati della Seconda Repubblica, essendo stato uno dei disastrosi protagonisti della Prima.
E' uno Svicolone nato, come il pavido leone di un famoso cartoon. Ma più che a un leone, per quanto imbelle, somiglia a un'anguilla. I suoi ragionamenti sono cosi' sottili, ma cosi' sottili da essere prudentemente impalpabili e quasi invisibili. Esilaranti sono i suoi rapporti col lider màximo del Psi come lui stesso li ha raccontati in un'intervista, a Craxi morto. Quando Amato era d'accordo col Capo esprimeva il suo incondizionato assenso, quando non lo era restava muto. Ha chiosato Rino Formica, un altro socialista che ha pero' avuto la decenza di ritirarsi a vita privata: «Quel passaggio sul silenzio-dissenso è assolutamente strepitoso...Se Amato era d'accordo esprimeva liberamente il suo consenso. Se invece affiorava un'increspatura, non dico un dissenso, ma anche una piccola perplessità, un dubbio, un trasalimento, Amato che faceva? Non si agitava, non parlava, si esprimeva in silenzio. Ma non un silenzio qualunque. No, un silenzio operoso. E Craxi capiva: se Giuliano sta zitto vuol dire che dissente. Metafisica pura».
Come sottosegretario alla Presidenza del Consiglio nel governo Craxi (1983-1987) e come ministro del Tesoro dal 1987 al 1989 nei governi Goria e De Mita, Giuliano Amato è stato protagonista in prima persona del sacco delle casse dello Stato perpetrato negli anni Ottanta, che ci ha regalato quasi due milioni di miliardi di debito pubblico in vecchie lire che ancora ci pesano sul groppone e per i quali l'Unione europea continua a strigliarci chiedendoci sempre nuovi sacrifici. Ma è sempre lo stesso Amato, lui même, divenuto nel 1992 premier, perchè Craxi è azzoppato dalle inchieste giudiziarie, che, per rattoppare in qualche modo la bancarotta che ha contribuito a creare, si introduce nottetempo, come un ladro che risalga da una fogna, nelle banche per prelevare i quattrini dai conti correnti dei cittadini, fatto inaudito nella storia di uno Stato di diritto. Il suo «raro acume nell'esaminare gli eventi» non gli servirà per percepire cio' che individui dotati di una intelligenza meno «leggendaria» hanno già capito da un pezzo, e cioè che la Prima Repubblica è sull'orlo di un crollo da cui lo stesso Amato, almeno per il momento, sarà travolto.
Molto disinvolto con i quattrini altrui, Giuliano Amato è attentissimo ai suoi. Guido Gerosa mi ha raccontato che durante le temperie di Tangentopoli Craxi invio' Amato a Milano per mettere un po' d'ordine fra i compagni. Il 'Dottor Sottile' invito' a cena i parlamentari lombardi, fra cui Gerosa, nel solito lussosissimo e costosissimo ristorante che i socialisti frequentavano all'epoca della 'Milano da bere', tanto pagava il partito, cioè il contribuente con i soldi che il Psi, insieme agli altri, gli taglieggiava. Ma alla fine di questa cena, fra la costernazione generale, annuncio': «Si fa alla romana». Le casse del Psi, saccheggiate da Craxi & co., erano vuote. Sarebbe quindi toccato al proconsole Amato pagare di tasca sua. E non era cosa.
di Massimo Fini 

30 settembre 2013

Le armi chimiche segrete di Israele







Gli ispettori Onu, che controllano le armi chimiche della Siria, avrebbero molto più da fare se fossero inviati a controllare le armi nucleari, biologiche e chimiche (NBC) di Israele. Secondo le regole del «diritto internazionale», non possono però farlo. Israele non ha firmato il Trattato di non-proliferazione nucleare, né la Convenzione che vieta le armi biologiche, e ha firmato ma non ratificato quella che vieta le armi chimiche. Secondo «Jane's Defense Weekly», Israele - l'unica potenza nucleare in Medio Oriente - possiede da 100 a 300 testate e relativi vettori (missili balistici e da crociera e cacciabombardieri). Secondo stime Sipri, Israele ha prodotto 690-950 kg di plutonio, e continua a produrne tanto da fabbricare ogni anno 10-15 bombe tipo quella di Nagasaki. Produce anche trizio, gas radioattivo con cui si fabbricano testate neutroniche, che provocano minore contaminazione radioattiva ma più alta letalità. Secondo diversi rapporti internazionali, citati anche dal giornale israeliano «Haaretz», armi biologiche e chimiche vengono sviluppate all'Istituto per la ricerca biologica, situato a Ness-Ziona presso Tel Aviv. Ufficialmente fanno parte dello staff 160 scienziati e 170 tecnici, che da cinque decenni compiono ricerche di biologia, chimica, biochimica, biotecnologia, farmacologia, fisica e altre discipline scientifiche . L'Istituto, insieme al Centro nucleare di Dimona, è «una delle istituzioni più segrete di Israele» sotto la giurisdizione del primo ministro. La massima segretezza copre la ricerca sulle armi biologiche: batteri e virus che, disseminati nel paese nemico, possono scatenare epidemie. Tra questi il batterio della peste bubbonica (la «morte nera» del Medioevo) e il virus Ebola, contagioso e letale, per il quale non è disponibile alcuna terapia. Con la biotecnologia si possono produrre nuovi tipi di agenti patogeni verso i quali la popolazione bersaglio non è in grado di resistere, non disponendo del vaccino specifico. Vi sono anche seri indizi su ricerche per lo sviluppo di armi biologiche in grado di annientare nell'uomo il sistema immunitario. Ufficialmente l'Istituto israeliano compie ricerche su vaccini contro batteri e virus, come quelle sull'antrace finanziate dal Pentagono, ma è evidente che esse permettono di sviluppare nuovi agenti patogeni per uso bellico. Lo stesso espediente viene usato negli Stati uniti e in altri paesi per aggirare le Convenzioni che vietano le armi biologiche e chimiche. In Israele il manto di segretezza è stato in parte squarciato dall'inchiesta compiuta, con l'aiuto di scienziati, dal giornalista olandese Karel Knip. È emerso inoltre che sostanze tossiche sviluppate dall'Istituto sono state usate dal Mossad per assassinare dirigenti palestinesi. Testimonianze mediche indicano che, a Gaza e in Libano, le forze israeliane hanno usato armi di nuova concezione: lasciano intatto il corpo all'esterno ma, penetrandovi, devitalizzano i tessuti, carbonizzano il fegato e le ossa, coagulano il sangue. Ciò è possibile con la nanotecnologia, la scienza che progetta strutture microscopiche costruendole atomo per atomo. Allo sviluppo di tali armi contribuisce anche l'Italia, legata a Israele da un accordo di cooperazione militare e suo primo partner europeo nella ricerca & sviluppo. Nella finanziaria è previsto uno stanziamento annuo di 3 milioni di euro per progetti di ricerca congiunti italo-israeliani. Come quello, contenuto nell'ultimo bando della Farnesina, su «nuovi approcci per combattere gli agenti patogeni trattamento-resistenti». Così l'Istituto israeliano per la ricerca biologica potrà rendere gli agenti patogeni ancora più resistenti. 
di Manlio Dinucci 

29 settembre 2013

La verità sull'Euro






Euro si o euro no? Anche in Italia, dopo anni di passività e di fede cieca nelle virtù taumaturgiche della moneta unica, si è aperto il dibattito sull’euro. Ma la diatriba ha preso presto una brutta piega, tanto che sarebbe meglio chiuderla seduta stante, per non sprecare altro tempo prezioso inseguendo fantasmi verdi come bigliettoni.
Da un lato, il partito degli euro-faziosi sostiene che se l’Italia non avesse abbondonato la liretta per la valuta comune adesso avremmo un sistema allo sfascio, con i conti perennemente in rosso, senza competitività, in preda alla recessione e corroso dall’inflazione. In sostanza, è proprio quello che sta accadendo attualmente con l’euro imperante, anche se fingono di non vedere.
I “negazionisti”, invece, ritengono che laddove abbandonassimo la banconota forte e riadottassimo la divisa debole saremmo in grado di agire efficacemente sulla politica economica, stampando moneta quando occorre e svalutando quando serve, per non scaricare sull’economia reale gli imprevisti di quella di carta, ottenendo margini più ampi di correzione che adesso ci sono preclusi dai parametri di Maastricht. Così dichiarano ma non c’è la controprova. Soprattutto, manca una classe dirigente coraggiosa capace di prendere decisioni ardite. Lasciare l’euro per affidare i destini di una possibile transizione ad altro scenario agli stessi che ci sgovernano adesso non è garanzia di alcun mutamento. Ugualmente, nessun riscontro ci è dato circa gli scenari apocalittici disegnati dagli euro-convinti, i quali cercano di dissuadere la pubblica opinione dallo sposare simili idee antieuropeiste, paventando fame e miseria.
Probabilmente, hanno ragione entrambi, o, meglio, hanno tutti torto alla stessa maniera, perché il fulcro del problema, da loro nemmeno sfiorato, se ne sta ben coperto, sotto una coltre di fumo ideologico, in tutt’altro luogo analitico, ad un livello differente della realtà sociale che pertiene alla sfera politica e non a quella economica (se non liminarmente). Di fatti, alla base di qualsiasi decisione finanziaria c’è, o almeno dovrebbe esserci, una valutazione precisa da parte di tutta la classe dirigente, circa i pro e i contro che operazioni di questo tipo potrebbero generare, tenendo conto delle traiettorie geopolitiche mondiali e regionali e dei rapporti di forza internazionali. Senza una visione più complessiva dei fenomeni sociali e storici si finisce nella rete della “legisimilità” indiscutibile dei mercati la quale, dietro la  sua apparente neutralità, cela articolati piani politici, elaborati e studiati dagli Stati più attrezzati alle sfide dei tempi.
La verità è che quando il nostro Paese è entrato nell’euro ha scelto di non scegliere e di farsi trascinare dagli eventi che in quel momento erano favorevoli alla “corrente unionista”, supportata da una utopia falsamente globalista che sarebbe stata successivamente smentita dai fatti. Anzi, i fautori nostrani dell’ingresso dell’Italia nell’euro, i vari Amato, Ciampi, Prodi, erano superburocrati collegati ai centri finanziari sovranazionali (ma con base fissa oltreoceano) i quali, pur di legare lo Stivale alle consorterie che spingevano le loro carriere, accettarono un cambio estremamente svantaggioso per la nostra nazione. Quindi, l’errore fu fatto a monte e, forse, se si fosse contrattato adeguatamente il prezzo della nostra adesione alla moneta comune, non avremmo mai subito uno scossone così devastante per il sistema-paese. Dico forse perché anche questa ipotetica capacità concertativa non sarebbe stata bastevole senza una adeguata progettualità politica portata avanti da una élite direttiva gelosa della sua sovranità politica e del funzionamento non eterodiretto dell’intera macchina statale. E’ accaduto il contrario di quel che era saggio fare ed abbiamo ceduto potere a Bruxelles senza contropartite proporzionate.
Gli euro-partigiani, quantunque il fallimento delle loro idee sia palese, continuano a premere sull’acceleratore europeo senza alcun ravvedimento. Ancora ieri, in una trasmissione televisiva su LA7, Piazza Pulita, trattando della questione, veniva ripetuta la solita tiritera sull’euro che ci avrebbe salvati da danni ancor maggiori. Presente in studio un mio concittadino che si chiama come me, imprenditore nel settore dei velivoli ultraleggeri, il quale s’improvvisava storico ed economista, commettendo un grave e comune strafalcione. Costui asseriva che fuori dall’euro avremmo patito la medesima sorte della Repubblica di Weimar, costretti a trasportare il denaro con il carrello della spesa per comprare beni di prima necessità.  Al mio omonimo vorrei rammentare che semmai è vero il contrario, cioè che la Germania weimariana si ritrovò in quelle condizioni catastrofiche proprio a causa di vincoli vessatori esterni, tra esorbitanti riparazioni di guerra, imposizione di tagli alla spesa pubblica per la sostenibilità del bilancio e la solvibilità dei debiti contratti, nonché per le  scorrerie della finanza internazionale che speculava e si ingrassava a spese dei tedeschi. Vi ricorda qualcosa? La decadenza si arrestò con la nomina di Hitler a Cancelliere. Hitler compì il miracolo, impensabile solo qualche mese prima, contravvenendo a quasi tutti gli obblighi imposti a Berlino dalle Potenze vincitrici della I guerra mondiale e ripristinando la struttura politica-militare del Reich (rimando, per una miglior comprensione di queste circostanze, ad un ottimo articolo di Sylos Labini). Il rilancio dell’economia nazista seguì questi atti d’imperio politico e non viceversa.
Ribadire, pertanto, anche al cospetto delle innumerevoli smentite portate dai fatti e dalla storia, siffatte bizzarre teoresi che si fondano sull’incoscienza, o, peggio, sulla menzogna, ovverosia che l’Italia ha bisogno di vincoli esterni per rimettersi in marcia, vuol dire consegnarsi mani e piedi a chi ci vuole ancor più sfiancati e dipendenti, al fine di derubarci anche di quel poco che ci resta di buono.
Le terapie d’urto hanno un senso quando sono brevi e mirate, se si protraggono a lungo possono sortire l’effetto opposto. Come per il nostro Paese che ormai stordito non ha quasi più la capacità di rialzarsi. Gli euro-settari si mettano l’anima in pace e non persistano in questo assurdo malinteso che ci condurrà alla completa rovina. Forse, al Belpaese serviva effettivamente un elettrochoc per recuperare lucidità ma gli elettrodi sono stati applicati sul posto sbagliato da persone senza nessuna competenza. Questi andavano messi sulla testa e non sui coglioni, perciò il trattamento da curativo è diventato semplicemente una tortura menomante.
C’è però da dire che le banalità si sprecano anche sull’altro versante,quello degli euro-contrari. Sempre su La7, nel programma del pur bravoGianluigi Paragone, una specie di filosofo, uno dei nouveaux “filosofessophes” di questa fase senza speranza, ha dichiarato che il nuovo nazismo è l’egemonia della moneta e che i teologi della globalizzazione sono i nazisti del nostro tempo. Bella stupidaggine e le motivazioni che dovrebbero allontanare da noi simili sciocchezze  sono le medesime del discorso fatto sopra, ben chiarite anche nell’articolo di Sylos Labini. Il nazismo non c’entra proprio niente con quello che sta accadendo oggi, anzi questo fu proprio una reazione verso umiliazioni geopolitiche intollerabili, condotte con strumenti differenziati, compresi quelli finanziari. Un presunto intellettuale che usa le parole così a cazzo di cane per ottenere un’eco mediatica non è un pensatore ma, appunto, un cazzone.
Sono convinto che la rilevanza data dal circuito mainstream alla controversia pro e contro l’euro è qualificabile come un tentativo di saturare surrettiziamente la scena pubblica con dispute di secondo e terzo grado, apposta per togliere spazio al tema dirimente, quello della sovranità politica vietata all’Italia da una sordida sottomissione alle grandi capitali atlantiche ed europee, dalla quale discendono a cascata tutti i nostri casini. Sicuramente, non saranno i filosofi che frequentano l’accademia, né gli economisti che se la intendono col Financial Times (leggi qui), a tirarci fuori dai guai, perché il guaio è che il loro naso è il punto più lontano dove riescono a guardare.

I difetti dell’euro – che sono un effetto di ciò che ci sta capitando ma non la causa primigenia delle nostre sventure – sono i difetti della nostra mancanza di sovranità. Senza recupero d’indipendenza e di autonomia nazionale, attraverso nuove alleanze geopolitiche che ci sottraggano all’influenza atlantica  e ci spalanchino il subrecinto europeo, non avremo nessuna via di scampo. Se le cose stanno in questi termini, come credo, dobbiamo prendercela con noi stessi e con chi ci sgoverna, non con la Germania che fa il suo sporco lavoro e non fa le nostre stesse sporche figure  in campo mondiale, dove riusciamo sempre a rinnegare i nostri interessi ed a tradire i patti con i partner. Nessuna critica alla nazione tedesca sarà mai accettabile se chi lamenta le chiusure e le rigidità teutoniche non avrà prima detto, chiaro e tondo, qual è l’Amministrazione (per antonomasia) che ci sta tenendo, da lustri, sotto il suo tallone di ferro politico e militare (servendosi anche dei nostri vicini e degli organi burocratici dell’UE da essa controllati) e chi sono i suoi complici interni. Nessuna disapprovazione della speculazione finanziaria avrà per noi valore scientifico e veritativo se questa verrà fondata su presupposti moralistici e umanitaristici (vedi le campagne contro i banchieri deviati, per il  recupero dell’onestà negli affari), o astratti  e metafisici (vedi le crociate contro il globalismo disantropomorfizzante, il capitalismo assoluto ed altre baggianate del tipo), anzichè sulla denuncia dei reali manovratori, governi organizzati in apparati e uomini  in carne ed ossa, che si muovono alle sue spalle. Speriamo con ciò, finalmente, di esserci capiti. Le querelles che ho descritto sono tutte interne allo stato di cose presente, non c’è nulla di meglio al mondo di una finta opposizione per puntellare un sistema. Pro-euristi e anti-euristi sono due facce della stessa medaglia.
di Gianni Petrosillo 

24 settembre 2013

L’Europa e la politica ancella della finanza



Alain_De_BenoistAdesso ci sono arrivati in tanti alla «decrescita» e allo scetticismo nei confronti della religione europeista che impazzava negli Anni 90 e all’ inizio del Duemila. Ma si tratta di idee e atteggiamenti che Alain De Benoist aveva teorizzato e coltivato già negli ultimi 40 anni. Critico (con argomenti precisi) nei confronti dell’Europa, diffidente (in maniera articolata) verso il dio mercantilista, il politologo francese fondatore della Nouvelle Droite era stato per anni relegato, in maniera liquidatoria, nella casella dei pensatori di estrema destra.
Ora che la contrapposizione ideologica destra-sinistra che ha segnato il ’900 non sembra più in grado di orientare le visioni politiche in maniera ferma e forte, e soprattutto ora che che la crisi economica sembra inverare timori e tremori per un tramonto d’Occidente, le riflessioni che De Benoist aveva disseminato riemergono come una trama nascosta, dietro le considerazioni di tanti, sempre più accreditati, maestri di pensiero.

 Friedrich Nietzsche scrisse “L’Europa si farà sull’orlo di una tomba”. Scusi l’inizio “a lutto”, ma le sembra che, su quest’orlo finalmente ci siamo arrivati?
Non ci siamo molto lontani. Alla crisi economica e sociale (tutti gli indicatori sono in rosso) si aggiungono ormai una crisi morale e un’evidente allontanamento del popolo nei confronti della classe politica. Tutti i sondaggi di cui disponiamo confermano delle tendenze “pesanti”, che rivelano una sfiducia generalizzata che va ben al di là delle istituzioni. Ora, la fiducia sociale è il fondamento della coesione sociale. Lo sprofondare della fiducia va di pari passo con l’aumento dell’amarezza e della delusione, della frustrazione e del rancore, cose che possono generare un’ondata di collera.Ciò non vuol dire che si va “a fare l’Europa” (non farò l’errore di confondere con l’Unione Europea), ma che un ciclo sta per terminare. 
Decrescita. Per lei, come per altri (vedi Serge Latouche) è un imperativo motivato dalla finitezza delle risorse. Ma, osservando la situazione europea, più che un modello etico sembra un dato di fatto. Forse si tratta solo di prendere atto che l’Europa non potrà più vivere un periodo di prosperità economica paragonabile a quello dei decenni passati? 
Nel 19 simo secolo si credeva ancora che le risorse naturali fossero gratuite e inesauribili. Adesso sappiamo che non lo sono. Prima di essere una teoria la decrescita è una constatazione: non ci può essere crescita materiale infinita in uno spazio finito. In altri termini, gli alberi non possono crescere fino al cielo. Questo fatto ci colpisce, perché noi abbiamo preso l’abitudine di considerare la crescita economico come qualcosa di naturale. In realtà questa idea è recente. Storicamente è legata all’ideologia del progresso, che, anch’essa, al giono d’oggi è in crisi. Ma la decrescita non significa l’arresto di ogni attività economica, il ritorno indietro, o la fine della storia. Bisogna soltanto abituarsi a moderare i nostri modi di vita. Cioè capire che “più” non è sempre sinonimo di “meglio”.L’austerità al giorno d’oggi messa in atto dai governi europei per soddisfare le esigenze delle banche e dei mercati finanziari si traduce in un abbassamento del potere d’acquisto e in un aumento della disoccupazione, cioè in risultati inversi a quello che si pensava.Provoca l’impoverimento delle classi medie e  di quelle popolari, ma non impedisce che i più ricchi si arricchiscano sempre più. Tutto questo, evidentemente, non ha nulla a che vedere con la decrescita.

L’idea di Europa che a un certo punto ci è stata presentata come ineludibile, in realtà storicamente e culturalmente non ha avuto una gran consistenza. Dalla battaglia di Teutoburgo in poi, tentativi imperiali compresi, l’Europa è stata quasi sempre divisa almeno in due aree culturali, quella mediterranea e quella “nordica” (tedesca e anglosassone). Cosa ne pensa? 
Ma si potrebbe anche parlare di un’Europa divisa in tre, che corrispondono ad antiche zone di influenza religiosa (cattolicesimo al Sud, protestantesimo al Nord, Ortodossia all’Est). Personalmente non ho mai pensato che queste “divisioni” fossero un ostacolo all’unificazione politica dell’Europa. Esse confermano solamente la grande diversità dei popoli e delle culture europee, diversità che deve essere preservata e non soppressa.Quello che è in realtà sorprendente è che l’UE merita ogni giorno un po’ meno il suo nome.L’introduzione dell’euro, che doveva fare convergere le economie europee in realtà ha aggravato le loro divergenze.L’attuale costruzione europea si è infatti effettuata fin dall’inizio contro il buon senso. Si è dapprima scommesso sul commercio e l’industria anziché sulla politica e la cultura. Dopo la caduta del sistema sovietico, anziché cercare di approfondire le sue strutture politiche l’EU ha scelto di allargarsi a paesi desiderosi soprattutto di entrare nella Nato, ciò che ha portato alla sua impotenza e alla sua paralisi. I popoli non sono mai stati realmente associati alla costruzione europea. Infine, le finalità di questa costruzione non sono mai state chiaramente definite. Si tratta di creare un’Eu-Mercato o un’Eu-Potenza? La domanda è questa. 
Il caso del Belgio, per 540 giorni senza governo, ma con buoni risultati economici, non le sembra un gigantesco, epocale, esperimento che dimostra, in maniera quasi beffarda e umoristica, l’irrilevanza della politica nel contesto contemporaneo? 
Il Belgio ha fatto a meno del Governo, ma l’assenza del Governo non ha prodotto la sparizione delle amministrazioni! Non dimentichi neanche che il Belgio è un piccolo paese, che non ha reali ambizioni internazionali. Quello che succede in tutti gli altri paesi d’Europa, toccati in pieno dalla crisi (Grecia, Portogallo, Italia, Spagna) mostra al contrario quello che succede quando la politica capitola davanti alle esigenze della finanza. La crisi attuale, da questo punto di vista, non dimostra l’insignificanza della polutica, ma al contrario la sua importanza essenziale. 
E’ uno dei fondatori della Nouvelle droite, e, conoscendola da lontano, qualcuno la ha associata a Le Pen. Ma pare che i punti di disaccordo tra lei e quest’ultimo siano diversi. Quali sono, in estrema sintesi? 
Le posizioni del Fronte Nazionale hanno subito molte variazioni nel corso della sua storia, cosa particolarmente evidente in ambito economico. Trent’anni fa il FN si definiva volentieri liberale e reaganiano. Al giorno d’oggi, dopo che Marine Le Pen è succeduta a suo padre, lo stesso movimento milita contro il libero scambio, reclama l’introduzione di un  certo protezionismo, e denuncia con vigore la deregulation economica, che ha dato libero corso alle esigenze dei mercati. Personalmente io sono d’accordo con con questa opinione, che spiega, d’altronde, come una grande parte dell’elettorato frontista provenga, ormai, dalla classe operaia. Resto invece in disaccordo con il “giacobinismo” repubblicano del Fronte Nazionale, con la sua ostilità di principio verso il regionalismo e le “comunità” e col suo laicismo islamofobo. 
La perdita di significato delle categorie novecentesche di destra e sinistra è un fatto evidente. Ma, almeno in Italia, si continua a ragionare secondo quei parametri. 
In Italia come in Francia le parole destra e sinistra continuano a essere impiegate in riferimento al gioco politico parlamentare. Ma nello stesso tempo la gente vede bene che i governi di “destra” e “di sinistra” fanno più o meno la stessa politica. E’ il sistema dell’”alternanza unica” (Jean-Claude Michéa) cioè dell’alternanza senza alternativa. La verità è che la destra e la sinistra sono oggi arrivate a una crisi di identità profonda, tantopiù che i grandi avvenimenti creano delle fratture inedite che attraversano la famiglie politiche tradizionali. Penso che le contrapposizioni destra-sinistra non siano più adeguate per analizzare i problemi attuali, che siano divenute obsolete.Una nuovo contrasto, molto più reale, è quello che ormai oppone le classi popolari (di destra e di sinistra) a una “nuova classe” mondializzata oggi totalmente distaccata dal popolo.Sul piano intellettuale è ancora più evidente. La distinzione destra-sinistra non permette assolutamente più di definire degli autori come: Régis Debray, Jean Baudrillard, Serge Latouche, Emmanuel Todd, etc., in Francia, o come Massimo Cacciari, Danilo Zolo, Marco Tarchi o Costanzo Preve in Italia.

E’ un sostenitore di un modello politico federalista, ma non nazionale. Piuttosto “imperiale”. In che senso? 
L’Europa ha conosciuto, nel corso della sua storia, due grandi modelli politici: quello dello stato-nazione, di cui la Francia è l’esempio più tipico, e quello dell’Impero, che è stato prevalentemente quello della Germania e dell’Italia (impero Romano, Sacro romano impero, impero autro ungarico). Il modello stato nazionale è caratterizzato dal centralismo e dal “giacobinismo”, mentre il modello imperiale poggia sul rispetto dei diversi componenti, che possono eventualmente beneficiare di una certa autonomia. Il federalismo mi sembrerebbe il sistema politico che ha maggiormente recepito le caratteristiche del modello imperiale, nella misura in cui oppone il principio di una sovranità condivisa al principio della sovranità una e indivisibile, teorizzata da Jean Bodin, e anche nella misura in cui si fonda sul principio di competenza sufficiente, detto anche principio di sussidiarietà. L’UE, che certi qualificano talvolta come “federale”, da questo punto di vista è perfettamente giacobina, perché è diretta dall’altro verso il basso, da una commissione di Bruxelles che si ritiene onnicompetente. Una vera Europa federale dovrebbe funzionare dalla base verso l’alto, nel rispetto dell’autonomia delle nazioni e delle regioni. 
La tutela delle “piccole patrie” locali come potrebbe avvenire, nei fatti? 
I piccoli paesi potrebbero federarsi tra di loro, mentre i grandi potrebbero federalizzarsi. Un posto tutto particolare dovrebbe anche essere attribuito alle regioni di frontiera. Che sono “vocate” a trasformarsi in euroregioni. Ma come precedente tutto questo suppone un’azione di base che privilegi il localismo e la vita comunitaria locala al fine di favorire la democrazia partecipativa (dem di base, diretta) di rimediare allo scollamento sociale e di creare una nuova forma di vita pubblica, cioè di cittadinanza. 
Lei ha parlato di una “rivoluzione interiore”, come rimedio al capitalismo finanziario e deterritorializzato. Ma come è possibile questa prospettiva se manca un forte indirizzo culturale/ ideale? Oggi viviamo nella cosiddetta “società liquida”. 
In effetti viviamo in una “società liquida” (Baumann) cioè una società dove tutto ciò che un tempo era stabile e durevole tende a essere sostituito dall’instabile e dall’effimero. Simao ormai entrati nel mondo dei flussi e dei riflusso. Questa evoluzione va di pari passo con un “presentismo” che tende a svuotare le dimensioni storiche dell’avvenire e del passato, impedendo nel medesimo tempo di mettere in prospettiva il presente. Questa società liquida è anche per riprendere la formula di Cornelus Castoriadis, una “società delle acque basse”. Il tipo umano che vi predomina è quello dell’homo oeconomicus (individuo consumatore che cerca continuamente di massimizzare il suo miglior interesse materiale), associato a quello del narcisista immaturo. Da questo punto di vista una vera “riforma intellettuale e morale” esigerebbe già una “decolonizzazione” dell’immaginario simbolico, oggi quasi totalmente assoggettato all’immaginario del mercato. Per adesso le condizioni non sembrano in effetti concrete. Ma quello che si vede oggi non ci dice niente di ciò che succederà domani. La grande caratteristica della storia umana è di essere imprevedibile, la storia, per definizione è sempre aperta. 
Chiarisco la domanda: i modelli su cui si appoggiavano le società pre-capitalistiche avevano spesso una forte impronta metafisica e religiosa, che le indirizzava anche socialmente e politicamente. Com’è possibile ottenere una decrescita e una rivoluzione interiore nell’era del nichilismo e del postmoderno? 
A mio avviso è un errore opporre senza sfumature antiche società in cui l’influenza religiosa era forte a società moderne o postmoderne dove la religione è quasi scomparsa. Le cose sono più complicate di così. Il fenomeno della secolarizzazione, che ha segnato tutta la modernità, è da considerare esso stesso come una dialettica. Da un lato le chiese istituzionali hanno finito di dirigere i valori sociali e le istituzioni politiche; ma dall’altro le grandi tematiche religiose che erano formulate un tempo in maniera teologica sono state trasposte nella vita secolare sotto una forma profana. L’ideologia del progresso riprende la parte sua la concezione biblica di una storia lineare, ma orientata verso il meglio. La “felicità” si sostituisce alla salute, la “mano invisibile” sostituisce la Provvidenza. L’ideologia dei diritti dell’uomo ha acquistato la dignità di una religione civile.D’altra parte il bisogno che l’uomo ha di riferirsi a qualcosa di più alto di lui è secondo me una costante antropologica. Appartiene alla natura umana. Ciò non significa che solo le religioni tradizionali possano rispondere a quest’esigenza. Io penso soltanto che il sacro risorge in generale dove uno non se l’aspetta, e che l’uomo ha sempre bisogno di superare se stesso per dare un senso alla sua esistenza. Quanto al nichilismo contemporaneo mi sembra soprattutto il risultato di una scomparsa generale dei riferimenti che fa ritenere una qualsiasi opinione o un qualsiasi desiderio come dotato di ugual valore. Non dimentichiamo, infine, che per Heidegger il nichilismo non è altro che il compimento stesso della metafisica.

Tra l’altro lei non è né un nostalgico, né un tradizionalista. 
Il passato è sempre ricco di insegnamenti, ma  “Non faremo tornare gli antichi greci” diceva Nietszche. Io condivido quest’opinione: è per questo che ho sempre rifiutato il “restaurazionismo” che sostengono gli autori reazionari. Gli ambienti reazionari sono ambienti in cui il riferimento al passato serve da rifugio o da consolazione. Ma la nostalgia (“era meglio prima”!) non è un programma…A meno che non sia la nostalgia dell’avvenire. Penso d’altronde che il passato non può essere definito soltanto come qualche cosa che è successo “prima di noi”. Esso costituisce invece, piuttosto, una dimensione del presente. D’altronde se ci si riflette bene, è soltanto nel presente che il passato può essere percepito come passato. E’ questo che permette di capire e lezioni che possiamo trarre da questo passato. Heidegger per il quale i greci rappresentavano l’inizio della nostra storia, diceva che noi dovremmo essere “più greci dei greci”. Voleva dire con ciò che noi non dobbiamo cercare di rifare quello che hanno fatto i greci, ma ispirarci al loro esempio per mettere in atto un nuovo inizio. 
Con la questione Corea del Nord-Usa molta dell’informazione torna al tema dei cosiddetti “stati canaglia”. La sua opinione riguardo a questo caso specifico? 
C’è poco da dire sul regime nordcoreano, che mette insieme  la dittatura familiare, il dispotismo asiatico, e una forma caricaturale di stalinismo. Ma per qualificare la Corea del Nord piuttosto di “stato canaglia” sarei tentato di parlare di “stato surrealista”. La definizione di stato canaglia in realtà non vuol dire granché. E’ stata impiegata soprattutto dagli Stati Uniti per squalificare i paesi che contrariano la loro politica. Ora, quando si guarda da vicino quello che gli americani rimproverano agli stati canaglia, ci accorgiamo subito che gli stessi rimproveri potrebbero essere rivolti a loro stessi. 
Come giudica il movimento di Beppe Grillo? Sembrate avere in comune diversi temi, a prima vista: reddito minimo, attenzione al locale, decrescita…. 
Guardo il recente successo del movimento Cinque stelle come un sintomo rivelatore dello stato dell’opinione pubblica, e specialmente del discredito in cui è caduta la classe politica.  Il fossato che si è scavato tra la gente e i partiti di governo classici è ormai tale che le persone si volgono a torto o a ragione verso tutto quello che sembra loro non inquadrato e diverso. E’ per questo che il loro voto ha valore di sintomo. Quanto a quelli che si limitano ad agitare lo spettro del “populismo” è facile rispondere loro che le elité in carica non sono meno demagogiche dei populisti e soprattutto che sono le parti del sistema i primi responsabili della comparsa e dello sviluppo dei movimenti populisti. Se gli elettori si sentissero rappresentati da quelli che hanno eletto o incaricati a questo fine, non si rivolgerebbero ai populisti! Quello che Beppe Grillo  e i suoi amici potranno fare dal loro successo, evidentemente è un’altra faccenda.
 Ma da Parte di Grillo, poi, c’è anche il tema della democrazia “diretta” via Internet, che finora sembra dare risultati disastrosi: i rappresentanti e gli elettori che dialogano via blog generano una confusione impressionante. E molti hanno il sospetto che si tratti di una “democrazia diretta”, sì ma da Casaleggio, il guru politico-mediatico di Grillo. Da studioso di politica, che ne pensa di questa idea di democrazia 2.0? Ci sono dei precedenti o dei paragoni storici che ci possono aiutare a illuminarla? 
Internet gioca oggi un ruolo insostituibile nel campo dell’informazione “alternativa”. E grazie a lui che si può sperere di sbriciolare il conformismo mediatico, o anche di far nascere delle vere discussioni. Sono molto scettico sulla possibilità di sviluppare su questo mezzo una vera democrazia diretta. La democrazia diretta esige un confronto diretto nello spazio pubblico. Gli internauti possono anche connettersi fra loro a migliaia, ma restano nella sfare del privato. Non è soltanto diventando degli addict dello schermo, dipendenti da un telecomando o da uno smartphone, che possiamo rimediare alla scomparsa del legame sociale. La socialità implica anch’essa l’esperienza diretta, il contatto diretto. Internet non può svolgere questo ruolo. Ne dà solo l’illusione, proprio come Facebook dà l’illusione di avere degli “amici”. E’ questa la ragione per cui mi rifiuto di figurare sui social network, ma è vero che non ho neanche il telefono portatile!
di Alain de Benoist 

* Intervista a cura di  Bruno Giurato pubblicata su Lettera43

23 settembre 2013

Germania, la ricchezza dai lavoratori alle imprese. Così nasce la "locomotiva


La Germania ha fatto le riforme, ha saputo tenere i conti in ordine, è la locomotiva d’Europa. In Germania un operaio guadagna il doppio del suo collega italiano. Nella mitopoiesi europea del nuovo millennio, la nazione che Angela Merkel si appresta a governare per altri quattro anni è divenuta una sorta di Eldorado in cui i fannulloni mediterranei dovrebbero specchiarsi per impararne le straordinarie virtù. Quanto ai conti pubblici non tutto è come sembra (per il Fmi il Pilfarà solo +0,3% quest’anno).
All’inizio dell’epoca dell’euro, Berlino era “la grande malata d’Europa”. La reazione al declino è stata improntata a un unico obiettivo: comprimere i salari per spingere le esportazioni. Ha spiegato Roland Berger, uno dei consulenti economici di Angela Merkel: “Le riforme tedesche hanno avuto successo: iniziate nel 2003 con una liberalizzazione del mercato del lavoro e un aumento degli stipendi reali inferiore all’incremento della produttività. Poi è seguito il taglio dei costi del sistema sociale (sanità, sussidio di disoccupazione, ndr), l’aumento dell’età pensionabile a 67 anni, la creazione di un segmento di bassi salari. Nel frattempo la Germania ha ridotto le imposte all’industria ma aumentato quelle indirette”. Risultato: “Fra il 2000 e il 2010 i costi del lavoro per unità di prodotto in Germania sono aumentati del 3,9%, in Italia del 32,5%. I costi dei prodotti tedeschi così sono diminuiti del 18,2 % rispetto agli altri Paesi dell’euro”.
Strana locomotiva. La politica scelta da Berlino ha un nome: si chiama beggar thy neighbour, “frega il tuo vicino”. La compressione dei salari tedeschi ha segnato la “vittoria” della Germania non tanto nei confronti di concorrenti tipo Cina (con la quale la bilancia commerciale resta negativa), ma verso i partner dell’Eurozona: nonostante la crescita asfittica di Italia, Spagna, Francia, negli anni pre-crisi il saldo tedesco nei confronti di questi paesi è più che triplicato (dall’8,44 al 26,03%), mentre crollavano i consumi privati e gli investimenti. Questa politica ha mandato in deficit i Paesi periferici causando la crisi dell’Eurozona. Lo sostiene, tra gli altri, l’Ilo, l’istituto Onu che si occupa di lavoro: “L’aumento delle esportazioni tedesche è ormai identificato come la causa strutturale dei recenti problemi dell’area euro”.
La svolta tedesca. Agenda 2010 – le riforme del lavoro di Schröder firmate da Peter Hartz, già capo del personale in Volkswagen – ha comportato per la Germania un trasferimento di ricchezza dai lavoratori alla rendita e alle imprese. Scrive l’Ocse: “La diseguaglianza dei redditiin Germania è salita rapidamente dal 2000 in poi”. Secondo una ricerca della Conferenza Nazionale sulla Povertà (Nak) presentata nel dicembre scorso, il 10% della popolazione tedesca possiede oggi il 53% della ricchezza, nel 1998 era il 45% e nel 2003 il 49%. Il patrimonio delle classi medie, negli stessi anni, è diminuito dal 52 al 46%, mentre nel 2010 metà della popolazione si divideva appena l’1% della ricchezza. Strano per una nazione che tra il 2007 e il 2012 ha visto crescere il patrimonio nazionale di 1.400 miliardi di euro.
Mini-job per tutti. Gerhard Schröder si è vantato dei risultati di Agenda 2010: nel 2003 avevamo oltre cinque milioni di disoccupati, ha detto, ora meno di 3 e abbiamo creato 2,6 milioni di posti di lavoro. Vero, ma anche no. Rispondendo a una interrogazione di Die Linke proprio quest’anno, il ministero del Lavoro ha rivelato quanto segue: dal 2000 al 2011 le ore di lavoro sono aumentate soltanto dello 0,3 per cento, mentre i posti di lavoro a tempo indeterminato sono diminuiti di 1,8 milioni di unità. Non è stato creato alcun nuovo lavoro, si è solo diviso in un altro modo quello che c’era: Schröder ha infatti regalato ai tedeschi i “mini jobs”, contratti iperflessibili da circa 20 ore settimanali con uno stipendio di 450 euro netti, cui vanno aggiunti meno di 150 euro di contributi. Con questa cifra non si vive e allora lo Stato tedesco contribuisce all’affitto, alle spese di trasporto, alla scuola dei figli, in un massiccio trasferimento di risorse che tiene il “mini-lavoratore tedesco” appena sopra la linea di galleggiamento. E rappresenta, di fatto, un aiuto di Stato indiretto alle imprese costato almeno un centinaio di miliardi in dieci anni. I mini jobs, al momento, riguardano 7,3 milioni di persone, il 70% delle quali non ha alcun altro reddito, cui andrebbero aggiunti un milione di “contrattini” a termine e altri 1,4 milioni di lavoratori che guadagnano meno di quattro euro l’ora.
I conti (non) tornano. Jürgen Borchert, presidente del VI tribunale sociale del Land Hessen a Darmstadt, ha “denunciato” i mini jobs alla Corte costituzionale: “Quando un’economia non riesce a garantire quanto basta per vivere alle persone che lavorano duramente, mentre una piccola fascia di persone ad alto reddito accumula ricchezze impensabili, siamo alla fine dell’economia sociale di mercato”. L’Università di Duisburg ha calcolato che la quantità di tedeschi sul fondo del mercato del lavoro è passata dai 2,3 milioni del 1995 agli oltre 8 del 2010, il 23% dell’intera forza lavoro. È così che l’indice di disoccupazione scendeva facendo contenti i politici e i salari reali tedeschi (di quasi il 6% dal 2003 al 2008) e facendo contenti gli imprenditori. Questo dato può essere anche chiamato “crescita della produttività”, la stessa cosa che viene richiesto di fare a noi

di Marco Palombi 

22 settembre 2013

Mala tempora currunt








Tutti coloro fortemente convinti del fatto che l'Italia avesse toccato il fondo durante lo scorso autunno, quando il governo golpista di Mario Monti, dopo avere dissanguato il paese, si apprestava ad esalare l'ultimo respiro, devono avere ormai compreso come in realtà al peggio non ci sia mai fine ed esista sempre un buco più profondo nel quale sprofondare.
L'accanimento terapeutico con il quale il circo mediatico tenta di mantenere in vita il fantasma di Berlusconi, unitamente alle migliaia di pagine dedicate alle diatribe, in perfetto stile mafioso, che intercorrono all'interno del PD ed alla spettacolarizzazione di qualsiasi litigio da bar dello sport che abbia fra i protagonisti qualche esponente del bestiario politico nostrano, dimostrano inequivocabilmente come l'ordine impartito alla scuderia del mainstream sia in fondo uno solo. Nascondere la spazzatura sotto il tappeto ed inebetire il cervello (o quel che ne resta) degli italiani con un chiacchiericcio petulante, commisto ad alte dosi di disinformazione urlata, fino ad ottenere l'effetto cacofonico voluto....


Gli italiani devono continuare a vivere nel proprio mondo di fantasia, all'interno del quale scannarsi (metaforicamente) nell'attaccare o difendere il salapuzio di Arcore, quasi ne andasse della loro vita. Devono continuare a sentirsi di destra o di sinistra, attori di un mondo dicotomo dove gli altri sono sempre i "cattivi" e loro i "buoni". Devono vivere nel profondo convincimento che Enrico Letta guidi realmente il paese ed abbia titolo per decidere del loro futuro, per abbassare o alzare le tasse e prendere le decisioni economiche. Devono restare convinti del fatto che la loro crocetta conti veramente qualcosa, che il progetto europeo sia stato imbastito per il bene dei popoli, che a regolare le loro vite ci sia una carta chiamata Costituzione e che prima o poi sarà possibile scorgere una luce in fondo a quel tunnel che la TV chiama crisi.

Non esiste alcuno spazio per la realtà e agli italiani deve essere impedito con ogni mezzo di alzare il tappeto per guardare cosa c'è sotto. Potrebbero trovarci il progetto della nuova società globalizzata e mondialista, dove i governi servono a tavola una portata unica ed uguale per tutti, cucinata a Bruxelles ed a Washington. Potrebbero scoprire che Berlusconi, Letta, Renzi, Monti e qualsiasi altro mestierante della politica, non sono altro che marionette prive di qualsiasi potere che prescinda dal recitare il loro copione e rimpinguare il proprio conto in banca. Potrebbero realizzare che dopo l'esproprio coatto della sovranità nazionale, inizieranno gli espropri altrettanto coatti dei beni famigliari, perché nel mondo che verrà ( e sta arrivando a grandi falcate) ci sarà posto per due sole categorie: gli schiavi e coloro che usano la frusta, con pochissime fruste ed una moltitudine di schiene sanguinanti.

Molto meglio il mondo di fantasia, vissuto all'insegna dei facili convincimenti e con gli occhi fissi allo specchietto retrovisore. Ci sarà tempo per guardare avanti, quando le catene saranno strette per bene e non sarà più possibile alcun movimento.
 

di Marco Cedolin 

21 settembre 2013

L'Islanda non vuole più l'Europa, chiusi i negoziati con l'Ue





Il governo islandese sospende a tempo indeterminato le trattative per l'ingresso del paese nell'Unione europea. Lo stop ai colloqui di adesione ed un generale rifiuto delle politiche di austerità europee sono state il cavallo di battaglia della coalizione vincitrice durante la campagna elettorale e la promessa agli elettori e' stata mantenuta.

Islanda no Ue
A partire dal 12 settembre i negoziati per l’ingresso dell’isola all’interno della Ue sono ufficialmente sospesi a tempo indeterminato
L’Islanda e l’Europa si allontanano. Non geograficamente, s’intende: l’isoletta spersa nel mare del Nord resta sempre lì, a circa 1500 chilometri dalla Gran Bretagna. Ma politicamente, quello sì. Dall’interno dell’Althingi, il parlamento islandese, Bragi Sveinsson, ministro degli Esteri della coalizione di centro-destra al governo da aprile, ha messo un freno alla procedura di adesione dell’Isola all’Unione europea.
A partire dal 12 settembre i negoziati per l’ingresso dell’isola all’interno della Ue sono ufficialmente sospesi a tempo indeterminato. Lo stop ai colloqui di adesione ed un generale rifiuto delle politiche di austerità europee erano stato il cavallo di battaglia dei vincitori durante la campagna elettorale e la promessa agli elettori è stata mantenuta.
I negoziati non erano mai stati facili: c'erano alcune questioni spinose sulle quali l'isola avrebbe dovuto fare delle concessioni economiche a Bruxelles. L’Europa chiedeva all’Islanda di aderire alle normative europee relativamente a 30 punti, fra cui figuravano la libera circolazione di capitali, la politica economica e monetaria, le politiche di pesca e di sviluppo agricolo e rurale. Tutti punti su cui gli islandesi non sono più disposti a negoziare. Non dopo la crisi e le rivolte.
E poi c’era la denuncia pendente alla Corte di giustizia Ue per la bancarotta del 2008. E la questione del debito Icesave, per la quale l’Ue si era schierata a spada tratta a fianco di Inghilterra ed Olanda nel pretendere che il debito contratto dalla Landsbanki, banca privata ripubblicizzata in seguito alla crisi, venisse socializzato e gravasse sulle spalle dell’intera popolazione isolana.
La vittoria della coalizione di centro-destra alle ultime elezioni è passata anche, soprattutto, per la diffidenza degli islandesi nei confronti dell’Unione. Quella sovranità popolare che gli isolani si sono ripresi di fatto dopo la crisi, con le proteste prolungate che hanno portato alla caduta del governo nel 2009 ed il rifiuto di socializzare un debito ingiusto contratto da banche private, non verrà certo ceduta di nuovo in favore di Bruxelles.
Certo, è strano che a prendere questo genere di decisioni siano gli stessi partiti – e in parte gli stessi soggetti – che condussero il paese sull’orlo del baratro nel 2008. Ed il rischio che la questione europea venga strumentalizzata c’è. Ad esempio rischia di passare inosservato il fatto che, a distanza di quasi un anno, la nuova costituzione partecipata, simbolo stesso della “nuova Islanda”, approvata con un referendum dal popolo islandese nell’ottobre 2012, non abbia ancora passato il vaglio dell’Althingi. “Quale sarà il suo destino?”, si chiedono in molti; riuscirà mai ad entrare in vigore?

Tuttavia la decisione di sospendere i negoziati per entrare a far parte dell’Unione non può non essere condivisa. Nell’ottica degli islandesi, entrare in Europa rappresenterebbe una nuova fuga del potere e della sovranitàverso l’alto, verso luoghi distanti chilometri e chilometri di oceano. Una fuga che gli islandesi non vogliono permettere.
di Andrea Degl'Innocenti 

20 settembre 2013

Gli Stati Uniti giocano a monopoli, la Russia a scacchi




Gli Americani guardano ai vari pezzi del patrimonio immobiliare geopolitico come oggetti distinti l’uno dall’altro, mentre i Russi seguono l’interazione di tutte le loro sfere di interesse nel mondo. 

La Siria non è di alcun interesse strategico per la Russia e per altri. E’ un rottame di paese, con un economia irrimediabilmente compromessa, senza energia, acqua o cibo sufficienti da poter sostenere una fattibilità economica a lungo termine. 

Il miscuglio etnico lasciato dai cartografi britannici e francesi dopo la prima guerra mondiale, ha inevitabilmente prodotto, in seguito, una guerra di reciproco sterminio, che poteva avere come unico risultato il forte calo demografico e la spartizione territoriale sul modello iugoslavo. 



La sola importanza che ha la Siria risiede nella minaccia che la sua crisi possa debordare nelle aree limitrofe di maggiore importanza strategica. 

Vivaio di movimenti jihad, la Siria rischia di diventare terreno di addestramento di una nuova generazione di terroristi, lo stesso ruolo che ebbe l’Afghanistan negli anni ’90 e 2000.

Banco di prova per l’utilizzo di armi di distruzione di massa, la Siria rappresenta un laboratorio diplomatico, per verificare, con minimo rischio per le parti in causa, la risposta dei poteri mondiali ad atroci azioni criminali. 

E’ inoltre un’incubatrice di movimenti nazionali: esempio, la nuova libertà di azione conquistata dai due milioni di curdi nel paese rappresenta uno strumento di destabilizzazione per la Turchia e di altri paesi che hanno al loro interno minoranze curde. Inoltre, come fosse un ponte di comando per le guerre confessionali tra sunniti e sciiti, la Siria potrebbe diventare il trampolino di lancio per conflitti più estesi che potrebbero riguardare l’Iraq ed altri paesi dell’area. 

Io non so cosa cerchi Putin in Siria. A questo punto penso che il Presidente della Russia non lo sappia neanche lui. Un bravo giocatore di scacchi che si mette contro un avversario a lui inferiore, creerebbe delle complicazione senza un immediato obiettivo strategico, per provocare sbandamenti dell’altra parte e trarne vantaggi opportunistici. 

Ci sono molte cose che Putin vuole. Ma più di tutte, ce n’e’ una grossa a cui ambisce, e cioè ripristinare il ruolo di superpotenza della Russia. Ed il ruolo diplomatico della Russia in Siria apre la porta a diverse opzioni per il raggiungimento di questo scopo. 

Come maggioer produttore mondiale di energia, la Russia vuole accrescere il suo potere contrattuale verso l’Europa Occidentale, della quale è anche il maggior fornitore. 

Vuole influenzare il mercato del gas naturale prodotto da Israele e altri paesi del Mediterraneo orientale. 

Vuole che altri paesi produttori di energia diventino suoi dipendenti per quanto riguarda la sicurezza delle loro esportazioni. Vuole accrescere il suo ruolo di fornitore di attrezzature militari per sfidare gli F-35 e gli F-22 Americani specialmente con il suo nuovo caccia Sukhoi T-50. 

Vuole carta bianca nel controllo del terrorismo tra le minoranze musulmane nel Caucaso. 

E vuole mantenere la sua posizione d’influenza con la vicina Asia Centrale.

Alcuni commentatori americani si sono mostrati sorpresi e in alcuni casi sconvolti dalla pretesa della Russia di ergersi ad arbitro della crisi siriana. In effetti, il ruolo sempre più influente della Russia nell’area era già chiaro al momento in cui il Capo dell’Intelligence Saudita, il Principe Bandar, era volato a Mosca durante la prima settimana di Agosto per incontrare Putin. 

I Russi e i Sauditi hanno poi annunciato che avrebbero collaborato per stabilizzare il nuovo governo militare in Egitto, al contrario dell’amministrazione Obama. 
La Russia si è poi offerta di vendere all’Egitto qualsiasi arma che gli U.S.A. non gli avrebbe venduto, e l’Arabia Saudita si è offerta di pagarla.

E’ stata una vera rivoluzione diplomatica (1) senza precedenti. Non solo i Russi sono tornati in Egitto dopo 40 anni, dopo essere stati da lì cacciati durante la seconda guerra mondiale; ma ci sono tornati con un’alleanza tattica insieme all’Arabia Saudita, fino ad allora nemico storico nell’area.

L’Arabia Saudita ha un urgente bisogno di dare stabilità all’Egitto e di sopprimere i Fratelli Musulmani, che la monarchia saudita vede come un rischio alla sua legittimazione. 

Il sostegno Saudita all’esercito egiziano contro i Fratelli non deve sorprendere. Quello che invece sorprende è che i Sauditi abbiano sentito il bisogno di coinvolgere i Russi.

Benché ci siano delle ovvie ragioni di collaborazione tra Sauditi e Russi, ad esempio il controllo degli jihad all’interno dell’opposizione siriana, non si riescono ancora a capire tutte le implicazioni del loro riavvicinamento.

I Sauditi hanno fatto circolare la notizia che gli era stato chiesto dai Russi di comprare armi russe per un valore di $15 miliardi in cambio dell’aiuto con Assad. Voci di questo tipo non andrebbero prese alla lettera. Potrebbero essere fuorvianti. Ma fuorvianti verso cosa? 

La scacchiera di Putin comprende tutto il pianeta. Comprende cose come la sicurezza delle esportazioni di energia dal Golfo Persico, la trasmissione di petrolio e gas attraverso l’Asia Centrale; il mercato delle esportazioni di armi russe; contrattazioni energetiche tra Russia e Cina, ora in corso; la vulnerabilità delle forniture energetiche europee; e la stabilità interna di paesi limitrofi, compresa la Turchia, l’Iraq e l’Iran.

Per gli analisti americani, la gran parte di questa scacchiera potrebbe essere pure sul lato oscuro della luna. Noi vediamo solo quello che i russi ci permettono di vedere. 

Ad esempio, Mosca è stata la prima a offrire alla Siria un sistema di difesa aereo (S-300), ma poi ritirò l’offerta. Nei primi giorni di Agosto l’Arabia Saudita fece sapere che era pronta ad acquistare le armi russe del valore di 15 miliardi di dollari in cambio di supporto in Siria. E’ in corso quindi una trattativa di qualche tipo, ma non abbiamo alcuna idea di quanti e quali “bastoni e carote” essa comporti.

Quello che possiamo certamente desumere è che la Russia ha ora una maggiore influenza negli avvenimenti in Medio Oriente, compresa la sicurezza degli approvvigionamenti energetici, cosa che ha sempre avuto fino dalla Guerra dello Yom Kippur del 1973. Per il momento, è negli interessi della Russia mantenere questo suo ruolo interlocutorio e far accrescere, nel frattempo, le sue varie opzioni strategiche. La Russia, in effetti, si è liberata del fardello dell’incertezza, scaricandolo addosso al resto del mondo, in particolare su quelle grandi economie che dipendono fortemente dalle esportazioni di energia dal Golfo Persico.

Evidentemente il Presidente Obama considera questa sistemazione favorevole per la sua “agenda”. Il Presidente non alcun interesse a promuovere ulteriormente nel mondo le posizioni strategiche dell’America; il suo scopo potrebbe forse essere quello di diminuirlo, come ha accusato Norman Podhoretz (2) la settimana scorsa sul Wall Street Journal, e come io stesso anticipai cinque anni fa (3). Obama è concentrato sulla sua agenda interna. 

Da questo punto di vista, scaricarsi la responsabilità del caos siriano è un esercizio semplice e senza alcun rischio. L’avversione degli americani per gli interventi militari esterni è talmente forte che accetterebbero qualsiasi cosa pur di ridurre la responsabilità statunitense all’estero. Anche se l’élite del Partito Democratico è internazionalista-liberale, l’elettorato di Obama non ha alcun interesse alla Siria.

Date le circostanze, i commenti pubblici sulla politica estera sono invece un esercizio altamente frustrante. Poichè l’America è una democrazia, e un importante impegno di risorse richiede un minimo di consenso pubblico, e finchè l’America ha dominato il campo, la diplomazia è stata piuttosto trasparente. Gruppi di studio, accademici e mezzi d’informazione fungevano da casse di risonanza per qualsiasi iniziativa importante, in modo che le decisioni cruciali fossero prese, almeno in parte, con il consenso del pubblico. Questo non accadrà sulla scacchiera di Vladimir Putin. La Russia perseguirà una serie di obbiettivi strategici, ma noi, occidentali, non sapremo quali fino a cose fatte, se mai lo sapremo davvero. 

Complicazioni potrebbero giungere dalla risposta degli altri “giocatori” possibili, in particolare, la Cina, ma anche il Giappone. L’auto-riduzione da parte dell’America della propria posizione strategica consente alla Russia di poter scegliere tra più opzioni, non solo una. Al contrario, la Russia può veder crescere la sua posizione e i suoi obiettivi strategici tra cui scegliere liberamente. E Putin, seduto, in silenzio, su un lato della scacchiera, farà andare l’orologio per la mossa del suo avversario. 

Putin, agendo in questo modo, ha prevenuto una simile strategia da parte dell’Occidente. Fyodor Lukanov (4) ha scritto in Marzo scorso sul sito Al Monitor: 

Dal punto di vista della leadership russa, la guerra in Iraq sembra essere stata l’inizio di un’accelerata distruzione della stabilità regionale e globale, un attacco agli ultimi principi di un ordine mondiale sostenibile. Tutto quello che è accaduto da allora - compreso il simpatizzare con gli Islamisti durante la Primavera Araba, le politiche statunitensi in Libia e quelle attuali in Siria – sono la prova della follia strategica che si è impossessata dell’ultima superpotenza rimasta.

La persistenza della Russia nel problema siriano è il prodotto di questa percezione. Il punto non è la simpatia per il dittatore siriano, tantomeno gli interessi commerciali e neanche le basi navali a Tartus.

Mosca è certa che se il continuo crollo dei regimi autoritari secolari avviene perchè l’America e l’Occidente sostengono la “democrazia”, si arriverà a un punto di tale destabilizzazione che tutti ne verranno compromessi, Russia compresa. Per la Russia è quindi necessario resistere, soprattutto in un momento in cui l’Occidente e gli Stati Uniti sono colti da dubbi crescenti.


E’ tipico dei Russi pensare che gli Americani pensano nel modo in cui agiscono, valutando ogni mossa nella misura in cui questa possa influenzare la loro posizione generale sulla scacchiera. La nozione che è l’incompetenza, più che la cospirazione, che spiega la maggior parte delle azioni americane è piuttosto estranea al pensiero russo. Qualsiasi cosa stia pensando il leader russo, in ogni caso, se la terrà per se stesso.

Dopo dodici anni di articoli di politica estera in quest’area, non ho davvero altro da dire. L’Amministrazione Obama ha consegnato l’iniziativa strategica nelle mani di paesi in cui le politiche vengono portate avanti notoriamente dietro un muro di opacità. Mi vengono in mente le parole di Robert Frost:

E per le brutte notizie, 
della destituzione di Belshazzar,
Perché mai correre a dirlo a Belshazzar 
se presto lo saprà lui stesso?


O una vecchia scenetta del primo Robin Williams che impersonava Jimmy Carter in un suo discorso alla nazione nell’imminenza della Terza Guerra Mondiale: “E’ tutto, buona notte, ora ve la vedete voi”.


di David P Goldman

Spengler è trasmesso da David P Goldman, Ricercatore Emerito al Centro di Ricerche Politiche di Londra, e Membro Associato del Forum sul Medio Oriente. Il suo libro: Come muoiono le civiltà (e perchè anche l’Islam sta morendo) è stato pubblicato da Regnery Press nel Settembre del 2011. Un suo volume di saggi su cultura, religione ed economia, Non è la fine del mondo, è solo la tua fine, è stato pubblicato nello stesso periodo da Van Praag Press.

Fonte: www.atimes.com
Link: http://www.atimes.com/atimes/World/WOR-01-160913.html
16.09.2013

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di SKONCERTATA63

18 settembre 2013

Il dollaro e la crisi siriana







254627L’iniziativa di Mosca di trasferire le armi chimiche siriane sotto controllo internazionale, ha influenzato positivamente gli Stati Uniti, che prevedevano di lanciare un’aggressione contro la Siria. Nel frattempo, il successo diplomatico porterà solo a una pace temporanea in Medio Oriente, poiché Washington, in ultima analisi, non metterà da parte i suoi piani ostili. Da un lato, l’opinione pubblica è fortemente contraria ai piani d’intervento degli USA, ed è un fattore che conta. Questo è ciò che dovrebbe essere preso in considerazione: a) secondo i sondaggi, oltre il 70 per cento degli statunitensi sono contro i piani d’attacco di Obama. b) L’opinione pubblica mondiale vede l’iniziativa della Russia come una via d’uscita dalla pericolosa situazione di stallo. È sbalorditivo come gli USA giochino con il fuoco in una regione chiamata la “polveriera” del mondo. Non dimentichiamo che Ban Ki-Moon, segretario generale delle Nazioni Unite, ha fatto una dichiarazione ufficiale a sostegno della proposta della Russia.
D’altra parte, gli Stati Uniti conservano ancora l’inesorabile desiderio di lanciare un attacco. Ma è una strada sconnessa con molti ostacoli. Com’è noto, l’attacco chimico del 21 agosto nella periferia di Damasco, non è stato perpetrato dall’esercito regolare siriano, ma piuttosto dai suoi nemici. Ci sono stati altri casi in cui le armi chimiche furono utilizzate dalle bande armate. Questo è ciò che la relazione di 100 pagine della Russia sull’attacco chimico a Khan al-Assal, vicino Aleppo, dice. L’attacco avvenne il 19 marzo, nella parte settentrionale del Paese. La relazione è stata presentata alle Nazioni Unite. A maggio, l’inquirente dell’ONU Carla Del Ponte aveva detto che c’erano forti sospetti che i ribelli siriani avessero usato gas nervino sarin. Ci sono ragioni per credere che gli attacchi possano essere ripetuti. Le provocazioni perseguono lo stesso obiettivo, forniscono a Stati Uniti, Francia e agli altri Stati della coalizione anti-Siria, che possiedono enormi arsenali chimici, una giustificazione per avanzare le richieste per un ulteriore disarmo unilaterale di Damasco, minacciando un attacco con il pretesto della “lotta al terrorismo”. Ma le armi chimiche non sono l’unico deterrente della Siria contro un intervento.
Per esempio, le forze per le operazioni speciali siriane sono pronte ad essere utilizzate negli Stati Uniti, il risultato può andare al di là di ogni più inverosimile aspettativa. Secondo il Ministero della Difesa della Siria, centinaia di soldati per le operazioni speciali dell’esercito siriano, sono attualmente situati nel territorio degli Stati Uniti. Tutti i combattenti sono raggruppati in unità di 3-7 elementi impiegati dalle forze speciali siriane “al-Qassam”, e sottoposti a un addestramento completo. Sono abilitati ad effettuare operazioni di sabotaggio negli Stati Uniti. Gli obiettivi potenziali che possono essere danneggiati comprendono ferrovie, centrali elettriche, acquedotti, terminali petroliferi e del gas, e obiettivi militari, per lo più basi aeree e navali. Una fonte ha detto che la leadership siriana ha scelto questa strategia, basandosi sulle esperienze delle guerre in Jugoslavia, Iraq e Libia, dove l’aggressione si rifletté nella posizione difensiva di questi Paesi, destinata al fallimento. Le forze speciali siriane hanno una ricca esperienza, avendo affinato le loro capacità nelle guerre contro Israele, e nelle azioni di combattimento che si svolgono in Libano e in Siria. I soldati non devono andare negli Stati Uniti, per causargli gravi danni. La collaborazione con squadre per operazioni speciali iraniane, farà aumentare immensamente l’efficacia delle operazioni in dimensioni, numeri e perdite economiche. Tali forze possono colpire gli interessi statunitensi in Israele, Turchia, Arabia Saudita, ecc.
L’Arabia Saudita è uno dei guerrafondai più attivi. Non senza ragione è preoccupata dalla prospettiva dei disordini sciiti, diventati imminenti di recente. Gli sciiti costituiscono il 15 per cento della popolazione, ma nutrono forti sentimenti filo-iraniani (con il sostegno di altri sciiti che costituiscono la maggioranza della popolazione in Iraq, Bahrein e delle grandi comunità sciite in Libano). La maggior parte degli sciiti sauditi si concentra a Qasa, sulle rive del Golfo Persico, dove si trova il maggiore giacimento di petrolio del Paese. L’Egitto è anch’esso una sorta di deterrente. Si sta preparando al braccio di ferro tra il governo e gli islamisti supportati da Ankara. Un intervento contro la Siria potrebbe provocare la guerra civile in Egitto, bloccando il traffico di petroliere nel canale di Suez. Per circumnavigare l’Africa occorrono oltre due settimane. La rotta della Russia settentrionale è il percorso più breve che colleghi i principali poli economici del pianeta (Europa occidentale, Nord America e Sud-Est asiatico), ma non è ancora pronto ad affrontare un compito di questa portata. Nel caso in cui l’attacco contro la Siria venga effettuato, sorgeranno problemi anche per i prezzi del petrolio, che inesorabilmente saliranno, e il dollaro non sarà più la valuta di riserva mondiale: nella prima metà del 2013 Iran, Australia e cinque dei dieci leader economici mondiali, tra cui Cina, Giappone, India e Russia, hanno deciso di abbandonare l’uso del dollaro per le transazioni commerciali internazionali. Mosca, il più grande esportatore di petrolio, e Pechino, il primo importatore mondiale di petrolio, sono pronte a rimuovere il dollaro come valuta di scambio del petrolio, in qualsiasi momento. Ciò costituisce una grave minaccia per gli Stati Uniti d’America. Perciò l’intenzione di intervenire contro la Siria appare un tentativo per rimandare il crollo della valuta statunitense. Non è un caso che l’aggravamento della situazione in Siria coincida con il rinvio del dibattito sul default negli Stati Uniti, da febbraio a questo autunno. Non è la democrazia in Siria che suscita grande preoccupazione a Washington, ma piuttosto il tetto del debito, il problema che può trasformare gli Stati Uniti in uno “stato fallito”…

di Nikolaj Malishevskij 
La ripubblicazione è gradita in riferimento alla rivista on-line della Strategic Culture Foundation.

Traduzione di Alessandro Lattanzio – SitoAurora

17 settembre 2013

Craxi e i comici silenzi-dissensi di Giuliano Amato

  


Questa 'stroncatura', a suo modo preveggente, di Giuliano Amato è stata scritta nel gennaio del 2007 sul mensile 'Giudizio Universale'.

La prima volta che vidi Giuliano Amato fu a un dibattito televisivo agli inizi degli anni Ottanta. Accesi la Tv proprio mentre diceva: «Io parlo uno splendido italiano». Poichè eravamo ancora molto lontani dall'era delle volgarità berlusconiane mi colpi' la prosopopea di questo professorino allora totalmente sconosciuto ai più e ai meno perchè, benchè ordinario dal 1975 di Diritto costituzionale comparato alla Sapienza, non aveva pubblicato nulla, com'è ormai usanza dei nostri docenti universitari, da Panebianco a Della Loggia. Questa alta considerazione di sé la si ritrova in una recente minibiografia autorizzata dove Amato si fa descrivere cosi': «Uomo politico, noto per la sua leggendaria intelligenza e raro acume nell'esaminare gli eventi». In realtà è uno straordinario specialista di surfing politico. Parte come «psiuppino», cioè all'estrema sinistra, al di là dello stesso Pci, ma quando il Psi riformista comincia la sua scalata al potere entra nelle sue file e, nel 1983, si fa eleggere deputato. Prima è oppositore di Craxi ma allorchè il segretario del Psi, divenuto premier, gli offre il posto di sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, ne diventa uno dei più fedeli 'consigliori'. Quando il Psi, sotto le mazzate di Mani pulite, crolla, non si schiera con Craxi ma nemmeno contro. Semplicemente diserta e si rifugia nella villa di Ansedonia a giocare a tennis con Giuseppe Tamburrano, e a curare gli 'amati studi' dove continua a non produrre assolutamente nulla. Dopo una lucrosa parentesi come presidente dell'Antitrust sarà pronto per diventare uno dei più eccellenti e potenti riciclati della Seconda Repubblica, essendo stato uno dei disastrosi protagonisti della Prima.
E' uno Svicolone nato, come il pavido leone di un famoso cartoon. Ma più che a un leone, per quanto imbelle, somiglia a un'anguilla. I suoi ragionamenti sono cosi' sottili, ma cosi' sottili da essere prudentemente impalpabili e quasi invisibili. Esilaranti sono i suoi rapporti col lider màximo del Psi come lui stesso li ha raccontati in un'intervista, a Craxi morto. Quando Amato era d'accordo col Capo esprimeva il suo incondizionato assenso, quando non lo era restava muto. Ha chiosato Rino Formica, un altro socialista che ha pero' avuto la decenza di ritirarsi a vita privata: «Quel passaggio sul silenzio-dissenso è assolutamente strepitoso...Se Amato era d'accordo esprimeva liberamente il suo consenso. Se invece affiorava un'increspatura, non dico un dissenso, ma anche una piccola perplessità, un dubbio, un trasalimento, Amato che faceva? Non si agitava, non parlava, si esprimeva in silenzio. Ma non un silenzio qualunque. No, un silenzio operoso. E Craxi capiva: se Giuliano sta zitto vuol dire che dissente. Metafisica pura».
Come sottosegretario alla Presidenza del Consiglio nel governo Craxi (1983-1987) e come ministro del Tesoro dal 1987 al 1989 nei governi Goria e De Mita, Giuliano Amato è stato protagonista in prima persona del sacco delle casse dello Stato perpetrato negli anni Ottanta, che ci ha regalato quasi due milioni di miliardi di debito pubblico in vecchie lire che ancora ci pesano sul groppone e per i quali l'Unione europea continua a strigliarci chiedendoci sempre nuovi sacrifici. Ma è sempre lo stesso Amato, lui même, divenuto nel 1992 premier, perchè Craxi è azzoppato dalle inchieste giudiziarie, che, per rattoppare in qualche modo la bancarotta che ha contribuito a creare, si introduce nottetempo, come un ladro che risalga da una fogna, nelle banche per prelevare i quattrini dai conti correnti dei cittadini, fatto inaudito nella storia di uno Stato di diritto. Il suo «raro acume nell'esaminare gli eventi» non gli servirà per percepire cio' che individui dotati di una intelligenza meno «leggendaria» hanno già capito da un pezzo, e cioè che la Prima Repubblica è sull'orlo di un crollo da cui lo stesso Amato, almeno per il momento, sarà travolto.
Molto disinvolto con i quattrini altrui, Giuliano Amato è attentissimo ai suoi. Guido Gerosa mi ha raccontato che durante le temperie di Tangentopoli Craxi invio' Amato a Milano per mettere un po' d'ordine fra i compagni. Il 'Dottor Sottile' invito' a cena i parlamentari lombardi, fra cui Gerosa, nel solito lussosissimo e costosissimo ristorante che i socialisti frequentavano all'epoca della 'Milano da bere', tanto pagava il partito, cioè il contribuente con i soldi che il Psi, insieme agli altri, gli taglieggiava. Ma alla fine di questa cena, fra la costernazione generale, annuncio': «Si fa alla romana». Le casse del Psi, saccheggiate da Craxi & co., erano vuote. Sarebbe quindi toccato al proconsole Amato pagare di tasca sua. E non era cosa.
di Massimo Fini