31 luglio 2011

Verso la guerra delle risorse?





Piccolo ma significativo esempio di come le notizie importanti non vengono date o, quando vengono date, sono nascoste in modo che non si vedano. Per esempio non mi risulta che alcun giornale italiano, per non parlare dei telegiornali, abbia dato rilievo alle cose che seguono. Recentemente il WTO, l’Organizzazione Mondiale del Commercio – uno dei tre membri della sacra autorità del Consenso Washingtoniano, insieme al Fondo Monetario Internazionale e alla Banca Mondiale – ha pubblicato un rapporto speciale il cui titolo tecnico è apparentemente anodino e concerne le restrizioni alle esportazioni. Da questo emerge che ben 30 nuove restrizioni sono sorte, in diversi paesi, che impediscono o limitano l’esportazione di determinate materie prime. E si tratta di materie prime in quasi tutti i casi cruciali: generi alimentari, carbone, minerali di ferro, terre rare.



Le cifre dicono che tra ottobre 2010 e aprile 2011 i casi sono arrivati a 30 e si va da aumenti delle tasse di esportazione, fissazioni di prezzi fuori mercato, limitazioni di quote, veri e propri divieti completi. Protagonisti in questa svolta sono la Cina, l’India, il Vietnam l’Indonesia. Ma anche gli Stati Uniti praticano questi metodi avendo imposto restrizioni su una decina di materie prime che ritengono strategiche.

Il punto è proprio questo. Che queste limitazioni non rispondono a criteri economici di corto respiro e sono invece, in molti casi, frutto di considerazioni strategiche. La Cina, ad esempio, controlla circa il 97% delle esportazioni mondiali di terre rare (che sono un elenco di materie prime tutte variamente collegate alla produzione di raffinate tecnologie della comunicazione).

Ovvio che, trovandosi in una posizione quasi monopolistica, la Cina sia in condizione di imporre i suoi prezzi. Cosa che ha fatto tranquillamente fino all’anno scorso. Ma da due anni la Cina non sembra interessata a guadagnare, anche dilapidando le sue risorse preziose. Adesso se le vuole tenere.

Il perchè è presto detto, ma nemmeno uno dei pochissimi giornali del mondo che ha commentato la notizia, l’International Herald Tribune (IHT, 21 luglio), è stato capace di spiegarlo propriamente. In un breve articolo in pagine interne si è limitato a individuare l’egoismo dei paesi del terzo mondo. Ma con spiegazioni di questo tipo non si va lontano. Perchè oggi, improvvisamente?

È cominciata l’epoca della penuria. Per generi di consumo generale, come il petrolio, il “picco” è già stato raggiunto da almeno quattro anni (cioè se ne produce sempre meno e se ne produrrà sempre meno), ma nessuno lo dice per evitare il panico e il contingentamento. Delle terre rare nessuno parla perchè quasi nessuno sa cosa sono e a che cosa servono.

Ma i governanti di Pechino, come è bene non stancarsi di dire, guardano lontano. E cominciano a preferire di risparmiare piuttosto che guadagnare vendendo, perchè quando non ce ne sarà più sarà molto più difficile crescere.

Ecco il punto: è cominciata, in sordina per ora, la guerra delle risorse.

Basta capirlo per prevedere che alle piccole onde attuali seguiranno i marosi nei prossimi anni.

Il signor Patra, capo della società indiana “Terre Rare” – citato appunto da IHT – dice: «per molto tempo l’Occidente ha preso le risorse naturali a basso prezzo dall’Est. In futuro non sarà più così». Perentorio e soprattutto vero. A quelli che, ignorando i sintomi del problema, continuano a biascicare le giaculatorie della crescita, queste notizie bisognerebbe squadernargliele davanti al naso. Ma chi investirebbe se sapesse come stanno davvero le cose?

di Giulietto Chiesa

30 luglio 2011

Default americano?




Gli americani pretendono:

a- di mantenere intatto il loro livello di consumi, anche se la disoccupazione è quasi al 10% ed i salari sono in flessione

b- di avere un volume di spese militari pari o superiore a quello di tutto il resto del Mondo, producendo un costante disavanzo pubblico peraltro alimentato dagli interessi su un debito che ormai supera abbondantemente il pil annuo

c- di avere il più alto livello di debito aggregato del Mondo ma di mantenere il livello di rating AAA e di pagare interessi sul debito sovrano quasi pari a quelli sui titoli tedeschi

d- di emettere in scioltezza quantità enormi di dollari ma di confermare il dollaro come moneta di riferimento internazionale

e- di mantenere un livello di tassazione intorno al 30% (quando quello europeo è al 40) ed anzi, possibilmente, diminuirlo.
C’è modo di ottenere tutte queste cose insieme? Credo di si: nominando segretario al Tesoro la Madonna di Lourdes.
E’ possibile che, alla fine, Obama riesca ad evitare il default temporaneo il 3 agosto prossimo, ottenendo, in qualche modo, di innalzare il livello di debito Usa di altri 2.400 miliardi di dollari (che vanno a sommarsi agli oltre 14.000 attuali), ma questo cosa significa?
In primo luogo non è detto che le agenzie di rating –per quanto spudoratamente allineate agli interessi statunitensi- non declassino i bond americani per salvare la faccia. Certo il passaggio da tre a due A non è una tragedia e sposta solo di qualche decimale gli interessi da pagare ma, quando si ha una esposizione di 16.500 miliardi di dollari, anche uno spostamento di un punto percentuale significa 150 miliardi di dollari in più all’anno. E non è neanche questo il peggio. Il problema più serio è a chi collocare questa nuova massa di bond.

Ragioniamo: l’offerta americana non è molto incoraggiante perchè il rendimento nominale dei titoli americani è al 4% per i bond ventennali ma, considerando il deprezzamento del dollaro (diretta conseguenza della politica di liquidità adottata) il rendimento reale scende ad un misero 1,33%, mentre per quelli a 7 anni si scende appena allo 0,1 e per i titoli quinquennali il rendimento è addirittura negativo (S24 24.7.11). In queste condizioni è evidente che un investitore privano non ha alcun interesse ad investire con rendimento negativo o legandosi alla moneta americana per un periodo lunghissimo nel quale non si capisce bene cosa possa accadere e ad un tasso reale cosi basso. Date queste premesse, non si capisce perchè un investitore privato non debba acquistarne titoli tedeschi che offrono un rendimento reale maggiore e con ben altre garanzie di solidità.

Ci sarebbero gli investitori “pubblici” (fondi sovrani e banche centrali) che, più che al rendimento, badano a calcoli politici come sostenere un mercato verso il quale si esporta o mantenere certi equilibri generali o, ancora, creare un rapporto preferenziale con un certo stato. Ed, infatti, negli ultimi 15 anni è stato questo il tipo di investitori che ha assorbito masse crescenti di debito sovrano americano. Ma oggi le cose come stanno?

- i cinesi hanno già circa un quarto del debito americano ed hanno manifestato segni di “inappetenza” dei titoli americani già nelle ultime aste. In più, hanno il problema di sostenere anche l’Euro, per cui è possibile che, oltre che rinnovare i titoli in scadenza, possano prendere qualcosa, ma realisticamente si tratterà di spiccioli

- i giapponesi, dopo Fukishima e la conseguente recessione, hanno le loro gatte da pelare ed è già grasso che cola se rinnoveranno i titoli in scadenza

- idem per gli europei che –fra Grecia, Portogallo, Irlanda, Spagna ed Italia- hanno i loro grattacapi

- gli arabi stanno smobilitando pezzi di fondi sovrani per far fronte alle rivolte acquistando massicci quantitativi di cereali e facendo qualche riforma (la sola Arabia Saudita ha impiegato 386 miliardi di dollari del suo fondo sovrano per far fronte alla situazione), quindi anche da questa parte non è probabile che venga chissà quale richiesta.

Qualche speranza può venire da Russia e Brasile che sono in una fase positiva per effetto dei ricavi sulle materie prime (soprattutto il gas russo), ma sin qui nessuno dei due ha mostrato la disponibilità a fare grandi acquisti di bond americani e non si vede che interesse politico possano avere ad investire sugli Usa in questa fase. Tanto più che nel caso –più che probabile- di una nuova recessione generalizzata, entrambi si troverebbero in difficoltà per la connessa caduta della domanda di commodities le cui esportazioni rappresentano la principale base delle rispettive economie. E in quel caso una eccessiva esposizione in titoli americani sarebbe solo un problema in più.

Lo spiraglio più promettente potrebbe venire da India e Sudafrica per ragioni diverse: il Sudafrica è in una fase molto positiva per l’impetuoso apprezzamento dell’oro e potrebbe avere qualche interesse a collocare parte della sua liquidità in quella direzione. L’India, invece, potrebbe avere interesse politico ad un riavvicinamento agli Usa, sia per le sue esportazioni sia in funzione antipakistana ed anticinese, approfittando del forte raffreddamento dei rapporti far Washington e Rawalpindi seguita alla vicenda Osama.

Ma, in entrambi i casi è da escludere che possa trattarsi di acquisti risolutivi. Dunque, tutto lascia intendere che la maggior parte di questi nuovi titoli resteranno invenduti. Per cui la soluzione sarà quella che ormai conosciamo a memoria: l’assorbimento da parte della Fed, con una nuova manovra di quantitative easing sostenuta dall’ennesima emissione di dollari. Per quanto tempo ancora potrà andare avanti questo giochetto?

Forse è arrivato il momento di dirci che gli Usa, tecnicamente sono già falliti. Qualche cifra? Calcolando il solo debito governativo, il debito pro capite degli Usa (compresi lattanti e moribondi) si aggira sui 50.000 dollari (circa 11.000 in più dell’analogo debito pro capite greco); aggiungendo i debiti dei singoli states, ed enti locali arriviamo a 70.000 dollari: considerando il totale del debito aggregato (cioè inclusivo di quello di aziende e famiglie) arriviamo a un po’ più di 160.000 dollari (S24 22.7.11/13). Il che significa che una famiglia media americana di tre persone ha un debito di circa mezzo milione di dollari. E, per di più, tutto lascia intendere che l’indebitamento sia privato che pubblico crescerà per effetto dell’alto tasso di disoccupazione, mentre è difficile immaginare a breve un miglioramento delle finanze pubbliche.

Obama parla di un taglio del disavanzo statale di circa 4.000 miliardi di dollari entro il 2014: non è una gran cifra se si considera che:

a- il disavanzo del bilancio governativo attuale è del 38%

b- che nei prossimi anni crescerà la pressione pensionistica sia per effetto ell’andata in pensione dei baby boomers, sia delle pensioni di invalidità a seguito delle missioni militari (soprattutto ma non solo Irak ed Afghanistan) e che il disavanzo previsto per la spesa pensionistica nei prossimi anni si valuta fra i 1.000 ed i 3.000 miliardi

c- che 42 dei 50 stati dell’unione già prevedono disavanzi fiscali per 103 miliardi di dollari per il 2012 e che altri 24 stati già prevedono ulteriore disavanzo per il 2013

d- che occorre pagare gli interessi sul debito precorso e che è facile prevedere possano aumentare per effetto di un possibile declassamento.

Fatti i dovuti calcoli, anche nella più favorevole delle ipotesi, resterebbe assai poco per riassorbire almeno in parte di debito precedente: calcolando molto ottimisticamente che al riassorbimento del debito possano andare 150-300 miliardi annuali, questo inciderebbe per l’1-2% sulla massa totale. Cioè, a parità di tutte le condizioni, da 50 a 100 anni per azzerare il debito. Ovviamente si tratta di calcoli puramente astratti.
Naturalmente la cosa sarebbe assai problematica se nel frattempo crescesse sensibilmente il Pil (e il relativo gettito fiscale) ma, almeno per ora, non sembra un obiettivo a portata di mano. Sembra, invece, probabile che nel prossimo futuro accada il contrario: che il Pil descresca per effetto di una nuova recessione. Nel qual caso il debito pubblico, pur restando fermo in valori assoluti, si avvierebbe rapidamente verso il 200% sul Pil.

Ma, per di più, l’intesa sul punto con i repubblicani, che controllano il Congresso, non sembra raggiunta e si parla di una “manovretta” da 1.500 miliardi, come dire che il debito, di fatto, crescerà per effetto degli interessi e degli aumenti previsti.
E non abbiamo considerato il debito privato che non si capisce come potrà essere restituito dai singoli americani.

Se si trattasse di una Grecia o di un Portogallo qualsiasi, da tempo le agenzie di rating avrebbero declassato il debito americano a CCC, cioè spazzatura. Ma gli Usa sono la più grande potenza finanziaria del mondo, ed una simile classificazione provocherebbe uno tsunami finanziario senza precedenti, altro che effetto “contagio” ateniese: la maggioranza degli Stati vedrebbero volatilizzarsi gran parte dei propri crediti, molte banche fra le maggiori del mondo fallirebbero, l’effetto domino sarebbe incontenibile e la crisi del 1929 ce la ricorderemmo come un innocuo mal di pancia. Per di più, gli Usa sono la più grande potenza militare del mondo ed un simile cataclisma avrebbe effetti incalcolabili anche sul piano degli equilibri politico-militari del Globo.
Insomma, siamo al solito too big to fail (troppo grossi per fallire). Ragion per cui abbiamo deciso tutti di far finta di niente e di prendere per oro colato le 3 A delle agenzie di rating. Va bene: sinchè l’orchestrina suona possiamo continuare a ballare, ma il bastimento su cui viaggiamo di chiama Titanic. Per quanto tempo ancora possiamo continuare con questa recita surrealista? Si badi che sul mercato già oggi i segnali dicono che la tripla A è una foglia di fico a cui bessuno crede: nel mese di luglio, il costo delle coperture assicurative sul debito americano (nel gergo i cd-swap) è arrivato a 45,7 punti mentre quello sui titoli sauditi (che hanno solo 2 A-) era decisamente inferiore ed addirittura, quello per i titoli indonesiani (BB+) valeva 39. Dunque assicurare un titolo americano oggi costa circa un sesto in più che assicurare un titolo indonesiano cpn classifica assai inferiore. Per assicurare il fallimento di 100 milioni di titoli americani, all’inizio dell’anno ci volevano circa 14.000 dollari, oggi ce ne vogliono 53.000.

D’accordo, si tratta di una impennata dovuta anche alle convulsioni della politica americana e destinata a rientrare dopo il 3 agosto, ma il segnale è troppo chiaro per non essere inteso: con andamenti di questo genere è facile prevedere che una parte degli investitori privati possano iniziare a non rinnovare i propri titoli (tripla A o non tripla A) e che la cosa potrebbe anche innescare un effetto a cascata per cui anche gli stati inizierebbero a valutare il rischio di essere quello che resta con il cerino acceso in mano.
Nessuno è mai tanto grosso da non fallire mai.
di Aldo Giannuli

29 luglio 2011

L'Europa è condannata dalla globalizzazione?

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La storiella del tale che va per suonarle e viene suonato sarebbe risibile, se non ci riguardasse. Il ritorno del boomerang fa sempre male all'incosciente che lo ha lanciato senza sapere come evitare di prenderlo sul viso. La globalizzazione si rivolta contro i suoi iniziatori occidentali. E l'ironica constatazione che ha avanzato Marcel Gauchet in un recente numero di«Le Débat»1: «L'Occidente, e principalmente gli Stati Uniti, è stato il motore della globalizzazione, ma tutti vi hanno aderito e l'Unione europea è diventata la migliore allieva della classe, la zona economica del mondo più aperta, più degli Stati Uniti, cosa che si dimentica sempre. Ora, questo capitalismo globalizzato gioca adesso contro la prosperità occidentale. Si può discutere su questo punto a proposito degli Stati Uniti. In ogni caso, è chiaro per l'Europa, che appare come la perdente del gioco». L'Europa sarà dunque la grande perdente? A partire dal momento in cui si internazionalizza, si finanziarizza e si virtualizza, come succede dagli anni Ottanta, il capitalismo è portato ad emanciparsi rispetto agli Stati, alle forze politiche e alle opinioni pubbliche. Il suo unico quadro spaziale diventa il pianeta. La sua hybris deriva dal non essere più trattenuto da niente. Agisce unicamente in base alla sua logica.
Quale ironia vedere, dopo l'inizio della crisi nel 2007, i vani sforzi di Barack Obama o di Nicolas Sarkozy per tentare di regolamentare il funzionamento dell'industria finanziaria. Dice ancora Marcel Gauchet: «Sarkozy ha fatto discorsi da simpatico gradasso sulla necessità di riportare le banche alla ragione, ha pronunciato parole vendicative assai appropriate contro i guasti di un certo capitalismo, ma tutti hanno capito piuttosto in fretta che quelle parole erano fatte per essere ascoltate e non per essere seguite da effetti». Non vi è niente di sorprendente in ciò, se si vuole pur ammettere che il presidente francese è diventato il campione della banalizzazione liberale della Francia, sostenuto da un largo consenso delle élites e degli elettori.
Con la globalizzazione, lo scollegamento e poi l'autonomizzazione del capitalismo finanziario rispetto a ogni base territoriale, non c'è più bisogno di intermediari politici interni. Per il buon funzionamento del sistema non sono più necessarie nemmeno le connivenze a livello locale tra l'élite politica e l'oligarchia finanziaria. Questa complicità è un residuo del sistema precedente, di quando il capitalismo non poteva sfuggire al quadro nazionale sulla cui base si sviluppava. Questa eredità storica è ormai superata. Il capitalismo è divenuto off-shore, flessibile e nomade. Le sue basi possono trovarsi tanto a Londra e New York quanto a Francoforte, Singapore o Hong Kong. Ci sarà sempre uno Stato abbastanza prono da accogliere e porre al riparo società che vogliono sfuggire alla volontà di regolamentazione. Questa è, d'altro canto, l'argomentazione essenziale per proscrivere ogni regolamentazione che non fosse oggetto di un consenso unanime, prorogando così lo status quo che permette alla Forma-Capitale di dispiegarsi, ancora e sempre, secondo la sua logica opportunistica.
Questa globalizzazione è iniziata sotto la spinta di Margaret Thatcher e Ronald Reagan. L'ultimo libro di Jean-Pierre Chevènement2 ne traccia, per la Francia, le varie fasi in modo dettagliato. Il suo interesse
deriva dal fatto che l'autore ne ha vissuto le tappe dall'interno, nella macchina dello Stato. L'ex ministro socialista le racconta così come le ha vissute e come si sono imposte agli attori, come un'implacabile meccanica, fin dal momento in cui Frangois Mitterrand aveva scelto di restare fedele alla costruzione europea. In una dichiarazione a «La Tribune de Genève» del 22 novembre 2007, Danielle Mitterrand, difendendo l'opera del marito, ricordava una delle sue conversazioni nelle prime ore della presidenza: «Dicevo a Frangois: poiché hai il potere, perché non te ne servi per cambiare il paese? Egli rispondeva: io non ho il potere; la Francia, come il resto del mondo, è assoggettata ad una dittatura finanziaria che gestisce tutto». Questa iper-classe sempre più ricca quando la grande maggioranza degli abitanti del vecchio continente vedono la loro situazione degradarsi, è invincibile?
L'Europa, agitata come uno scettro a sonagli, è, ci dice Jean-Pierre Chevènement, un'entelechia. Solo l'Europa europea, sul modello gollista, ossia indipendente, può essere un progetto solido. Malauguratamente, nessuno dei nostri partners continentali si mostra ambizioso. Di qui l'ancoraggio (implicito fin dall'inizio della costruzione) sempre più solido agli Stati Uniti, locomotiva ansimante la cui leadership volge tuttavia al termine. «La sinistra francese credeva, nel 1981, come Cristoforo Colombo, di scoprire le Indie (il socialismo), ma ha scoperto l'America (il neo-liberalismo). Il miraggio europeo le ha fatto perdere di vista il popolo francese. Essa non è molto attrezzata per comprendere il mondo venturo», conclude Chevènement. Resta una domanda che l'ex ministro della Difesa si guarda bene dal porre, cioè come l'economia sia riuscita ad occupare l'insieme del nostro immaginario simbolico a tal punto da renderci capaci di accettare con fatalità questo stato di cose come un oggetto "naturale".
«L'Europa», scriveva Abellio, «è fissa nello spazio, cioè nella geografia, mentre l'Occidente è mobile e sposta il suo epicentro terrestre secondo il movimento delle avanguardie civilizzate. Un giorno l'Europa sarà cancellata dalle carte, l'Occidente vivrà sempre. L'Occidente è là dove la coscienza diventa essenziale, è il luogo e il momento eterni della coscienza assoluta»3. Può darsi allora che l'Occidente prossimamente pianti le tende a Pechino, nuova Terra Promessa sufficientemente ingenua per salutare i suoi benefici avvelenati? Il candore cinese consisterebbe nel credere di poterla coniugare con l'affermazione della sua identità e della sua potenza.

di Pierre Bérard e Pascal Eysseric

NOTE
1 Face à la crise: Sarkozy et les forces politiques frarwaises, Marcel Gauchet, Jacques Julliard: un échange, in «Le Debat» n.161, settembre-ottobre 2010.
2Jean-Pierre Chevènement, La France est-elle finie?, Fayard, Paris 2011.
Raymond Abellio, La structure absolue. Essai de phénoménologie génétique, Gallimard, Paris 1965. È utile sottolineare che non interpretiamo la «coscienza assoluta» allo stesso modo dell'autore.

28 luglio 2011

La crescita economica è la via d’uscita dai problemi di debito pubblico del nostro paese?

felicedonna

L’idea che la soluzione ai nostri problemi di debito pubblico sia la crescita economica è semplicistica e irrealistica. La nostra organizzazione economica, sociale e culturale è interamente focalizzata sulla crescita economica e il suo risultato è di creare malessere. Il malessere genera spesa pubblica, soprattutto spesa sanitaria e per l’ordine pubblico. Di conseguenza una riorganizzazione della società che tenga conto della dimensione relazionale della vita e non soltanto di quella economica è destinata a contenere la spesa pubblica. Inoltre la causa della “rivolta fiscale” degli ultimi decenni è nella perdita di coesione sociale, è il prodotto di società popolate da individui soli e impauriti, che hanno perso il senso di essere membri di una società. Lo stato sociale funziona se e fino a quando un paese non è solo un insieme di individui tenuti assieme dalla forza dei soli interessi. Una riorganizzazione della società dovrebbe invece essere in grado di invertire la tendenza alla perdita di coesione sociale e quindi all’aumento della riluttanza fiscale.

L’idea che la soluzione ai nostri problemi di debito pubblico sia la crescita economica è semplicistica e irrealistica. Nel mio libro Manifesto per la Felicità, pubblicato da Donzelli nel 2010, espongo la seguente tesi: la nostra organizzazione economica e sociale crea malessere. Il cuore del problema è che lo sviluppo economico si è accompagnato a un progressivo impoverimento delle nostre relazioni affettive e sociali. Viviamo di corsa in mezzo a individui frettolosi. E a mancare è prima di tutto il tempo delle relazioni con gli altri, sacrificate sull’altare del benessere materiale, che conosce due soli imperativi: lavoro e consumo. Siamo più ricchi di beni e sempre più poveri di relazioni e di tempo. Ecco perché siamo sempre più infelici. Ecco dunque perché il nostro sistema economico e molti aspetti della nostra esperienza sia individuale che collettiva – la famiglia, il lavoro, i media, la vita urbana, la scuola, la sanità e persino la nostra democrazia – hanno bisogno di un profondo cambiamento culturale e organizzativo, che delineo più o meno dettagliatamente nel mio libro.

Quello che rileva è che il malessere genera spese sia private che pubbliche. Mi soffermo su queste ultime che sono rilevanti per la questione delle finanze pubbliche. Una gran mole di contributi in epidemiologia dimostra che la felicità influisce direttamente sulla salute e la longevità, che il pessimismo, la percezione di non controllare la propria vita, lo stress, i sentimenti di ostilità e di aggressione verso gli altri sono fattori di rischio molto rilevanti. Si è scoperto ad esempio che il rischio di malattie cardiovascolari – la prima causa di morte nei paesi ricchi – è doppio tra le persone affette da depressione o malattie mentali e una volta e mezzo per le persone generalmente infelici. Gli effetti del benessere sulla salute sono stimati come più ampi di quelli derivanti dal fumo o dall’esercizio fisico. Senza contare la spesa sanitaria direttamente connessa al malessere, come quella per la cura dei disagi mentali. Nel 2005 i medici inglesi hanno prescritto 29 milioni di ricette di antidepressivi, per un costo complessivo di 400 milioni di sterline a carico del servizio sanitario nazionale. Nel 2003 gli Stati Uniti hanno speso la cifra di 100 miliardi di dollari per curare le malattie mentali dei propri cittadini. Tanto per dare un’idea della dimensione di questa cifra sbalorditiva, si tratta di varie volte il costo del tunnel sotto la Manica, la più grande opera pubblica mai realizzata.

La scomoda conclusione che dovremmo trarre è che la sanità è lo scarico del lavandino del malessere di una società. In questa prospettiva una porzione importante della spesa sanitaria è un esempio del fatto che una organizzazione sociale che produce danni al benessere genera spese.

Dunque la principale prevenzione delle malattie dovrebbe essere fatta al di fuori dai sistemi sanitari, cioè promuovendo il benessere. Le società avanzate sono gravate da una distribuzione sbagliata delle spese per la salute, che privilegia quelle per la cura a danno di quelle per la prevenzione. In realtà la prima forma di prevenzione è intervenire sul benessere attraverso politiche sociali e culturali mirate, rispetto alle quali nel mio libro delineo una vera e propria agenda politica. La nostra attuale organizzazione sociale produce sprechi immensi. Spendiamo in un modo che crea malessere e poi spendiamo per riparare i danni prodotti dal malessere.

Un discorso del tutto analogo vale per le spese per l’ordine pubblico. Infatti i problemi di polizia sono l’altro scarico del lavandino del malessere di una società. In altre parole, tutti i problemi di malessere finiscono per divenire prima o poi o problemi sanitari o di sicurezza. Dunque, riorientare l’organizzazione sociale alla creazione di benessere genererebbe anche un contenimento delle spese per ordine l’ordine pubblico.

Questo dal lato del contenimento della spesa pubblica. Poi quanto propongo ha rilevanza anche per le fonti di finanziamento del settore pubblico. Innanzitutto propongo alcune fonti di finanziamento innovative per delineare le quali lo spazio di questo articolo è insufficiente.

In secondo luogo la realizzazione dell’agenda politica che propongo condurrebbe ad una inversione della crescente riluttanza alla pressione fiscale mostrata dalle classi medie di tutto il mondo occidentale negli ultimi decenni. Questa tendenza dell’opinione pubblica è stata in parte originata dall’idea che il privato sia più efficiente del pubblico, questione che in Italia è divenuta dirompente dopo Tangentopoli. È un argomento che in realtà sta perdendo persuasività. Un quarto di secolo di privatizzazioni in tutto l’Occidente sta cominciando a convincere l’opinione pubblica che, in alcuni settori, avere qualcuno che fa molto efficientemente le cose sbagliate può essere peggio di qualcuno che fa meno efficientemente quelle giuste. In Italia una serie di scandali del settore privato e una serie di enormi problemi nei servizi pubblici seguiti alle privatizzazioni stanno provocando una inversione nella disponibilità dell’opinione pubblica a considerare il privato come la soluzione a tutti i problemi dell’economia. L’esito del recente referendum sulla privatizzazione dell’acqua è soltanto uno dei tanti segnali di questa inversione di tendenza.

Il secondo e più profondo motivo della “rivolta fiscale” degli ultimi decenni è nella perdita di coesione sociale. Se uno ha la sensazione di vivere in un mondo in cui sempre meno gente è disponibile ad aiutarlo sarà sempre più difficile che sia disposto a pagare per aiutare qualcun altro. La riluttanza fiscale è il prodotto di società popolate da individui soli e impauriti, che hanno perso il senso di essere membri di una società. L’erosione della comunità mina le basi dello stato sociale. Esso funziona se e fino a quando un paese non è solo un insieme di individui tenuti assieme dalla forza dei soli interessi.

La riorganizzazione della società che propongo dovrebbe invece essere in grado di invertire la tendenza alla perdita di coesione sociale e quindi all’aumento della riluttanza fiscale.

Infine sono convinto che l’opinione pubblica sarebbe disposta a ridurre la sua rivolta fiscale se la spesa pubblica venisse riorientata a sollevare la gente dalle spese private generate dal degrado delle relazioni. Se gli anziani sono soli e malati la soluzione è una badante. Se i nostri bambini sono soli la soluzione è una baby-sitter e il riempirli di giocattoli. Se abbiamo ormai pochi amici e la città è divenuta pericolosa possiamo passare le nostre serate in casa dopo esserci comprati ogni sorta di divertimento casalingo (il cosiddetto home entertainment). Se il clima frenetico e invivibile delle nostre vite e delle nostre città ci angustia, una vacanza in qualche paradiso tropicale ci risolleverà. Se litighiamo con i nostri vicini, le spese per un avvocato ci proteggeranno dalla loro prepotenza. Se non ci fidiamo di qualcuno, possiamo farlo controllare. Se abbiamo paura possiamo proteggere i nostri beni con sistemi di allarme, porte blindate, guardie private ecc. Se siamo soli, o abbiamo relazioni difficili e insoddisfacenti, possiamo cercare un riscatto identitario nel consumo, nel successo, nel lavoro.

Insomma, la nostra organizzazione economica, sociale e culturale è interamente focalizzata sulla crescita economica. Non produce individui più felici semplicemente perché non è questo il suo scopo. Lo scopo è invece crescere. Se vogliamo una società di gente più soddisfatta della propria vita dobbiamo riorganizzare la società in modo da tenere nel dovuto conto la dimensione relazionale della vita. Un effetto collaterale di questo sarà la riduzione di quella porzione molto rilevante della spesa pubblica destinata a riparare i danni prodotti dal malessere ed un aumento della disponibilità della gente nei confronti della imposizione fiscale. Non è facendo lavorare e consumare di più un corpo sociale già stanco, disagiato e stressato che usciremo dai nostri problemi di debito pubblico. Una strategia del genere è destinata a produrre ulteriore disagio e crisi sociali, per contenere le quali dovremmo spendere di più.

Ovviamente infine, c’è molto da lavorare sul fronte del recupero dell’evasione, ma questo non è un argomento originale.

di Stefano Bartolini

Stefano Bartolini è docente di economia politica all'Università di Siena.

27 luglio 2011

Terrorismo: LaRouche denuncia un nuovo 9/11 come trampolino per la dittatura


L'attuale sistema finanziario ha esaurito le opzioni e perciò "si è deciso di muoversi verso una dittatura", ha dichiarato Lyndon LaRouche in una discussione con alcuni collaboratori il 23 luglio. Riferendosi in particolare al sistema di salvataggio dell'Euro (e del sistema transatlantico) deciso al vertice di Bruxelles (vedi sotto), LaRouche ha sottolineato che non c'è modo che quel sistema possa funzionare, perché il tasso di aumento del debito in rapporto agli asset che lo sostengono è tale da rendere il debito insostenibile. L'amministrazione Obama e l'oligarchia britannica ne sono ben coscienti e hanno deciso di muoversi verso una dittatura come unico modo per mantenere il sistema.

È in questo contesto che occorre considerare l'ondata di attentati e minacce terroristiche della scorsa settimana, culminata nel massacro di Oslo (vedi sotto). Questa serie di sviluppi ricorda il periodo che va dal gennaio al settembre 2001, quando diverse minacce e attentati servirono a mascherare i preparativi per ciò che divenne l'undici settembre.

Nel gennaio 2001, LaRouche aveva denunciato la possibilità di un incidente di tipo "incendio del Reichstag", sulla base di un'analisi del carattere della nuova amministrazione Bush e della sua propensione all'introduzione di metodi da stato di polizia. Successivamente, durante la primavera e l'estate di quell'anno, una serie di provocazioni tra cui la minaccia di ecoterrorismo a Washington, spinsero LaRouche a denunciare l'imminenza di un possibile attacco di guerra asimmetrica, che si verificò nella forma dell'attacco del 9/11. L'obiettivo era la dittatura negli Stati Uniti, e ci siamo arrivati molto vicino.

Ora, dal punto di vista dei controllori del Presidente Obama, la situazione è molto più disperata. I fatti della scorsa settimana evidenziano che la situazione del debito è fuori controllo sia negli USA che in Europa, e può esplodere in ogni momento. Le varie "soluzioni" approntate, tutte a difesa del sistema oligarchico, non possono riuscire, ma hanno creato condizioni di accresciuto caos e instabilità.

Da questo punto di vista va considerata la serie più recente di attentati e minacce. Oltre al terribile massacro di Oslo del 22 luglio, Mumbai è stata nuovamente bersaglio di bombe terroristiche e negli USA è stata messa in allerta la sicurezza per il pericolo di un attentato imminente alla metropolitana di New York. Il 23 luglio si sono verificate almeno quattro importanti sparatorie, in cui uomini armati di fucile hanno aperto il fuoco sulla folla. Inoltre, da fonti di intelligence oltremare è stato raccolto un dossier di informazioni e indizi anche tratti dai documenti trovati in Pakistan, che contribuisce a creare un clima simile a quello che precedette gli attacchi dell'11 settembre.

Come illustra chiaramente il caso del 9/11, la serie di "minacce credibili" attivate non solo prepara il clima, ma maschera anche le vere intenzioni strategiche. Attivando una serie di potenziali minacce da angoli diversi dalla vera fonte della minaccia, si creano le condizioni sia per l'azione che per la copertura della stessa.

Il 23 luglio, Lyndon LaRouche ha ammonito: "I fatti cruciali degli attacchi del 9/11 furono insabbiati dall'amministrazione Bush, e quell'insabbiamento è continuato con Obama. Se condoniamo questo insabbiamento, non facciamo che invitare altro terrorismo". LaRouche ha anche chiesto agli americani di vigilare per impedire un colpo di stato negli USA, perpetrato dall'ufficio del Presidente Obama.

by MoviSol

26 luglio 2011

Il mistero della Maddalena







Sono scomparse due mesi fa le armi dal deposito sotterraneo di Guardia del Moro, la rete di gallerie della Marina militare che si sviluppa all’interno dell’isola di Santo Stefano, arcipelago della Maddalena: si parla di 400 missili, 11.000 razzi anticarro, 5.000 razzi katiuscia Bm21 da 122 mm, 32.000 fucili d’assalto AK47 e 150 mila caricatori con più di 32 milioni di proiettili.

Per ora non si hanno notizie certe, si sa solo che dopo un’inchiesta pubblicata nel giugno scorso dal quotidiano la Nuova Sardegna, il sostituto procurato di Tempio, Riccardo Rossi, aveva avviato un’indagine giudiziaria per stabilire la destinazione e la sorte finale del carico, decisione alla quale il governo ha reagito apponendo sulla vicenda il segreto di Stato, azione di norma intrapresa in casi eccezionali.

E’ comunque certo che il materiale è stato trasportato fino a Civitavecchia su due navi passeggeri della Saremar e della Tirrenia, via Maddalena, Palau, Olbia, e che una volta arrivato nel continente è svanito nel nulla. C’è chi avanza comunque l’ipotesi che le armi, che secondo quanto disposto dal tribunale di Torino dovevano essere distrutte, siano state spedite in Cirenaica per aiutare il Consiglio Nazionale di Transizione libico; un’eventualità confermata dallo scoop di Globalist.ch sulle spedizioni di materiale bellico fatte fin da marzo dal governo italiano ai ribelli di Bengasi.

L’arsenale era stato sequestrato il 13 marzo 1994, quando era stato rinvenuto all’interno della Jadran Express, nave intercettata a largo del Canale d’Otranto da una corvetta italiana assegnate alle operazioni Nato nell’Adriatico. Il cargo, battente bandiera maltese, apparteneva a una compagnia croata di proprietà del milionario russo Alexander Zhukov; secondo i documenti di bordo il carico era ufficialmente composto da 509 container, dei quali 416 vuoti e 96 carichi di cotone e rottami di rame.

In realtà, all’interno della Jadran vennero rinvenute 2 mila tonnellate di armi di provenienza russa, stipate in 133 container per un valore 200 milioni di dollari. La nave era stata localizzata grazie ad un segnalatore satellitare sistemato all’interno di uno di uno dei container caricati ad Odessa: la trappola, di cui era al corrente l’MI6 britannico, era opera del capo del controspionaggio ucraino (Sub), Volodymir Kulish. Fu l’intelligence inglese a passare l’informazione ai servizi italiani e questi alla Nato. Una volta sequestrato, il carico d’armi venne trasferito nelle gallerie di Santo Stefano.

Il nome della Jadran Express tornerà alla luce nel 1998, quando a Parigi verrà arrestato per riciclaggio un uomo d’affari ucraino, un certo Dmitri Streshinskij, amministratore della Sintez ltd e della Global Technologies International, aziende dell’ex Urss in mano al miliardario Alexander Zhukov. Tra il 1992 e il 1994 Streshinskij aveva acquistato tonnellate di armi dalla Progress di Kiev, la società incaricata dal ministero della Difesa ucraino per la vendita del proprio arsenale: missili, razzi, rampe di lancio, fucili mitragliatori, munizioni e tutto ciò che fosse possibile caricare sui cargo e che con false documentazioni avrebbero poi raggiunto i porti della Croazia e insanguinato i Balcani.

Nell’agosto 1999, grazie alle indagini della Dia, si scopre inoltre che a Taranto giace ancora il carico “dimenticato” della Jadran, 2 mila tonnellate d’armi che la procura di Torino mette subito sotto sequestro. Intanto, mentre il ministero della Difesa inizia il trasferimento dell’arsenale all’isola di Santo Stefano, Streshinskij è tornato in libertà; rintracciato in Germania viene nuovamente arrestato. Patteggiata una pena di quasi due anni, l’ucraino inizia a collaborare e a fare i nomi dei presunti complici, insospettabili finanzieri e potenti imprenditori petroliferi di mezza Europa.

Tra loro ci sono il belga Gedda Mezosy, il greco Kostantinos Dafermos e i russi Leonid Lebedev e Alexander Zhukov, che viene arrestato a Olbia mentre sta cercando di raggiungere la sua lussuosa villa a Romazzino. Al processo, iniziato nell’ottobre 2002, il capitano della Jadran Express farà però cadere tutte le accuse per difetto di giurisdizione, dichiarando che la sua nave avrebbe dovuto raggiungere la Croazia senza fare scalo a Venezia: un traffico estero su estero che permetterà a Zhukov e ai suoi amici di essere assolti.

Come stabilito nel 2006 dall’autorità giudiziaria, gli armamenti sequestrati nel 1994 sulla Jadran Express e trasferiti a Santo Stefano, avrebbero dovuto essere distrutti; da allora a oggi non risulta tuttavia che abbiano mai raggiunto una località idonea a tale scopo. La Nato, come dichiarato dal portavoce Oana Lungescu, non vuole essere coinvolta, ma aldilà delle questioni legate alla sicurezza, l'intera vicenda ripropone comunque non pochi quesiti.

In un interessantissimo articolo diffusa da Globalist.ch, Ennio Remondino ripropone lo scoop sulle armi fornite clandestinamente ai ribelli di Bengasi, pubblicato sul network di informazione indipendente il 4 luglio scorso. Ripercorrendo gli avvenimenti, Remondino rivela il retroscena politico che avrebbe portato l’Italia ad essere la prima nazione a fornire segretamente le armi agli insorti della Cirenaica.

Tutto partirebbe da quando a febbraio il governo Berlusconi si è reso conto che continuare ad appoggiare Gheddafi era diventata una posizione insostenibile: ad organizzare un’operazione congiunta con l’ambasciatore libico a Roma, il potentissimo Abdulhafed Gaddur, garante di un accordo con il Consiglio Nazionale di Transizione, ci avrebbero pensato il ministro Frattini e il sottosegretario Gianni Letta.

Fu insomma un cambio di campo pagato con una sostanziosa fornitura di armi e un pacchetto di garanzie personali in favore di alcuni personaggi della resistenza libica. Il primo di una serie di carichi di armi, su uno dei quali è stata aperta un’inchiesta della magistratura, risalirebbe a inizio marzo, arrivato a Bengasi con la nave Libra della Marina Militare.

“Aiuti” che tra l’altro potrebbero essere partiti proprio dall’isola di Santo Stefano, che avrebbero incluso parte del vecchio arsenale ex Gladio e che sarebbero arrivati in Libia grazie a un’eccezione alle norme di legge, fatta nell’interesse dello Stato e tutelata dal “Segreto di Stato”.

di Eugenio Roscini Vitali

25 luglio 2011

Barack Obama: lo Zio Tom e il suo potere




Dove sono finite le caramelle con il faccione di Obama? Le spille? E le magliette con scritto l’onirico “Yes we can”? Il mondo fatto di tolleranza, amore e pace che sembrava dovesse creare il democratico presidente di colore…dov’è? Nessuna traccia.
L’american dream costruito a tavolino sulla figura del presidente statunitense Barack Obama sembra essersi magicamente dissolto. Le sue conseguenze politiche e sociali restano, però, davanti agli occhi di tutti.
Quando lo Zio Tom, scalzando il vecchio e arrugginito Sam, vinse le elezioni presidenziali, il 4 novembre del 2008, si formarono delle aspettative attorno al suo “logo”, perché di questo si tratta, dalla portata inimmaginabile. Dopo il cowboy guerrafondaio W.Bush, l’insediamento di un nuovo presidente, democratico e per di più nero, era l’apice della “democrazia”. Ci veniva raccontato che finalmente si sarebbe aperto un nuovo ciclo, un mondo di speranza e pace. E fu proprio su questa frettolosa e illusoria analisi, che il settimanale statunitense “Time” lo elesse “persona dell’anno” nel 2008. Nel 2009, addirittura, ricevette il Premio Nobel per la Pace. Si creò una vera e propria “Obama economy”, fatta di prodotti tangibili e non. E tutto ciò senza fare assolutamente niente di reale, ma vendendo un sogno. Già, un sogno. Che a distanza di tre anni, però, dietro la maschera, caduta in terra si è rivelato in tutto e per tutto un incubo permeato da ingiustizie.
In fondo si sa: ci vuole poco per vendere fumo agli americani. Ma in generale a tutto il mondo. E chi ha costruito la figura di Obama, lo sapeva perfettamente. Al momento dell’insediamento ci furono grandi discorsi e promesse sul ritiro delle truppe dall’Iraq e dall’Afghanistan e subito qualche mossa volta ad innalzare la già osannata “democraticità” del presidente, come quando fu scelta Amanda Simpson, transessuale, a ricoprire un incarico nell’amministrazione alla Casa Bianca. Ma tutto, mano a mano, prese una piega diversa.
“Yes we can…”, sì noi possiamo salvare le banche d’affari. Deve essere stato questo lo slogan quando lo Zio Tom decise di salvare, appunto, la Goldman Sachs con 7,5 miliardi di dollari, soldi dei cittadini americani, nonostante avesse speculato in modo massiccio. Tutto inserito in un “piano di rilancio dell’economia statunitense” assolutamente fallimentare, come il programma di ristrutturazione dei mutui ipotecari. Un pacchetto di misure che, ancora ad oggi, contribuisce ad acutizzare la crisi finanziaria in atto. Il “democratico” presidente, fra l’altro, spera che ad un possibile crollo finanziario degli States, corrisponda anche un crack europeo per evitare che l’Euro prenda terreno sul dollaro.
Poi fu il turno della riforma sanitaria, uno dei capisaldi dell’amministrazione democratica: nel 2010, il presidente Barack Obama firmò la legge della riforma sanitaria, giudicata poi incostituzionale a fine anno da un giudice dello Stato della Florida. Ed ecco il coro: “sono i repubblicani, sono le lobby che non vogliono far passare la riforma!”. La riforma prevede l’aumento del numero di persone tutelate dal sistema sanitario (32 milioni in più). Tutto giusto, se non fosse che il disegno di “sanità allargata” prospettato da Obama fu un altro american dream falso e tradito. Perché l’allargamento della tutela deve passare per le compagnie assicurative, tenute a offrire proposte adeguate alle classi più deboli che avranno, però, l’obbligo di contrarre una di queste polizze se non vorranno incappare in sanzioni amministrative. In definitiva, i maggiori beneficiari sono le lobbies assicurative che allungano i tentacoli sull’economia di una fetta maggiore di cittadini. C’è da stupirsi? No, se si pensa che queste lobbies sono le stesse che hanno finanziato la campagna elettorale di Obama.
Stessa girandola di promesse, non mantenute, anche dopo la tragedia della marea nera nel Golfo del Messico. Gli ambientalisti si erano tutti stretti attorno allo Zio Tom che, davanti a quella catastrofe, aveva promesso che non ci sarebbero mai più state trivellazioni pericolose in quelle zone. Un altro “yes we can” andato a mare. Nel maggio del 2011 sono state consentite nuove trivellazioni sia in Alaska che nel Golfo del Messico.
Sulla politica estera si era riposta grande fiducia sullo Zio Tom. Ecco i risultati: in primis non ha mai modificato, come aveva promesso, il Patriot Act, voluto da W.Bush, che rafforza il potere dei corpi di polizia e di spionaggio statunitensi e consente costanti violazioni della privacy dei cittadini, tutto in nome della sicurezza e della prevenzione nei confronti della minaccia terroristica. Il ritiro dalle guerre? Dall’Iraq tutto tace, mentre dall’Afghanistan ci sarà un ritiro graduale entro il 2012. Ma intanto il vento di guerra continua a soffiare. Dopo i “bombardamenti umanitari” in Libia, il “presidente di tutti” si appresta a varcare qualche altro confine. Per il prossimo anno, infatti, è stato varato un bilancio della difesa record: 649 miliardi di dollari in nuove armi e missioni di guerra, 17 miliardi in più di quanto previsto nel budget 2011. Si pensi inoltre a tutti i benestare di Obama a guerre cruente e meschine: una su tutti quella in Costa D’Avorio dove lo Zio Tom ha salutato l’arresto di Gbagbo come “una vittoria per la democrazia”. Il mantenimento della prigione di Guantanamo, dove ogni giorno vengono violati diritti umani; il silenzio assenso sulla sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti secondo la quale i contractor, artefici delle torture ad Abu Ghraib, godevano di un’immunità speciale concessa dal governo Usa; il continuo sabotaggio di una possibile costituzione di uno Stato palestinese. E tutto mentre il debito americano sale a 14.400 miliardi dollari. Ma, intanto, lo scorso aprile lo Zio Tom ha detto che si ricandiderà. Ipotesi rafforzatasi quando il 2 maggio venne ucciso Bin Laden in una operazione che, ancora oggi, suscita parecchie perplessità.
Si badi, però, che nonostante la rivoluzione Obama sia un clamoroso fallimento dal punto di vista politico, Obama “logo” ha comunque vinto. Come? Con la creazione di un sogno talmente potente da poter far dimenticare tutto il resto. Instillare nella mente di un popolo globale, vittima dei media, una forma di democraticità visiva assoluta, come nel caso di Obama, permette di compiere ciò che prima non si sarebbe potuto fare senza evitare proteste o indignazioni. Attaccare le politiche dei Bush di turno era fin troppo facile. Bisognava costruire un nuovo presidente che sin dal primo impatto fosse inattaccabile. I discorsi, gli slogan, le promesse sono tutto un contorno di un prodotto costruito e venduto per offuscare la mente e penetrare dove prima non si poteva arrivare.
Le politiche di Obama sono le stesse dei suoi predecessori, non c’è stato nessun “mondo nuovo”, ma è cambiato il sentire comune. Ecco la vittoria, l’obiettivo dello Zio Tom che è riuscito a costruirsi un bunker di immagine impenetrabile.
La dimostrazione di quanto detto si palesa nella assenza di protesta. Dove sono finiti i grandi movimenti pacifisti? I no global? Tutti stregati dal sogno perché anche loro, pur negando, ne fanno parte. Dove è finita la rabbia nei confronti dell’imperialismo americano? E le manifestazioni contro l’establishment a stelle e strisce? Le piazze sono vuote e l’indignazione è scemata. E una delle cause è proprio la figura mediatica di Obama. Attaccare un nero? Paragonarlo ad un dittatore? Affermare che il suo sogno in realtà si è sgretolato? Che quel paradiso made in Usa, in realtà, non esiste? Che il mondo è stato preso in giro? Sarebbe osare troppo per il gregge di pecore dei nostri giorni. Mai come per Obama, il mercato economico mediatico che fa da contorno al presidente della Casa Bianca, è stato così potente e così minuziosamente progettato. Si è riusciti a vendere un’utopia che, ancora oggi, condiziona il pensiero delle persone. Obama, in definitiva, è un marketing studiato, elaborato e venduto, un prodotto che rappresenta tutto il potere mediatico, politico e illusorio della “democrazia” americana.
di Claudio Cabona

24 luglio 2011

Stress test e contenzioso sommerso






La scorsa settimana abbiamo avuto comunicazione che Bankitalia – BCE hanno eseguito lo stress test sulle 5 maggiori banche italiane, e che tutte lo hanno superato. Quanto vale questo risultato e il metodo che lo ha prodotto? Perché i mercati l’hanno bocciato, affondando le azioni bancarie?

Base degli stress test, ossia dei test di solidità delle banche rispetto a possibili shock finanziari, è la consistenza patrimoniale delle banche medesime. Il grosso dell’attivo patrimoniale delle banche è dato, ovviamente, dai crediti verso i clienti e verso gli stati. Quindi il punto di partenza di ogni stress test dovrebbe essere la verifica dell’effettiva sussistenza dei crediti vantati in portafoglio, e del grado di solvibilità dei rispettivi debitori.

Gli stress test sinora condotti, a quanto si capisce, si basano sui dati di bilancio dichiarati dalle banche stesse, e non verificano se essi siano veritieri oppure no: vedi il press release 23.07.11 della BCE. Eppure, molti, recenti e clamorosi episodi di crack finanziari hanno dimostrato che sovente le grandi società (Parmalat, Halliburton, Lehman Brothers), così come fanno le piccole, al fine di ottenere o mantenere crediti o investimenti, dichiarano dati molto migliori di quelli reali. Sappiamo inoltre che tutte le società sono in grado di aggiustare i bilanci, quando serve, e che molte lo fanno (window dressing). Quindi il prendere per veri i dati dichiarati dalle banche che si dovrebbe controllare rende gli stress test pressoché inutili, come certificazione di solidità delle banche che lo superano. Se poi si deve controllare se una impresa sia solida oppure no, cioè se si vuole fugare il dubbio che sia pericolante, pretendere di farlo basandosi sui dati che essa stessa dichiara è ridicolo, è un controsenso come chiedere all’oste se il suo vino è buono.

La conseguenza è che l’esito degli stress test non è stato rassicurante. Gli esperti sanno che chi li esegue non esegue prima un controllo analitico e in proprio soprattutto della qualità e consistenza dei crediti che ciascuna banca ha iscritto nello stato patrimoniale, nonché delle garanzie che essa ha prestato per debiti di altri soggetti (solitamente, società-veicolo da essa controllate) e che sono, o dovrebbero essere, esposte nei conti d’ordine. Ricordiamo che la mancata considerazione di tali fattori di rischio da parte di analisti, società di revisione e autorità finanziarie è stata decisiva per i crack-frodi delle banche americane degli ultimi anni. Vedremo se in Italia si imparerà da quella lezione.

Nella realtà delle nostre banche, in effetti, mi risulta che molti crediti sono stati cartolarizzati, cioè ceduti dalle banche a società terze, ma, allo scopo di simulare una maggiore patrimonializzazione, vengono mantenuti contabilmente nell’attivo patrimoniale col pretesto che le banche partecipano le società cessionarie. Molti altri crediti sono mantenuti in bilancio come esigibili dalle banche, mentre i debitori sono morosi o addirittura insolventi. Traspare un mare di contenzioso sommerso, che le banche, ovviamente nel proprio interesse, non mettono in sofferenza.

Per fare stress test attendibili, bisognerebbe dunque prima controllare seriamente, con apposite ispezioni della Banca d’Italia, i conti delle banche interessate, togliere dallo stato patrimoniale i crediti convogliati su società veicolo non cedute, togliere quelli inesigibili, ed eseguire gli accantonamenti per quelli da incaglio (accantonamento pari al 35% del credito) e per quelli da contenzioso (accantonamento pari al 50%). Altrimenti i dati patrimoniali del bilancio sono falsi per supposizione di attivi inesistenti e occultamento di passivi esistenti. E ciò, dentro il mondo bancario, è ben noto. Onde la sfiducia verso operazioni di rassicurazione anche se blasonate.

Molte banche, di prassi, a quanto mi si riferisce, in violazione delle disposizioni di Bankitalia, non fanno le suddette quattro operazioni, perché se le facessero la loro patrimonializzazione si ridurrebbe a livelli di default o perlomeno critici per l’operatività. E qui ritorna l’incompatibilità logica di banche e loro controllanti o partecipate, che da un lato dovrebbero essere controllate e disciplinate da Bankitalia, mentre dall’altro lato la controllano come socie. Questo problema si estende alla BCE, partecipata da Bankitalia e co-autrice degli stress test.

Le società di revisione, che dovrebbero assicurarsi che le banche formulino bilanci veritieri, che rispettino le predette disposizioni e che facciano gli accantonamenti, si rivelano poco attive, se è vero quanto sopra riferito. Per farlo, dovrebbero prendere in mano le singole pratiche, o almeno i tabulati integrali. Ma lo fanno? La Consob, che istituzionalmente ha il dovere di vigilare su di loro, dovrebbe farsi più attenta e penetrante. I controlli devono essere credibili, devono farsi sentire, oppure…

Per fare le cose seriamente, propongo di mandare ispezioni a sorpresa nelle filiali e nelle sedi centrali, richiedendo i tabulati completi dei crediti in essere, con indicazione delle cessioni , per verificare se siano state eseguite o no le debite rettifriche; delle morosità, per verificare se siano stati fatti gli incagli, le segnalazioni e gli accantonamenti prescritti; ma anche per richiedere le pratiche dei debitori ammessi a “benefici” quali dilazioni, sospensioni, differimenti delle rate o degli interessi, onde verificare la condizione patrimoniale e reddituale dei debitori beneficiari, imprese o privati che siano.

Queste sono tutte agevolazioni sponsorizzate dal governo a vantaggio sì dei consumatori-clienti ma anche delle banche, che beneficiano della regolarizzazione figurativa delle posizioni debitorie nel sistema differendo di anni la loro problematicità e ricavandone un’ottima immagine, un’immagine di competenza e coscienziosità e solidità, da spendere anche politicamente.

Infatti molto spesso tali benefici sono mascheramenti di morosità e posizioni insolventi, che andrebbero cancellate dall’attivo patrimoniale o quantomeno controbilanciate con accantonamenti del 35% o del 50% a seconda dei casi. Benefici del tipo “sospensione per 24 mesi dei pagamenti” comportano, per chi è già moroso di massimo 12 rate, che la mora si faccia figurare sanata mentre non lo è, e che altre 12 rate a scadere, che pure non saranno pagate, figureranno pagate. Poiché tali benefici sono stati applicati a milioni di soggetti, se si dovesse sollevare la foglia di fico che essi costituiscono, salterebbe fuori un mare di morosità e inesigibilità di crediti, che pure dovrebbero essere tolti dall’attivo patrimoniale delle banche, o controbilanciati coi predetti accantonamenti. Ma la sospensione finisce, prima o poi, e allora il marcio riaffiora o riaffiorerà. E questa è una mina a scoppio ritardato, che, frazie anche agli incoraggiamenti del governo, ci ritroviamo nella pancia.

Il risultato di tutte queste operazioni di correzione dei bilanci, di riduzione di attivi fasulli, sarebbe, verosimilmente, il crollo del settore bancario italiano, in quanto illiquido e decotto, gonfio di crdditi inesigibili o ceduti. Se e quanto la cosa emergerà, la capitalizzazione delle banche italiane quotate, già scesa da 222 a 75 miliardi in 4 anni nonostante i cospicui aumenti di capitale, potrebbe scendere alle più oscure profondità. Evitare o rinviare questo esito, è forse l’unica giustificazione del maquillage detto stress test: se non si maschera lo stato di decozione delle banche, succede il disastro, qualcosa che la politica non saprebbe governare.

Il vecchio carrozziere in pensione, davanti a cui ho letto e corretto il presente articolo, annuisce e conferma: “Sì, ricordo di quando venivano da me gli ispettori della banca centrale a farsi riparare le loro vetture private richiedendomi di fatturare come se avessi riparato automobili delle banche che erano venuti a controllare, su indicazione e precisi accordi con le direzioni di queste. Può immaginare l’attendibilità di quei controlli.”

La via per ristabilire, insieme, la verità economica e l’affidabilità delle banche, esiste, ma è contraria agli interessi dei banchieri, perché espone la natura della loro attività, e qui l’accenno solamente (ampiamente ne ho parlato nei saggi Euroschiavi e La Moneta Copernicana): essa inizia col rilevare che sono omissive le annotazioni di uscita di cassa e di entrata ( ”accensione” ) di un credito che accompagnano l’erogazione ( di crediti) da parte delle banche, perché non riportano che ciò che esce di cassa – il credito, la moneta bancaria – non preesiste all’erogazione, ma è creato dalla banca stessa. mediante l’atto dell’erogazione di credito. Quindi il corrispondente credito con essa generato non è controbilanciato dall’uscita di cassa di denaro o valore preesistente, ma è un ricavo netto, cui si sommeranno i pagamenti di interessi. I risultati di gestione e lo stato patrimoniale dovrebbero essere rivisti di conseguenza. E anche le tasse applicabili alle banche, naturalmente. In tal modo il problema della patrimonialità delle banche sarebbe radicalmente superato, e insieme quello della finanza pubblica. Ma far emergere questi redditi occulti presupporrebbe la rinuncia a usare, come oggi si usa, la moneta e il credito come strumenti per dominare la società e l’economia, anziché per fare il loro bene favorendo loro sviluppo.
di Marco Della Luna

23 luglio 2011

La vogliamo finire con gli indugi?

E’ da quasi vent’anni che ci raccontano balle a non finire; non nel senso che tutto quanto viene detto è pura menzogna, ma si deviano gli obiettivi, si cerca di nascondere quali sono quelli reali. Nel ’92, gli Usa (quelli di Clinton) attaccarono in pieno il regime Dc-Psi in Italia, coadiuvati dalla Confindustria agnelliana, i “poteri forti” sempre in auge, quelli che – tenendo conto che dalla prima rivoluzione industriale siamo passati alla terza ed è trascorso un secolo e mezzo – corrispondono ai cotonieri del sud degli Usa, il cui “seppellimento” (in senso spesso letterale) è stato il vero atto di nascita della potenza Usa. Noi non abbiamo la pretesa di divenire quello che sono diventati gli “oltreatlantici”, ma un bel “seppellimento” di tali “poteri forti” – con i loro corifei pseudo-politici – sarebbe l’autentico toccasana per questo paese.

Invece no, si fanno manovre antipopolari (anti-ceto medio e medio-basso soprattutto). Ci si racconta della speculazione dei cattivi finanzieri, ci si scatena contro la Casta. Quest’ultima va aggredita non tanto nei suoi privilegi, ma nei settori che più sono manutengoli dei poteri forti e degli Usa (quelli di Obama, eredi di quelli di Clinton). Anche vent’anni fa ci si disse (sia chiaro, era in parte vero, non voglio difenderli) che i politici erano tutti ladroni. Si salvarono però i rinnegati, quelli che avevano già negli anni ’70 (anche attraverso opportuni “viaggi”) tradito il loro “campo d’origine”, ma che poterono manifestare apertamente il loro voltafaccia solo al crollo del socialismo e dell’Urss, in casuale ma opportuna coincidenza con l’ascesa degli ambienti statunitensi rappresentati da Clinton.

I rinnegati erano ladroni come gli altri, ma una magistratura addomesticata li salvò (qualche ingenuo, che credé di poterli perseguire, ricevette l’opportuna “lezione”). La magistratura era però strumento d’oltreoceano e dei “poteri forti”, i nostri “cotonieri” che non ricevono mai la lezione definitiva impartita ai “confederati” nel 1861-65. Nei primi anni ’90, il crollo repentino del campo socialista implicò la fretta del “colpo di Stato” mascherato da giustizia e l’altrettanto frettoloso passaggio di campo dei rinnegati (che l’avevano compiuto già da anni, ma si erano tenuti nascosti come fanno tutti i furfanti di bassa tacca). Si presentò questo “naso di Cleopatra”, cioè questo “accidente storico” che fu Berlusconi, e il piano originario fallì. Allora apriti cielo! Vent’anni di inganni e prese in giro. Ogni secondo momento vi era l’ascesa del “fascismo” (berlusconiano), dall’altra parte agivano ancora “comunisti” e “toghe rosse”.

Un rimbecillimento totale, che oggi si ripete con l’attacco alla Casta, fonte di tutti i mali. Nessuna difesa di quest’ultima. Sarei felice se venisse un gruppo politico capace di spazzarla via e di portare i “bivacchi” in Parlamento; non è però questo il reale obiettivo finale. Bisogna spazzare via i nostri cotonieri, bisogna tagliare le unghie ai burattini degli Usa di Obama che, eredi di quelli di Clinton, vogliono ora concludere l’operazione non riuscita allora. Difficile sapere i mezzi adottati per appiattire completamente il nostro premier attuale (non credo per molto tempo ancora), che è ormai ridotto a dire: “non volevo fare questo o quello”, “l’avevo detto che ci si imbarcava male” e cose consimili. Ormai non conta nulla; è tenuto in piedi dalla Casta (in cima alla quale c’è chi non si può nemmeno nominare a dimostrazione di quale democrazia esista oggi in Italia) perché così vuole il “bell’abbronzato”, tenuto conto che non c’è alcun repentino crollo di un (ormai inesistente) polo avverso; di conseguenza, nessuna fretta di approfittare della situazione. Si può procedere con calma, con qualche mese di tempo (o forse qualche settimana o forse molti mesi). Impossibile fare previsioni esatte; l’importante è stavolta preparare bene il “poppolo” a prenderla in c…. senza che arrivino altri “accidenti storici” e si becchino i voti dei “moderati”.

Tanti sono i conniventi: alcuni consapevoli in quanto autentici sicari degli Usa di Obama e dei nostri finanzieri e industriali del piffero, parassiti che bisognerebbe disinfestare come il nord fece con i cotonieri del sud negli Usa ottocenteschi; altri invece sciocchi nel loro opportunismo, tipo i leghisti, pronti a reimboccare la strada giustizialista di vent’anni fa, che non porterà loro nulla di buono. Solo qualche loro personaggio, fattosi fama alla guisa di Erostrato, passerà alla fine con i vincitori (sapete già i nomi di alcuni di questi bei tomi, no?). Perché un altro degli inganni, utili a fregare questo “poppolo” di rincoglioniti, è quello del dissidio nord-sud. Adesso si è trovato il pomo della discordia nella “monnezza”, ma si rinfocolerà sempre l’astio; i “nordici” stufi di certi indubbi comportamenti odiosi dei meridionali, questi ultimi che, altrettanto giustificatamente, avversano gli atteggiamenti di superiorità dei primi. Alla fine, chi metterà tutti d’accordo sarà l’Inno di Mameli, la ritrovata (nella retorica degli affossatori del paese) Unità d’Italia, la Costituzione, che ormai hanno fatto diventare odiosa perché chi la difende è odioso, è ipocrita, ci sta svendendo agli Usa di Obama (e ai “cotonieri” italiani).

Occorre uno sforzo per ripercorrere gli ultimi vent’anni, cercando di riportare alla luce l’attività dei rinnegati e liquidatori del paese, quelli che dovrebbero essere processati per alto tradimento. Occorre riandare agli anni cruciali del dopoguerra, soprattutto al decennio ’70 (perché qui si annida il “serpe” che continua ad avvelenarci). Purtroppo hanno celato tutto dietro spesse cortine fumogene. Cominciamo a lanciare altre ipotesi rispetto a quelle della schiera dei traditori, che in quegli anni prepararono le svolte da cui si è originata l’infezione degli ultimi vent’anni e l’attuale cancrena; azione favorita da un laido ceto intellettuale di “estrema sinistra”, fonte della purulenza che ci avvolge e che trasuda dalla stampa, dall’editoria, dai mass media. Lanciamo sempre il nostro appello favorito : vogliamo infine il Grande Chirurgo, che operi e amputi il paese di tutto il marciume politico e intellettuale. Noi siamo però “piccini”. Cominciamo quindi dal poco, dal mettere ordine in certi eventi.

Smettiamola, se possibile, con questa diffidenza che sta bloccando utili rapporti. Abbiamo provenienze (politiche, ideologiche, ecc.) diverse, ma non sono pochi quelli che avvertono il malanno che ci ha colpiti. E poi, detto esplicitamente: perfino tra coloro, che in fondo si sentono ancora vicini agli Usa, ci sono individui per nulla d’accordo con i farabutti, nostri seviziatori. Abbiamo per troppo tempo agito in modo un po’ manicheo, con mentalità da computer, o sì o no; non è così, siamo entrati in un’epoca di grandi sfumature e di colori cangianti a seconda del tempo “meteorologico” e dell’angolo di incidenza della luce.

di Gianfranco La Grassa -

22 luglio 2011

La “sovranità”, questa sconosciuta

Diciamocelo francamente: nelle differenti nazioni europee, di fronte alla “crisi”, ciascuno scrive e dice la sua sul modo più adeguato per uscirne, ma pressoché inesistenti sono le voci che si ergono per rivendicare la precondizione necessaria per poter dare una parvenza di realizzabilità a qualsiasi delle ‘ricette’ proposte…

Tra costoro vi è difatti chi auspica maggiori dosi di “società civile” e di “democrazia dal basso”, chi rivendica le ragioni del “socialismo”, variamente declinato, chi sostiene invece che dovremmo “decrescere” e “tornare alla natura”, chi addirittura ci ripete che non siamo abbastanza “liberali” e “liberisti”, quindi non sufficientemente “moderni”; chi infine, considera – certo con maggior acume – che, in fondo, questa “crisi” a tutti gli effetti planetaria è “di civiltà”, ma poi, in luogo di una dottrina e un esempio di carattere spirituale, ci sciorina la sua “ideologia religiosa” scambiando la “conversione interiore”, ovvero la metanoia[1], per una facile ricetta politica che d’incanto dovrebbe risolvere tutti i mali: “la soluzione è l’Islam!”, ripetono i fautori del cosiddetto “Islam politico” che tanto da scrivere danno ai cosiddetti “esperti d’Islam”.

Tutti, certo in varia misura, hanno una qualche ragione e colgono alcuni aspetti importanti, ma nelle loro argomentazioni, che è possibile quotidianamente leggere in svariati giornali e siti internet, vi è un grande assente, caduto nell’oblio più profondo: la sovranità.

Sovranità “nazionale” o “continentale” (la differenza non è di mero dettaglio), qui, ai fini del discorso che intendiamo svolgere, poco importa[2]. In primo luogo, manca nella maggioranza delle persone, in Europa, nel cosiddetto “Occidente”, l’anelito ad essere signori sulla propria terra; a non dover rinunciare, a beneficio di estranei, a questa prerogativa; a detenere insomma il possesso delle “chiavi di casa”!

Il nocciolo della questione del “comandare a casa propria” non sta però negli sbrigativi e roboanti termini posti da movimenti “identitari” sorti un po’ dappertutto in Europa dopo la fine del blocco sovietico. Sebbene non sia il caso di liquidare le loro rivendicazioni con la classica spocchia del “radical chic” che ostenta un monopolio della moralità, va detto che tutto il loro infuriarsi contro lo “straniero” è tutto fumo e niente arrosto, perché alla prova dei fatti, anche dove governano loro (vedasi l’Italia, con la Lega Nord) la patria vede crescere esponenzialmente la presenza di stranieri sul proprio territorio, né – ed è la cosa più grave per chi ripete di continuo “padroni casa nostra”! – dice mai mezza parola sulla presenza del suolo patrio di oltre cento basi ed installazioni Usa/Nato. Mai mezza parola, il che è strano davvero, perché non si vorrà certo credere che in Italia, ad esempio, comandino i marocchini (o gli “islamici”, termine appositamente coniato per rinfocolare l’islamofobia)!

Ma questi, come tutti gli altri, sono i politici, gente navigata per tutte le stagioni, che fiuta la rogna insita nel sollevare il problema “basi Usa/Nato in Italia”, per non parlare di tutta quell’influenza a vari livelli stabilita tramite “corporation”, finanza, media e, non ultime, le ambasciate (come dimostrato in questi giorni in Siria, dove il locale ambasciatore statunitense è stato pescato in combutta coi “manifestanti”).

Stabilito che non è né giusto né sostenibile alla prova dei fatti un afflusso di stranieri quale quello che viene sopportato dalle nazioni europee[3], e rilevato che agli occhi dell’immigrato l’Italia, la Spagna, la Francia eccetera esistono solo come “opportunità”, né provoca il lui alcuno sgomento l’attuale condizione di servilismo verso interessi antitetici rispetto a quelli della comunità nazionale che lo ospita (l’ultimo scandalo, in ordine di tempo, è la partecipazione all’aggressione alla Libia), vi è da dire che tutto il bla bla che si fa sulla “uscita dalla crisi” non porterà assolutamente a nulla se non si affronterà per prima cosa l’istanza che sta alla base di un’azione politica fattiva ed incisiva: la questione della sovranità.

Chi dovrebbe però sollevarla una volta per tutte? I politici no di certo, perché in questa situazione ci sguazzano alla perfezione, visto che, quand’anche l’attuale “crisi” si trasformasse in uno “tsunami” essi cadrebbero sempre in piedi, poiché le ricette “lacrime e sangue” sono sempre a carico del gregge da tosare e non a loro carico, rappresentando la tipica casta di “nababbi” rimpinzati a dovere dai loro padroni (la finanza apolide) affinché svolgano fedelmente il compito assegnato loro[4].

Né gli immigrati, come detto, per i quali il problema non sussiste. Vengono in Europa per trarne i maggiori benefici economici e sociali possibili, ma se poi l’Italia o altre nazioni sono delle mere entità geografiche villaneggiate da tutto e tutti ciò non li turba affatto. Anzi, buona parte di costoro s’illude di essere sbarcata nel Paese di Cuccagna della “libertà”, della “democrazia” e dei “diritti umani”, finendo per credere alla propaganda degli stessi che hanno affamato le loro patrie e creato così le premesse per la loro emigrazione!

Rimane, pertanto, l’autoctono, l’italiano, il greco, lo spagnolo, il portoghese eccetera che però è stato “educato” con dosi da cavallo di “antifascismo”, che scavando nel profondo provoca vergogna di se stessi e di quel che di buono è stato fatto, se non addirittura “odio di sé” e delle proprie origini[5]. Il prodotto di un simile certosino condizionamento induce i più a credere che la pretesa di vivere in una nazione sovrana ineluttabilmente proporrebbe una riedizione del “male assoluto” dell’era contemporanea... In questo clima malato, siamo certi che un governo che, chissà per quale miracolo, riprendesse le redini della politica monetaria e delle sue forze armate verrebbe immediatamente tacciato di “fascismo”, eppure ciò è una cosa ben strana, perché tra le prerogative della sovranità vi sono appunto il “battere moneta” e il “monopolio della forza”! Invece, nelle odierne liberal-democrazie la moneta è in mano a noti – e ripetiamo noti - privati che la prestano allo Stato ad interessi usurai, mentre le forze armate, con la scusa della “guerra al terrorismo” (“islamico”!), sono utilizzate da un capo all’altro del mondo – con costi sempre più elevati per la comunità nazionale – a difesa degli interessi della medesima genia di sfruttatori del genere umano che campa sull’usura. Attività che, è doveroso ricordarlo, è stata interdetta da tutte le tradizioni ortodosse, compresa quella islamica, ed è anche per questo che si dannano così tanto per presentare male l’Islam e il Corano…

Rebus sic stantibus, Italia, Spagna, Grecia, Portogallo eccetera sono delle mere finzioni, o convenzioni, dato che nessuno governo “italiano”, “spagnolo”, “greco”, “portoghese” eccetera è in grado – quand’anche lo volesse – di far valere la sovranità nazionale, in qualsiasi campo d’interesse pubblico. Questi “governi nazionali” convenzionali sono insediati (votati dagli allocchi e da chi ha un interesse clientelistico) solo per far sì che la massa bovina venga vessata dalla mattina alla sera, spolpata con tasse e balzelli sempre più esosi, ingabbiata con una rete capillare di leggi sempre più incomprensibili e promulgate ad un ritmo parossistico; il che, se si aggiunge allo scollamento sociale provocato anche dall’eccesso di immigrati sul suolo nazionale (ma anche dal disastro di civiltà in atto), configura una situazione in cui non è eccessivo affermare che i “governi nazionali” sono messi lì per fare sistematicamente la guerra alle popolazioni da essi “governati”.

E se anche un sussulto di dignità provenisse da un “pazzo” emerso dalla servile classe dirigente, subito il circo mediatico, questa autentica macchina da guerra in mano agli stessi potenti apolidi usurai, si metterebbe a screditarlo come “fascista”. Quel che è più tragico, è che buona parte della popolazione autoctona, come anzidetto “educata” a dovere, si accoderebbe volentieri alle lagnanze dei “media internazionali”, di cui esiste sempre una voce in loco pronta a recepirne le grida.

Eppure, a tutti costoro, “campioni di moralità”, andrebbe una buona volta ricordato come sia impossibile realizzare alcunché – anche i loro strampalati deliri utopistici – se manca il prerequisito necessario per svolgere un’azione politica fattiva: la sovranità.

S’immagini infatti un corpo umano in cui alcune parti venissero in qualche modo eterodirette: la mente dice di fare una cosa (“prendi il bicchiere”), ma la mano destra lo prende e lo getta a terra perché è governata da altri. Che cosa accadrebbe? Un uomo ridotto a questo livello impazzirebbe in poche ore. Oppure si pensi ad una persona che prima di fare qualsiasi cosa debba rispondere ad un’altra: se tra queste vi fosse anche il respirare e quella glielo impedisse, certamente soffocherebbe all’istante. Oppure, per cambiare metafora, parimenti calzante, si pensi a una casa nella quale ci appassioniamo per la scelta del mobilio, della tappezzeria e del colore delle pareti (le elezioni e le “opinioni politiche”, in pratica), ma di cui non possediamo le chiavi!

Tutte situazioni palesemente assurde, per chiunque, ma quando si tratta di passare alla politica, analoga constatazione non desta alcuno scandalo. Ciò in parte è dovuto ai condizionamenti “culturali”: decenni di “rieducazione” hanno scavato in profondo; per di più la “brutta fine” di chi ha provato ogni tanto ad alzare la testa non induce all’eroismo… Inoltre, il “clima” liberal-democratico infonde uno stato d’animo alieno rispetto a qualsiasi aspirazione alla sovranità, perché – come più volte ho rilevato – una civiltà la si misura essenzialmente nel “tipo umano” che essa forgia.

E qui ci avviciniamo al punto centrale della “questione sovranità”. Il mondo moderno, quello della liberal-democrazia (libertà, democrazia, diritti umani) è per prima cosa un sistema di vita informato secondo valori atei, che prescindono dall’esistenza di un Principio assoluto, dunque invertiti rispetto a quelli che sono i cosiddetti “valori tradizionali”. L’uomo moderno, che si compiace della sua “modernità” è un tipo umano che per prima cosa diverge da se stesso, per questo cerca costantemente il di-vertimento.

Ora, divergere da se stessi significa abdicare da quell’imprescindibile compito che il Principio, il Creatore di tutte le cose, Allâh, ha indicato all’uomo nel Libro sacro (il Corano) e nell’esempio virtuoso[6] del Suo Inviato (Muhammad) affinché egli possa fare ritorno a Lui, ed in pratica conoscere se stesso: “Chi conosce se stesso conosce il suo Signore”, recita un noto hadîth. L’uomo realizzato è essenzialmente sovrano.

Ma a chi interessa oggi essere sovrani di se stessi? Giungere a questo punto significa annullare il proprio sé egoistico, ridursi a uno zero, come concordano tutti i saggi dell’Islam, e non solo, per realizzare l’Uno. Questa “grande vittoria” è alla portata solo di pochissimi eletti, ma tutti gli altri – me compreso! - hanno quantomeno il dovere di tendere verso questo scopo, che è la signoria, la sovranità interiore. Sayyid, letteralmente “signore”, da cui Sayyidî (o Sîdî, “mio Signore”) è appunto il “santo dell’Islam”, perché egli ha conosciuto il suo Signore, pertanto solo questo “vero uomo” ha le credenziali per essere chiamato a sua volta “mio signore” dagli altri.

Intendiamoci, non si tratta di una passeggiata, perché l’ascesi è quanto di più selettivo possa esserci, il resto potendosi contraffare in tanti modi: la vera “élite” è difatti solo spirituale, mentre le altre “élite”, da quella del denaro a quella della “cultura” eccetera, sono solo contraffazioni consone all’epoca “oscura” in cui viviamo.

Certamente, un’epoca abitata da uomini che non ne vogliono sapere di conoscere il loro Signore, di ripristinare la signoria interiore, ma anzi si “ribellano” pervicacemente, non può distinguersi per un anelito alla sovranità della propria patria: l’indifferenza verso la sovranità politica è specchio di quella per la sovranità interiore…

Oggi, la maggioranza degli uomini cosiddetti “moderni” preferiscono mettersi una delle innumerevoli “maschere sociali” e recitare così una “parte” per tutta la loro vita; ma i sîdî, i mawlâ[7], hanno smesso ogni maschera scoprendo la loro vera essenza.

Perciò, un sano anelito alla sovranità (nazionale, o continentale) non può sorgere da individui in preda alle proprie passioni, immersi nel mondo della dispersione dalla mattina alla sera (e anche quando dormono!), ma solo da coloro che hanno realizzato la loro sovranità interiore per “vivere nella verità”. E certo non promana dalla verità il vivere perennemente sotto un giogo straniero, per di più se esso porta le insegne dell’usura e del traviamento degli esseri umani finalizzato a trasformare in carbone per l’Inferno le loro esistenze…

Ma quanti sono, oggi, i “signori”, i sîdî? Pochissimi, certo, né il loro compito è quello di far “politica”, così com’è inteso oggi il termine. Essi devono solo guidare gli altri uomini, indicare loro la “via”.

Tuttavia, se un numero sempre maggiore di persone, di fronte al nulla del “mondo moderno”, si renderà conto che così non è possibile andare avanti, ma è necessario affidarsi ad una “guida” per scoprire il cammino che conduce alla signoria interiore, ciò avrà senz’altro delle implicazioni anche sulla sovranità esteriore, perché la l’anelito all’autorealizzazione e l’accettazione delle convenzioni e delle falsità che sostengono l’attuale “mondo moderno” non possono andare d’accordo. Tra queste falsità vi è appunto l’idea che non si possa vivere in una nazione sovrana (preludio di uno spazio sovranazionale) senza precipitare nuovamente nel “male assoluto”.

È tempo di svegliarsi. Di uscire da quest’illusione senza speranza. È ora di smettere di aver paura e di essere finalmente uomini. Ma per far ciò bisogna affidarsi a chi è uscito dallo stato di sonno nel quale noialtri, gente comune, siamo immersi. Questa è la precondizione per far sì che anche un sano anelito alla sovranità esteriore, nei suoi aspetti fondamentali e, in fondo, “tradizionali”[8], possa riecheggiare nei nostri cuori e nelle nostre menti, facendo piazza pulita degli “idoli” del mondo interno, prima, del mondo esterno, poi (la “democrazia”, la “libertà”, i “diritti umani”, l’America, l’Occidente…)[9].

di Enrico Galoppini



[1] Conversione spirituale, ravvedimento unito a pentimento, che implica un cambiamento radicale di vita.

[2] Non è questa la sede per entrare nel dettaglio, ma basti osservare che anche una rapida osservazione di tipo storico e geopolitico degli eventi del passato c’insegna che “sovrane” possono diventarlo sono le entità sovranazionali di carattere imperiale, perché sono le sole a poter disporre dei fattori di carattere politico, demografico, economico, militare e, soprattutto, spirituale, che configurano un’autentica sovranità rispetto alle entità confinanti. Anche nell’epoca moderna, gli espansionismi di iniziali Stati-nazione moderni come l’Inghilterra, la Francia o l’Italia si sono risolti nella formazione (o nel tentativo frustrato da una sconfitta militare) di entità sovranazionali di tipo imperiale. Questo per dire che la mera “sovranità nazionale” può essere solo una base, ma non è sufficiente per risolvere la questione della sovranità stessa, altrimenti dovremmo dar ragione a tutti quegli indipendentismi sempre più diffusi nel mondo che per ogni “popolo” rivendicano un effimero “Stato indipendente e sovrano”.

[3] I soloni che pontificano sulle virtù della “società multietnica” abitano quasi tutti in zone altolocate e nient’affatto “multicolori” delle varie città europee.

[4] Dall’arabo nâ’ib (pl. nuwwâb): “rappresentante”, “colui che fa le veci”, “sostituto”, quindi “deputato”; il che ci riporta all’India dominata e rovinata dall’Inghilterra, dove a gestire gli affari locali per conto della City di Londra venivano posti compiacenti “signorotti” indiani adeguatamente pasciuti; questo, in pratica il tanto decantato “governo indiretto” britannico (indirect rule) addotto ad esempio di “efficienza”: lo stesso massimo risultato col minimo sforzo raccolto nelle nazioni europee conquistate dopo il 1945, dove i militari statunitensi e gli agenti della City non si fanno accuratamente vedere in giro per non destare sospetti.

[5] L’opera di condizionamento sistematico delle popolazioni “occidentali” è infatti di tipo psicologico: di qui il trionfo della psicanalisi e l’adozione di tecniche di condizionamento mentale in ogni campo, non ultimo quella della cosiddetta “informazione”, prodotta da squadre di esperti che conoscono bene le tecniche di manipolazione psicologica.

[6] Il termine “virtuoso” deriva dal latino vir, “uomo”: il vero “uomo”, l’uomo “virile”, è quello che, attraverso le “virtù” (che coincidono con le qualità dei 99 Nomi Bellissimi di Allâh!), ha realizzato la perfezione, giungendo alla Stazione più elevata cui possa aspirare. Gli altri possono solo seguirne l’esempio, rivivificato da quello dei Maestri viventi.

[7] Per una spiegazione del termine mawlâ, importante anche nella logica di questo discorso sulla “sovranità”, rimando al mio La via dell’Inferno è lastricata di “proteste”: http://europeanphoenix.net/it/index.php?option=com_content&view=article&id=80&catid=3.

[8] S’è mai visto un “Califfato”, un “Impero di Mezzo” o un qualsiasi altro Impero concepito come un’entità non sovrana?

[9] Il simbolismo della distruzione degli idoli contenuti nella Ka‘ba – simbolo del “cuore” - da parte del Profeta dell’Islam, una volta conquistata Mecca, è eloquente. Prima il jihâd interiore, poi quello esteriore, e la riconquista, a tutti gli effetti, della sovranità in entrambi i domini.

21 luglio 2011

Il peso delle Regioni tra stipendi d’oro e mega consulenze


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Secondo copione, il presidente della Conferenza delle Regioni, Vasco Errani, ha accusato il governo di scaricare sulle Regioni poco meno di metà dei costi della manovra. E ha minacciato (i cittadini): così ci saranno meno sanità pubblica, meno trasporti pubblici, meno aiuti alle imprese. Secondo copione, nessuno guarda in casa propria per verificare se tutto è a posto, prima di danneggiare i cittadini. E le Regioni italiane — con i dovuti distinguo — l’occhio sui propri conti avrebbero dovuto metterlo da molti anni. Magari è folklore ricordare certe spese pagate dalla collettività appena pochi anni fa: 75 mila euro, in Veneto, per uno studio sullo «sviluppo del turismo congressuale verso forme di organizzazione e gestione evolute» , 10 mila euro in Toscana per una consulenza «in materia di procedure di acquisto di beni di rappresentanza» , 192 mila euro in Campania per un «team di animatrici di pari opportunità» . È folklore ricordare — come fa il giornalista Mario Giordano — che presso la Regione Lazio, anno 2009 (era Marrazzo), furono spesi 6 mila euro di caffè per le riunioni di giunta, molte tazzine per ciascun assessore. Più sostanziale è la notizia che la Regione Sicilia ha più di 19 mila dipendenti, ognuno dei quali costa in media 43 mila euro l’anno (il 40 per cento in più dei ministeriali romani). Il governatore della Sicilia, Lombardo, ha annunciato pochi giorni fa, su Libero, che non aspetterà una legge nazionale per abolire le sue Province, ma lo farà «subito» , in virtù dello statuto speciale che regola la sua Regione. Solo che lo stesso identico annuncio lo aveva fatto alla fine della scorsa estate. A proposito di Lombardo: come presidente guadagna al netto il doppio dei 7787 euro (lordi) che prendono in media i governatori degli Stati americani. Il più pagato è il governatore dello Stato di New York che con i suoi 10.612 euro lordi guadagna meno di un deputato regionale sardo (11.417 netti) o del presidente della giunta calabrese (13.353 netti). La Regione che ha meno abitanti è il Molise (320 mila circa), governato dal 2001 da Michele Iorio (Pdl), e il Molise ha in proporzione il più alto numero di dipendenti: 2,79 ogni mille abitanti contro lo 0,39 in Lombardia, lo 0,59 del Veneto. I «regionali» molisani sono 981 e cento sono dirigenti. Nel Lazio, invece, c’è il record di commissioni consiliari: sono 20 contro otto della Lombardia, che ha il doppio degli abitanti. Le commissioni, alla Regione ora amministrata da Renata Polverini, costano 7 milioni l’anno e ogni presidente di commissione aggiunge mille euro ai 10 mila netti che percepisce ogni mese. I vicepresidenti, che sono 38, aggiungono soltanto 700 euro al mese. Nel Lazio 71 consiglieri, 20 commissioni, 17 gruppi consiliari (8 dei quali composti da un solo eletto) sono costati, secondo il bilancio dello scorso anno, 131 milioni 406 mila euro, con una crescita, rispetto all’anno precedente, di 15 milioni. Nel Lazio bastano 50 anni per cominciare a incassare il vitalizio che spetta di diritto anche a chi abbia concluso un mandato in consiglio regionale. Nel 2010 per 220 vitalizi Polverini ha visto volar via oltre 16 milioni di euro. Sempre il Lazio ha il record della spesa-clou delle Regioni, la spesa sanitaria. Per ogni cittadino la regione della capitale spende 3349 euro, seguito da Abruzzo (3239), Calabria (3.090), mentre sul fronte dei più misurati stanno la Basilicata (1616), il Veneto (1665), la Puglia (1734). Entrando nel merito delle prestazioni si può ricordare che l’Emilia Romagna ha un centro unico che fa milioni di analisi l’anno al costo medio di 50 centesimi l’una, mentre in Campania, nei 1200 centri privati convenzionati, le stesse analisi pesano per 6-7 euro l’una. Le amministrazioni locali costano allo Stato quasi 150 miliardi della Cgia di Mestre, fra il 2001 e il 2008, le Regioni avevano aumentato le spese del 47,7 per cento. «Ministeri, Parlamento, Regioni, Province Comuni, tutte le pubbliche amministrazioni — ha detto in questi giorni David Ermini, presidente del Consiglio provinciale di Firenze— dovrebbero osservare dove sono le spese improduttive e tagliarle di netto. Smettendo di rinfacciarsi pateticamente le responsabilità» .
di A. Gar.

31 luglio 2011

Verso la guerra delle risorse?





Piccolo ma significativo esempio di come le notizie importanti non vengono date o, quando vengono date, sono nascoste in modo che non si vedano. Per esempio non mi risulta che alcun giornale italiano, per non parlare dei telegiornali, abbia dato rilievo alle cose che seguono. Recentemente il WTO, l’Organizzazione Mondiale del Commercio – uno dei tre membri della sacra autorità del Consenso Washingtoniano, insieme al Fondo Monetario Internazionale e alla Banca Mondiale – ha pubblicato un rapporto speciale il cui titolo tecnico è apparentemente anodino e concerne le restrizioni alle esportazioni. Da questo emerge che ben 30 nuove restrizioni sono sorte, in diversi paesi, che impediscono o limitano l’esportazione di determinate materie prime. E si tratta di materie prime in quasi tutti i casi cruciali: generi alimentari, carbone, minerali di ferro, terre rare.



Le cifre dicono che tra ottobre 2010 e aprile 2011 i casi sono arrivati a 30 e si va da aumenti delle tasse di esportazione, fissazioni di prezzi fuori mercato, limitazioni di quote, veri e propri divieti completi. Protagonisti in questa svolta sono la Cina, l’India, il Vietnam l’Indonesia. Ma anche gli Stati Uniti praticano questi metodi avendo imposto restrizioni su una decina di materie prime che ritengono strategiche.

Il punto è proprio questo. Che queste limitazioni non rispondono a criteri economici di corto respiro e sono invece, in molti casi, frutto di considerazioni strategiche. La Cina, ad esempio, controlla circa il 97% delle esportazioni mondiali di terre rare (che sono un elenco di materie prime tutte variamente collegate alla produzione di raffinate tecnologie della comunicazione).

Ovvio che, trovandosi in una posizione quasi monopolistica, la Cina sia in condizione di imporre i suoi prezzi. Cosa che ha fatto tranquillamente fino all’anno scorso. Ma da due anni la Cina non sembra interessata a guadagnare, anche dilapidando le sue risorse preziose. Adesso se le vuole tenere.

Il perchè è presto detto, ma nemmeno uno dei pochissimi giornali del mondo che ha commentato la notizia, l’International Herald Tribune (IHT, 21 luglio), è stato capace di spiegarlo propriamente. In un breve articolo in pagine interne si è limitato a individuare l’egoismo dei paesi del terzo mondo. Ma con spiegazioni di questo tipo non si va lontano. Perchè oggi, improvvisamente?

È cominciata l’epoca della penuria. Per generi di consumo generale, come il petrolio, il “picco” è già stato raggiunto da almeno quattro anni (cioè se ne produce sempre meno e se ne produrrà sempre meno), ma nessuno lo dice per evitare il panico e il contingentamento. Delle terre rare nessuno parla perchè quasi nessuno sa cosa sono e a che cosa servono.

Ma i governanti di Pechino, come è bene non stancarsi di dire, guardano lontano. E cominciano a preferire di risparmiare piuttosto che guadagnare vendendo, perchè quando non ce ne sarà più sarà molto più difficile crescere.

Ecco il punto: è cominciata, in sordina per ora, la guerra delle risorse.

Basta capirlo per prevedere che alle piccole onde attuali seguiranno i marosi nei prossimi anni.

Il signor Patra, capo della società indiana “Terre Rare” – citato appunto da IHT – dice: «per molto tempo l’Occidente ha preso le risorse naturali a basso prezzo dall’Est. In futuro non sarà più così». Perentorio e soprattutto vero. A quelli che, ignorando i sintomi del problema, continuano a biascicare le giaculatorie della crescita, queste notizie bisognerebbe squadernargliele davanti al naso. Ma chi investirebbe se sapesse come stanno davvero le cose?

di Giulietto Chiesa

30 luglio 2011

Default americano?




Gli americani pretendono:

a- di mantenere intatto il loro livello di consumi, anche se la disoccupazione è quasi al 10% ed i salari sono in flessione

b- di avere un volume di spese militari pari o superiore a quello di tutto il resto del Mondo, producendo un costante disavanzo pubblico peraltro alimentato dagli interessi su un debito che ormai supera abbondantemente il pil annuo

c- di avere il più alto livello di debito aggregato del Mondo ma di mantenere il livello di rating AAA e di pagare interessi sul debito sovrano quasi pari a quelli sui titoli tedeschi

d- di emettere in scioltezza quantità enormi di dollari ma di confermare il dollaro come moneta di riferimento internazionale

e- di mantenere un livello di tassazione intorno al 30% (quando quello europeo è al 40) ed anzi, possibilmente, diminuirlo.
C’è modo di ottenere tutte queste cose insieme? Credo di si: nominando segretario al Tesoro la Madonna di Lourdes.
E’ possibile che, alla fine, Obama riesca ad evitare il default temporaneo il 3 agosto prossimo, ottenendo, in qualche modo, di innalzare il livello di debito Usa di altri 2.400 miliardi di dollari (che vanno a sommarsi agli oltre 14.000 attuali), ma questo cosa significa?
In primo luogo non è detto che le agenzie di rating –per quanto spudoratamente allineate agli interessi statunitensi- non declassino i bond americani per salvare la faccia. Certo il passaggio da tre a due A non è una tragedia e sposta solo di qualche decimale gli interessi da pagare ma, quando si ha una esposizione di 16.500 miliardi di dollari, anche uno spostamento di un punto percentuale significa 150 miliardi di dollari in più all’anno. E non è neanche questo il peggio. Il problema più serio è a chi collocare questa nuova massa di bond.

Ragioniamo: l’offerta americana non è molto incoraggiante perchè il rendimento nominale dei titoli americani è al 4% per i bond ventennali ma, considerando il deprezzamento del dollaro (diretta conseguenza della politica di liquidità adottata) il rendimento reale scende ad un misero 1,33%, mentre per quelli a 7 anni si scende appena allo 0,1 e per i titoli quinquennali il rendimento è addirittura negativo (S24 24.7.11). In queste condizioni è evidente che un investitore privano non ha alcun interesse ad investire con rendimento negativo o legandosi alla moneta americana per un periodo lunghissimo nel quale non si capisce bene cosa possa accadere e ad un tasso reale cosi basso. Date queste premesse, non si capisce perchè un investitore privato non debba acquistarne titoli tedeschi che offrono un rendimento reale maggiore e con ben altre garanzie di solidità.

Ci sarebbero gli investitori “pubblici” (fondi sovrani e banche centrali) che, più che al rendimento, badano a calcoli politici come sostenere un mercato verso il quale si esporta o mantenere certi equilibri generali o, ancora, creare un rapporto preferenziale con un certo stato. Ed, infatti, negli ultimi 15 anni è stato questo il tipo di investitori che ha assorbito masse crescenti di debito sovrano americano. Ma oggi le cose come stanno?

- i cinesi hanno già circa un quarto del debito americano ed hanno manifestato segni di “inappetenza” dei titoli americani già nelle ultime aste. In più, hanno il problema di sostenere anche l’Euro, per cui è possibile che, oltre che rinnovare i titoli in scadenza, possano prendere qualcosa, ma realisticamente si tratterà di spiccioli

- i giapponesi, dopo Fukishima e la conseguente recessione, hanno le loro gatte da pelare ed è già grasso che cola se rinnoveranno i titoli in scadenza

- idem per gli europei che –fra Grecia, Portogallo, Irlanda, Spagna ed Italia- hanno i loro grattacapi

- gli arabi stanno smobilitando pezzi di fondi sovrani per far fronte alle rivolte acquistando massicci quantitativi di cereali e facendo qualche riforma (la sola Arabia Saudita ha impiegato 386 miliardi di dollari del suo fondo sovrano per far fronte alla situazione), quindi anche da questa parte non è probabile che venga chissà quale richiesta.

Qualche speranza può venire da Russia e Brasile che sono in una fase positiva per effetto dei ricavi sulle materie prime (soprattutto il gas russo), ma sin qui nessuno dei due ha mostrato la disponibilità a fare grandi acquisti di bond americani e non si vede che interesse politico possano avere ad investire sugli Usa in questa fase. Tanto più che nel caso –più che probabile- di una nuova recessione generalizzata, entrambi si troverebbero in difficoltà per la connessa caduta della domanda di commodities le cui esportazioni rappresentano la principale base delle rispettive economie. E in quel caso una eccessiva esposizione in titoli americani sarebbe solo un problema in più.

Lo spiraglio più promettente potrebbe venire da India e Sudafrica per ragioni diverse: il Sudafrica è in una fase molto positiva per l’impetuoso apprezzamento dell’oro e potrebbe avere qualche interesse a collocare parte della sua liquidità in quella direzione. L’India, invece, potrebbe avere interesse politico ad un riavvicinamento agli Usa, sia per le sue esportazioni sia in funzione antipakistana ed anticinese, approfittando del forte raffreddamento dei rapporti far Washington e Rawalpindi seguita alla vicenda Osama.

Ma, in entrambi i casi è da escludere che possa trattarsi di acquisti risolutivi. Dunque, tutto lascia intendere che la maggior parte di questi nuovi titoli resteranno invenduti. Per cui la soluzione sarà quella che ormai conosciamo a memoria: l’assorbimento da parte della Fed, con una nuova manovra di quantitative easing sostenuta dall’ennesima emissione di dollari. Per quanto tempo ancora potrà andare avanti questo giochetto?

Forse è arrivato il momento di dirci che gli Usa, tecnicamente sono già falliti. Qualche cifra? Calcolando il solo debito governativo, il debito pro capite degli Usa (compresi lattanti e moribondi) si aggira sui 50.000 dollari (circa 11.000 in più dell’analogo debito pro capite greco); aggiungendo i debiti dei singoli states, ed enti locali arriviamo a 70.000 dollari: considerando il totale del debito aggregato (cioè inclusivo di quello di aziende e famiglie) arriviamo a un po’ più di 160.000 dollari (S24 22.7.11/13). Il che significa che una famiglia media americana di tre persone ha un debito di circa mezzo milione di dollari. E, per di più, tutto lascia intendere che l’indebitamento sia privato che pubblico crescerà per effetto dell’alto tasso di disoccupazione, mentre è difficile immaginare a breve un miglioramento delle finanze pubbliche.

Obama parla di un taglio del disavanzo statale di circa 4.000 miliardi di dollari entro il 2014: non è una gran cifra se si considera che:

a- il disavanzo del bilancio governativo attuale è del 38%

b- che nei prossimi anni crescerà la pressione pensionistica sia per effetto ell’andata in pensione dei baby boomers, sia delle pensioni di invalidità a seguito delle missioni militari (soprattutto ma non solo Irak ed Afghanistan) e che il disavanzo previsto per la spesa pensionistica nei prossimi anni si valuta fra i 1.000 ed i 3.000 miliardi

c- che 42 dei 50 stati dell’unione già prevedono disavanzi fiscali per 103 miliardi di dollari per il 2012 e che altri 24 stati già prevedono ulteriore disavanzo per il 2013

d- che occorre pagare gli interessi sul debito precorso e che è facile prevedere possano aumentare per effetto di un possibile declassamento.

Fatti i dovuti calcoli, anche nella più favorevole delle ipotesi, resterebbe assai poco per riassorbire almeno in parte di debito precedente: calcolando molto ottimisticamente che al riassorbimento del debito possano andare 150-300 miliardi annuali, questo inciderebbe per l’1-2% sulla massa totale. Cioè, a parità di tutte le condizioni, da 50 a 100 anni per azzerare il debito. Ovviamente si tratta di calcoli puramente astratti.
Naturalmente la cosa sarebbe assai problematica se nel frattempo crescesse sensibilmente il Pil (e il relativo gettito fiscale) ma, almeno per ora, non sembra un obiettivo a portata di mano. Sembra, invece, probabile che nel prossimo futuro accada il contrario: che il Pil descresca per effetto di una nuova recessione. Nel qual caso il debito pubblico, pur restando fermo in valori assoluti, si avvierebbe rapidamente verso il 200% sul Pil.

Ma, per di più, l’intesa sul punto con i repubblicani, che controllano il Congresso, non sembra raggiunta e si parla di una “manovretta” da 1.500 miliardi, come dire che il debito, di fatto, crescerà per effetto degli interessi e degli aumenti previsti.
E non abbiamo considerato il debito privato che non si capisce come potrà essere restituito dai singoli americani.

Se si trattasse di una Grecia o di un Portogallo qualsiasi, da tempo le agenzie di rating avrebbero declassato il debito americano a CCC, cioè spazzatura. Ma gli Usa sono la più grande potenza finanziaria del mondo, ed una simile classificazione provocherebbe uno tsunami finanziario senza precedenti, altro che effetto “contagio” ateniese: la maggioranza degli Stati vedrebbero volatilizzarsi gran parte dei propri crediti, molte banche fra le maggiori del mondo fallirebbero, l’effetto domino sarebbe incontenibile e la crisi del 1929 ce la ricorderemmo come un innocuo mal di pancia. Per di più, gli Usa sono la più grande potenza militare del mondo ed un simile cataclisma avrebbe effetti incalcolabili anche sul piano degli equilibri politico-militari del Globo.
Insomma, siamo al solito too big to fail (troppo grossi per fallire). Ragion per cui abbiamo deciso tutti di far finta di niente e di prendere per oro colato le 3 A delle agenzie di rating. Va bene: sinchè l’orchestrina suona possiamo continuare a ballare, ma il bastimento su cui viaggiamo di chiama Titanic. Per quanto tempo ancora possiamo continuare con questa recita surrealista? Si badi che sul mercato già oggi i segnali dicono che la tripla A è una foglia di fico a cui bessuno crede: nel mese di luglio, il costo delle coperture assicurative sul debito americano (nel gergo i cd-swap) è arrivato a 45,7 punti mentre quello sui titoli sauditi (che hanno solo 2 A-) era decisamente inferiore ed addirittura, quello per i titoli indonesiani (BB+) valeva 39. Dunque assicurare un titolo americano oggi costa circa un sesto in più che assicurare un titolo indonesiano cpn classifica assai inferiore. Per assicurare il fallimento di 100 milioni di titoli americani, all’inizio dell’anno ci volevano circa 14.000 dollari, oggi ce ne vogliono 53.000.

D’accordo, si tratta di una impennata dovuta anche alle convulsioni della politica americana e destinata a rientrare dopo il 3 agosto, ma il segnale è troppo chiaro per non essere inteso: con andamenti di questo genere è facile prevedere che una parte degli investitori privati possano iniziare a non rinnovare i propri titoli (tripla A o non tripla A) e che la cosa potrebbe anche innescare un effetto a cascata per cui anche gli stati inizierebbero a valutare il rischio di essere quello che resta con il cerino acceso in mano.
Nessuno è mai tanto grosso da non fallire mai.
di Aldo Giannuli

29 luglio 2011

L'Europa è condannata dalla globalizzazione?

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La storiella del tale che va per suonarle e viene suonato sarebbe risibile, se non ci riguardasse. Il ritorno del boomerang fa sempre male all'incosciente che lo ha lanciato senza sapere come evitare di prenderlo sul viso. La globalizzazione si rivolta contro i suoi iniziatori occidentali. E l'ironica constatazione che ha avanzato Marcel Gauchet in un recente numero di«Le Débat»1: «L'Occidente, e principalmente gli Stati Uniti, è stato il motore della globalizzazione, ma tutti vi hanno aderito e l'Unione europea è diventata la migliore allieva della classe, la zona economica del mondo più aperta, più degli Stati Uniti, cosa che si dimentica sempre. Ora, questo capitalismo globalizzato gioca adesso contro la prosperità occidentale. Si può discutere su questo punto a proposito degli Stati Uniti. In ogni caso, è chiaro per l'Europa, che appare come la perdente del gioco». L'Europa sarà dunque la grande perdente? A partire dal momento in cui si internazionalizza, si finanziarizza e si virtualizza, come succede dagli anni Ottanta, il capitalismo è portato ad emanciparsi rispetto agli Stati, alle forze politiche e alle opinioni pubbliche. Il suo unico quadro spaziale diventa il pianeta. La sua hybris deriva dal non essere più trattenuto da niente. Agisce unicamente in base alla sua logica.
Quale ironia vedere, dopo l'inizio della crisi nel 2007, i vani sforzi di Barack Obama o di Nicolas Sarkozy per tentare di regolamentare il funzionamento dell'industria finanziaria. Dice ancora Marcel Gauchet: «Sarkozy ha fatto discorsi da simpatico gradasso sulla necessità di riportare le banche alla ragione, ha pronunciato parole vendicative assai appropriate contro i guasti di un certo capitalismo, ma tutti hanno capito piuttosto in fretta che quelle parole erano fatte per essere ascoltate e non per essere seguite da effetti». Non vi è niente di sorprendente in ciò, se si vuole pur ammettere che il presidente francese è diventato il campione della banalizzazione liberale della Francia, sostenuto da un largo consenso delle élites e degli elettori.
Con la globalizzazione, lo scollegamento e poi l'autonomizzazione del capitalismo finanziario rispetto a ogni base territoriale, non c'è più bisogno di intermediari politici interni. Per il buon funzionamento del sistema non sono più necessarie nemmeno le connivenze a livello locale tra l'élite politica e l'oligarchia finanziaria. Questa complicità è un residuo del sistema precedente, di quando il capitalismo non poteva sfuggire al quadro nazionale sulla cui base si sviluppava. Questa eredità storica è ormai superata. Il capitalismo è divenuto off-shore, flessibile e nomade. Le sue basi possono trovarsi tanto a Londra e New York quanto a Francoforte, Singapore o Hong Kong. Ci sarà sempre uno Stato abbastanza prono da accogliere e porre al riparo società che vogliono sfuggire alla volontà di regolamentazione. Questa è, d'altro canto, l'argomentazione essenziale per proscrivere ogni regolamentazione che non fosse oggetto di un consenso unanime, prorogando così lo status quo che permette alla Forma-Capitale di dispiegarsi, ancora e sempre, secondo la sua logica opportunistica.
Questa globalizzazione è iniziata sotto la spinta di Margaret Thatcher e Ronald Reagan. L'ultimo libro di Jean-Pierre Chevènement2 ne traccia, per la Francia, le varie fasi in modo dettagliato. Il suo interesse
deriva dal fatto che l'autore ne ha vissuto le tappe dall'interno, nella macchina dello Stato. L'ex ministro socialista le racconta così come le ha vissute e come si sono imposte agli attori, come un'implacabile meccanica, fin dal momento in cui Frangois Mitterrand aveva scelto di restare fedele alla costruzione europea. In una dichiarazione a «La Tribune de Genève» del 22 novembre 2007, Danielle Mitterrand, difendendo l'opera del marito, ricordava una delle sue conversazioni nelle prime ore della presidenza: «Dicevo a Frangois: poiché hai il potere, perché non te ne servi per cambiare il paese? Egli rispondeva: io non ho il potere; la Francia, come il resto del mondo, è assoggettata ad una dittatura finanziaria che gestisce tutto». Questa iper-classe sempre più ricca quando la grande maggioranza degli abitanti del vecchio continente vedono la loro situazione degradarsi, è invincibile?
L'Europa, agitata come uno scettro a sonagli, è, ci dice Jean-Pierre Chevènement, un'entelechia. Solo l'Europa europea, sul modello gollista, ossia indipendente, può essere un progetto solido. Malauguratamente, nessuno dei nostri partners continentali si mostra ambizioso. Di qui l'ancoraggio (implicito fin dall'inizio della costruzione) sempre più solido agli Stati Uniti, locomotiva ansimante la cui leadership volge tuttavia al termine. «La sinistra francese credeva, nel 1981, come Cristoforo Colombo, di scoprire le Indie (il socialismo), ma ha scoperto l'America (il neo-liberalismo). Il miraggio europeo le ha fatto perdere di vista il popolo francese. Essa non è molto attrezzata per comprendere il mondo venturo», conclude Chevènement. Resta una domanda che l'ex ministro della Difesa si guarda bene dal porre, cioè come l'economia sia riuscita ad occupare l'insieme del nostro immaginario simbolico a tal punto da renderci capaci di accettare con fatalità questo stato di cose come un oggetto "naturale".
«L'Europa», scriveva Abellio, «è fissa nello spazio, cioè nella geografia, mentre l'Occidente è mobile e sposta il suo epicentro terrestre secondo il movimento delle avanguardie civilizzate. Un giorno l'Europa sarà cancellata dalle carte, l'Occidente vivrà sempre. L'Occidente è là dove la coscienza diventa essenziale, è il luogo e il momento eterni della coscienza assoluta»3. Può darsi allora che l'Occidente prossimamente pianti le tende a Pechino, nuova Terra Promessa sufficientemente ingenua per salutare i suoi benefici avvelenati? Il candore cinese consisterebbe nel credere di poterla coniugare con l'affermazione della sua identità e della sua potenza.

di Pierre Bérard e Pascal Eysseric

NOTE
1 Face à la crise: Sarkozy et les forces politiques frarwaises, Marcel Gauchet, Jacques Julliard: un échange, in «Le Debat» n.161, settembre-ottobre 2010.
2Jean-Pierre Chevènement, La France est-elle finie?, Fayard, Paris 2011.
Raymond Abellio, La structure absolue. Essai de phénoménologie génétique, Gallimard, Paris 1965. È utile sottolineare che non interpretiamo la «coscienza assoluta» allo stesso modo dell'autore.

28 luglio 2011

La crescita economica è la via d’uscita dai problemi di debito pubblico del nostro paese?

felicedonna

L’idea che la soluzione ai nostri problemi di debito pubblico sia la crescita economica è semplicistica e irrealistica. La nostra organizzazione economica, sociale e culturale è interamente focalizzata sulla crescita economica e il suo risultato è di creare malessere. Il malessere genera spesa pubblica, soprattutto spesa sanitaria e per l’ordine pubblico. Di conseguenza una riorganizzazione della società che tenga conto della dimensione relazionale della vita e non soltanto di quella economica è destinata a contenere la spesa pubblica. Inoltre la causa della “rivolta fiscale” degli ultimi decenni è nella perdita di coesione sociale, è il prodotto di società popolate da individui soli e impauriti, che hanno perso il senso di essere membri di una società. Lo stato sociale funziona se e fino a quando un paese non è solo un insieme di individui tenuti assieme dalla forza dei soli interessi. Una riorganizzazione della società dovrebbe invece essere in grado di invertire la tendenza alla perdita di coesione sociale e quindi all’aumento della riluttanza fiscale.

L’idea che la soluzione ai nostri problemi di debito pubblico sia la crescita economica è semplicistica e irrealistica. Nel mio libro Manifesto per la Felicità, pubblicato da Donzelli nel 2010, espongo la seguente tesi: la nostra organizzazione economica e sociale crea malessere. Il cuore del problema è che lo sviluppo economico si è accompagnato a un progressivo impoverimento delle nostre relazioni affettive e sociali. Viviamo di corsa in mezzo a individui frettolosi. E a mancare è prima di tutto il tempo delle relazioni con gli altri, sacrificate sull’altare del benessere materiale, che conosce due soli imperativi: lavoro e consumo. Siamo più ricchi di beni e sempre più poveri di relazioni e di tempo. Ecco perché siamo sempre più infelici. Ecco dunque perché il nostro sistema economico e molti aspetti della nostra esperienza sia individuale che collettiva – la famiglia, il lavoro, i media, la vita urbana, la scuola, la sanità e persino la nostra democrazia – hanno bisogno di un profondo cambiamento culturale e organizzativo, che delineo più o meno dettagliatamente nel mio libro.

Quello che rileva è che il malessere genera spese sia private che pubbliche. Mi soffermo su queste ultime che sono rilevanti per la questione delle finanze pubbliche. Una gran mole di contributi in epidemiologia dimostra che la felicità influisce direttamente sulla salute e la longevità, che il pessimismo, la percezione di non controllare la propria vita, lo stress, i sentimenti di ostilità e di aggressione verso gli altri sono fattori di rischio molto rilevanti. Si è scoperto ad esempio che il rischio di malattie cardiovascolari – la prima causa di morte nei paesi ricchi – è doppio tra le persone affette da depressione o malattie mentali e una volta e mezzo per le persone generalmente infelici. Gli effetti del benessere sulla salute sono stimati come più ampi di quelli derivanti dal fumo o dall’esercizio fisico. Senza contare la spesa sanitaria direttamente connessa al malessere, come quella per la cura dei disagi mentali. Nel 2005 i medici inglesi hanno prescritto 29 milioni di ricette di antidepressivi, per un costo complessivo di 400 milioni di sterline a carico del servizio sanitario nazionale. Nel 2003 gli Stati Uniti hanno speso la cifra di 100 miliardi di dollari per curare le malattie mentali dei propri cittadini. Tanto per dare un’idea della dimensione di questa cifra sbalorditiva, si tratta di varie volte il costo del tunnel sotto la Manica, la più grande opera pubblica mai realizzata.

La scomoda conclusione che dovremmo trarre è che la sanità è lo scarico del lavandino del malessere di una società. In questa prospettiva una porzione importante della spesa sanitaria è un esempio del fatto che una organizzazione sociale che produce danni al benessere genera spese.

Dunque la principale prevenzione delle malattie dovrebbe essere fatta al di fuori dai sistemi sanitari, cioè promuovendo il benessere. Le società avanzate sono gravate da una distribuzione sbagliata delle spese per la salute, che privilegia quelle per la cura a danno di quelle per la prevenzione. In realtà la prima forma di prevenzione è intervenire sul benessere attraverso politiche sociali e culturali mirate, rispetto alle quali nel mio libro delineo una vera e propria agenda politica. La nostra attuale organizzazione sociale produce sprechi immensi. Spendiamo in un modo che crea malessere e poi spendiamo per riparare i danni prodotti dal malessere.

Un discorso del tutto analogo vale per le spese per l’ordine pubblico. Infatti i problemi di polizia sono l’altro scarico del lavandino del malessere di una società. In altre parole, tutti i problemi di malessere finiscono per divenire prima o poi o problemi sanitari o di sicurezza. Dunque, riorientare l’organizzazione sociale alla creazione di benessere genererebbe anche un contenimento delle spese per ordine l’ordine pubblico.

Questo dal lato del contenimento della spesa pubblica. Poi quanto propongo ha rilevanza anche per le fonti di finanziamento del settore pubblico. Innanzitutto propongo alcune fonti di finanziamento innovative per delineare le quali lo spazio di questo articolo è insufficiente.

In secondo luogo la realizzazione dell’agenda politica che propongo condurrebbe ad una inversione della crescente riluttanza alla pressione fiscale mostrata dalle classi medie di tutto il mondo occidentale negli ultimi decenni. Questa tendenza dell’opinione pubblica è stata in parte originata dall’idea che il privato sia più efficiente del pubblico, questione che in Italia è divenuta dirompente dopo Tangentopoli. È un argomento che in realtà sta perdendo persuasività. Un quarto di secolo di privatizzazioni in tutto l’Occidente sta cominciando a convincere l’opinione pubblica che, in alcuni settori, avere qualcuno che fa molto efficientemente le cose sbagliate può essere peggio di qualcuno che fa meno efficientemente quelle giuste. In Italia una serie di scandali del settore privato e una serie di enormi problemi nei servizi pubblici seguiti alle privatizzazioni stanno provocando una inversione nella disponibilità dell’opinione pubblica a considerare il privato come la soluzione a tutti i problemi dell’economia. L’esito del recente referendum sulla privatizzazione dell’acqua è soltanto uno dei tanti segnali di questa inversione di tendenza.

Il secondo e più profondo motivo della “rivolta fiscale” degli ultimi decenni è nella perdita di coesione sociale. Se uno ha la sensazione di vivere in un mondo in cui sempre meno gente è disponibile ad aiutarlo sarà sempre più difficile che sia disposto a pagare per aiutare qualcun altro. La riluttanza fiscale è il prodotto di società popolate da individui soli e impauriti, che hanno perso il senso di essere membri di una società. L’erosione della comunità mina le basi dello stato sociale. Esso funziona se e fino a quando un paese non è solo un insieme di individui tenuti assieme dalla forza dei soli interessi.

La riorganizzazione della società che propongo dovrebbe invece essere in grado di invertire la tendenza alla perdita di coesione sociale e quindi all’aumento della riluttanza fiscale.

Infine sono convinto che l’opinione pubblica sarebbe disposta a ridurre la sua rivolta fiscale se la spesa pubblica venisse riorientata a sollevare la gente dalle spese private generate dal degrado delle relazioni. Se gli anziani sono soli e malati la soluzione è una badante. Se i nostri bambini sono soli la soluzione è una baby-sitter e il riempirli di giocattoli. Se abbiamo ormai pochi amici e la città è divenuta pericolosa possiamo passare le nostre serate in casa dopo esserci comprati ogni sorta di divertimento casalingo (il cosiddetto home entertainment). Se il clima frenetico e invivibile delle nostre vite e delle nostre città ci angustia, una vacanza in qualche paradiso tropicale ci risolleverà. Se litighiamo con i nostri vicini, le spese per un avvocato ci proteggeranno dalla loro prepotenza. Se non ci fidiamo di qualcuno, possiamo farlo controllare. Se abbiamo paura possiamo proteggere i nostri beni con sistemi di allarme, porte blindate, guardie private ecc. Se siamo soli, o abbiamo relazioni difficili e insoddisfacenti, possiamo cercare un riscatto identitario nel consumo, nel successo, nel lavoro.

Insomma, la nostra organizzazione economica, sociale e culturale è interamente focalizzata sulla crescita economica. Non produce individui più felici semplicemente perché non è questo il suo scopo. Lo scopo è invece crescere. Se vogliamo una società di gente più soddisfatta della propria vita dobbiamo riorganizzare la società in modo da tenere nel dovuto conto la dimensione relazionale della vita. Un effetto collaterale di questo sarà la riduzione di quella porzione molto rilevante della spesa pubblica destinata a riparare i danni prodotti dal malessere ed un aumento della disponibilità della gente nei confronti della imposizione fiscale. Non è facendo lavorare e consumare di più un corpo sociale già stanco, disagiato e stressato che usciremo dai nostri problemi di debito pubblico. Una strategia del genere è destinata a produrre ulteriore disagio e crisi sociali, per contenere le quali dovremmo spendere di più.

Ovviamente infine, c’è molto da lavorare sul fronte del recupero dell’evasione, ma questo non è un argomento originale.

di Stefano Bartolini

Stefano Bartolini è docente di economia politica all'Università di Siena.

27 luglio 2011

Terrorismo: LaRouche denuncia un nuovo 9/11 come trampolino per la dittatura


L'attuale sistema finanziario ha esaurito le opzioni e perciò "si è deciso di muoversi verso una dittatura", ha dichiarato Lyndon LaRouche in una discussione con alcuni collaboratori il 23 luglio. Riferendosi in particolare al sistema di salvataggio dell'Euro (e del sistema transatlantico) deciso al vertice di Bruxelles (vedi sotto), LaRouche ha sottolineato che non c'è modo che quel sistema possa funzionare, perché il tasso di aumento del debito in rapporto agli asset che lo sostengono è tale da rendere il debito insostenibile. L'amministrazione Obama e l'oligarchia britannica ne sono ben coscienti e hanno deciso di muoversi verso una dittatura come unico modo per mantenere il sistema.

È in questo contesto che occorre considerare l'ondata di attentati e minacce terroristiche della scorsa settimana, culminata nel massacro di Oslo (vedi sotto). Questa serie di sviluppi ricorda il periodo che va dal gennaio al settembre 2001, quando diverse minacce e attentati servirono a mascherare i preparativi per ciò che divenne l'undici settembre.

Nel gennaio 2001, LaRouche aveva denunciato la possibilità di un incidente di tipo "incendio del Reichstag", sulla base di un'analisi del carattere della nuova amministrazione Bush e della sua propensione all'introduzione di metodi da stato di polizia. Successivamente, durante la primavera e l'estate di quell'anno, una serie di provocazioni tra cui la minaccia di ecoterrorismo a Washington, spinsero LaRouche a denunciare l'imminenza di un possibile attacco di guerra asimmetrica, che si verificò nella forma dell'attacco del 9/11. L'obiettivo era la dittatura negli Stati Uniti, e ci siamo arrivati molto vicino.

Ora, dal punto di vista dei controllori del Presidente Obama, la situazione è molto più disperata. I fatti della scorsa settimana evidenziano che la situazione del debito è fuori controllo sia negli USA che in Europa, e può esplodere in ogni momento. Le varie "soluzioni" approntate, tutte a difesa del sistema oligarchico, non possono riuscire, ma hanno creato condizioni di accresciuto caos e instabilità.

Da questo punto di vista va considerata la serie più recente di attentati e minacce. Oltre al terribile massacro di Oslo del 22 luglio, Mumbai è stata nuovamente bersaglio di bombe terroristiche e negli USA è stata messa in allerta la sicurezza per il pericolo di un attentato imminente alla metropolitana di New York. Il 23 luglio si sono verificate almeno quattro importanti sparatorie, in cui uomini armati di fucile hanno aperto il fuoco sulla folla. Inoltre, da fonti di intelligence oltremare è stato raccolto un dossier di informazioni e indizi anche tratti dai documenti trovati in Pakistan, che contribuisce a creare un clima simile a quello che precedette gli attacchi dell'11 settembre.

Come illustra chiaramente il caso del 9/11, la serie di "minacce credibili" attivate non solo prepara il clima, ma maschera anche le vere intenzioni strategiche. Attivando una serie di potenziali minacce da angoli diversi dalla vera fonte della minaccia, si creano le condizioni sia per l'azione che per la copertura della stessa.

Il 23 luglio, Lyndon LaRouche ha ammonito: "I fatti cruciali degli attacchi del 9/11 furono insabbiati dall'amministrazione Bush, e quell'insabbiamento è continuato con Obama. Se condoniamo questo insabbiamento, non facciamo che invitare altro terrorismo". LaRouche ha anche chiesto agli americani di vigilare per impedire un colpo di stato negli USA, perpetrato dall'ufficio del Presidente Obama.

by MoviSol

26 luglio 2011

Il mistero della Maddalena







Sono scomparse due mesi fa le armi dal deposito sotterraneo di Guardia del Moro, la rete di gallerie della Marina militare che si sviluppa all’interno dell’isola di Santo Stefano, arcipelago della Maddalena: si parla di 400 missili, 11.000 razzi anticarro, 5.000 razzi katiuscia Bm21 da 122 mm, 32.000 fucili d’assalto AK47 e 150 mila caricatori con più di 32 milioni di proiettili.

Per ora non si hanno notizie certe, si sa solo che dopo un’inchiesta pubblicata nel giugno scorso dal quotidiano la Nuova Sardegna, il sostituto procurato di Tempio, Riccardo Rossi, aveva avviato un’indagine giudiziaria per stabilire la destinazione e la sorte finale del carico, decisione alla quale il governo ha reagito apponendo sulla vicenda il segreto di Stato, azione di norma intrapresa in casi eccezionali.

E’ comunque certo che il materiale è stato trasportato fino a Civitavecchia su due navi passeggeri della Saremar e della Tirrenia, via Maddalena, Palau, Olbia, e che una volta arrivato nel continente è svanito nel nulla. C’è chi avanza comunque l’ipotesi che le armi, che secondo quanto disposto dal tribunale di Torino dovevano essere distrutte, siano state spedite in Cirenaica per aiutare il Consiglio Nazionale di Transizione libico; un’eventualità confermata dallo scoop di Globalist.ch sulle spedizioni di materiale bellico fatte fin da marzo dal governo italiano ai ribelli di Bengasi.

L’arsenale era stato sequestrato il 13 marzo 1994, quando era stato rinvenuto all’interno della Jadran Express, nave intercettata a largo del Canale d’Otranto da una corvetta italiana assegnate alle operazioni Nato nell’Adriatico. Il cargo, battente bandiera maltese, apparteneva a una compagnia croata di proprietà del milionario russo Alexander Zhukov; secondo i documenti di bordo il carico era ufficialmente composto da 509 container, dei quali 416 vuoti e 96 carichi di cotone e rottami di rame.

In realtà, all’interno della Jadran vennero rinvenute 2 mila tonnellate di armi di provenienza russa, stipate in 133 container per un valore 200 milioni di dollari. La nave era stata localizzata grazie ad un segnalatore satellitare sistemato all’interno di uno di uno dei container caricati ad Odessa: la trappola, di cui era al corrente l’MI6 britannico, era opera del capo del controspionaggio ucraino (Sub), Volodymir Kulish. Fu l’intelligence inglese a passare l’informazione ai servizi italiani e questi alla Nato. Una volta sequestrato, il carico d’armi venne trasferito nelle gallerie di Santo Stefano.

Il nome della Jadran Express tornerà alla luce nel 1998, quando a Parigi verrà arrestato per riciclaggio un uomo d’affari ucraino, un certo Dmitri Streshinskij, amministratore della Sintez ltd e della Global Technologies International, aziende dell’ex Urss in mano al miliardario Alexander Zhukov. Tra il 1992 e il 1994 Streshinskij aveva acquistato tonnellate di armi dalla Progress di Kiev, la società incaricata dal ministero della Difesa ucraino per la vendita del proprio arsenale: missili, razzi, rampe di lancio, fucili mitragliatori, munizioni e tutto ciò che fosse possibile caricare sui cargo e che con false documentazioni avrebbero poi raggiunto i porti della Croazia e insanguinato i Balcani.

Nell’agosto 1999, grazie alle indagini della Dia, si scopre inoltre che a Taranto giace ancora il carico “dimenticato” della Jadran, 2 mila tonnellate d’armi che la procura di Torino mette subito sotto sequestro. Intanto, mentre il ministero della Difesa inizia il trasferimento dell’arsenale all’isola di Santo Stefano, Streshinskij è tornato in libertà; rintracciato in Germania viene nuovamente arrestato. Patteggiata una pena di quasi due anni, l’ucraino inizia a collaborare e a fare i nomi dei presunti complici, insospettabili finanzieri e potenti imprenditori petroliferi di mezza Europa.

Tra loro ci sono il belga Gedda Mezosy, il greco Kostantinos Dafermos e i russi Leonid Lebedev e Alexander Zhukov, che viene arrestato a Olbia mentre sta cercando di raggiungere la sua lussuosa villa a Romazzino. Al processo, iniziato nell’ottobre 2002, il capitano della Jadran Express farà però cadere tutte le accuse per difetto di giurisdizione, dichiarando che la sua nave avrebbe dovuto raggiungere la Croazia senza fare scalo a Venezia: un traffico estero su estero che permetterà a Zhukov e ai suoi amici di essere assolti.

Come stabilito nel 2006 dall’autorità giudiziaria, gli armamenti sequestrati nel 1994 sulla Jadran Express e trasferiti a Santo Stefano, avrebbero dovuto essere distrutti; da allora a oggi non risulta tuttavia che abbiano mai raggiunto una località idonea a tale scopo. La Nato, come dichiarato dal portavoce Oana Lungescu, non vuole essere coinvolta, ma aldilà delle questioni legate alla sicurezza, l'intera vicenda ripropone comunque non pochi quesiti.

In un interessantissimo articolo diffusa da Globalist.ch, Ennio Remondino ripropone lo scoop sulle armi fornite clandestinamente ai ribelli di Bengasi, pubblicato sul network di informazione indipendente il 4 luglio scorso. Ripercorrendo gli avvenimenti, Remondino rivela il retroscena politico che avrebbe portato l’Italia ad essere la prima nazione a fornire segretamente le armi agli insorti della Cirenaica.

Tutto partirebbe da quando a febbraio il governo Berlusconi si è reso conto che continuare ad appoggiare Gheddafi era diventata una posizione insostenibile: ad organizzare un’operazione congiunta con l’ambasciatore libico a Roma, il potentissimo Abdulhafed Gaddur, garante di un accordo con il Consiglio Nazionale di Transizione, ci avrebbero pensato il ministro Frattini e il sottosegretario Gianni Letta.

Fu insomma un cambio di campo pagato con una sostanziosa fornitura di armi e un pacchetto di garanzie personali in favore di alcuni personaggi della resistenza libica. Il primo di una serie di carichi di armi, su uno dei quali è stata aperta un’inchiesta della magistratura, risalirebbe a inizio marzo, arrivato a Bengasi con la nave Libra della Marina Militare.

“Aiuti” che tra l’altro potrebbero essere partiti proprio dall’isola di Santo Stefano, che avrebbero incluso parte del vecchio arsenale ex Gladio e che sarebbero arrivati in Libia grazie a un’eccezione alle norme di legge, fatta nell’interesse dello Stato e tutelata dal “Segreto di Stato”.

di Eugenio Roscini Vitali

25 luglio 2011

Barack Obama: lo Zio Tom e il suo potere




Dove sono finite le caramelle con il faccione di Obama? Le spille? E le magliette con scritto l’onirico “Yes we can”? Il mondo fatto di tolleranza, amore e pace che sembrava dovesse creare il democratico presidente di colore…dov’è? Nessuna traccia.
L’american dream costruito a tavolino sulla figura del presidente statunitense Barack Obama sembra essersi magicamente dissolto. Le sue conseguenze politiche e sociali restano, però, davanti agli occhi di tutti.
Quando lo Zio Tom, scalzando il vecchio e arrugginito Sam, vinse le elezioni presidenziali, il 4 novembre del 2008, si formarono delle aspettative attorno al suo “logo”, perché di questo si tratta, dalla portata inimmaginabile. Dopo il cowboy guerrafondaio W.Bush, l’insediamento di un nuovo presidente, democratico e per di più nero, era l’apice della “democrazia”. Ci veniva raccontato che finalmente si sarebbe aperto un nuovo ciclo, un mondo di speranza e pace. E fu proprio su questa frettolosa e illusoria analisi, che il settimanale statunitense “Time” lo elesse “persona dell’anno” nel 2008. Nel 2009, addirittura, ricevette il Premio Nobel per la Pace. Si creò una vera e propria “Obama economy”, fatta di prodotti tangibili e non. E tutto ciò senza fare assolutamente niente di reale, ma vendendo un sogno. Già, un sogno. Che a distanza di tre anni, però, dietro la maschera, caduta in terra si è rivelato in tutto e per tutto un incubo permeato da ingiustizie.
In fondo si sa: ci vuole poco per vendere fumo agli americani. Ma in generale a tutto il mondo. E chi ha costruito la figura di Obama, lo sapeva perfettamente. Al momento dell’insediamento ci furono grandi discorsi e promesse sul ritiro delle truppe dall’Iraq e dall’Afghanistan e subito qualche mossa volta ad innalzare la già osannata “democraticità” del presidente, come quando fu scelta Amanda Simpson, transessuale, a ricoprire un incarico nell’amministrazione alla Casa Bianca. Ma tutto, mano a mano, prese una piega diversa.
“Yes we can…”, sì noi possiamo salvare le banche d’affari. Deve essere stato questo lo slogan quando lo Zio Tom decise di salvare, appunto, la Goldman Sachs con 7,5 miliardi di dollari, soldi dei cittadini americani, nonostante avesse speculato in modo massiccio. Tutto inserito in un “piano di rilancio dell’economia statunitense” assolutamente fallimentare, come il programma di ristrutturazione dei mutui ipotecari. Un pacchetto di misure che, ancora ad oggi, contribuisce ad acutizzare la crisi finanziaria in atto. Il “democratico” presidente, fra l’altro, spera che ad un possibile crollo finanziario degli States, corrisponda anche un crack europeo per evitare che l’Euro prenda terreno sul dollaro.
Poi fu il turno della riforma sanitaria, uno dei capisaldi dell’amministrazione democratica: nel 2010, il presidente Barack Obama firmò la legge della riforma sanitaria, giudicata poi incostituzionale a fine anno da un giudice dello Stato della Florida. Ed ecco il coro: “sono i repubblicani, sono le lobby che non vogliono far passare la riforma!”. La riforma prevede l’aumento del numero di persone tutelate dal sistema sanitario (32 milioni in più). Tutto giusto, se non fosse che il disegno di “sanità allargata” prospettato da Obama fu un altro american dream falso e tradito. Perché l’allargamento della tutela deve passare per le compagnie assicurative, tenute a offrire proposte adeguate alle classi più deboli che avranno, però, l’obbligo di contrarre una di queste polizze se non vorranno incappare in sanzioni amministrative. In definitiva, i maggiori beneficiari sono le lobbies assicurative che allungano i tentacoli sull’economia di una fetta maggiore di cittadini. C’è da stupirsi? No, se si pensa che queste lobbies sono le stesse che hanno finanziato la campagna elettorale di Obama.
Stessa girandola di promesse, non mantenute, anche dopo la tragedia della marea nera nel Golfo del Messico. Gli ambientalisti si erano tutti stretti attorno allo Zio Tom che, davanti a quella catastrofe, aveva promesso che non ci sarebbero mai più state trivellazioni pericolose in quelle zone. Un altro “yes we can” andato a mare. Nel maggio del 2011 sono state consentite nuove trivellazioni sia in Alaska che nel Golfo del Messico.
Sulla politica estera si era riposta grande fiducia sullo Zio Tom. Ecco i risultati: in primis non ha mai modificato, come aveva promesso, il Patriot Act, voluto da W.Bush, che rafforza il potere dei corpi di polizia e di spionaggio statunitensi e consente costanti violazioni della privacy dei cittadini, tutto in nome della sicurezza e della prevenzione nei confronti della minaccia terroristica. Il ritiro dalle guerre? Dall’Iraq tutto tace, mentre dall’Afghanistan ci sarà un ritiro graduale entro il 2012. Ma intanto il vento di guerra continua a soffiare. Dopo i “bombardamenti umanitari” in Libia, il “presidente di tutti” si appresta a varcare qualche altro confine. Per il prossimo anno, infatti, è stato varato un bilancio della difesa record: 649 miliardi di dollari in nuove armi e missioni di guerra, 17 miliardi in più di quanto previsto nel budget 2011. Si pensi inoltre a tutti i benestare di Obama a guerre cruente e meschine: una su tutti quella in Costa D’Avorio dove lo Zio Tom ha salutato l’arresto di Gbagbo come “una vittoria per la democrazia”. Il mantenimento della prigione di Guantanamo, dove ogni giorno vengono violati diritti umani; il silenzio assenso sulla sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti secondo la quale i contractor, artefici delle torture ad Abu Ghraib, godevano di un’immunità speciale concessa dal governo Usa; il continuo sabotaggio di una possibile costituzione di uno Stato palestinese. E tutto mentre il debito americano sale a 14.400 miliardi dollari. Ma, intanto, lo scorso aprile lo Zio Tom ha detto che si ricandiderà. Ipotesi rafforzatasi quando il 2 maggio venne ucciso Bin Laden in una operazione che, ancora oggi, suscita parecchie perplessità.
Si badi, però, che nonostante la rivoluzione Obama sia un clamoroso fallimento dal punto di vista politico, Obama “logo” ha comunque vinto. Come? Con la creazione di un sogno talmente potente da poter far dimenticare tutto il resto. Instillare nella mente di un popolo globale, vittima dei media, una forma di democraticità visiva assoluta, come nel caso di Obama, permette di compiere ciò che prima non si sarebbe potuto fare senza evitare proteste o indignazioni. Attaccare le politiche dei Bush di turno era fin troppo facile. Bisognava costruire un nuovo presidente che sin dal primo impatto fosse inattaccabile. I discorsi, gli slogan, le promesse sono tutto un contorno di un prodotto costruito e venduto per offuscare la mente e penetrare dove prima non si poteva arrivare.
Le politiche di Obama sono le stesse dei suoi predecessori, non c’è stato nessun “mondo nuovo”, ma è cambiato il sentire comune. Ecco la vittoria, l’obiettivo dello Zio Tom che è riuscito a costruirsi un bunker di immagine impenetrabile.
La dimostrazione di quanto detto si palesa nella assenza di protesta. Dove sono finiti i grandi movimenti pacifisti? I no global? Tutti stregati dal sogno perché anche loro, pur negando, ne fanno parte. Dove è finita la rabbia nei confronti dell’imperialismo americano? E le manifestazioni contro l’establishment a stelle e strisce? Le piazze sono vuote e l’indignazione è scemata. E una delle cause è proprio la figura mediatica di Obama. Attaccare un nero? Paragonarlo ad un dittatore? Affermare che il suo sogno in realtà si è sgretolato? Che quel paradiso made in Usa, in realtà, non esiste? Che il mondo è stato preso in giro? Sarebbe osare troppo per il gregge di pecore dei nostri giorni. Mai come per Obama, il mercato economico mediatico che fa da contorno al presidente della Casa Bianca, è stato così potente e così minuziosamente progettato. Si è riusciti a vendere un’utopia che, ancora oggi, condiziona il pensiero delle persone. Obama, in definitiva, è un marketing studiato, elaborato e venduto, un prodotto che rappresenta tutto il potere mediatico, politico e illusorio della “democrazia” americana.
di Claudio Cabona

24 luglio 2011

Stress test e contenzioso sommerso






La scorsa settimana abbiamo avuto comunicazione che Bankitalia – BCE hanno eseguito lo stress test sulle 5 maggiori banche italiane, e che tutte lo hanno superato. Quanto vale questo risultato e il metodo che lo ha prodotto? Perché i mercati l’hanno bocciato, affondando le azioni bancarie?

Base degli stress test, ossia dei test di solidità delle banche rispetto a possibili shock finanziari, è la consistenza patrimoniale delle banche medesime. Il grosso dell’attivo patrimoniale delle banche è dato, ovviamente, dai crediti verso i clienti e verso gli stati. Quindi il punto di partenza di ogni stress test dovrebbe essere la verifica dell’effettiva sussistenza dei crediti vantati in portafoglio, e del grado di solvibilità dei rispettivi debitori.

Gli stress test sinora condotti, a quanto si capisce, si basano sui dati di bilancio dichiarati dalle banche stesse, e non verificano se essi siano veritieri oppure no: vedi il press release 23.07.11 della BCE. Eppure, molti, recenti e clamorosi episodi di crack finanziari hanno dimostrato che sovente le grandi società (Parmalat, Halliburton, Lehman Brothers), così come fanno le piccole, al fine di ottenere o mantenere crediti o investimenti, dichiarano dati molto migliori di quelli reali. Sappiamo inoltre che tutte le società sono in grado di aggiustare i bilanci, quando serve, e che molte lo fanno (window dressing). Quindi il prendere per veri i dati dichiarati dalle banche che si dovrebbe controllare rende gli stress test pressoché inutili, come certificazione di solidità delle banche che lo superano. Se poi si deve controllare se una impresa sia solida oppure no, cioè se si vuole fugare il dubbio che sia pericolante, pretendere di farlo basandosi sui dati che essa stessa dichiara è ridicolo, è un controsenso come chiedere all’oste se il suo vino è buono.

La conseguenza è che l’esito degli stress test non è stato rassicurante. Gli esperti sanno che chi li esegue non esegue prima un controllo analitico e in proprio soprattutto della qualità e consistenza dei crediti che ciascuna banca ha iscritto nello stato patrimoniale, nonché delle garanzie che essa ha prestato per debiti di altri soggetti (solitamente, società-veicolo da essa controllate) e che sono, o dovrebbero essere, esposte nei conti d’ordine. Ricordiamo che la mancata considerazione di tali fattori di rischio da parte di analisti, società di revisione e autorità finanziarie è stata decisiva per i crack-frodi delle banche americane degli ultimi anni. Vedremo se in Italia si imparerà da quella lezione.

Nella realtà delle nostre banche, in effetti, mi risulta che molti crediti sono stati cartolarizzati, cioè ceduti dalle banche a società terze, ma, allo scopo di simulare una maggiore patrimonializzazione, vengono mantenuti contabilmente nell’attivo patrimoniale col pretesto che le banche partecipano le società cessionarie. Molti altri crediti sono mantenuti in bilancio come esigibili dalle banche, mentre i debitori sono morosi o addirittura insolventi. Traspare un mare di contenzioso sommerso, che le banche, ovviamente nel proprio interesse, non mettono in sofferenza.

Per fare stress test attendibili, bisognerebbe dunque prima controllare seriamente, con apposite ispezioni della Banca d’Italia, i conti delle banche interessate, togliere dallo stato patrimoniale i crediti convogliati su società veicolo non cedute, togliere quelli inesigibili, ed eseguire gli accantonamenti per quelli da incaglio (accantonamento pari al 35% del credito) e per quelli da contenzioso (accantonamento pari al 50%). Altrimenti i dati patrimoniali del bilancio sono falsi per supposizione di attivi inesistenti e occultamento di passivi esistenti. E ciò, dentro il mondo bancario, è ben noto. Onde la sfiducia verso operazioni di rassicurazione anche se blasonate.

Molte banche, di prassi, a quanto mi si riferisce, in violazione delle disposizioni di Bankitalia, non fanno le suddette quattro operazioni, perché se le facessero la loro patrimonializzazione si ridurrebbe a livelli di default o perlomeno critici per l’operatività. E qui ritorna l’incompatibilità logica di banche e loro controllanti o partecipate, che da un lato dovrebbero essere controllate e disciplinate da Bankitalia, mentre dall’altro lato la controllano come socie. Questo problema si estende alla BCE, partecipata da Bankitalia e co-autrice degli stress test.

Le società di revisione, che dovrebbero assicurarsi che le banche formulino bilanci veritieri, che rispettino le predette disposizioni e che facciano gli accantonamenti, si rivelano poco attive, se è vero quanto sopra riferito. Per farlo, dovrebbero prendere in mano le singole pratiche, o almeno i tabulati integrali. Ma lo fanno? La Consob, che istituzionalmente ha il dovere di vigilare su di loro, dovrebbe farsi più attenta e penetrante. I controlli devono essere credibili, devono farsi sentire, oppure…

Per fare le cose seriamente, propongo di mandare ispezioni a sorpresa nelle filiali e nelle sedi centrali, richiedendo i tabulati completi dei crediti in essere, con indicazione delle cessioni , per verificare se siano state eseguite o no le debite rettifriche; delle morosità, per verificare se siano stati fatti gli incagli, le segnalazioni e gli accantonamenti prescritti; ma anche per richiedere le pratiche dei debitori ammessi a “benefici” quali dilazioni, sospensioni, differimenti delle rate o degli interessi, onde verificare la condizione patrimoniale e reddituale dei debitori beneficiari, imprese o privati che siano.

Queste sono tutte agevolazioni sponsorizzate dal governo a vantaggio sì dei consumatori-clienti ma anche delle banche, che beneficiano della regolarizzazione figurativa delle posizioni debitorie nel sistema differendo di anni la loro problematicità e ricavandone un’ottima immagine, un’immagine di competenza e coscienziosità e solidità, da spendere anche politicamente.

Infatti molto spesso tali benefici sono mascheramenti di morosità e posizioni insolventi, che andrebbero cancellate dall’attivo patrimoniale o quantomeno controbilanciate con accantonamenti del 35% o del 50% a seconda dei casi. Benefici del tipo “sospensione per 24 mesi dei pagamenti” comportano, per chi è già moroso di massimo 12 rate, che la mora si faccia figurare sanata mentre non lo è, e che altre 12 rate a scadere, che pure non saranno pagate, figureranno pagate. Poiché tali benefici sono stati applicati a milioni di soggetti, se si dovesse sollevare la foglia di fico che essi costituiscono, salterebbe fuori un mare di morosità e inesigibilità di crediti, che pure dovrebbero essere tolti dall’attivo patrimoniale delle banche, o controbilanciati coi predetti accantonamenti. Ma la sospensione finisce, prima o poi, e allora il marcio riaffiora o riaffiorerà. E questa è una mina a scoppio ritardato, che, frazie anche agli incoraggiamenti del governo, ci ritroviamo nella pancia.

Il risultato di tutte queste operazioni di correzione dei bilanci, di riduzione di attivi fasulli, sarebbe, verosimilmente, il crollo del settore bancario italiano, in quanto illiquido e decotto, gonfio di crdditi inesigibili o ceduti. Se e quanto la cosa emergerà, la capitalizzazione delle banche italiane quotate, già scesa da 222 a 75 miliardi in 4 anni nonostante i cospicui aumenti di capitale, potrebbe scendere alle più oscure profondità. Evitare o rinviare questo esito, è forse l’unica giustificazione del maquillage detto stress test: se non si maschera lo stato di decozione delle banche, succede il disastro, qualcosa che la politica non saprebbe governare.

Il vecchio carrozziere in pensione, davanti a cui ho letto e corretto il presente articolo, annuisce e conferma: “Sì, ricordo di quando venivano da me gli ispettori della banca centrale a farsi riparare le loro vetture private richiedendomi di fatturare come se avessi riparato automobili delle banche che erano venuti a controllare, su indicazione e precisi accordi con le direzioni di queste. Può immaginare l’attendibilità di quei controlli.”

La via per ristabilire, insieme, la verità economica e l’affidabilità delle banche, esiste, ma è contraria agli interessi dei banchieri, perché espone la natura della loro attività, e qui l’accenno solamente (ampiamente ne ho parlato nei saggi Euroschiavi e La Moneta Copernicana): essa inizia col rilevare che sono omissive le annotazioni di uscita di cassa e di entrata ( ”accensione” ) di un credito che accompagnano l’erogazione ( di crediti) da parte delle banche, perché non riportano che ciò che esce di cassa – il credito, la moneta bancaria – non preesiste all’erogazione, ma è creato dalla banca stessa. mediante l’atto dell’erogazione di credito. Quindi il corrispondente credito con essa generato non è controbilanciato dall’uscita di cassa di denaro o valore preesistente, ma è un ricavo netto, cui si sommeranno i pagamenti di interessi. I risultati di gestione e lo stato patrimoniale dovrebbero essere rivisti di conseguenza. E anche le tasse applicabili alle banche, naturalmente. In tal modo il problema della patrimonialità delle banche sarebbe radicalmente superato, e insieme quello della finanza pubblica. Ma far emergere questi redditi occulti presupporrebbe la rinuncia a usare, come oggi si usa, la moneta e il credito come strumenti per dominare la società e l’economia, anziché per fare il loro bene favorendo loro sviluppo.
di Marco Della Luna

23 luglio 2011

La vogliamo finire con gli indugi?

E’ da quasi vent’anni che ci raccontano balle a non finire; non nel senso che tutto quanto viene detto è pura menzogna, ma si deviano gli obiettivi, si cerca di nascondere quali sono quelli reali. Nel ’92, gli Usa (quelli di Clinton) attaccarono in pieno il regime Dc-Psi in Italia, coadiuvati dalla Confindustria agnelliana, i “poteri forti” sempre in auge, quelli che – tenendo conto che dalla prima rivoluzione industriale siamo passati alla terza ed è trascorso un secolo e mezzo – corrispondono ai cotonieri del sud degli Usa, il cui “seppellimento” (in senso spesso letterale) è stato il vero atto di nascita della potenza Usa. Noi non abbiamo la pretesa di divenire quello che sono diventati gli “oltreatlantici”, ma un bel “seppellimento” di tali “poteri forti” – con i loro corifei pseudo-politici – sarebbe l’autentico toccasana per questo paese.

Invece no, si fanno manovre antipopolari (anti-ceto medio e medio-basso soprattutto). Ci si racconta della speculazione dei cattivi finanzieri, ci si scatena contro la Casta. Quest’ultima va aggredita non tanto nei suoi privilegi, ma nei settori che più sono manutengoli dei poteri forti e degli Usa (quelli di Obama, eredi di quelli di Clinton). Anche vent’anni fa ci si disse (sia chiaro, era in parte vero, non voglio difenderli) che i politici erano tutti ladroni. Si salvarono però i rinnegati, quelli che avevano già negli anni ’70 (anche attraverso opportuni “viaggi”) tradito il loro “campo d’origine”, ma che poterono manifestare apertamente il loro voltafaccia solo al crollo del socialismo e dell’Urss, in casuale ma opportuna coincidenza con l’ascesa degli ambienti statunitensi rappresentati da Clinton.

I rinnegati erano ladroni come gli altri, ma una magistratura addomesticata li salvò (qualche ingenuo, che credé di poterli perseguire, ricevette l’opportuna “lezione”). La magistratura era però strumento d’oltreoceano e dei “poteri forti”, i nostri “cotonieri” che non ricevono mai la lezione definitiva impartita ai “confederati” nel 1861-65. Nei primi anni ’90, il crollo repentino del campo socialista implicò la fretta del “colpo di Stato” mascherato da giustizia e l’altrettanto frettoloso passaggio di campo dei rinnegati (che l’avevano compiuto già da anni, ma si erano tenuti nascosti come fanno tutti i furfanti di bassa tacca). Si presentò questo “naso di Cleopatra”, cioè questo “accidente storico” che fu Berlusconi, e il piano originario fallì. Allora apriti cielo! Vent’anni di inganni e prese in giro. Ogni secondo momento vi era l’ascesa del “fascismo” (berlusconiano), dall’altra parte agivano ancora “comunisti” e “toghe rosse”.

Un rimbecillimento totale, che oggi si ripete con l’attacco alla Casta, fonte di tutti i mali. Nessuna difesa di quest’ultima. Sarei felice se venisse un gruppo politico capace di spazzarla via e di portare i “bivacchi” in Parlamento; non è però questo il reale obiettivo finale. Bisogna spazzare via i nostri cotonieri, bisogna tagliare le unghie ai burattini degli Usa di Obama che, eredi di quelli di Clinton, vogliono ora concludere l’operazione non riuscita allora. Difficile sapere i mezzi adottati per appiattire completamente il nostro premier attuale (non credo per molto tempo ancora), che è ormai ridotto a dire: “non volevo fare questo o quello”, “l’avevo detto che ci si imbarcava male” e cose consimili. Ormai non conta nulla; è tenuto in piedi dalla Casta (in cima alla quale c’è chi non si può nemmeno nominare a dimostrazione di quale democrazia esista oggi in Italia) perché così vuole il “bell’abbronzato”, tenuto conto che non c’è alcun repentino crollo di un (ormai inesistente) polo avverso; di conseguenza, nessuna fretta di approfittare della situazione. Si può procedere con calma, con qualche mese di tempo (o forse qualche settimana o forse molti mesi). Impossibile fare previsioni esatte; l’importante è stavolta preparare bene il “poppolo” a prenderla in c…. senza che arrivino altri “accidenti storici” e si becchino i voti dei “moderati”.

Tanti sono i conniventi: alcuni consapevoli in quanto autentici sicari degli Usa di Obama e dei nostri finanzieri e industriali del piffero, parassiti che bisognerebbe disinfestare come il nord fece con i cotonieri del sud negli Usa ottocenteschi; altri invece sciocchi nel loro opportunismo, tipo i leghisti, pronti a reimboccare la strada giustizialista di vent’anni fa, che non porterà loro nulla di buono. Solo qualche loro personaggio, fattosi fama alla guisa di Erostrato, passerà alla fine con i vincitori (sapete già i nomi di alcuni di questi bei tomi, no?). Perché un altro degli inganni, utili a fregare questo “poppolo” di rincoglioniti, è quello del dissidio nord-sud. Adesso si è trovato il pomo della discordia nella “monnezza”, ma si rinfocolerà sempre l’astio; i “nordici” stufi di certi indubbi comportamenti odiosi dei meridionali, questi ultimi che, altrettanto giustificatamente, avversano gli atteggiamenti di superiorità dei primi. Alla fine, chi metterà tutti d’accordo sarà l’Inno di Mameli, la ritrovata (nella retorica degli affossatori del paese) Unità d’Italia, la Costituzione, che ormai hanno fatto diventare odiosa perché chi la difende è odioso, è ipocrita, ci sta svendendo agli Usa di Obama (e ai “cotonieri” italiani).

Occorre uno sforzo per ripercorrere gli ultimi vent’anni, cercando di riportare alla luce l’attività dei rinnegati e liquidatori del paese, quelli che dovrebbero essere processati per alto tradimento. Occorre riandare agli anni cruciali del dopoguerra, soprattutto al decennio ’70 (perché qui si annida il “serpe” che continua ad avvelenarci). Purtroppo hanno celato tutto dietro spesse cortine fumogene. Cominciamo a lanciare altre ipotesi rispetto a quelle della schiera dei traditori, che in quegli anni prepararono le svolte da cui si è originata l’infezione degli ultimi vent’anni e l’attuale cancrena; azione favorita da un laido ceto intellettuale di “estrema sinistra”, fonte della purulenza che ci avvolge e che trasuda dalla stampa, dall’editoria, dai mass media. Lanciamo sempre il nostro appello favorito : vogliamo infine il Grande Chirurgo, che operi e amputi il paese di tutto il marciume politico e intellettuale. Noi siamo però “piccini”. Cominciamo quindi dal poco, dal mettere ordine in certi eventi.

Smettiamola, se possibile, con questa diffidenza che sta bloccando utili rapporti. Abbiamo provenienze (politiche, ideologiche, ecc.) diverse, ma non sono pochi quelli che avvertono il malanno che ci ha colpiti. E poi, detto esplicitamente: perfino tra coloro, che in fondo si sentono ancora vicini agli Usa, ci sono individui per nulla d’accordo con i farabutti, nostri seviziatori. Abbiamo per troppo tempo agito in modo un po’ manicheo, con mentalità da computer, o sì o no; non è così, siamo entrati in un’epoca di grandi sfumature e di colori cangianti a seconda del tempo “meteorologico” e dell’angolo di incidenza della luce.

di Gianfranco La Grassa -

22 luglio 2011

La “sovranità”, questa sconosciuta

Diciamocelo francamente: nelle differenti nazioni europee, di fronte alla “crisi”, ciascuno scrive e dice la sua sul modo più adeguato per uscirne, ma pressoché inesistenti sono le voci che si ergono per rivendicare la precondizione necessaria per poter dare una parvenza di realizzabilità a qualsiasi delle ‘ricette’ proposte…

Tra costoro vi è difatti chi auspica maggiori dosi di “società civile” e di “democrazia dal basso”, chi rivendica le ragioni del “socialismo”, variamente declinato, chi sostiene invece che dovremmo “decrescere” e “tornare alla natura”, chi addirittura ci ripete che non siamo abbastanza “liberali” e “liberisti”, quindi non sufficientemente “moderni”; chi infine, considera – certo con maggior acume – che, in fondo, questa “crisi” a tutti gli effetti planetaria è “di civiltà”, ma poi, in luogo di una dottrina e un esempio di carattere spirituale, ci sciorina la sua “ideologia religiosa” scambiando la “conversione interiore”, ovvero la metanoia[1], per una facile ricetta politica che d’incanto dovrebbe risolvere tutti i mali: “la soluzione è l’Islam!”, ripetono i fautori del cosiddetto “Islam politico” che tanto da scrivere danno ai cosiddetti “esperti d’Islam”.

Tutti, certo in varia misura, hanno una qualche ragione e colgono alcuni aspetti importanti, ma nelle loro argomentazioni, che è possibile quotidianamente leggere in svariati giornali e siti internet, vi è un grande assente, caduto nell’oblio più profondo: la sovranità.

Sovranità “nazionale” o “continentale” (la differenza non è di mero dettaglio), qui, ai fini del discorso che intendiamo svolgere, poco importa[2]. In primo luogo, manca nella maggioranza delle persone, in Europa, nel cosiddetto “Occidente”, l’anelito ad essere signori sulla propria terra; a non dover rinunciare, a beneficio di estranei, a questa prerogativa; a detenere insomma il possesso delle “chiavi di casa”!

Il nocciolo della questione del “comandare a casa propria” non sta però negli sbrigativi e roboanti termini posti da movimenti “identitari” sorti un po’ dappertutto in Europa dopo la fine del blocco sovietico. Sebbene non sia il caso di liquidare le loro rivendicazioni con la classica spocchia del “radical chic” che ostenta un monopolio della moralità, va detto che tutto il loro infuriarsi contro lo “straniero” è tutto fumo e niente arrosto, perché alla prova dei fatti, anche dove governano loro (vedasi l’Italia, con la Lega Nord) la patria vede crescere esponenzialmente la presenza di stranieri sul proprio territorio, né – ed è la cosa più grave per chi ripete di continuo “padroni casa nostra”! – dice mai mezza parola sulla presenza del suolo patrio di oltre cento basi ed installazioni Usa/Nato. Mai mezza parola, il che è strano davvero, perché non si vorrà certo credere che in Italia, ad esempio, comandino i marocchini (o gli “islamici”, termine appositamente coniato per rinfocolare l’islamofobia)!

Ma questi, come tutti gli altri, sono i politici, gente navigata per tutte le stagioni, che fiuta la rogna insita nel sollevare il problema “basi Usa/Nato in Italia”, per non parlare di tutta quell’influenza a vari livelli stabilita tramite “corporation”, finanza, media e, non ultime, le ambasciate (come dimostrato in questi giorni in Siria, dove il locale ambasciatore statunitense è stato pescato in combutta coi “manifestanti”).

Stabilito che non è né giusto né sostenibile alla prova dei fatti un afflusso di stranieri quale quello che viene sopportato dalle nazioni europee[3], e rilevato che agli occhi dell’immigrato l’Italia, la Spagna, la Francia eccetera esistono solo come “opportunità”, né provoca il lui alcuno sgomento l’attuale condizione di servilismo verso interessi antitetici rispetto a quelli della comunità nazionale che lo ospita (l’ultimo scandalo, in ordine di tempo, è la partecipazione all’aggressione alla Libia), vi è da dire che tutto il bla bla che si fa sulla “uscita dalla crisi” non porterà assolutamente a nulla se non si affronterà per prima cosa l’istanza che sta alla base di un’azione politica fattiva ed incisiva: la questione della sovranità.

Chi dovrebbe però sollevarla una volta per tutte? I politici no di certo, perché in questa situazione ci sguazzano alla perfezione, visto che, quand’anche l’attuale “crisi” si trasformasse in uno “tsunami” essi cadrebbero sempre in piedi, poiché le ricette “lacrime e sangue” sono sempre a carico del gregge da tosare e non a loro carico, rappresentando la tipica casta di “nababbi” rimpinzati a dovere dai loro padroni (la finanza apolide) affinché svolgano fedelmente il compito assegnato loro[4].

Né gli immigrati, come detto, per i quali il problema non sussiste. Vengono in Europa per trarne i maggiori benefici economici e sociali possibili, ma se poi l’Italia o altre nazioni sono delle mere entità geografiche villaneggiate da tutto e tutti ciò non li turba affatto. Anzi, buona parte di costoro s’illude di essere sbarcata nel Paese di Cuccagna della “libertà”, della “democrazia” e dei “diritti umani”, finendo per credere alla propaganda degli stessi che hanno affamato le loro patrie e creato così le premesse per la loro emigrazione!

Rimane, pertanto, l’autoctono, l’italiano, il greco, lo spagnolo, il portoghese eccetera che però è stato “educato” con dosi da cavallo di “antifascismo”, che scavando nel profondo provoca vergogna di se stessi e di quel che di buono è stato fatto, se non addirittura “odio di sé” e delle proprie origini[5]. Il prodotto di un simile certosino condizionamento induce i più a credere che la pretesa di vivere in una nazione sovrana ineluttabilmente proporrebbe una riedizione del “male assoluto” dell’era contemporanea... In questo clima malato, siamo certi che un governo che, chissà per quale miracolo, riprendesse le redini della politica monetaria e delle sue forze armate verrebbe immediatamente tacciato di “fascismo”, eppure ciò è una cosa ben strana, perché tra le prerogative della sovranità vi sono appunto il “battere moneta” e il “monopolio della forza”! Invece, nelle odierne liberal-democrazie la moneta è in mano a noti – e ripetiamo noti - privati che la prestano allo Stato ad interessi usurai, mentre le forze armate, con la scusa della “guerra al terrorismo” (“islamico”!), sono utilizzate da un capo all’altro del mondo – con costi sempre più elevati per la comunità nazionale – a difesa degli interessi della medesima genia di sfruttatori del genere umano che campa sull’usura. Attività che, è doveroso ricordarlo, è stata interdetta da tutte le tradizioni ortodosse, compresa quella islamica, ed è anche per questo che si dannano così tanto per presentare male l’Islam e il Corano…

Rebus sic stantibus, Italia, Spagna, Grecia, Portogallo eccetera sono delle mere finzioni, o convenzioni, dato che nessuno governo “italiano”, “spagnolo”, “greco”, “portoghese” eccetera è in grado – quand’anche lo volesse – di far valere la sovranità nazionale, in qualsiasi campo d’interesse pubblico. Questi “governi nazionali” convenzionali sono insediati (votati dagli allocchi e da chi ha un interesse clientelistico) solo per far sì che la massa bovina venga vessata dalla mattina alla sera, spolpata con tasse e balzelli sempre più esosi, ingabbiata con una rete capillare di leggi sempre più incomprensibili e promulgate ad un ritmo parossistico; il che, se si aggiunge allo scollamento sociale provocato anche dall’eccesso di immigrati sul suolo nazionale (ma anche dal disastro di civiltà in atto), configura una situazione in cui non è eccessivo affermare che i “governi nazionali” sono messi lì per fare sistematicamente la guerra alle popolazioni da essi “governati”.

E se anche un sussulto di dignità provenisse da un “pazzo” emerso dalla servile classe dirigente, subito il circo mediatico, questa autentica macchina da guerra in mano agli stessi potenti apolidi usurai, si metterebbe a screditarlo come “fascista”. Quel che è più tragico, è che buona parte della popolazione autoctona, come anzidetto “educata” a dovere, si accoderebbe volentieri alle lagnanze dei “media internazionali”, di cui esiste sempre una voce in loco pronta a recepirne le grida.

Eppure, a tutti costoro, “campioni di moralità”, andrebbe una buona volta ricordato come sia impossibile realizzare alcunché – anche i loro strampalati deliri utopistici – se manca il prerequisito necessario per svolgere un’azione politica fattiva: la sovranità.

S’immagini infatti un corpo umano in cui alcune parti venissero in qualche modo eterodirette: la mente dice di fare una cosa (“prendi il bicchiere”), ma la mano destra lo prende e lo getta a terra perché è governata da altri. Che cosa accadrebbe? Un uomo ridotto a questo livello impazzirebbe in poche ore. Oppure si pensi ad una persona che prima di fare qualsiasi cosa debba rispondere ad un’altra: se tra queste vi fosse anche il respirare e quella glielo impedisse, certamente soffocherebbe all’istante. Oppure, per cambiare metafora, parimenti calzante, si pensi a una casa nella quale ci appassioniamo per la scelta del mobilio, della tappezzeria e del colore delle pareti (le elezioni e le “opinioni politiche”, in pratica), ma di cui non possediamo le chiavi!

Tutte situazioni palesemente assurde, per chiunque, ma quando si tratta di passare alla politica, analoga constatazione non desta alcuno scandalo. Ciò in parte è dovuto ai condizionamenti “culturali”: decenni di “rieducazione” hanno scavato in profondo; per di più la “brutta fine” di chi ha provato ogni tanto ad alzare la testa non induce all’eroismo… Inoltre, il “clima” liberal-democratico infonde uno stato d’animo alieno rispetto a qualsiasi aspirazione alla sovranità, perché – come più volte ho rilevato – una civiltà la si misura essenzialmente nel “tipo umano” che essa forgia.

E qui ci avviciniamo al punto centrale della “questione sovranità”. Il mondo moderno, quello della liberal-democrazia (libertà, democrazia, diritti umani) è per prima cosa un sistema di vita informato secondo valori atei, che prescindono dall’esistenza di un Principio assoluto, dunque invertiti rispetto a quelli che sono i cosiddetti “valori tradizionali”. L’uomo moderno, che si compiace della sua “modernità” è un tipo umano che per prima cosa diverge da se stesso, per questo cerca costantemente il di-vertimento.

Ora, divergere da se stessi significa abdicare da quell’imprescindibile compito che il Principio, il Creatore di tutte le cose, Allâh, ha indicato all’uomo nel Libro sacro (il Corano) e nell’esempio virtuoso[6] del Suo Inviato (Muhammad) affinché egli possa fare ritorno a Lui, ed in pratica conoscere se stesso: “Chi conosce se stesso conosce il suo Signore”, recita un noto hadîth. L’uomo realizzato è essenzialmente sovrano.

Ma a chi interessa oggi essere sovrani di se stessi? Giungere a questo punto significa annullare il proprio sé egoistico, ridursi a uno zero, come concordano tutti i saggi dell’Islam, e non solo, per realizzare l’Uno. Questa “grande vittoria” è alla portata solo di pochissimi eletti, ma tutti gli altri – me compreso! - hanno quantomeno il dovere di tendere verso questo scopo, che è la signoria, la sovranità interiore. Sayyid, letteralmente “signore”, da cui Sayyidî (o Sîdî, “mio Signore”) è appunto il “santo dell’Islam”, perché egli ha conosciuto il suo Signore, pertanto solo questo “vero uomo” ha le credenziali per essere chiamato a sua volta “mio signore” dagli altri.

Intendiamoci, non si tratta di una passeggiata, perché l’ascesi è quanto di più selettivo possa esserci, il resto potendosi contraffare in tanti modi: la vera “élite” è difatti solo spirituale, mentre le altre “élite”, da quella del denaro a quella della “cultura” eccetera, sono solo contraffazioni consone all’epoca “oscura” in cui viviamo.

Certamente, un’epoca abitata da uomini che non ne vogliono sapere di conoscere il loro Signore, di ripristinare la signoria interiore, ma anzi si “ribellano” pervicacemente, non può distinguersi per un anelito alla sovranità della propria patria: l’indifferenza verso la sovranità politica è specchio di quella per la sovranità interiore…

Oggi, la maggioranza degli uomini cosiddetti “moderni” preferiscono mettersi una delle innumerevoli “maschere sociali” e recitare così una “parte” per tutta la loro vita; ma i sîdî, i mawlâ[7], hanno smesso ogni maschera scoprendo la loro vera essenza.

Perciò, un sano anelito alla sovranità (nazionale, o continentale) non può sorgere da individui in preda alle proprie passioni, immersi nel mondo della dispersione dalla mattina alla sera (e anche quando dormono!), ma solo da coloro che hanno realizzato la loro sovranità interiore per “vivere nella verità”. E certo non promana dalla verità il vivere perennemente sotto un giogo straniero, per di più se esso porta le insegne dell’usura e del traviamento degli esseri umani finalizzato a trasformare in carbone per l’Inferno le loro esistenze…

Ma quanti sono, oggi, i “signori”, i sîdî? Pochissimi, certo, né il loro compito è quello di far “politica”, così com’è inteso oggi il termine. Essi devono solo guidare gli altri uomini, indicare loro la “via”.

Tuttavia, se un numero sempre maggiore di persone, di fronte al nulla del “mondo moderno”, si renderà conto che così non è possibile andare avanti, ma è necessario affidarsi ad una “guida” per scoprire il cammino che conduce alla signoria interiore, ciò avrà senz’altro delle implicazioni anche sulla sovranità esteriore, perché la l’anelito all’autorealizzazione e l’accettazione delle convenzioni e delle falsità che sostengono l’attuale “mondo moderno” non possono andare d’accordo. Tra queste falsità vi è appunto l’idea che non si possa vivere in una nazione sovrana (preludio di uno spazio sovranazionale) senza precipitare nuovamente nel “male assoluto”.

È tempo di svegliarsi. Di uscire da quest’illusione senza speranza. È ora di smettere di aver paura e di essere finalmente uomini. Ma per far ciò bisogna affidarsi a chi è uscito dallo stato di sonno nel quale noialtri, gente comune, siamo immersi. Questa è la precondizione per far sì che anche un sano anelito alla sovranità esteriore, nei suoi aspetti fondamentali e, in fondo, “tradizionali”[8], possa riecheggiare nei nostri cuori e nelle nostre menti, facendo piazza pulita degli “idoli” del mondo interno, prima, del mondo esterno, poi (la “democrazia”, la “libertà”, i “diritti umani”, l’America, l’Occidente…)[9].

di Enrico Galoppini



[1] Conversione spirituale, ravvedimento unito a pentimento, che implica un cambiamento radicale di vita.

[2] Non è questa la sede per entrare nel dettaglio, ma basti osservare che anche una rapida osservazione di tipo storico e geopolitico degli eventi del passato c’insegna che “sovrane” possono diventarlo sono le entità sovranazionali di carattere imperiale, perché sono le sole a poter disporre dei fattori di carattere politico, demografico, economico, militare e, soprattutto, spirituale, che configurano un’autentica sovranità rispetto alle entità confinanti. Anche nell’epoca moderna, gli espansionismi di iniziali Stati-nazione moderni come l’Inghilterra, la Francia o l’Italia si sono risolti nella formazione (o nel tentativo frustrato da una sconfitta militare) di entità sovranazionali di tipo imperiale. Questo per dire che la mera “sovranità nazionale” può essere solo una base, ma non è sufficiente per risolvere la questione della sovranità stessa, altrimenti dovremmo dar ragione a tutti quegli indipendentismi sempre più diffusi nel mondo che per ogni “popolo” rivendicano un effimero “Stato indipendente e sovrano”.

[3] I soloni che pontificano sulle virtù della “società multietnica” abitano quasi tutti in zone altolocate e nient’affatto “multicolori” delle varie città europee.

[4] Dall’arabo nâ’ib (pl. nuwwâb): “rappresentante”, “colui che fa le veci”, “sostituto”, quindi “deputato”; il che ci riporta all’India dominata e rovinata dall’Inghilterra, dove a gestire gli affari locali per conto della City di Londra venivano posti compiacenti “signorotti” indiani adeguatamente pasciuti; questo, in pratica il tanto decantato “governo indiretto” britannico (indirect rule) addotto ad esempio di “efficienza”: lo stesso massimo risultato col minimo sforzo raccolto nelle nazioni europee conquistate dopo il 1945, dove i militari statunitensi e gli agenti della City non si fanno accuratamente vedere in giro per non destare sospetti.

[5] L’opera di condizionamento sistematico delle popolazioni “occidentali” è infatti di tipo psicologico: di qui il trionfo della psicanalisi e l’adozione di tecniche di condizionamento mentale in ogni campo, non ultimo quella della cosiddetta “informazione”, prodotta da squadre di esperti che conoscono bene le tecniche di manipolazione psicologica.

[6] Il termine “virtuoso” deriva dal latino vir, “uomo”: il vero “uomo”, l’uomo “virile”, è quello che, attraverso le “virtù” (che coincidono con le qualità dei 99 Nomi Bellissimi di Allâh!), ha realizzato la perfezione, giungendo alla Stazione più elevata cui possa aspirare. Gli altri possono solo seguirne l’esempio, rivivificato da quello dei Maestri viventi.

[7] Per una spiegazione del termine mawlâ, importante anche nella logica di questo discorso sulla “sovranità”, rimando al mio La via dell’Inferno è lastricata di “proteste”: http://europeanphoenix.net/it/index.php?option=com_content&view=article&id=80&catid=3.

[8] S’è mai visto un “Califfato”, un “Impero di Mezzo” o un qualsiasi altro Impero concepito come un’entità non sovrana?

[9] Il simbolismo della distruzione degli idoli contenuti nella Ka‘ba – simbolo del “cuore” - da parte del Profeta dell’Islam, una volta conquistata Mecca, è eloquente. Prima il jihâd interiore, poi quello esteriore, e la riconquista, a tutti gli effetti, della sovranità in entrambi i domini.

21 luglio 2011

Il peso delle Regioni tra stipendi d’oro e mega consulenze


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Secondo copione, il presidente della Conferenza delle Regioni, Vasco Errani, ha accusato il governo di scaricare sulle Regioni poco meno di metà dei costi della manovra. E ha minacciato (i cittadini): così ci saranno meno sanità pubblica, meno trasporti pubblici, meno aiuti alle imprese. Secondo copione, nessuno guarda in casa propria per verificare se tutto è a posto, prima di danneggiare i cittadini. E le Regioni italiane — con i dovuti distinguo — l’occhio sui propri conti avrebbero dovuto metterlo da molti anni. Magari è folklore ricordare certe spese pagate dalla collettività appena pochi anni fa: 75 mila euro, in Veneto, per uno studio sullo «sviluppo del turismo congressuale verso forme di organizzazione e gestione evolute» , 10 mila euro in Toscana per una consulenza «in materia di procedure di acquisto di beni di rappresentanza» , 192 mila euro in Campania per un «team di animatrici di pari opportunità» . È folklore ricordare — come fa il giornalista Mario Giordano — che presso la Regione Lazio, anno 2009 (era Marrazzo), furono spesi 6 mila euro di caffè per le riunioni di giunta, molte tazzine per ciascun assessore. Più sostanziale è la notizia che la Regione Sicilia ha più di 19 mila dipendenti, ognuno dei quali costa in media 43 mila euro l’anno (il 40 per cento in più dei ministeriali romani). Il governatore della Sicilia, Lombardo, ha annunciato pochi giorni fa, su Libero, che non aspetterà una legge nazionale per abolire le sue Province, ma lo farà «subito» , in virtù dello statuto speciale che regola la sua Regione. Solo che lo stesso identico annuncio lo aveva fatto alla fine della scorsa estate. A proposito di Lombardo: come presidente guadagna al netto il doppio dei 7787 euro (lordi) che prendono in media i governatori degli Stati americani. Il più pagato è il governatore dello Stato di New York che con i suoi 10.612 euro lordi guadagna meno di un deputato regionale sardo (11.417 netti) o del presidente della giunta calabrese (13.353 netti). La Regione che ha meno abitanti è il Molise (320 mila circa), governato dal 2001 da Michele Iorio (Pdl), e il Molise ha in proporzione il più alto numero di dipendenti: 2,79 ogni mille abitanti contro lo 0,39 in Lombardia, lo 0,59 del Veneto. I «regionali» molisani sono 981 e cento sono dirigenti. Nel Lazio, invece, c’è il record di commissioni consiliari: sono 20 contro otto della Lombardia, che ha il doppio degli abitanti. Le commissioni, alla Regione ora amministrata da Renata Polverini, costano 7 milioni l’anno e ogni presidente di commissione aggiunge mille euro ai 10 mila netti che percepisce ogni mese. I vicepresidenti, che sono 38, aggiungono soltanto 700 euro al mese. Nel Lazio 71 consiglieri, 20 commissioni, 17 gruppi consiliari (8 dei quali composti da un solo eletto) sono costati, secondo il bilancio dello scorso anno, 131 milioni 406 mila euro, con una crescita, rispetto all’anno precedente, di 15 milioni. Nel Lazio bastano 50 anni per cominciare a incassare il vitalizio che spetta di diritto anche a chi abbia concluso un mandato in consiglio regionale. Nel 2010 per 220 vitalizi Polverini ha visto volar via oltre 16 milioni di euro. Sempre il Lazio ha il record della spesa-clou delle Regioni, la spesa sanitaria. Per ogni cittadino la regione della capitale spende 3349 euro, seguito da Abruzzo (3239), Calabria (3.090), mentre sul fronte dei più misurati stanno la Basilicata (1616), il Veneto (1665), la Puglia (1734). Entrando nel merito delle prestazioni si può ricordare che l’Emilia Romagna ha un centro unico che fa milioni di analisi l’anno al costo medio di 50 centesimi l’una, mentre in Campania, nei 1200 centri privati convenzionati, le stesse analisi pesano per 6-7 euro l’una. Le amministrazioni locali costano allo Stato quasi 150 miliardi della Cgia di Mestre, fra il 2001 e il 2008, le Regioni avevano aumentato le spese del 47,7 per cento. «Ministeri, Parlamento, Regioni, Province Comuni, tutte le pubbliche amministrazioni — ha detto in questi giorni David Ermini, presidente del Consiglio provinciale di Firenze— dovrebbero osservare dove sono le spese improduttive e tagliarle di netto. Smettendo di rinfacciarsi pateticamente le responsabilità» .
di A. Gar.