31 marzo 2013

La presidente argentina esorta i leader europei a opporsi ai “predatori finanziari”



 Aprendo la nuova legislatura del Congresso Nazionale il 1 marzo, la Presidente dell’Argentina Cristina Fernandez de Kirchner ha puntato il dito contro i leader mondiali che si piegano ai fondi speculativi e che cercano di distruggere le nazioni, invece di difendere il benessere delle loro popolazioni.
Cristina Fernandez ha parlato del default argentino nel 2001-2002 e della conseguente ristrutturazione del debito sovrano, che ha costretto i detentori di titoli di stato (in larga parte stranieri) ad accettare una riduzione del valore nominale, gonfiato, di tali titoli, indicando il disastro in Europa. "E’ probabile che molti altri paesi, prima o poi, pur negando il disastro, ristrutturando e attuando salvataggi bancari, saranno costretti a ristrutturare il proprio debito riducendo i pagamenti ed i tempi di rimborso. Altrimenti come potranno pagare paesi come Grecia, Spagna e ora l’Italia, che a quanto scopriamo ha il dramma di non avere un governo?"
In questo contesto, ha aggiunto, le battaglie giudiziarie dell’Argentina contro gli speculatori e i loro fondi pirata, che continuano ad esigere il pieno pagamento, più gli interessi, sui titoli che detengono, sono emblematici, non solo in termini economici e finanziari, ma anche come un test politico. "La questione è se i principali leader mondiali, i membri del G-20, i capi degli istituti di credito ed i governi di varie nazioni del mondo lasceranno che una manciata di predatori finanziari – che si contano sulle dita di una mano – mandino in rovina il mondo intero, creino milioni di disoccupati, persone disperate che si suicidano, che hanno perso il lavoro, non possono andare a scuola, hanno perso la casa, o se daranno invece la priorità alla loro società, alla loro nazione, alla loro storia ed al loro patrimonio. Questo è in ballo oggi" ha dichiarato la Fernandez.
Riferendosi al calo della produzione industriale in Europa, e in particolare in Italia, ha considerato che "viviamo in un mondo strano, dove i leader che hanno più responsabilità, perché nei loro paesi si è generata la crisi, non hanno una percezione di ciò che sta avvenendo". E si è chiesta: "Come è possibile che si voglia sacrificare intere nazioni a dei piccoli gruppi" che esattamente come i fondi pirata che predano in Argentina "cercano di imporre le proprie condizioni al mondo intero?"
La Presidente argentina sottolinea che lo sviluppo scientifico e tecnologico è alla base del suo governo così come lo era di quello del suo scomparso marito, Nestor Kirchner, dichiarando che è sua ferma intenzione ricostruire l’infrastruttura scientifica che è stata decimata dalla giunta militare e dal regime del FMI dagli anni Settanta agli anni Novanta, costringendo decine di migliaia di scienziati e studenti universitari a lasciare il paese. Questo sarà al centro dell’attenzione anche in futuro, ha notato, giacché il paese dipende da ciò.
Quello che infuria il FMI, ha aggiunto, è che "fondamentalmente abbiamo avuto successo senza seguire la sua politica. Anzi, siamo andati contro tutte le cose che ci hanno detto di fare, e andiamo benissimo. Ecco perché vogliono punirci, non ci perdonano questo successo".

by  (MoviSol) 

30 marzo 2013

Scenari spaventosi e raccapriccianti



Paolo Becchi



 L’apertura delle consultazioni ed il conferimento del pre-incarico a Bersani segnano un momento decisivo per il MoVimento 5 Stelle. Decisivo, perché è nei prossimi giorni che il MoVimento dovrà dimostrare la propria forza politica e la propria capacità di non cadere nelle “trappole” che gli altri partiti gli tenderanno (come accaduto in occasione dell’elezione del Presidente del Senato). Secondo diversi opinionisti, politici e “intellettuali”, senza la formazione del nuovo Governo il lavoro del Parlamento non potrà iniziare. Personalmente non ne sono convinto, e sono ormai settimane che tento di spiegare questa posizione: con il Governo Monti dimissionario (e quindi in prorogatio di fatto), l’Assemblea può iniziare comunque la propria attività legislativa. A cominciare ad esempio dalla riforma della legge elettorale, dai tagli ai costi della politica e dall’eliminazione delle province.

 Ma andiamo avanti. Quali insidie, dunque, si preparano per il MoVimento? La tattica del Pd pare ormai abbastanza chiara. Bersani ha voluto ed ottenuto l’affidamento di un pre-incarico pur sapendo già di non poter ottenere la fiducia in Parlamento. Egli spera, probabilmente, di ripetere il bis rispetto a quanto accaduto con Grasso, di giocare d’azzardo confidando che, all’ultimo momento, alcuni senatori delle opposizioni finiscano per votare la fiducia al suo Governo. Il gioco del Pd è questo:costringere il MoVimento ad esprimere la propria linea politica a conti già fatti, ponendolo di fronte a un’alternativa secca: “O votate la fiducia oppure dimostrate di essere degli irresponsabili, perché è soltanto per colpa vostra che questo Paese è ingovernabile, per colpa vostra che si dovrà tornare a votare, per colpa vostra che i mercati reagiranno spingendo l’Italia (ancora una volta) verso il “rischio” Grecia.”


 È un’alternativa falsa, ed infida. Sarebbe il Pd, infatti, a dimostrarsi il vero irresponsabile decidendo coscientemente di formare un Governo pur sapendo che quest’ultimo non otterrà la fiducia. Chi sarà l’irresponsabile? Chi si dimostrerà incoerente e chi coerente? Chi è che da mesi ripete che non voterà nessuna fiducia a qualsiasi Governo Pd o Pdl che sia? È forse disposto il MoVimento a scendere a compromessi con questi partiti? A fare davvero delle distinzioni, delle eccezioni, delle valutazioni sul “meno peggio”? No, non può esserlo: i partiti politici vanno tutti combattuti sullo stesso piano; sono i nostri nemici politici, e con loro non è possibile alcuna alleanza. In questo il M5S ha dimostrato, negli ultimi giorni, tutta la sua forza politica: ha ribadito la sua netta opposizione ad ogni governo formato dalla partitocrazia, ha ripetuto che nessuna fiducia verrà accordata al Pd.

 Forse è per questo che il Pd potrebbe tentare di giocare un’altra carta, quella dell’“inciucio” con il Pdl, come le ultime dichiarazioni di Berlusconi sembrano suggerire. L’idea sarebbe questa: il Pdl vota la fiducia a un Governo Pd, e il Pd, in cambio, s’impegna a eleggere un Presidente della Repubblica che garantisca a Berlusconi di rimanere in Parlamento (visto il sempre più concreto rischio “ineleggibilità” di questi giorni) e di mettere fine attraverso immunità alla cosiddetta “persecuzione” giudiziaria (magari nominandolo senatore a vita). Berlusconi è disposto a tutto, ormai, a patto che gli venga assicurata la sopravvivenza: fine dei processi ed elezione “concordata” del prossimo Capo dello Stato. Così si muovono, in questa direzione, le strane trattative tra Pd, Monti e Lega, secondo trame invisibili e strategie del ragno da Prima Repubblica. Questa sarebbe la “responsabilità” politica di cui parla Bersani? Questa sarebbe la democrazia?

 Ancora un’ipotesi. Napolitano potrebbe tentare di proseguire nella linea della sua Terza Repubblica: imporre a Bersani di guidare un nuovo governo di “tecnici”, questa volta spostato a sinistra (Rodotà, Onida, Zagrebelsky, Marzano, forse qualche prete, qualche donna, qualche santo, qualche navigatore). Una forma di suicidio assistito, nelle mani del Presidente della Repubblica. Certo è che iniziare una nuova legislatura con un nuovo Governo del Presidente sarebbe un “colpo di Stato” ancor più grave di quello che portò, lo scorso anno, Monti alla Presidenza del Consiglio.

Tutte queste ipotesi, perché? Perché è evidente quello che sta accadendo: trovare una soluzione, una qualsiasi soluzione, anche profondamente antidemocratica, pur di non tornare alle elezioni. E’ questa la linea che condividono i partiti, Pd e Pdl in testa, il Capo dello Stato, l’attuale Governo dimissionario e tutto il sistema di interessi esistente intorno alla partitocrazia. Meglio un governo tecnico, un governo non democratico, un governo improvvisato, che le elezioni. Qualsiasi soluzione, lo ripeto: i compromessi e negoziati si stanno realizzando sia per quanto riguarda il Governo che il futuro Capo dello Stato, conscenari spaventosi e raccapriccianti, come l’appoggio di senatori leghisti al Pd o la concessione, da parte del Partito Democratico, di assicurazioni e garanzie a Berlusconi. Un connubio, un “inciucio” mai visto né pensato, con un’occupazione sistematica di tutte le cariche dello Stato – dal Quirinale al Governo – da parte dell’asse Pd – Pdl.

 Davvero è meglio tutto questo, o invece si dovrebbe arrivare, finalmente, alla constatazione che, poiché non c’è la possibilità di formare una maggioranza solida per governare, si debba ritornare alle urne? Meglio un nuovo Governo Bersani che navigherà a vista come ai tempi della Prima Repubblica? Meglio un nuovo Governo Pd-Pdl o Pd-Monti-Lega (?!!), risultato del più grande “inciucio” che la storia repubblicana abbia mai visto? Meglio un nuovo Governo Tecnico che farà la fine di quello precedente nel giro di un anno? O non sarebbe meglio ricorrere alla volontà popolare con una nuova legge elettorale?

 Si ripete che, senza un nuovo Governo, non sarebbe possibile approvare una nuova legge elettorale. È un falso colossale. Il Parlamento può già legiferare, in questo momento, anche con l’attuale Governo dimissionario (che è in prorogatio di fatto da già 3 mesi). E si dovrà iniziare la legislatura proprio a partire dalla legge elettorale. Se per anni si è ripetuto che il Porcellum deve essere abbandonato e se, nel contempo, si dice che, in questo momento, l’approvazione di una nuova legge elettorale richiederebbe trattative politiche e tempistiche troppo complicate in una fase come questa, allora basterebbe accordarsi su una soluzione molto semplice: votare con la legge elettorale precedente, il Mattarellum. Per fare questo, basterebbe approvare una legge con un solo articolo, che recitasse: “L’attuale legge elettorale è abrogata. Rivive la precedente”. Se davvero i partiti volessero cambiare la legge elettorale, in pochi giorni si farebbe con una facilità disarmante.

 Cosa volete, allora, partiti ormai morti? Volete proseguire la lunga agonia o tornare alle urne, lasciando al popolo la decisione ultima sul destino politico di questo Paese? La verità è che stanno cercando di passare tra Scilla e Cariddi, evitando di sciogliere questa alternativa, perché, in entrambi i casi, la strada scelta non potrà che dare più forza al M5S. Tutto si può dire, ma non che il M5S sia responsabile di questo “stallo”: il moVimento ha, fin dall’inizio, sostenuto una linea politica decisa e coerente, ribadita anche durante le consultazioni con il Capo dello Stato. Lo ha detto chiaramente: il MoVimento 5 Stelle è la prima forza politica alla Camera, senza i voti contestati degli italiani all'estero, e pertanto è chiamata adassumersi le proprie responsabilità, mostrando la propria disponibilità ad accettare un eventuale incarico di Governo. Se non gli si vuole affidare il Governo, allora non si potrà che rivotare. Sono i vecchi partiti ad essere irresponsabili, in realtà, perché stanno tentando di prolungare il più possibile l’attuale crisi sperando di navigare a vista per un po’ di tempo, mantenendo questo Paese in stato vegetativo permanente nell’attesa che succeda qualcosa (un miracolo?) che possa salvarli. 

 di Paolo Becchi

29 marzo 2013

Il Bilderberg nomina il presidente della repubblica italiana



  
   
In un recente passato, che appare però lontanissimo, era stata promessa agli Italiani l’elezione diretta del capo dello Stato. Naturalmente non se n’è fatto nulla. In una cosa sola i nostri governi, quali che siano le loro ideologie e i loro orientamenti politici, sono tutti “montiani”: decisi e rapidissimi soltanto nell’aumentare le tasse. Per tutto il resto tempi biblici in attesa che svanisca anche il ricordo delle promesse fatte. Dunque niente elezione diretta del Presidente. Ma c’è invece chi lo sceglie per noi e senza chiedere il permesso a nessuno: quel Potere che in silenzio ha progettato e imposto l’unificazione europea, che ha progettato e imposto la moneta unica e che continua a presiedere a tutte le vicende più importanti dei singoli Stati i quali obbediscono anch’essi nel più assoluto silenzio.

Sono uomini di cui non conosciamo altro che le facce e i nomi dei loro messi, di quelli mandati a mettere in atto la loro volontà, ma che possiamo riconoscere a colpo sicuro da un solo comune connotato: l’andamento disastroso di tutte le loro imprese, il fallimento di ciò che realizzano. 

Di fronte ai nomi ventilati in questi giorni dai giornali come possibili Presidenti: Amato, Prodi, D’Alema, ci potremmo domandare quanti voti avrebbero preso se gli Italiani fossero stati chiamati a votare. Sicuramente nessuno, o quasi. Sono stati già abbondantemente bocciati in precedenza e di conseguenza i loro nomi vengono indicati da un potere estraneo alla democrazia e che li impone esclusivamente in funzione del progetto euro finanziario che deve fare da apripista al governo finanziario mondiale. Non abbiamo sentito fino ad ora reazioni di nessun genere da parte dei politici: davanti al Potere nascosto dietro all’Europa nessuno parla. Abbiamo però già assistito a suo tempo all’esaltazione come Capo dello Stato di Ciampi, entusiasta fautore dell’euro in coppia con l’astutissimo Prodi con il quale ha provveduto a svendere e a spogliare di quasi tutti i suoi beni l’Italia pur di riuscire a farla entrare nello spazio paradisiaco dell’euro. Ne deduciamo che il compenso stabilito sia sempre lo stesso: prima dimostri di essere un servo fedelissimo del Potere finanziario europeo e mondiale, adempiendo al compito che ti è stato assegnato quali che siano le sofferenze e i danni che apporti alla tua patria e ai tuoi concittadini, poi diventi presidente della Repubblica. Lo stesso ragionamento, mutati i compiti e le situazioni, vale per gli altri nomi. La presidenza della repubblica italiana è appaltata al Bilderberg.

Adesso, però, che abbiamo fatto una lunga e dura esperienza della quasi assoluta mancanza d’intelligenza che caratterizza i soci del Bilderberg e i loro emissari, montiani o meno, testimoniata chiaramente dai disastri che seguono alle loro imprese, sarà bene che i politici guardino in faccia la realtà. Anche a voler prescindere dai fatti che abbiamo sotto gli occhi (è di questi giorni il macroscopico pasticcio combinato a Cipro) non sono pochi gli analisti finanziari  che prevedono un possibile crac dell’euro per il secondo trimestre e, se non un crac, delle difficoltà sempre più gravi nella gestione dell’economia in Europa. Sarebbe davvero poco “divertente” trovarsi fresco di nomina a capo della Repubblica e mandare in giro per il mondo a rappresentare gli Italiani proprio uno dei responsabili del crac.

di Ida Magli 

28 marzo 2013

Merkel e l’euro ci hanno strozzato. Ora basta!


I lettori del Giornale lo conoscono da anni come editorialista. Ma Claudio Borghi Aquilini, docente di Economia degli intermediari finanziari all’Università Cattolica di Milano, è soprattutto una voce eterodossa rispetto al conformismo europeista che domina sui media. Ecco perché Wall & Street hanno voluto ascoltare il suo parere.
Lo spread è un indicatore economico?
«Lo spread non dovrebbe esistere. Nel 2011 non sapevamo nemmeno cosa fosse perché sul mercato c’era la percezione che il debito europeo fosse condiviso. Il caso si è creato quando Merkel e Sarkozy hanno preso la scriteriata decisione del PSI (acronimo di Private Sector Involvement, cioè la ristrutturazione del debito greco tramite il coinvolgimento degli istituti di credito privati che detenevano i Sirtaki-bond). Allora si è compreso come i titoli di Stato non fossero garantiti ed è partita la speculazione. Infatti lo spread è aumentato a prescindere dai fondamentali economici».
Lo spread lo ha abbattuto Mario Monti o Mario Draghi?
«Lo spread è sceso quando il presidente della Bce Mario Draghi ha detto che avrebbe fatto tutto il possibile per difendere l’euro anche con acquisti potenzialmente illimitati di titoli di Stato, cioè mostrando la capacità dell’eurozona di monetizzare il debito. Come fa la Bank of England con i titoli britannici».
La politica di austerità è sbagliata?
«Sì. Gli economisti Paul de Grauwe e Paul Krugman hanno svelato l’inganno: consolidare i bilanci pubblici in periodo di recessione porta altra recessione e aumento del debito».
Ma la vulgata europeista dice che senza misure strutturali la Bce non sarebbe intervenuta a favore dell’Italia?
«La Bce sarebbe intervenuta ugualmente perché l’alternativa era rappresentata dalla dissoluzione dell’eurozona. L’Italia ha dimensioni troppo grandi. Magari qualcuno si sarebbe opposto a una replica dell’operazione greca con la mutualizzazione del debito attraverso il fondo salva-Stati e così non ci sarebbe stata alternativa al default che avrebbe travolto ».
Che cosa intende per «mutualizzazione del debito»?
«Nel momento in cui la Grecia è andata in default i principali creditori erano i Paesi dell’Europa “core” (Francia e Germania soprattutto; ndr). Con l’intervento dei fondi salva-Stati, Efsf prima e Esm adesso, questo credito è stato diviso anche con nazioni meno coinvolte come l’Italia».
Perché la Grecia è in ginocchio nonostante gli aiuti?
«La distruzione della Grecia era nei fatti. L’euro è una moneta troppo forte per quella economia. Faccio un esempio concreto: ammettiamo di azzerare il debito italiano con la bacchetta magica, non è per questo motivo che Fiat venderà di più. Al contrario, il gruppo di Torino venderà più auto prodotte in Italia se il loro prezzo sarà competitivo sul mercato. La differenza sostanziale è il valore della moneta. Se a questo si aggiungono le misure di austerità, un Paese è messo sotto scacco. Come fa un’impresa a investire in Grecia? I capitali fuggono e la gente continua a perdere il proprio posto di lavoro e quindi la recessione peggiora. L’aiuto ad Atene è stato solo un recupero crediti alla maniera di uno strozzino».
E la bancarotta di Cipro come si spiega?
«È un fallimento della vigilanza perché la Bce sapeva della concentrazione di depositi a Cipro, lo sapeva anche dagli stress test e ha fatto finta di nulla. E poi è un fallimento dell’Europa, cioè di Angela Merkel che, lasciando andare in default la Grecia, ha fatto andare in bancarotta le banche cipriote che vi investivano».
Il prelievo forzoso sui conti correnti può risolvere tutto?
«Se Merkel ha creato un buco lasciando fallire la Grecia, non si può tapparlo col prelievo forzoso. Cipro è un paese che dovrebbe essere tutelato dall’euro e ha le banche chiuse da quasi due settimane. Nemmeno in Egitto e in Tunisia durante le rivoluzioni è accaduta una cosa del genere».
È più grave mettere le mani sui conti correnti o chiedere a uno Stato che si dovrebbe salvare 5,8 miliardi di garanzia su 10 miliardi di aiuti?
«La garanzia sui depositi fino a 100.000 euro l’ha introdotta l’Ue. L’Islanda si è salvata con una garanzia di soli 20.000 euro rimborsando i creditori domestici prima e quelli esteri in seguito. Cipro può fallire ma se deve rimborsare i conti fino a 100.000 euro, bisogna costruirgli una via d’uscita praticabile. L’Ecofin ha adottato una strategia da magliari: la tutela dei depositi costruita tassando i depositi».
Secondo lei, cosa dovrebbe fare Cipro?
«Uscire dall’euro. È entrato da poco, non avrebbe nemmeno problemi di inflazione. Dovrebbe far andare le banche in default anche sui prestiti della Bce e poi stampare lire cipriote per rimborsare i creditori. Se anche così fosse troppo oneroso, potrebbe abbassare la garanzia sui depositi».
Condivide l’opinione secondo cui la situazione europea attuale assomiglia molto a quella del 1913?
«No. È molto più simile a quella del ’92 quando l’Italia uscì dal Sistema Monetario Europeo perché non riusciva a sostenere il regime di cambi fissi con le altre monete. La speculazione di Soros ha fatto saltare un sistema di cambi artificiale. Faccio un altro esempio: ci sono due atleti che devono correre i 100 metri in 10 secondi. Uno pesa 150 chili e l’altro 40 ma riescono a ottenere la stessa prestazione. Se metto loro in spalla uno zaino di 30 chili, il primo ce la fa in 11 secondi, quello più leggero impiegherà il doppio del tempo».
Si può uscire da questa spirale mantenendo la moneta unica?
«No. Le due alternative possibili sarebbero un’ammissione di fallimento. Il primo è quello dei trasferimenti interni: chi è più ricco dà a chi è più povero e il caso italiano con la Lombardia che finanzia la Calabria dimostra che il modello non funziona. La seconda ipotesi è la deflazione interna: si tagliano i prezzi tagliando i salari, ma se la gente guadagnasse il 30% in meno a parità di condizioni, si creerebbero squilibri sociali e, per altro, il debito non diminuirebbe».
Quanto ha guadagnato la Germania con l’euro?
«Il saldo della bilancia commerciale (esportazioni meno importazioni; ndr) era in sostanziale pareggio fino al 2002. Nei primi dieci anni di introduzione dell’euro è andata in attivo per complessivi 1.500 miliardi. Considerato che gli altri Paesi dell’eurozona sono i primi partner commerciali, il calcolo del trasferimento di ricchezza è presto fatto. Molti obiettano asserendo che la Germania ha compiuto importanti riforme che le hanno consentito di essere competitiva. È vero, ma è altrettanto vero che con l’euro del “tutti contro tutti” la Germania ha fatto deflazione salariale. Il suo successo corrisponde all’insuccesso della spagna e di altri Paesi in difficoltà».
Come si potrebbe uscire ordinatamente dall’euro?
«Se fosse successo due anni fa all’inizio della crisi greca, ora saremmo belli come il sole. Innanzitutto, bisogna precisare che i bassi tassi di interesse non derivano dall’essere parte di un’unione monetaria. In secondo luogo, bisogna sfatare il tabù secondo il quale con un’uscita dall’euro servirebbero cariolate di banconote per fare benzina e il costo dei mutui sarebbe insostenibile. Tra svalutazione e inflazione non c’è automatismo. L’euro all’inizio della sua storia ha perso il 30% del suo valore contro il dollaro e per noi non cambiò assolutamente nulla. Dopo la svalutazione della lira nel 1992 il tasso di inflazione scese dal 5 al 4,5 per cento. Magari le patate non si importerebbero più dalla Germania, ne produrremmo di più e anche i prezzi di beni prodotti all’estero si adeguerebbero e le Bmw costerebbero un po’ di meno se la casa tedesca intendesse non perdere troppo terreno sul mercato italiano».
E il debito?
«Anche qui bisogna specificare che cambiare moneta non equivale a fare default! Il debito sottoscritto con un contratto italiano sarebbe automaticamente traslato nella nuova valuta, a partire dai Btp e dai mutui. Ci sono però porzioni di debito stipulate con contratti esteri. Si tratta di debito pubblico (in minima parte; ndr) e soprattutto privato, a partire dai finanziamenti di lungo termine ottenuti dalle banche italiane tramite la Bce. Il vero problema è proprio questo…».
C’è una soluzione anche per questo?
«Sì. Una volta recuperata al suo ruolo Bankitalia, se Unicredit e Intesa Sanpaolo avessero problemi sui debiti con l’estero, si potrebbero nazionalizzare temporaneamente».
E a chi dice che senza euro faremmo la fine dell’Argentina cosa risponde?
«L’Argentina non ha avuto problemi in quanto ha fatto default. Anzi, da quel momento in poi è ripartita. La produzione è crollata prima quando hanno surrettiziamente agganciato il peso al dollaro Usa, strangolando così l’economia. E poi nel caso dell’Italia, lo ripeto, uscire dall’euro non sarebbe fare default!».
Wall & Street

27 marzo 2013

Crisi di Sistema





 

Un sistema che ha fondato la sua esistenza sullo spreco, sul degrado e sulla commercializzazione di beni superflui e di infima qualità, era destinato a implodere. Questa, del mondo occidentale, non è una semplice crisi, ma la fine di un’epoca. Il gran numero di disoccupati e di precari in continuo aumento, è il logico risultato di un tipo di lavoro, privo di fondamentali e, quindi, di regole certe.

Per usare una metafora, paragonerei il Sistema Liberista Relativista ad una fabbrica di bolle di sapone. La gente, ingannata per decenni e abbindolata dalla seduzione della modernità e da una massiccia propaganda mediatica totalitaria (che ha speculato sui bisogni, fragilità, paure e debolezze), troppo tardi ha compreso il valore effimero delle bolle di sapone. L’inganno è stato totale e ha prodotto un becero relativismo, che ha fatto piazza pulita di ogni valore etico e morale, omologando gli individui e codificandoli come semplici consumatori. Piano piano il grande imbroglio sta venendo a galla, e così la rabbia dei truffati, che esploderà in tutta la sua potenza, quando quella che oggi é definita una crisi assumerà le sembianze dell’apocalisse. L’avvelenamento delle acque e dell’aria, erano parametri sufficienti per rendersi conto di quale cammino era stato intrapreso, e indicatori della loro potenzialità distruttiva. Con che spudoratezza tutto questo è stato definito progresso e benessere? Se, per fare un esempio, oggi tutti gli automobilisti di Milano rispettassero alla lettera il codice della strada, questa città, già invivibile e caotica, si bloccherebbe all’istante. Può sembrare un assurdo ma è proprio grazie a chi elude e infrange le regole che, oggi, miracolosamente il traffico continua a scorrere, e le casse del comune ad ingrassarsi a dismisura.

Lo stesso principio e meccanismo vale anche per l’economia del nostro paese (il Sistema) che se dovesse attenersi a regole ferree e pene certe, imploderebbe in una settimana. Se i cittadini di un qualsiasi paese occidentale poi, in virtù di un risparmio ragionevole e doveroso, si astenessero dal consumare beni effimeri, contraffatti e voluttuari, orientandosi su quelli primari, durevoli e di prima necessità, il Sistema, che oggi ci governa e che ci opprime, si squaglierebbe come neve al sole. Sentire ancora parlare di ricerca, di crescita e sviluppo e delle semplificazioni relative al fare impresa, come le inderogabili soluzioni alla crisi, sarebbe come rendere libera la pesca epurando il suo regolamento da licenze, normative e divieti, quando oramai di pesci nel mare non ce ne sono più. Avremmo dovuto investire le nostre energie in un prudente dialogo con la madre terra, rispettandone le sue logiche e regole imperiture. E’ stata umiliata la natura e mortificato il lavoro dei campi, adducendone un significato distorto, di inciviltà, di miseria e ignoranza. Abbiamo voluto sfidare le nostre vere ragioni, come alieni, venuti da un’altra galassia, ma presto la terra ci ripagherà con la stessa moneta, per averla infamata e violentata.

Solo recuperando i valori e i doveri di un passato luminoso, oggi soppiantati dal perverso consumismo della Bestia Liberista, potremo intravedere un futuro fra le nere nubi che si addensano all’orizzonte, ma il prezzo da pagare sarà di sangue, di paura e di follia. Per tutti questi motivi, “la disperazione più grande che possa impadronirsi di una società, è il dubbio che vivere onestamente sia inutile. Una tale disperazione, avvolge il mio paese da molto tempo.”


di Gianni Tirelli 

26 marzo 2013

Democrazia senza partiti





marco revelli 20130323



«Non può esserci democrazia funzionante senza il canale dei partiti. Nessuna nuova o più vitale democrazia può nascere dalla demonizzazione dei partiti». Con queste parole, pronunciate al Teatro Toniolo di Mestre nel settembre del 2012, il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano si è fatto interprete di un timore largamente diffuso tra le classi dirigenti: il rapporto tra democrazie e forma-partito sarebbe sul punto di rompersi definitivamente. A tutto svantaggio, sostiene Napolitano, della democrazia. È davvero così? Marco Revelli insegna Scienza della politica all’Università del Piemonte orientale e ha da poco pubblicato un libro, Finale di partito(Einaudi, pagine 138, euro 19), in cui affronta la questione collocandola in un passaggio d’epoca ben più radicale – il pieno ingresso in una società post industriale – senza il quale ogni “pro” e ogni “contro” i partiti rischia di rimanere una sterile petizione di principio.
Una caratteristiche della nostra società è che gli individui si fidano sempre meno gli uni degli altri, perché stentano a riconoscersi. Finita l’era dell’ottimismo – ottimismo tecnologico, fede nel progresso o nel mercato –  le  basi materiali della fiducia si sono sgretolate e la caduta generale del legame ha inevitabilmente toccato anche il rapporto tra cittadini e partiti. È una crisi che spinge non pochi analisti a una facile equazione: più si abbassa il livello di fiducia nei partiti, più cresce la passività tra i cittadini. La crisi della fiducia sarebbe quindi il vettore di ciò che impropriamente viene chiamato “populismo” o tacciato di “antipolitica”. Lei come legge la situazione dentro questo quadro generale di défiance
Marco Revelli: La caduta del legame di fiducia è clamorosa e oramai conclamata. La fiducia nei partiti, in Italia, tocca livelli parossistici e non supera il 5 per cento. Questo significa che solo un cittadino ogni venti crede ancora nella possibilità di un’azione concretamente democratica condotta attraverso i partiti politici. Questa crisi di fiducia nei partiti rischia di intaccare anche la fiducia nelle istituzioni che, relativamente al Parlamento, si attesta su un misero 8 per cento. Comprendiamo subito che in una democrazia parlamentare come la nostra, laddove il Parlamento dovrebbe essere il vero sovrano, il sovrano è in realtà completamente sfiduciato. Fenomeno che in Italia, come detto, tocca livelli parossistici, ma è generale ed esteso a tutto l’Occidente. Negli anni Sessanta e Settanta, nonostante fossero anni di contestazione, di lotte sociali e di conflitti, la fiducia nelle istituzioni era altissima e toccava picchi del 70 per cento. Il mondo è cambiato ma troppo spesso chi ragiona “di” politica e “in” politica non registra questo cambiamento. Avverte il disagio, si accorge che le cose non funzionano ma come se ci si fosse allontanati da un modello che prima o dopo potrebbe riprendere funzionare: la democrazia dei partiti. Al contrario, quel modello è finito. Finito come è finita la grande impresa: come non possiamo illuderci che a Mirafiori tornino a lavorare cinquantamila operai, così non possiamo pensare che tornino i grandi partiti di massa. I partiti erano grandi fabbriche del consenso. Queste fabbriche non funzionano più, così come non funzionerebbero più le vecchie fabbriche di automobili. Dobbiamo cercare di capire come si riassesta la politica dopo questa mutazione genetica dei suoi protagonisti e dei suoi soggetti. Soggetti che, beninteso, non scompaiono ma i partiti di oggi hanno una parentela lontanissima con i loro progenitori.  
Negli scenari futuri è possibile quindi una prospettiva di democrazia senza partiti?
Marco Revelli: Abbiamo conosciuto una fase specifica della democrazia dei moderni, quella della seconda metà del Novecento. Una fase che si caratterizzava per un modello democratico il cui protagonista principale e quasi esclusivo era il partito politico. Gramsci lo definì «il moderno principe» e difatti il partito sembrava il soggetto destinato a occupare quasi per intero la nostra modernità politica. In realtà, sappiamo che la democrazia – e anche la democrazia dei moderni sorta dopo la Rivoluzione del 1789 – è nata ben prima dei partiti. Prima esistevano certamente gruppi di notabili, raggruppamenti di individui ma ciò che tecnicamente chiamiamo “partito” non esisteva. Sottolineerei che persino un pezzo di Italia liberale tardo ottocentesca non conosceva i partiti strutturati come li abbiamo conosciuti col partito di massa. Sono stati i partiti socialisti e i partiti cattolico-popolari che hanno introdotto quella forma nella politica. Questo è il contesto. La fine di questo modello non significa tout court fine della democrazia e il passaggio a una forma autoritaria o dittatoriale Ciò a cui assistiamo non è la pura e semplice estinzione di ogni forma di partito che lascerà spazio solo a una terra incognita abitata da individui da un lato e istituzioni dall’altro. È casomai una metamorfosi: i partiti non scompaiono di punto in bianco, ma diventano una cosa diversa da ciò che avevamo in precedenza conosciuto. La stessa cosa accadde con la fine del fordismo, ossia della grande industria centralizzata e organizzata secondo rigidi schemi interni. La fine dell’organizzazione fordista del lavoro non ha portato alla scomparsa delle imprese. Imprese che, semplicemente, hanno assunto una forma e un modello di organizzazione completamente diversi rispetto al modello fordista che prevedeva una tutela “dalla culla alla tomba”. Ricordiamoci che c’erano scuole materne, colonie estive, modelli di socializzazione che crescevano tutto attorno alla grande fabbrica della città forsista. Allo stesso modo, attorno ai partiti era tutto un fiorire di iniziative e istituzioni, diciamo così, “pedagogiche”. C’erano addirittura le edizioni  di partito –dagli Editori Riuniti alle edizioni delle Cinque lune -, le riviste teoriche in cui si svolgevano dibattiti di alto profilo culturale, ma soprattutto la gente frequentava le sezioni e lì si formava. Magari si formava male, perché c’erano forme di dogmatismo o di fideismo o di spirito gregario e conformismo. Però, pur in questo quadro critico e spesso criticabile, il partito aveva una struttura solida e con oligarchie ben formate. Su questo punto, osserverei che ci sono anche studiosi che leggono la trasformazione in atto in termini positivi. Il pubblico, secondo questa lettura, sarebbe scolarizzato, dotato di strumenti autonomi per la formazione delle proprie opinioni e non dipende più dalla “casa madre”. Il ruolo pedagogico del partito è stato superato e un pubblico dotato di una maggiore autonomia critica si informa altrove, magari in rete. 
Un secolo fa, Roberto Michels pubblicava la sua Zur Soziologie des Parteiwesens in der modernen Demokratie, il primo studio su quello che al tempo era ancora un oggetto misterioso: il partito politico. Michels, che partiva da posizioni di sinistra, ribadiva la sua convinzione che le organizzazioni fossero sottoposte a una “legge ferrea dell’oligarchia”. In sintesi: la naturale evoluzione di ogni partito politico condurrebbe da una struttura all’origine a aperta a una oligarchia. Lei dedica un capitolo del suo libro all’analisi di questa legge ferrea nel contesto post-industriale e post-fordista. Crede sia ancora attuale una lettura “élitista” del partito politico?
Marco Revelli: Michels aveva ben presente il modello “pesante” di partito della socialdemocrazia tedesca. Un modello plasmato sul modello organizzativo della burocrazia statale e di quella della grande fabbrica della produzione di massa. L’analisi delle oligarchie condotta da Michels si basava su questo dato di fatto e sulla netta distinzione tra governanti e governati. Il rapporto oligarchico, però, molto spesso si basava sulla fiducia dei subalterni. Una fiducia conquistata sul campo: ricordiamoci che molti leader avevano patito l’esilio o la prigione. Oggi le oligarchie non sono più legittimate da un rapporto di fedeltà stabile. Esattamente come le imprese si sono ramificate e delocalizzate in filiere lunghe nei territori e al tempo stesso si sono concentrate in alto, con vertici globali e incontrollabili da chiunque (persino dagli azionisti, non solo dai dipendenti), così i partiti si sono trasformati in strutture più leggere simili a aggregati di gruppi di potere, spesso caratterizzati da logiche affaristiche, che galleggiano su un elettorato liquido e non più caratterizzato da una fedeltà di lungo periodo. Questo elettorato sceglie quasi giorno per giorno  a chi dare il proprio consenso, seguendo logiche sempre più mediatiche.  
Stiamo andando quindi verso una “democrazia del pubblico”? In tal caso, pssiamo davvero parlare di passività civico-politica dei cittadini o siamo anche qui ci troviamo davanti a fenomeni in evoluzione continua e asimmetrica (fenomeni che difficilmente entrano o entreranno nelle griglie concettuali in cui li si vorrebbe racchiudere)?
Marco Revelli: È una lettura. Questo pubblico è in grado di trarre da se stesso le risposte ai propri problemi e, quindi, è anche più critico e ragiona su temi come i beni comuni, l’ambiente, il territorio, la viabilità, i problemi etici. Un pubblico che si forma delle proprie opinioni e poi va a vedere a quale offerta politica indirizzarsi. Spesso, però, l’offerta politica è qualitativamente inferiore alla domanda e la cultura dei politici di professione è inferiore a quella dei loro elettori. Ecco allora che il rapporto si rompe e cresce una forma di disprezzo da parte di un elettorato più consapevole nei confronti di una classe politica più inconsapevole. C’è poi una seconda lettura, di origine francese. Pierre Rosanvallon propone di chiamare “controdemocrazia” una democrazia diversa da quella dei partiti, per nulla “antipolitica”, dove elettorato che non si illude più di poter governare attraverso i propri rappresentanti cerca di porre un argine, attestandosi su una linea difensiva. In sostanza, se non ci possiamo più aspettare che i nostri governanti ci rappresentino, possiamo però difenderci da loro. I politici di professione sono visti come nemici potenziali che con le loro decisioni possono danneggiarci. È una sorta di democrazia giudiziaria, dove i cittadini cercano una tutela giurisdizionale contro in ceto politico di potenziali criminali. Dentro questa logica – il «dobbiamo difenderci dai rischi che arrivano dall’alto» – c’è sicuramente un pezzo di populismo.  
Populismo, antipolitica e, concetto che lei richiama più volte nella sua analisi, subpolitica.
Marco Revelli: Più che di antipolitica, ci troviamo spesso di fronte a forme nuove di pratica politica in un contesto di democrazia mutato, proprio perché non più mediato dai partiti. Smetterei di usare il termine in modo spregiativo, perché rischiamo di non capire nulla rispetto ai processi in atto.  subpolitica è invece un concetto introdotto da Ulrich Beck, non per sminuire il valore di quest’altra politica, ma per sottolinearne il carattere basilare.
Che cos’è, dunque, la subpolitica?
Marco Revelli: È la politica della vita, il luogo dove si affrontano i problemi che riguardano la sopravvivenza degli uomini: i grandi problemi etici, il problema degli stili di vita, il problema del consumo energetico, i beni comuni. Su questi temi la politica dei partiti non ha molto da dire. Al massimo – pensiamo al referendum sul nucleare – subisce il problema. I recenti referendum hanno mostrato che 27 milioni di italiani sono andati a votare fuori dagli schemi di partito, ma soprattutto hanno dimostrato che una certa forma della politica, quella che vorrebbe ancora il partito al centro della scena, è anacronistica e inefficace.  
Grillo sembra molto avanti, rispetto a quelli che lo contestano. Al contempo è molto indietro, rispetto a dove vorremmo essere. Secondo lei è antipolitica o subpolitica nel senso da lei richiamato?
Marco Revelli: Grillo non è un fenomeno folcloristico. I protagonisti della politica partitica lo trattano con sufficienza come se fosse folclore. Grillo è un sintomo, non certo la causa della crisi e proprio per questo va preso con estrema attenzione. Ha sicuramente tratti populistici, ma nella prevalenza è questa politica nuova che sgorga e cerca le sue forme, Starei attento, molto attento a questo secondo aspetto.
Movimento e adesso “comunità”.  Nel suo comizio in Val di Susa, il 14 febbraio scorso, Beppe Grillo ha dichiarato infatti: «Siamo una comunità, qui c’è un sentimento». Non sembrano parole dette a caso.
Marco Revelli: «Comunità», parola magica, di cui c’è estremamente bisogno. Bisogna però intendersi su questo desiderio di comunità. Gran parte del nostro disagio esistenziale è legato al nostro desiderio di comunità. Una comunità terribilmente assente. Siamo spaesati perché la nostra voglia di vivere in comune con gli altri, la nostra “comunanza” è venuta meno. Diciamocelo sinceramente, se vogliamo andare al di là degli aspetti della cronaca e della statistica, dobbiamo ammettere che la crisi dei partiti si inserisce in una più generale crisi dell’Occidente, che è poi crisi del nostro stile di vita. Crisi epocale che attraversa tutti i livelli, arrivando persino a lambire persino la Chiesa. Una crisi che – mi e vi chiedo – non ha forse a che fare con questo cedimento strutturale dei meccanismi di produzione di senso condiviso? Si sono inceppati i meccanismi di produzione di un noi,  nel passaggio dalla solitudine di un “io” a alla condivisione di un “noi”. Un’apocalisse del senso che rende vuoti tutti i troni, da quelli secolari fino a quelli spirituali. I luoghi si sono dissolti nei flussi. È un horror vacui, quello che ci coglie. Proprio perché si avverte che la rottura di questi meccanismi di produzione di un senso condiviso ricade in termini di una conflittualità molecolare. Non ci sono più conflitti che organizzano il campo, ma una diffusa competitività aggressiva che rende inoperanti tutti i meccanismi di decisione collettiva e ha colpito, in particolare, i partiti. Ma non solo i partiti. Non è diverso per i sindacati, non è diverso per le imprese e non è diverso per la Chiesa.
Le apocalissi del consenso sono conseguenza di apocalissi del senso. Non abbiamo ancora capito come e se si condenseranno le molecole di questo sistema senza più legami.
Marco Revelli: Non ci sono più legami forti, solo legami deboli. La gestione dei legami deboli è di fatto un problema, soprattutto di fronte a un’antropologia e a un’identità modificata dai consumi. Ricordiamo che il consumismo è stato un grande virus che ha avvelenato i pozzi, quando  gli investimenti di identità si sono trasferiti sugli stili di consumo si è scoperchiato il vaso di Pandora di tutte le mutazioni antropologiche possibile. Con questa atomizzazione, con questo individualismo radicale che scambia per libertà la produzione di bisogni inutili. Questo meccanismo di scambio provoca la nostra permanente indigenza. Siamo incapaci di soddisfare qualsiasi risposta e qualsiasi richiesta di comunità attraverso legami. Tanto più il legame diventa debole, quanto più cresce la micro aggressività individuale. Simone Weilparlava di sradicamento. Simone Weil diceva che chi è sradicato, sradica. La rottura del legame riproduce un meccanismo di ostilità molecolare.
Le sembra davvero una via praticabile? La sfiducia da cui ha preso l’avvio la nostra conversazione non rischia di travolgere anche questa speranza di una democrazia oltre i partiti?
Marco Revelli: La possibilità di riuscita in positivo di questa crisi richiederebbe una condizione essenziale:  che i partiti rinuncino alla pretesa di monopolio su tutto ciò che è pubblico. Questo monopolio, non più legittimato né giustificato, finisce per soffocare tutto ciò che potrebbe crescere sotto o a fianco. È chiaro che la possibilità di stare in forma virtuosa in questa transizione complicata che forse coincide con l’uscita dal moderno, forse è una rifeudalizzazione delle nostre società in un crepuscolo delle forme statali forti, non può prescindere da una condizione: che tutto ciò che nasce, non venga immediatamente bruciato dallo sguardo delle macchine politiche. Macchine onnivore che reclutano, spesso in modo ornamentale, ciò che di virtuoso nasce nella società, lo incorporano e lo degradano. Bisognerebbe cominciare questo difficile esercizio del rapporto paritario fra ciò che nasce nel sociale e ciò che sta nel politico.
di Marco Revelli - Marco Dotti

25 marzo 2013

Sull'uscita dall'euro. Parte seconda


Ho ricevuto numerose richieste di chiarimenti ... anche questo è un segno della nuova era che s'è aperta alla fine del 2012, quando l'Italia ed il mondo hanno cominciato a vibrare su una frequenza più alta.
La curiosità di sapere aumenta la vibrazione, l'ignoranza e l'indolenza la schiacciano come l'encefalogramma piatto degli instupiditi.
Se la gente vuol sapere, i ladri ed i corrotti hanno i giorni contati... Ed è esattamente ciò che sta succedendo in Italia.
Chi mai avrebbe potuto immaginare che un partito (il Pd) sicuro di vincere, fosse, invece, costretto a chiedere la "fiducia" al M5S?
Peccato per loro che continuino con i vecchi giochetti... le stesse parole... le stesse facce... senza rendersi conto che sono dead men walking (morti che camminano)... come quei condannati a morte che si avviano alle camere a gas.
Non si capacitano che, dall'altra parte, il M5S non darà mai la fiducia ad un governo a guida Bersani... D'Alema... Bindi... ed il resto della scellerata nomenklatura che ha contribuito a rovinare l'Italia.
L'ha capito persino Casini... e questi, invece, sperano ancora di tornare a spartirsi pingui rimborsi elettorali, comode poltrone e compiacenti spazi televisivi, nei quali mostrarsi come fossero ancora vivi al loro scarso pubblico, che ormai da molto tempo non applaude più... anzi, comincia a fischiarli.
Sembrano i personaggi di una patetica Stardust... vecchi attori ed attrici sul viale del tramonto che, però, ancora si imbellettano e sorridono con denti ingialliti tra un pubblico che, al massimo, gli tributa solo la tenerezza che si deve ai vecchi...
E che impressione fa quel Bersani che chiede insistentemente di "darla" a quei ragazzi del M5S... e ne viene respinto, come una attempata signora che non si rassegna al declino fisico e fa delle avances clamorose a giovani uomini che pensano ad altre...
... E' finita signori... il vostro PD è finito...
Potete solo evitare il disgregamento e la dissoluzione se rinnovate programmi, facce e parole... ma finitela con i giochetti da bocciofila domenicale... magari dopo qualche generosa bottiglia di pessimo Barbera...
... E' finita... voi siete finiti; e smettetela di rendervi oltremodo ridicoli. Avete rovinato l'Italia, ma avete pure una qualche dignità da salvare... Non dilapidate pure quella.
Fatevi da parte... chiedete scusa agli italiani... e siate pronti a pagare i danni che avete inflitto a questa nazione...
E' la vostra unica speranza di non essere consegnati all'ignominia della storia come i tanti Fiorito, Belsito, Penati che avete allevato ed istruito.
... Stat sua cuique dies... Ognuno ha il suo giorno...
Il vostro è passato.
Domanda: Provi a spiegare meglio perché sono aumentati i costi di produzione...
Chiariamo che non è necessario che aumentino; l'effetto è uguale se i tuoi costi restano costanti e quelli del tuo concorrente diminuiscono... il fattore critico, dunque, è il differenziale tra i tuoi ed i suoi...
Il mercato è come un campo di calcio dove due squadre giocano per vincere: non importa quanto forte sia una, se l'altra lo è di più.
Perché, dunque, i costi italiani aumentano più di quelli tedeschi (ed è così da almeno un secolo)?
Perché loro hanno uno Stato più efficiente che gli da servizi migliori... e ciò, per le aziende, si traduce in minori costi di trasporto, dell'energia, di amministrazione interna... etc...
Lo Stato, da una parte prende (sotto forma di tasse e contributi) e dall'altra da (sotto forma di servizi... strade, giustizia, protezione... etc..); ebbene quello italiano prende 3 punti più di quello tedesco e da 3 punti in meno...
Un azienda italiana, dunque, parte svantaggiata di 6 punti (in termini di fatturato) rispetto all'omologa tedesca.
Quando la Germania ha firmato i trattati di Maastricht sapeva perfettamente che la classe politica italiana costituiva il migliore alleato dell'industria tedesca... bastava impedire agli italiani di svalutare e poi ci avrebbero pensato i politici a "zavorrare" l'industria nazionale con un differenziale di costi che, se non "svalutato", avrebbe schiacciato l'economia italiana.
Il calcolo si è rivelato corretto.
Nessun governo ha mai messo mano a questo problema... e men che meno il governo Monti che anzi lo ha sensibilmente aggravato aumentando a dismisura le tasse senza intervenire in alcun modo sull'efficienza della macchina statale (che, anzi, è diventata più inefficiente e costosa)...
Il governo Monti, a quel differenziale di 6 punti ereditato da Berlusconi, ne ha aggiunto altri 2... portandolo a 8...
Se si voleva appesantire ulteriormente la competitività italiana, il governo Monti ha pienamente centrato l'obiettivo...
Un altro motivo per cui i costi aumentano?
Il calo della produzione...
Se tu produci 100 ed ogni pezzo prodotto ti costa 100... se produci 80, il costo di un pezzo non scende anch'esso a 80... ma a 86...
Il perché è facile da capire: le aziende hanno costi variabili (proporzionali alla produzione) e costi fissi (indipendenti dalla produzione). Se i primi rappresentano il 70% del totale ed i secondi il 30%, nel passare da 100 a 80 della produzione, il costi variabili scendono a 80, ma quelli fissi restano 100...
Sicché i nuovi costi saranno 70% x 80 + 30% x 100= 86
Ad un tuo concorrente, quindi, basta costringerti a produrre di meno, per innescare una spirale perversa di aumento dei tuoi costi che ti costringeranno ad aumentare i prezzi... a produrre di meno... ad aumentare i costi... etc...
Ovviamente la stessa cosa funziona al contrario: se tu produci 120, i tuoi costi non passano da 100 a 120... ma a 114... (in questo caso si chiama "economia di scala").
Capite perché è fondamentale prendere quote di mercato (cioè produzione) ai concorrenti?
... Questo (il vantaggio competitivo) è ciò che i tedeschi non erano mai riusciti ad ottenere (perché noi svalutavamo la lira)... e che finalmente hanno ottenuto con l'euro... ma anche grazie all'aiuto dei kapo italiani i quali hanno condannato alla miseria milioni di loro connazionali... per un piatto di wurstel e crauti...
Una volta che l'industria italiana ha cominciato ad accumulare un differenziale negativo con i costi tedeschi (per effetto dell'inefficienza dello Stato italiano rispetto al tedesco), ciò ha provocato il primo calo della produzione industriale (anno 2002) che, anno dopo anno, ha messo in moto il meccanismo perverso visto sopra...
Badate bene: l'inefficienza dello Stato italiano c'è sempre stata... ed il meccanismo perverso di aumento dei costi a causa della riduzione della produzione è noto a tutti quelli che si occupano di economia aziendale... Così come era noto che l'Italia li aveva entrambi e, periodicamente, rimediava con le svalutazioni della lira.
Chi ha deciso di farci entrare nell'euro, dunque, doveva avere ben chiaro in mente quali problemi si dovevano risolvere per non svantaggiarci rispetto ai tedeschi: innanzitutto l'efficienza della Stato...
Vi risulta che dal 1999 (anno di adesione all'euro) ad oggi, qualche governo (di destra o sinistra) abbia cercato, non dico di risolverlo, ma solo di affrontarlo, quel problema?
Eppure era noto che, se non risolto, ci avrebbe condotto al punto in cui siamo...
Ci sono, o no, gli estremi per pensare che abbiano agito in malafede?
Ma, ed è un'altra domande ricorrente, non ci sono anche motivi di vantaggio tecnologico e organizzativo dei tedeschi che li rendono più competitivi rispetto a noi?
Lo vedremo nel prossimo report.
Passiamo all'attualità cominciando con le probabilità di uscita dall'euro...

... calate al 34.5% dopo il 35.5% del dopo-elezioni.
Significa che il "mercato" non teme più così tanto l'umore anti-euro degli italiani?
No, non significa quello: sul minimo del 25 Gennaio scorso è partito un nuovo ciclo annuale e, quindi, la tendenza di quelle probabilità è in crescita... quella riduzione è un movimento discendente su un ciclo minore...
Significa che stiamo uscendo dall'euro?
... Nighese... probabilità inferiori al 50.0% significano il contrario...  Possiamo solo ipotizzare che, in costanza della tendenza in atto (0.15 punti ogni giorno solare), a fine maggio saremmo intorno al 50%... ed a giugno oltre...
Ma queste sono proiezioni matematiche che servono a dire che "a parità di condizioni attuali" quello sarà il risultato...
... Ma "a parità di condizioni attuali" è un'astrazione mentale che "addomestica" convenientemente lo scenario per evitare di fare i conti con le novità o gli imprevisti che, come è noto, accadono con altissima frequenza.

di G. Migliorino

23 marzo 2013

Conti semplice sull'uscita dall'euro. Parte prima


Cercherò di spiegarvi, alla mia maniera s'intende,  la svalutazione in contrapposizione ai cambi fissi... ma soprattutto perché Prodi, Monti, Amato, Draghi... etc... ci hanno "ficcato" dentro l'euro, come un condannato a morte a cui si chiede di mettere la testa dentro al cappio che lo strangolerà...
E se sarò bravo a spiegarvelo, capirete che grande truffa è stata perpetrata a danno delle moltitudini di lavoratori italiani condannati alla miseria per fare arricchire pochi capitalisti parassiti e cedere ricchezza, sovranità e, soprattutto, la nostra dignità, ad una nazione verso la quale non abbiamo mai avuto grande simpatia: la Germania.
Ora che la rivoluzione è già in corso, ognuno ha il dovere di assumersi le sue responsabilità e fare la sua parte... io che scrivo, voi che leggete e, soprattutto, quegli altri, quelli che nell'euro ci hanno condotto, mantenuto e, ancora oggi, paventano grandi catastrofi se dovessimo uscirne...
Quando conduci milioni di lavoratori alla miseria non puoi sfuggire alla tua responsabilità "traccheggiando dialetticamente", ma devi essere pronto anche a pagare in prima persona i danni che hai procurato a così tante persone...
Non puoi invocare il principio di ignoranza (non lo sapevo) quando tanti altri si sono tolti la vita a causa di una tua errata decisione che li ha rovinati. Devi pagare tanto quanto hai fatto pagare a quelli... soprattutto se, contro ogni evidenza, persisti nell'errore e legittimi il sospetto che la tua non sia stata ingenua ignoranza, ma malsana malafede...
Io vi chiederò, dunque, di ricordarvi i nomi e le facce di coloro che, ancora oggi, difendono (o, peggio, ci impongono) l'euro senza spiegarcene i motivi... contando sull'ignoranza di chi l'ascolta... Costoro, quando tutto si compirà, dovranno rispondere della miseria in cui hanno condotto il popolo italiano e, soprattutto, delle migliaia di suicidi che ciò ha comportato.
Ma prima devo spiegarvi (con i numeri) la truffa compiuta ai danni dei lavoratori italiani... e non dovrò lasciarvi dubbi... diversamente non sarei diverso da quegli altri... quelli di cui, come un pubblico ministero, chiedo la condanna...
Per farlo mi avvarrò di una esempio estremamente semplice: due ditte una italiana e l'altra tedesca che producono bicarbonato di sodio... la bianca e banale polverina che fa passare il bruciore di stomaco.
Facciamo due ipotesi di ulteriore semplificazione: tutti i costi di produzione siano costi del lavoro (stipendi, salari, etc..) e, all'anno zero (ad esempio il 2003) i costi erano uguali per entrambe le aziende ed ammontavano ad 1.0 euro a scatola, sicché, vendendo a 1.15 euro, entrambe guadagnavano 15 centesimi (lordi) a scatola, ovvero 9.0 centesimi dopo tasse.
Questa, dunque, è la situazione nel 2003...
Azienda italianaAzienda tedesca
Numero di scatole vendute10.000.00010.000.000
Prezzo di vendita a scatola1,151,15
Dati in euro X 000
Fatturato Euro X 000011.50011.500
Costo del lavoro10.00010.000
Utile lordo1.5001.500
Imposte600600
Utile netto900900
Mezzi propri11.25011.250
Roe8,0%8,0%
... ed entrambe le aziende guadagnano un decoroso 8.0% sui loro mezzi propri.
Spostiamoci di 10 anni in avanti (al 2013) e supponiamo che l'azienda italiana abbia subito un aumento dei costi del 20% (che significa un incremento dell'1.85% l'anno) e, dunque, si trova nella situazione sotto...
Azienda italianaAzienda tedesca
Numero di scatole vendute10.000.00010.000.000
Prezzo di vendita a scatola1,151,15
Dati in euro X 000
Fatturato Euro X 000011.50011.500
Costo del lavoro12.00010.000
Utile lordo-5001.500
Imposte0600
Utile netto-500900
Mezzi propri11.25011.250
Roe-4,6%8,0%
L'azienda italiana adesso ha costi per 1.2 euro a scatola (ovvero 12 milioni di euro complessivamente) a fronte di un prezzo di vendita che è rimasto lo stesso (1.15 euro a scatola) perché l'azienda tedesca non ha subito nessun aumento di costi e, quindi, continua a praticare gli stessi prezzi di prima... e se l'italiana aumentasse i suoi prezzi (per recuperare i suoi maggiori costi) perderebbe i suoi clienti (... che si chiederebbero perché mai dovrebbero pagare a 1.38 euro a scatola dagli italiani, ciò che si può tranquillamente comprare dai tedeschi a 1.15 euro?).
Ebbene... cosa può succedere a questo punto?
Ci sono tre sole soluzioni:
  • 1) L'azienda italiana chiude a lascia tutto il mercato alla tedesca;
  • 2) L'azienda italiana si rivolge ai suoi dipendenti e gli chiede una riduzione di stipendi e salari del 20%;
  • 3) L'azienda italiana chiede al governo italiano di tornare alla lira e di svalutare del 20%.
Altro non c'è.
La prima soluzione significa che, supponendo che tutte le aziende italiane siano nelle stesse condizioni, si realizza il "default industriale" dell'Italia: poco a poco tutte le aziende chiudono ed il paese diventa "terzo mondo"...
Nell'Italia reale, è quello che sta succedendo da quando siamo entrati nell'euro (dal 2002 ad oggi abbiamo già perso il 30% della nostra produzione industriale)... e, quindi, l'esempio qui fatto, per quanto semplificato, rappresenta la realtà del paese.
La seconda soluzione significa fare pagare ai lavoratori il costo della competitività perduta a causa dell'euro...
I lavoratori, difatti, dovranno accettare salari inferiori del 20%... ma non tutti, solo quelli esposti alla concorrenza internazionale (per i quali si pone il problema di allinearsi ai prezzi di vendita dei concorrenti esteri)... quelli non esposti (impiegati pubblici, farmacisti, tassisti, notai, ed in generale tutti quelli che operano in mercati "chiusi") manterranno i loro "privilegi" e non subiranno (provvisoriamente) alcuna decurtazione...
Sicché i lavoratori esposti alla concorrenza internazionale (che supponiamo essere il 50% del totale) si vedranno ridurre del 20% i loro stipendi, mentre i prezzi  si ridurranno solo del 10% (il 50% li riduce del 20%, e l'altro 50% non ha bisogno di ridurre alcunché) e, quindi, subiranno una riduzione del 10% del loro potere d'acquisto...
Cosa dovranno fare a quel punto?
... Ridurre del 10% i loro consumi (guadagni il 10% in meno... spendi il 10% meno)...
E questo cosa comporta?
Recessione... ovviamente: se i consumi del 50% degli italiani si riducono del 10%, significa che i consumi totali si riducono del 5.0%... e siccome i consumi interni rappresentano circa il 60% del Pil, questo si riduce del 3.0% (il 60% del 5.0%)...
... Vi ricorda qualcosa questa riduzione del 3.0% del Pil?
... Cosa succede alle aziende che sono interessate a quel calo dei consumi (che porta alla riduzione del 3.0% del Pil)?
... Vendono di meno e, quindi, devono ridurre le loro produzioni... ed in conseguenza di ciò devono licenziare... ridurre... chiudere, ovvero causare altre riduzioni dei consumi da parte dei lavoratori che sono licenziati o messi in cassa integrazione.
Significa altre riduzioni di consumi... di Pil... di produzione... etc...
In poche parole, significa "spirale recessiva"... esattamente quella in cui siamo entrati noi nel 2002... prima come stagnazione e poi come recessione che è diventata sempre più dura...
E chi paga in questa spirale recessiva?
Tutti i lavoratori... alla fine anche i tassisti, i farmacisti e tutti quegli altri che inizialmente erano rimasti al riparo dalla crisi vengono colpiti perché quando i consumi calano... calano (più o meno) per tutti i settori...
E chi non viene colpito... anzi si arricchisce?
Quelli che non campano di "lavoro"... ma "speculano" sui mercati finanziari... ovvero i "capitalisti" che, grazie ad una moneta forte, possono comprare a basso prezzo ciò che è in vendita...
Quando il PD e SEL difendono l'euro e ci mantengono dentro... stanno, dunque, difendendo il capitale a scapito del lavoro...
Capite perché non vanno più nelle fabbriche a parlare con i lavoratori?
Capite perché il piano Merkel prevedeva Bersani + Monti al governo? ... Entrambi difendono i capitalisti... ma i primi (quelli del PD) hanno anche la faccia tosta di proclamarsi un partito di sinistra...
E la terza soluzione (la svalutazione)?
Torni alla lira, la svaluti del 20% (rispetto alla moneta dei tedeschi) e, quindi, sul mercato i prezzi dell'azienda italiana sono uguali a quelli della tedesca...
Chi paga in questo caso?
Quelli che hanno soldi che impiegano fuori dai confini nazionali (gli speculatori internazionali, le mafie che riciclano i loro proventi all'estero, gli evasori fiscali, i politici che portano i soldi in Svizzera... etc.. )... sono loro che ci rimettono il 20% quando convertono i loro denari nelle valute straniere...
E chi lascia i suoi soldi in Italia e non ha contatti con l'estero?
... Quasi manco si accorge della svalutazione...
Perché "quasi"?
Alcuni prodotti "obbligati" (tipo il petrolio) costeranno il 20% in più (rispetto a prima) e siccome rappresentano circa il 6% del Pil, produrranno un aumento dei prezzi interni del (20% x 6%=) 1.2%... un quasi zero...
Ed i lavoratori?
Percepiranno lo stesso stipendio di prima e, con l'esclusione dei prodotti obbligatoriamente importati, non si accorgeranno neanche della svalutazione...
In conclusione: la svalutazione danneggia prevalentemente i ricchi capitalisti, mentre la riduzione dei costi interni danneggia prevalentemente i lavoratori...
E non è un'opinione, ma matematica...
Cosa ha fatto l'Italia con l'entrata nell'euro?
Ha scelto di privilegiare i ricchi capitalisti a scapito dei poveracci che campano del loro lavoro...
... Ci credereste che a condurci dentro l'euro siano stati Prodi, Amato, Bersani, D'Alema... tutti coloro, cioè, che qualche anno prima si professavano "partito dei lavoratori"...??
... E ci credereste che per condurci in quella gabbia mortale, ci abbiano imposto tasse spaventose e ci abbiano anche raccontato l'ignobile balla che gli "altri europei" non ci volevano e, dunque, dovevamo "guadagnarci la loro fiducia"?
Capite cosa intendo quando dico che... vi chiederò, dunque, di ricordarvi i nomi e le facce di coloro che, ancora oggi, difendono (o, peggio, ci impongono) l'euro senza spiegarcene i motivi... contando sull'ignoranza di chi l'ascolta... Costoro, quando tutto si compirà, dovranno rispondere della miseria in cui hanno condotto il popolo italiano e, soprattutto, delle migliaia di suicidi che ciò ha comportato...
Non basta mandarli a casa, bisognerà mandarli di fronte ad un tribunale speciale con l'accusa di alto tradimento...
... E che resti di monito nei secoli a venire...

di G. Migliorino

31 marzo 2013

La presidente argentina esorta i leader europei a opporsi ai “predatori finanziari”



 Aprendo la nuova legislatura del Congresso Nazionale il 1 marzo, la Presidente dell’Argentina Cristina Fernandez de Kirchner ha puntato il dito contro i leader mondiali che si piegano ai fondi speculativi e che cercano di distruggere le nazioni, invece di difendere il benessere delle loro popolazioni.
Cristina Fernandez ha parlato del default argentino nel 2001-2002 e della conseguente ristrutturazione del debito sovrano, che ha costretto i detentori di titoli di stato (in larga parte stranieri) ad accettare una riduzione del valore nominale, gonfiato, di tali titoli, indicando il disastro in Europa. "E’ probabile che molti altri paesi, prima o poi, pur negando il disastro, ristrutturando e attuando salvataggi bancari, saranno costretti a ristrutturare il proprio debito riducendo i pagamenti ed i tempi di rimborso. Altrimenti come potranno pagare paesi come Grecia, Spagna e ora l’Italia, che a quanto scopriamo ha il dramma di non avere un governo?"
In questo contesto, ha aggiunto, le battaglie giudiziarie dell’Argentina contro gli speculatori e i loro fondi pirata, che continuano ad esigere il pieno pagamento, più gli interessi, sui titoli che detengono, sono emblematici, non solo in termini economici e finanziari, ma anche come un test politico. "La questione è se i principali leader mondiali, i membri del G-20, i capi degli istituti di credito ed i governi di varie nazioni del mondo lasceranno che una manciata di predatori finanziari – che si contano sulle dita di una mano – mandino in rovina il mondo intero, creino milioni di disoccupati, persone disperate che si suicidano, che hanno perso il lavoro, non possono andare a scuola, hanno perso la casa, o se daranno invece la priorità alla loro società, alla loro nazione, alla loro storia ed al loro patrimonio. Questo è in ballo oggi" ha dichiarato la Fernandez.
Riferendosi al calo della produzione industriale in Europa, e in particolare in Italia, ha considerato che "viviamo in un mondo strano, dove i leader che hanno più responsabilità, perché nei loro paesi si è generata la crisi, non hanno una percezione di ciò che sta avvenendo". E si è chiesta: "Come è possibile che si voglia sacrificare intere nazioni a dei piccoli gruppi" che esattamente come i fondi pirata che predano in Argentina "cercano di imporre le proprie condizioni al mondo intero?"
La Presidente argentina sottolinea che lo sviluppo scientifico e tecnologico è alla base del suo governo così come lo era di quello del suo scomparso marito, Nestor Kirchner, dichiarando che è sua ferma intenzione ricostruire l’infrastruttura scientifica che è stata decimata dalla giunta militare e dal regime del FMI dagli anni Settanta agli anni Novanta, costringendo decine di migliaia di scienziati e studenti universitari a lasciare il paese. Questo sarà al centro dell’attenzione anche in futuro, ha notato, giacché il paese dipende da ciò.
Quello che infuria il FMI, ha aggiunto, è che "fondamentalmente abbiamo avuto successo senza seguire la sua politica. Anzi, siamo andati contro tutte le cose che ci hanno detto di fare, e andiamo benissimo. Ecco perché vogliono punirci, non ci perdonano questo successo".

by  (MoviSol) 

30 marzo 2013

Scenari spaventosi e raccapriccianti



Paolo Becchi



 L’apertura delle consultazioni ed il conferimento del pre-incarico a Bersani segnano un momento decisivo per il MoVimento 5 Stelle. Decisivo, perché è nei prossimi giorni che il MoVimento dovrà dimostrare la propria forza politica e la propria capacità di non cadere nelle “trappole” che gli altri partiti gli tenderanno (come accaduto in occasione dell’elezione del Presidente del Senato). Secondo diversi opinionisti, politici e “intellettuali”, senza la formazione del nuovo Governo il lavoro del Parlamento non potrà iniziare. Personalmente non ne sono convinto, e sono ormai settimane che tento di spiegare questa posizione: con il Governo Monti dimissionario (e quindi in prorogatio di fatto), l’Assemblea può iniziare comunque la propria attività legislativa. A cominciare ad esempio dalla riforma della legge elettorale, dai tagli ai costi della politica e dall’eliminazione delle province.

 Ma andiamo avanti. Quali insidie, dunque, si preparano per il MoVimento? La tattica del Pd pare ormai abbastanza chiara. Bersani ha voluto ed ottenuto l’affidamento di un pre-incarico pur sapendo già di non poter ottenere la fiducia in Parlamento. Egli spera, probabilmente, di ripetere il bis rispetto a quanto accaduto con Grasso, di giocare d’azzardo confidando che, all’ultimo momento, alcuni senatori delle opposizioni finiscano per votare la fiducia al suo Governo. Il gioco del Pd è questo:costringere il MoVimento ad esprimere la propria linea politica a conti già fatti, ponendolo di fronte a un’alternativa secca: “O votate la fiducia oppure dimostrate di essere degli irresponsabili, perché è soltanto per colpa vostra che questo Paese è ingovernabile, per colpa vostra che si dovrà tornare a votare, per colpa vostra che i mercati reagiranno spingendo l’Italia (ancora una volta) verso il “rischio” Grecia.”


 È un’alternativa falsa, ed infida. Sarebbe il Pd, infatti, a dimostrarsi il vero irresponsabile decidendo coscientemente di formare un Governo pur sapendo che quest’ultimo non otterrà la fiducia. Chi sarà l’irresponsabile? Chi si dimostrerà incoerente e chi coerente? Chi è che da mesi ripete che non voterà nessuna fiducia a qualsiasi Governo Pd o Pdl che sia? È forse disposto il MoVimento a scendere a compromessi con questi partiti? A fare davvero delle distinzioni, delle eccezioni, delle valutazioni sul “meno peggio”? No, non può esserlo: i partiti politici vanno tutti combattuti sullo stesso piano; sono i nostri nemici politici, e con loro non è possibile alcuna alleanza. In questo il M5S ha dimostrato, negli ultimi giorni, tutta la sua forza politica: ha ribadito la sua netta opposizione ad ogni governo formato dalla partitocrazia, ha ripetuto che nessuna fiducia verrà accordata al Pd.

 Forse è per questo che il Pd potrebbe tentare di giocare un’altra carta, quella dell’“inciucio” con il Pdl, come le ultime dichiarazioni di Berlusconi sembrano suggerire. L’idea sarebbe questa: il Pdl vota la fiducia a un Governo Pd, e il Pd, in cambio, s’impegna a eleggere un Presidente della Repubblica che garantisca a Berlusconi di rimanere in Parlamento (visto il sempre più concreto rischio “ineleggibilità” di questi giorni) e di mettere fine attraverso immunità alla cosiddetta “persecuzione” giudiziaria (magari nominandolo senatore a vita). Berlusconi è disposto a tutto, ormai, a patto che gli venga assicurata la sopravvivenza: fine dei processi ed elezione “concordata” del prossimo Capo dello Stato. Così si muovono, in questa direzione, le strane trattative tra Pd, Monti e Lega, secondo trame invisibili e strategie del ragno da Prima Repubblica. Questa sarebbe la “responsabilità” politica di cui parla Bersani? Questa sarebbe la democrazia?

 Ancora un’ipotesi. Napolitano potrebbe tentare di proseguire nella linea della sua Terza Repubblica: imporre a Bersani di guidare un nuovo governo di “tecnici”, questa volta spostato a sinistra (Rodotà, Onida, Zagrebelsky, Marzano, forse qualche prete, qualche donna, qualche santo, qualche navigatore). Una forma di suicidio assistito, nelle mani del Presidente della Repubblica. Certo è che iniziare una nuova legislatura con un nuovo Governo del Presidente sarebbe un “colpo di Stato” ancor più grave di quello che portò, lo scorso anno, Monti alla Presidenza del Consiglio.

Tutte queste ipotesi, perché? Perché è evidente quello che sta accadendo: trovare una soluzione, una qualsiasi soluzione, anche profondamente antidemocratica, pur di non tornare alle elezioni. E’ questa la linea che condividono i partiti, Pd e Pdl in testa, il Capo dello Stato, l’attuale Governo dimissionario e tutto il sistema di interessi esistente intorno alla partitocrazia. Meglio un governo tecnico, un governo non democratico, un governo improvvisato, che le elezioni. Qualsiasi soluzione, lo ripeto: i compromessi e negoziati si stanno realizzando sia per quanto riguarda il Governo che il futuro Capo dello Stato, conscenari spaventosi e raccapriccianti, come l’appoggio di senatori leghisti al Pd o la concessione, da parte del Partito Democratico, di assicurazioni e garanzie a Berlusconi. Un connubio, un “inciucio” mai visto né pensato, con un’occupazione sistematica di tutte le cariche dello Stato – dal Quirinale al Governo – da parte dell’asse Pd – Pdl.

 Davvero è meglio tutto questo, o invece si dovrebbe arrivare, finalmente, alla constatazione che, poiché non c’è la possibilità di formare una maggioranza solida per governare, si debba ritornare alle urne? Meglio un nuovo Governo Bersani che navigherà a vista come ai tempi della Prima Repubblica? Meglio un nuovo Governo Pd-Pdl o Pd-Monti-Lega (?!!), risultato del più grande “inciucio” che la storia repubblicana abbia mai visto? Meglio un nuovo Governo Tecnico che farà la fine di quello precedente nel giro di un anno? O non sarebbe meglio ricorrere alla volontà popolare con una nuova legge elettorale?

 Si ripete che, senza un nuovo Governo, non sarebbe possibile approvare una nuova legge elettorale. È un falso colossale. Il Parlamento può già legiferare, in questo momento, anche con l’attuale Governo dimissionario (che è in prorogatio di fatto da già 3 mesi). E si dovrà iniziare la legislatura proprio a partire dalla legge elettorale. Se per anni si è ripetuto che il Porcellum deve essere abbandonato e se, nel contempo, si dice che, in questo momento, l’approvazione di una nuova legge elettorale richiederebbe trattative politiche e tempistiche troppo complicate in una fase come questa, allora basterebbe accordarsi su una soluzione molto semplice: votare con la legge elettorale precedente, il Mattarellum. Per fare questo, basterebbe approvare una legge con un solo articolo, che recitasse: “L’attuale legge elettorale è abrogata. Rivive la precedente”. Se davvero i partiti volessero cambiare la legge elettorale, in pochi giorni si farebbe con una facilità disarmante.

 Cosa volete, allora, partiti ormai morti? Volete proseguire la lunga agonia o tornare alle urne, lasciando al popolo la decisione ultima sul destino politico di questo Paese? La verità è che stanno cercando di passare tra Scilla e Cariddi, evitando di sciogliere questa alternativa, perché, in entrambi i casi, la strada scelta non potrà che dare più forza al M5S. Tutto si può dire, ma non che il M5S sia responsabile di questo “stallo”: il moVimento ha, fin dall’inizio, sostenuto una linea politica decisa e coerente, ribadita anche durante le consultazioni con il Capo dello Stato. Lo ha detto chiaramente: il MoVimento 5 Stelle è la prima forza politica alla Camera, senza i voti contestati degli italiani all'estero, e pertanto è chiamata adassumersi le proprie responsabilità, mostrando la propria disponibilità ad accettare un eventuale incarico di Governo. Se non gli si vuole affidare il Governo, allora non si potrà che rivotare. Sono i vecchi partiti ad essere irresponsabili, in realtà, perché stanno tentando di prolungare il più possibile l’attuale crisi sperando di navigare a vista per un po’ di tempo, mantenendo questo Paese in stato vegetativo permanente nell’attesa che succeda qualcosa (un miracolo?) che possa salvarli. 

 di Paolo Becchi

29 marzo 2013

Il Bilderberg nomina il presidente della repubblica italiana



  
   
In un recente passato, che appare però lontanissimo, era stata promessa agli Italiani l’elezione diretta del capo dello Stato. Naturalmente non se n’è fatto nulla. In una cosa sola i nostri governi, quali che siano le loro ideologie e i loro orientamenti politici, sono tutti “montiani”: decisi e rapidissimi soltanto nell’aumentare le tasse. Per tutto il resto tempi biblici in attesa che svanisca anche il ricordo delle promesse fatte. Dunque niente elezione diretta del Presidente. Ma c’è invece chi lo sceglie per noi e senza chiedere il permesso a nessuno: quel Potere che in silenzio ha progettato e imposto l’unificazione europea, che ha progettato e imposto la moneta unica e che continua a presiedere a tutte le vicende più importanti dei singoli Stati i quali obbediscono anch’essi nel più assoluto silenzio.

Sono uomini di cui non conosciamo altro che le facce e i nomi dei loro messi, di quelli mandati a mettere in atto la loro volontà, ma che possiamo riconoscere a colpo sicuro da un solo comune connotato: l’andamento disastroso di tutte le loro imprese, il fallimento di ciò che realizzano. 

Di fronte ai nomi ventilati in questi giorni dai giornali come possibili Presidenti: Amato, Prodi, D’Alema, ci potremmo domandare quanti voti avrebbero preso se gli Italiani fossero stati chiamati a votare. Sicuramente nessuno, o quasi. Sono stati già abbondantemente bocciati in precedenza e di conseguenza i loro nomi vengono indicati da un potere estraneo alla democrazia e che li impone esclusivamente in funzione del progetto euro finanziario che deve fare da apripista al governo finanziario mondiale. Non abbiamo sentito fino ad ora reazioni di nessun genere da parte dei politici: davanti al Potere nascosto dietro all’Europa nessuno parla. Abbiamo però già assistito a suo tempo all’esaltazione come Capo dello Stato di Ciampi, entusiasta fautore dell’euro in coppia con l’astutissimo Prodi con il quale ha provveduto a svendere e a spogliare di quasi tutti i suoi beni l’Italia pur di riuscire a farla entrare nello spazio paradisiaco dell’euro. Ne deduciamo che il compenso stabilito sia sempre lo stesso: prima dimostri di essere un servo fedelissimo del Potere finanziario europeo e mondiale, adempiendo al compito che ti è stato assegnato quali che siano le sofferenze e i danni che apporti alla tua patria e ai tuoi concittadini, poi diventi presidente della Repubblica. Lo stesso ragionamento, mutati i compiti e le situazioni, vale per gli altri nomi. La presidenza della repubblica italiana è appaltata al Bilderberg.

Adesso, però, che abbiamo fatto una lunga e dura esperienza della quasi assoluta mancanza d’intelligenza che caratterizza i soci del Bilderberg e i loro emissari, montiani o meno, testimoniata chiaramente dai disastri che seguono alle loro imprese, sarà bene che i politici guardino in faccia la realtà. Anche a voler prescindere dai fatti che abbiamo sotto gli occhi (è di questi giorni il macroscopico pasticcio combinato a Cipro) non sono pochi gli analisti finanziari  che prevedono un possibile crac dell’euro per il secondo trimestre e, se non un crac, delle difficoltà sempre più gravi nella gestione dell’economia in Europa. Sarebbe davvero poco “divertente” trovarsi fresco di nomina a capo della Repubblica e mandare in giro per il mondo a rappresentare gli Italiani proprio uno dei responsabili del crac.

di Ida Magli 

28 marzo 2013

Merkel e l’euro ci hanno strozzato. Ora basta!


I lettori del Giornale lo conoscono da anni come editorialista. Ma Claudio Borghi Aquilini, docente di Economia degli intermediari finanziari all’Università Cattolica di Milano, è soprattutto una voce eterodossa rispetto al conformismo europeista che domina sui media. Ecco perché Wall & Street hanno voluto ascoltare il suo parere.
Lo spread è un indicatore economico?
«Lo spread non dovrebbe esistere. Nel 2011 non sapevamo nemmeno cosa fosse perché sul mercato c’era la percezione che il debito europeo fosse condiviso. Il caso si è creato quando Merkel e Sarkozy hanno preso la scriteriata decisione del PSI (acronimo di Private Sector Involvement, cioè la ristrutturazione del debito greco tramite il coinvolgimento degli istituti di credito privati che detenevano i Sirtaki-bond). Allora si è compreso come i titoli di Stato non fossero garantiti ed è partita la speculazione. Infatti lo spread è aumentato a prescindere dai fondamentali economici».
Lo spread lo ha abbattuto Mario Monti o Mario Draghi?
«Lo spread è sceso quando il presidente della Bce Mario Draghi ha detto che avrebbe fatto tutto il possibile per difendere l’euro anche con acquisti potenzialmente illimitati di titoli di Stato, cioè mostrando la capacità dell’eurozona di monetizzare il debito. Come fa la Bank of England con i titoli britannici».
La politica di austerità è sbagliata?
«Sì. Gli economisti Paul de Grauwe e Paul Krugman hanno svelato l’inganno: consolidare i bilanci pubblici in periodo di recessione porta altra recessione e aumento del debito».
Ma la vulgata europeista dice che senza misure strutturali la Bce non sarebbe intervenuta a favore dell’Italia?
«La Bce sarebbe intervenuta ugualmente perché l’alternativa era rappresentata dalla dissoluzione dell’eurozona. L’Italia ha dimensioni troppo grandi. Magari qualcuno si sarebbe opposto a una replica dell’operazione greca con la mutualizzazione del debito attraverso il fondo salva-Stati e così non ci sarebbe stata alternativa al default che avrebbe travolto ».
Che cosa intende per «mutualizzazione del debito»?
«Nel momento in cui la Grecia è andata in default i principali creditori erano i Paesi dell’Europa “core” (Francia e Germania soprattutto; ndr). Con l’intervento dei fondi salva-Stati, Efsf prima e Esm adesso, questo credito è stato diviso anche con nazioni meno coinvolte come l’Italia».
Perché la Grecia è in ginocchio nonostante gli aiuti?
«La distruzione della Grecia era nei fatti. L’euro è una moneta troppo forte per quella economia. Faccio un esempio concreto: ammettiamo di azzerare il debito italiano con la bacchetta magica, non è per questo motivo che Fiat venderà di più. Al contrario, il gruppo di Torino venderà più auto prodotte in Italia se il loro prezzo sarà competitivo sul mercato. La differenza sostanziale è il valore della moneta. Se a questo si aggiungono le misure di austerità, un Paese è messo sotto scacco. Come fa un’impresa a investire in Grecia? I capitali fuggono e la gente continua a perdere il proprio posto di lavoro e quindi la recessione peggiora. L’aiuto ad Atene è stato solo un recupero crediti alla maniera di uno strozzino».
E la bancarotta di Cipro come si spiega?
«È un fallimento della vigilanza perché la Bce sapeva della concentrazione di depositi a Cipro, lo sapeva anche dagli stress test e ha fatto finta di nulla. E poi è un fallimento dell’Europa, cioè di Angela Merkel che, lasciando andare in default la Grecia, ha fatto andare in bancarotta le banche cipriote che vi investivano».
Il prelievo forzoso sui conti correnti può risolvere tutto?
«Se Merkel ha creato un buco lasciando fallire la Grecia, non si può tapparlo col prelievo forzoso. Cipro è un paese che dovrebbe essere tutelato dall’euro e ha le banche chiuse da quasi due settimane. Nemmeno in Egitto e in Tunisia durante le rivoluzioni è accaduta una cosa del genere».
È più grave mettere le mani sui conti correnti o chiedere a uno Stato che si dovrebbe salvare 5,8 miliardi di garanzia su 10 miliardi di aiuti?
«La garanzia sui depositi fino a 100.000 euro l’ha introdotta l’Ue. L’Islanda si è salvata con una garanzia di soli 20.000 euro rimborsando i creditori domestici prima e quelli esteri in seguito. Cipro può fallire ma se deve rimborsare i conti fino a 100.000 euro, bisogna costruirgli una via d’uscita praticabile. L’Ecofin ha adottato una strategia da magliari: la tutela dei depositi costruita tassando i depositi».
Secondo lei, cosa dovrebbe fare Cipro?
«Uscire dall’euro. È entrato da poco, non avrebbe nemmeno problemi di inflazione. Dovrebbe far andare le banche in default anche sui prestiti della Bce e poi stampare lire cipriote per rimborsare i creditori. Se anche così fosse troppo oneroso, potrebbe abbassare la garanzia sui depositi».
Condivide l’opinione secondo cui la situazione europea attuale assomiglia molto a quella del 1913?
«No. È molto più simile a quella del ’92 quando l’Italia uscì dal Sistema Monetario Europeo perché non riusciva a sostenere il regime di cambi fissi con le altre monete. La speculazione di Soros ha fatto saltare un sistema di cambi artificiale. Faccio un altro esempio: ci sono due atleti che devono correre i 100 metri in 10 secondi. Uno pesa 150 chili e l’altro 40 ma riescono a ottenere la stessa prestazione. Se metto loro in spalla uno zaino di 30 chili, il primo ce la fa in 11 secondi, quello più leggero impiegherà il doppio del tempo».
Si può uscire da questa spirale mantenendo la moneta unica?
«No. Le due alternative possibili sarebbero un’ammissione di fallimento. Il primo è quello dei trasferimenti interni: chi è più ricco dà a chi è più povero e il caso italiano con la Lombardia che finanzia la Calabria dimostra che il modello non funziona. La seconda ipotesi è la deflazione interna: si tagliano i prezzi tagliando i salari, ma se la gente guadagnasse il 30% in meno a parità di condizioni, si creerebbero squilibri sociali e, per altro, il debito non diminuirebbe».
Quanto ha guadagnato la Germania con l’euro?
«Il saldo della bilancia commerciale (esportazioni meno importazioni; ndr) era in sostanziale pareggio fino al 2002. Nei primi dieci anni di introduzione dell’euro è andata in attivo per complessivi 1.500 miliardi. Considerato che gli altri Paesi dell’eurozona sono i primi partner commerciali, il calcolo del trasferimento di ricchezza è presto fatto. Molti obiettano asserendo che la Germania ha compiuto importanti riforme che le hanno consentito di essere competitiva. È vero, ma è altrettanto vero che con l’euro del “tutti contro tutti” la Germania ha fatto deflazione salariale. Il suo successo corrisponde all’insuccesso della spagna e di altri Paesi in difficoltà».
Come si potrebbe uscire ordinatamente dall’euro?
«Se fosse successo due anni fa all’inizio della crisi greca, ora saremmo belli come il sole. Innanzitutto, bisogna precisare che i bassi tassi di interesse non derivano dall’essere parte di un’unione monetaria. In secondo luogo, bisogna sfatare il tabù secondo il quale con un’uscita dall’euro servirebbero cariolate di banconote per fare benzina e il costo dei mutui sarebbe insostenibile. Tra svalutazione e inflazione non c’è automatismo. L’euro all’inizio della sua storia ha perso il 30% del suo valore contro il dollaro e per noi non cambiò assolutamente nulla. Dopo la svalutazione della lira nel 1992 il tasso di inflazione scese dal 5 al 4,5 per cento. Magari le patate non si importerebbero più dalla Germania, ne produrremmo di più e anche i prezzi di beni prodotti all’estero si adeguerebbero e le Bmw costerebbero un po’ di meno se la casa tedesca intendesse non perdere troppo terreno sul mercato italiano».
E il debito?
«Anche qui bisogna specificare che cambiare moneta non equivale a fare default! Il debito sottoscritto con un contratto italiano sarebbe automaticamente traslato nella nuova valuta, a partire dai Btp e dai mutui. Ci sono però porzioni di debito stipulate con contratti esteri. Si tratta di debito pubblico (in minima parte; ndr) e soprattutto privato, a partire dai finanziamenti di lungo termine ottenuti dalle banche italiane tramite la Bce. Il vero problema è proprio questo…».
C’è una soluzione anche per questo?
«Sì. Una volta recuperata al suo ruolo Bankitalia, se Unicredit e Intesa Sanpaolo avessero problemi sui debiti con l’estero, si potrebbero nazionalizzare temporaneamente».
E a chi dice che senza euro faremmo la fine dell’Argentina cosa risponde?
«L’Argentina non ha avuto problemi in quanto ha fatto default. Anzi, da quel momento in poi è ripartita. La produzione è crollata prima quando hanno surrettiziamente agganciato il peso al dollaro Usa, strangolando così l’economia. E poi nel caso dell’Italia, lo ripeto, uscire dall’euro non sarebbe fare default!».
Wall & Street

27 marzo 2013

Crisi di Sistema





 

Un sistema che ha fondato la sua esistenza sullo spreco, sul degrado e sulla commercializzazione di beni superflui e di infima qualità, era destinato a implodere. Questa, del mondo occidentale, non è una semplice crisi, ma la fine di un’epoca. Il gran numero di disoccupati e di precari in continuo aumento, è il logico risultato di un tipo di lavoro, privo di fondamentali e, quindi, di regole certe.

Per usare una metafora, paragonerei il Sistema Liberista Relativista ad una fabbrica di bolle di sapone. La gente, ingannata per decenni e abbindolata dalla seduzione della modernità e da una massiccia propaganda mediatica totalitaria (che ha speculato sui bisogni, fragilità, paure e debolezze), troppo tardi ha compreso il valore effimero delle bolle di sapone. L’inganno è stato totale e ha prodotto un becero relativismo, che ha fatto piazza pulita di ogni valore etico e morale, omologando gli individui e codificandoli come semplici consumatori. Piano piano il grande imbroglio sta venendo a galla, e così la rabbia dei truffati, che esploderà in tutta la sua potenza, quando quella che oggi é definita una crisi assumerà le sembianze dell’apocalisse. L’avvelenamento delle acque e dell’aria, erano parametri sufficienti per rendersi conto di quale cammino era stato intrapreso, e indicatori della loro potenzialità distruttiva. Con che spudoratezza tutto questo è stato definito progresso e benessere? Se, per fare un esempio, oggi tutti gli automobilisti di Milano rispettassero alla lettera il codice della strada, questa città, già invivibile e caotica, si bloccherebbe all’istante. Può sembrare un assurdo ma è proprio grazie a chi elude e infrange le regole che, oggi, miracolosamente il traffico continua a scorrere, e le casse del comune ad ingrassarsi a dismisura.

Lo stesso principio e meccanismo vale anche per l’economia del nostro paese (il Sistema) che se dovesse attenersi a regole ferree e pene certe, imploderebbe in una settimana. Se i cittadini di un qualsiasi paese occidentale poi, in virtù di un risparmio ragionevole e doveroso, si astenessero dal consumare beni effimeri, contraffatti e voluttuari, orientandosi su quelli primari, durevoli e di prima necessità, il Sistema, che oggi ci governa e che ci opprime, si squaglierebbe come neve al sole. Sentire ancora parlare di ricerca, di crescita e sviluppo e delle semplificazioni relative al fare impresa, come le inderogabili soluzioni alla crisi, sarebbe come rendere libera la pesca epurando il suo regolamento da licenze, normative e divieti, quando oramai di pesci nel mare non ce ne sono più. Avremmo dovuto investire le nostre energie in un prudente dialogo con la madre terra, rispettandone le sue logiche e regole imperiture. E’ stata umiliata la natura e mortificato il lavoro dei campi, adducendone un significato distorto, di inciviltà, di miseria e ignoranza. Abbiamo voluto sfidare le nostre vere ragioni, come alieni, venuti da un’altra galassia, ma presto la terra ci ripagherà con la stessa moneta, per averla infamata e violentata.

Solo recuperando i valori e i doveri di un passato luminoso, oggi soppiantati dal perverso consumismo della Bestia Liberista, potremo intravedere un futuro fra le nere nubi che si addensano all’orizzonte, ma il prezzo da pagare sarà di sangue, di paura e di follia. Per tutti questi motivi, “la disperazione più grande che possa impadronirsi di una società, è il dubbio che vivere onestamente sia inutile. Una tale disperazione, avvolge il mio paese da molto tempo.”


di Gianni Tirelli 

26 marzo 2013

Democrazia senza partiti





marco revelli 20130323



«Non può esserci democrazia funzionante senza il canale dei partiti. Nessuna nuova o più vitale democrazia può nascere dalla demonizzazione dei partiti». Con queste parole, pronunciate al Teatro Toniolo di Mestre nel settembre del 2012, il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano si è fatto interprete di un timore largamente diffuso tra le classi dirigenti: il rapporto tra democrazie e forma-partito sarebbe sul punto di rompersi definitivamente. A tutto svantaggio, sostiene Napolitano, della democrazia. È davvero così? Marco Revelli insegna Scienza della politica all’Università del Piemonte orientale e ha da poco pubblicato un libro, Finale di partito(Einaudi, pagine 138, euro 19), in cui affronta la questione collocandola in un passaggio d’epoca ben più radicale – il pieno ingresso in una società post industriale – senza il quale ogni “pro” e ogni “contro” i partiti rischia di rimanere una sterile petizione di principio.
Una caratteristiche della nostra società è che gli individui si fidano sempre meno gli uni degli altri, perché stentano a riconoscersi. Finita l’era dell’ottimismo – ottimismo tecnologico, fede nel progresso o nel mercato –  le  basi materiali della fiducia si sono sgretolate e la caduta generale del legame ha inevitabilmente toccato anche il rapporto tra cittadini e partiti. È una crisi che spinge non pochi analisti a una facile equazione: più si abbassa il livello di fiducia nei partiti, più cresce la passività tra i cittadini. La crisi della fiducia sarebbe quindi il vettore di ciò che impropriamente viene chiamato “populismo” o tacciato di “antipolitica”. Lei come legge la situazione dentro questo quadro generale di défiance
Marco Revelli: La caduta del legame di fiducia è clamorosa e oramai conclamata. La fiducia nei partiti, in Italia, tocca livelli parossistici e non supera il 5 per cento. Questo significa che solo un cittadino ogni venti crede ancora nella possibilità di un’azione concretamente democratica condotta attraverso i partiti politici. Questa crisi di fiducia nei partiti rischia di intaccare anche la fiducia nelle istituzioni che, relativamente al Parlamento, si attesta su un misero 8 per cento. Comprendiamo subito che in una democrazia parlamentare come la nostra, laddove il Parlamento dovrebbe essere il vero sovrano, il sovrano è in realtà completamente sfiduciato. Fenomeno che in Italia, come detto, tocca livelli parossistici, ma è generale ed esteso a tutto l’Occidente. Negli anni Sessanta e Settanta, nonostante fossero anni di contestazione, di lotte sociali e di conflitti, la fiducia nelle istituzioni era altissima e toccava picchi del 70 per cento. Il mondo è cambiato ma troppo spesso chi ragiona “di” politica e “in” politica non registra questo cambiamento. Avverte il disagio, si accorge che le cose non funzionano ma come se ci si fosse allontanati da un modello che prima o dopo potrebbe riprendere funzionare: la democrazia dei partiti. Al contrario, quel modello è finito. Finito come è finita la grande impresa: come non possiamo illuderci che a Mirafiori tornino a lavorare cinquantamila operai, così non possiamo pensare che tornino i grandi partiti di massa. I partiti erano grandi fabbriche del consenso. Queste fabbriche non funzionano più, così come non funzionerebbero più le vecchie fabbriche di automobili. Dobbiamo cercare di capire come si riassesta la politica dopo questa mutazione genetica dei suoi protagonisti e dei suoi soggetti. Soggetti che, beninteso, non scompaiono ma i partiti di oggi hanno una parentela lontanissima con i loro progenitori.  
Negli scenari futuri è possibile quindi una prospettiva di democrazia senza partiti?
Marco Revelli: Abbiamo conosciuto una fase specifica della democrazia dei moderni, quella della seconda metà del Novecento. Una fase che si caratterizzava per un modello democratico il cui protagonista principale e quasi esclusivo era il partito politico. Gramsci lo definì «il moderno principe» e difatti il partito sembrava il soggetto destinato a occupare quasi per intero la nostra modernità politica. In realtà, sappiamo che la democrazia – e anche la democrazia dei moderni sorta dopo la Rivoluzione del 1789 – è nata ben prima dei partiti. Prima esistevano certamente gruppi di notabili, raggruppamenti di individui ma ciò che tecnicamente chiamiamo “partito” non esisteva. Sottolineerei che persino un pezzo di Italia liberale tardo ottocentesca non conosceva i partiti strutturati come li abbiamo conosciuti col partito di massa. Sono stati i partiti socialisti e i partiti cattolico-popolari che hanno introdotto quella forma nella politica. Questo è il contesto. La fine di questo modello non significa tout court fine della democrazia e il passaggio a una forma autoritaria o dittatoriale Ciò a cui assistiamo non è la pura e semplice estinzione di ogni forma di partito che lascerà spazio solo a una terra incognita abitata da individui da un lato e istituzioni dall’altro. È casomai una metamorfosi: i partiti non scompaiono di punto in bianco, ma diventano una cosa diversa da ciò che avevamo in precedenza conosciuto. La stessa cosa accadde con la fine del fordismo, ossia della grande industria centralizzata e organizzata secondo rigidi schemi interni. La fine dell’organizzazione fordista del lavoro non ha portato alla scomparsa delle imprese. Imprese che, semplicemente, hanno assunto una forma e un modello di organizzazione completamente diversi rispetto al modello fordista che prevedeva una tutela “dalla culla alla tomba”. Ricordiamoci che c’erano scuole materne, colonie estive, modelli di socializzazione che crescevano tutto attorno alla grande fabbrica della città forsista. Allo stesso modo, attorno ai partiti era tutto un fiorire di iniziative e istituzioni, diciamo così, “pedagogiche”. C’erano addirittura le edizioni  di partito –dagli Editori Riuniti alle edizioni delle Cinque lune -, le riviste teoriche in cui si svolgevano dibattiti di alto profilo culturale, ma soprattutto la gente frequentava le sezioni e lì si formava. Magari si formava male, perché c’erano forme di dogmatismo o di fideismo o di spirito gregario e conformismo. Però, pur in questo quadro critico e spesso criticabile, il partito aveva una struttura solida e con oligarchie ben formate. Su questo punto, osserverei che ci sono anche studiosi che leggono la trasformazione in atto in termini positivi. Il pubblico, secondo questa lettura, sarebbe scolarizzato, dotato di strumenti autonomi per la formazione delle proprie opinioni e non dipende più dalla “casa madre”. Il ruolo pedagogico del partito è stato superato e un pubblico dotato di una maggiore autonomia critica si informa altrove, magari in rete. 
Un secolo fa, Roberto Michels pubblicava la sua Zur Soziologie des Parteiwesens in der modernen Demokratie, il primo studio su quello che al tempo era ancora un oggetto misterioso: il partito politico. Michels, che partiva da posizioni di sinistra, ribadiva la sua convinzione che le organizzazioni fossero sottoposte a una “legge ferrea dell’oligarchia”. In sintesi: la naturale evoluzione di ogni partito politico condurrebbe da una struttura all’origine a aperta a una oligarchia. Lei dedica un capitolo del suo libro all’analisi di questa legge ferrea nel contesto post-industriale e post-fordista. Crede sia ancora attuale una lettura “élitista” del partito politico?
Marco Revelli: Michels aveva ben presente il modello “pesante” di partito della socialdemocrazia tedesca. Un modello plasmato sul modello organizzativo della burocrazia statale e di quella della grande fabbrica della produzione di massa. L’analisi delle oligarchie condotta da Michels si basava su questo dato di fatto e sulla netta distinzione tra governanti e governati. Il rapporto oligarchico, però, molto spesso si basava sulla fiducia dei subalterni. Una fiducia conquistata sul campo: ricordiamoci che molti leader avevano patito l’esilio o la prigione. Oggi le oligarchie non sono più legittimate da un rapporto di fedeltà stabile. Esattamente come le imprese si sono ramificate e delocalizzate in filiere lunghe nei territori e al tempo stesso si sono concentrate in alto, con vertici globali e incontrollabili da chiunque (persino dagli azionisti, non solo dai dipendenti), così i partiti si sono trasformati in strutture più leggere simili a aggregati di gruppi di potere, spesso caratterizzati da logiche affaristiche, che galleggiano su un elettorato liquido e non più caratterizzato da una fedeltà di lungo periodo. Questo elettorato sceglie quasi giorno per giorno  a chi dare il proprio consenso, seguendo logiche sempre più mediatiche.  
Stiamo andando quindi verso una “democrazia del pubblico”? In tal caso, pssiamo davvero parlare di passività civico-politica dei cittadini o siamo anche qui ci troviamo davanti a fenomeni in evoluzione continua e asimmetrica (fenomeni che difficilmente entrano o entreranno nelle griglie concettuali in cui li si vorrebbe racchiudere)?
Marco Revelli: È una lettura. Questo pubblico è in grado di trarre da se stesso le risposte ai propri problemi e, quindi, è anche più critico e ragiona su temi come i beni comuni, l’ambiente, il territorio, la viabilità, i problemi etici. Un pubblico che si forma delle proprie opinioni e poi va a vedere a quale offerta politica indirizzarsi. Spesso, però, l’offerta politica è qualitativamente inferiore alla domanda e la cultura dei politici di professione è inferiore a quella dei loro elettori. Ecco allora che il rapporto si rompe e cresce una forma di disprezzo da parte di un elettorato più consapevole nei confronti di una classe politica più inconsapevole. C’è poi una seconda lettura, di origine francese. Pierre Rosanvallon propone di chiamare “controdemocrazia” una democrazia diversa da quella dei partiti, per nulla “antipolitica”, dove elettorato che non si illude più di poter governare attraverso i propri rappresentanti cerca di porre un argine, attestandosi su una linea difensiva. In sostanza, se non ci possiamo più aspettare che i nostri governanti ci rappresentino, possiamo però difenderci da loro. I politici di professione sono visti come nemici potenziali che con le loro decisioni possono danneggiarci. È una sorta di democrazia giudiziaria, dove i cittadini cercano una tutela giurisdizionale contro in ceto politico di potenziali criminali. Dentro questa logica – il «dobbiamo difenderci dai rischi che arrivano dall’alto» – c’è sicuramente un pezzo di populismo.  
Populismo, antipolitica e, concetto che lei richiama più volte nella sua analisi, subpolitica.
Marco Revelli: Più che di antipolitica, ci troviamo spesso di fronte a forme nuove di pratica politica in un contesto di democrazia mutato, proprio perché non più mediato dai partiti. Smetterei di usare il termine in modo spregiativo, perché rischiamo di non capire nulla rispetto ai processi in atto.  subpolitica è invece un concetto introdotto da Ulrich Beck, non per sminuire il valore di quest’altra politica, ma per sottolinearne il carattere basilare.
Che cos’è, dunque, la subpolitica?
Marco Revelli: È la politica della vita, il luogo dove si affrontano i problemi che riguardano la sopravvivenza degli uomini: i grandi problemi etici, il problema degli stili di vita, il problema del consumo energetico, i beni comuni. Su questi temi la politica dei partiti non ha molto da dire. Al massimo – pensiamo al referendum sul nucleare – subisce il problema. I recenti referendum hanno mostrato che 27 milioni di italiani sono andati a votare fuori dagli schemi di partito, ma soprattutto hanno dimostrato che una certa forma della politica, quella che vorrebbe ancora il partito al centro della scena, è anacronistica e inefficace.  
Grillo sembra molto avanti, rispetto a quelli che lo contestano. Al contempo è molto indietro, rispetto a dove vorremmo essere. Secondo lei è antipolitica o subpolitica nel senso da lei richiamato?
Marco Revelli: Grillo non è un fenomeno folcloristico. I protagonisti della politica partitica lo trattano con sufficienza come se fosse folclore. Grillo è un sintomo, non certo la causa della crisi e proprio per questo va preso con estrema attenzione. Ha sicuramente tratti populistici, ma nella prevalenza è questa politica nuova che sgorga e cerca le sue forme, Starei attento, molto attento a questo secondo aspetto.
Movimento e adesso “comunità”.  Nel suo comizio in Val di Susa, il 14 febbraio scorso, Beppe Grillo ha dichiarato infatti: «Siamo una comunità, qui c’è un sentimento». Non sembrano parole dette a caso.
Marco Revelli: «Comunità», parola magica, di cui c’è estremamente bisogno. Bisogna però intendersi su questo desiderio di comunità. Gran parte del nostro disagio esistenziale è legato al nostro desiderio di comunità. Una comunità terribilmente assente. Siamo spaesati perché la nostra voglia di vivere in comune con gli altri, la nostra “comunanza” è venuta meno. Diciamocelo sinceramente, se vogliamo andare al di là degli aspetti della cronaca e della statistica, dobbiamo ammettere che la crisi dei partiti si inserisce in una più generale crisi dell’Occidente, che è poi crisi del nostro stile di vita. Crisi epocale che attraversa tutti i livelli, arrivando persino a lambire persino la Chiesa. Una crisi che – mi e vi chiedo – non ha forse a che fare con questo cedimento strutturale dei meccanismi di produzione di senso condiviso? Si sono inceppati i meccanismi di produzione di un noi,  nel passaggio dalla solitudine di un “io” a alla condivisione di un “noi”. Un’apocalisse del senso che rende vuoti tutti i troni, da quelli secolari fino a quelli spirituali. I luoghi si sono dissolti nei flussi. È un horror vacui, quello che ci coglie. Proprio perché si avverte che la rottura di questi meccanismi di produzione di un senso condiviso ricade in termini di una conflittualità molecolare. Non ci sono più conflitti che organizzano il campo, ma una diffusa competitività aggressiva che rende inoperanti tutti i meccanismi di decisione collettiva e ha colpito, in particolare, i partiti. Ma non solo i partiti. Non è diverso per i sindacati, non è diverso per le imprese e non è diverso per la Chiesa.
Le apocalissi del consenso sono conseguenza di apocalissi del senso. Non abbiamo ancora capito come e se si condenseranno le molecole di questo sistema senza più legami.
Marco Revelli: Non ci sono più legami forti, solo legami deboli. La gestione dei legami deboli è di fatto un problema, soprattutto di fronte a un’antropologia e a un’identità modificata dai consumi. Ricordiamo che il consumismo è stato un grande virus che ha avvelenato i pozzi, quando  gli investimenti di identità si sono trasferiti sugli stili di consumo si è scoperchiato il vaso di Pandora di tutte le mutazioni antropologiche possibile. Con questa atomizzazione, con questo individualismo radicale che scambia per libertà la produzione di bisogni inutili. Questo meccanismo di scambio provoca la nostra permanente indigenza. Siamo incapaci di soddisfare qualsiasi risposta e qualsiasi richiesta di comunità attraverso legami. Tanto più il legame diventa debole, quanto più cresce la micro aggressività individuale. Simone Weilparlava di sradicamento. Simone Weil diceva che chi è sradicato, sradica. La rottura del legame riproduce un meccanismo di ostilità molecolare.
Le sembra davvero una via praticabile? La sfiducia da cui ha preso l’avvio la nostra conversazione non rischia di travolgere anche questa speranza di una democrazia oltre i partiti?
Marco Revelli: La possibilità di riuscita in positivo di questa crisi richiederebbe una condizione essenziale:  che i partiti rinuncino alla pretesa di monopolio su tutto ciò che è pubblico. Questo monopolio, non più legittimato né giustificato, finisce per soffocare tutto ciò che potrebbe crescere sotto o a fianco. È chiaro che la possibilità di stare in forma virtuosa in questa transizione complicata che forse coincide con l’uscita dal moderno, forse è una rifeudalizzazione delle nostre società in un crepuscolo delle forme statali forti, non può prescindere da una condizione: che tutto ciò che nasce, non venga immediatamente bruciato dallo sguardo delle macchine politiche. Macchine onnivore che reclutano, spesso in modo ornamentale, ciò che di virtuoso nasce nella società, lo incorporano e lo degradano. Bisognerebbe cominciare questo difficile esercizio del rapporto paritario fra ciò che nasce nel sociale e ciò che sta nel politico.
di Marco Revelli - Marco Dotti

25 marzo 2013

Sull'uscita dall'euro. Parte seconda


Ho ricevuto numerose richieste di chiarimenti ... anche questo è un segno della nuova era che s'è aperta alla fine del 2012, quando l'Italia ed il mondo hanno cominciato a vibrare su una frequenza più alta.
La curiosità di sapere aumenta la vibrazione, l'ignoranza e l'indolenza la schiacciano come l'encefalogramma piatto degli instupiditi.
Se la gente vuol sapere, i ladri ed i corrotti hanno i giorni contati... Ed è esattamente ciò che sta succedendo in Italia.
Chi mai avrebbe potuto immaginare che un partito (il Pd) sicuro di vincere, fosse, invece, costretto a chiedere la "fiducia" al M5S?
Peccato per loro che continuino con i vecchi giochetti... le stesse parole... le stesse facce... senza rendersi conto che sono dead men walking (morti che camminano)... come quei condannati a morte che si avviano alle camere a gas.
Non si capacitano che, dall'altra parte, il M5S non darà mai la fiducia ad un governo a guida Bersani... D'Alema... Bindi... ed il resto della scellerata nomenklatura che ha contribuito a rovinare l'Italia.
L'ha capito persino Casini... e questi, invece, sperano ancora di tornare a spartirsi pingui rimborsi elettorali, comode poltrone e compiacenti spazi televisivi, nei quali mostrarsi come fossero ancora vivi al loro scarso pubblico, che ormai da molto tempo non applaude più... anzi, comincia a fischiarli.
Sembrano i personaggi di una patetica Stardust... vecchi attori ed attrici sul viale del tramonto che, però, ancora si imbellettano e sorridono con denti ingialliti tra un pubblico che, al massimo, gli tributa solo la tenerezza che si deve ai vecchi...
E che impressione fa quel Bersani che chiede insistentemente di "darla" a quei ragazzi del M5S... e ne viene respinto, come una attempata signora che non si rassegna al declino fisico e fa delle avances clamorose a giovani uomini che pensano ad altre...
... E' finita signori... il vostro PD è finito...
Potete solo evitare il disgregamento e la dissoluzione se rinnovate programmi, facce e parole... ma finitela con i giochetti da bocciofila domenicale... magari dopo qualche generosa bottiglia di pessimo Barbera...
... E' finita... voi siete finiti; e smettetela di rendervi oltremodo ridicoli. Avete rovinato l'Italia, ma avete pure una qualche dignità da salvare... Non dilapidate pure quella.
Fatevi da parte... chiedete scusa agli italiani... e siate pronti a pagare i danni che avete inflitto a questa nazione...
E' la vostra unica speranza di non essere consegnati all'ignominia della storia come i tanti Fiorito, Belsito, Penati che avete allevato ed istruito.
... Stat sua cuique dies... Ognuno ha il suo giorno...
Il vostro è passato.
Domanda: Provi a spiegare meglio perché sono aumentati i costi di produzione...
Chiariamo che non è necessario che aumentino; l'effetto è uguale se i tuoi costi restano costanti e quelli del tuo concorrente diminuiscono... il fattore critico, dunque, è il differenziale tra i tuoi ed i suoi...
Il mercato è come un campo di calcio dove due squadre giocano per vincere: non importa quanto forte sia una, se l'altra lo è di più.
Perché, dunque, i costi italiani aumentano più di quelli tedeschi (ed è così da almeno un secolo)?
Perché loro hanno uno Stato più efficiente che gli da servizi migliori... e ciò, per le aziende, si traduce in minori costi di trasporto, dell'energia, di amministrazione interna... etc...
Lo Stato, da una parte prende (sotto forma di tasse e contributi) e dall'altra da (sotto forma di servizi... strade, giustizia, protezione... etc..); ebbene quello italiano prende 3 punti più di quello tedesco e da 3 punti in meno...
Un azienda italiana, dunque, parte svantaggiata di 6 punti (in termini di fatturato) rispetto all'omologa tedesca.
Quando la Germania ha firmato i trattati di Maastricht sapeva perfettamente che la classe politica italiana costituiva il migliore alleato dell'industria tedesca... bastava impedire agli italiani di svalutare e poi ci avrebbero pensato i politici a "zavorrare" l'industria nazionale con un differenziale di costi che, se non "svalutato", avrebbe schiacciato l'economia italiana.
Il calcolo si è rivelato corretto.
Nessun governo ha mai messo mano a questo problema... e men che meno il governo Monti che anzi lo ha sensibilmente aggravato aumentando a dismisura le tasse senza intervenire in alcun modo sull'efficienza della macchina statale (che, anzi, è diventata più inefficiente e costosa)...
Il governo Monti, a quel differenziale di 6 punti ereditato da Berlusconi, ne ha aggiunto altri 2... portandolo a 8...
Se si voleva appesantire ulteriormente la competitività italiana, il governo Monti ha pienamente centrato l'obiettivo...
Un altro motivo per cui i costi aumentano?
Il calo della produzione...
Se tu produci 100 ed ogni pezzo prodotto ti costa 100... se produci 80, il costo di un pezzo non scende anch'esso a 80... ma a 86...
Il perché è facile da capire: le aziende hanno costi variabili (proporzionali alla produzione) e costi fissi (indipendenti dalla produzione). Se i primi rappresentano il 70% del totale ed i secondi il 30%, nel passare da 100 a 80 della produzione, il costi variabili scendono a 80, ma quelli fissi restano 100...
Sicché i nuovi costi saranno 70% x 80 + 30% x 100= 86
Ad un tuo concorrente, quindi, basta costringerti a produrre di meno, per innescare una spirale perversa di aumento dei tuoi costi che ti costringeranno ad aumentare i prezzi... a produrre di meno... ad aumentare i costi... etc...
Ovviamente la stessa cosa funziona al contrario: se tu produci 120, i tuoi costi non passano da 100 a 120... ma a 114... (in questo caso si chiama "economia di scala").
Capite perché è fondamentale prendere quote di mercato (cioè produzione) ai concorrenti?
... Questo (il vantaggio competitivo) è ciò che i tedeschi non erano mai riusciti ad ottenere (perché noi svalutavamo la lira)... e che finalmente hanno ottenuto con l'euro... ma anche grazie all'aiuto dei kapo italiani i quali hanno condannato alla miseria milioni di loro connazionali... per un piatto di wurstel e crauti...
Una volta che l'industria italiana ha cominciato ad accumulare un differenziale negativo con i costi tedeschi (per effetto dell'inefficienza dello Stato italiano rispetto al tedesco), ciò ha provocato il primo calo della produzione industriale (anno 2002) che, anno dopo anno, ha messo in moto il meccanismo perverso visto sopra...
Badate bene: l'inefficienza dello Stato italiano c'è sempre stata... ed il meccanismo perverso di aumento dei costi a causa della riduzione della produzione è noto a tutti quelli che si occupano di economia aziendale... Così come era noto che l'Italia li aveva entrambi e, periodicamente, rimediava con le svalutazioni della lira.
Chi ha deciso di farci entrare nell'euro, dunque, doveva avere ben chiaro in mente quali problemi si dovevano risolvere per non svantaggiarci rispetto ai tedeschi: innanzitutto l'efficienza della Stato...
Vi risulta che dal 1999 (anno di adesione all'euro) ad oggi, qualche governo (di destra o sinistra) abbia cercato, non dico di risolverlo, ma solo di affrontarlo, quel problema?
Eppure era noto che, se non risolto, ci avrebbe condotto al punto in cui siamo...
Ci sono, o no, gli estremi per pensare che abbiano agito in malafede?
Ma, ed è un'altra domande ricorrente, non ci sono anche motivi di vantaggio tecnologico e organizzativo dei tedeschi che li rendono più competitivi rispetto a noi?
Lo vedremo nel prossimo report.
Passiamo all'attualità cominciando con le probabilità di uscita dall'euro...

... calate al 34.5% dopo il 35.5% del dopo-elezioni.
Significa che il "mercato" non teme più così tanto l'umore anti-euro degli italiani?
No, non significa quello: sul minimo del 25 Gennaio scorso è partito un nuovo ciclo annuale e, quindi, la tendenza di quelle probabilità è in crescita... quella riduzione è un movimento discendente su un ciclo minore...
Significa che stiamo uscendo dall'euro?
... Nighese... probabilità inferiori al 50.0% significano il contrario...  Possiamo solo ipotizzare che, in costanza della tendenza in atto (0.15 punti ogni giorno solare), a fine maggio saremmo intorno al 50%... ed a giugno oltre...
Ma queste sono proiezioni matematiche che servono a dire che "a parità di condizioni attuali" quello sarà il risultato...
... Ma "a parità di condizioni attuali" è un'astrazione mentale che "addomestica" convenientemente lo scenario per evitare di fare i conti con le novità o gli imprevisti che, come è noto, accadono con altissima frequenza.

di G. Migliorino

23 marzo 2013

Conti semplice sull'uscita dall'euro. Parte prima


Cercherò di spiegarvi, alla mia maniera s'intende,  la svalutazione in contrapposizione ai cambi fissi... ma soprattutto perché Prodi, Monti, Amato, Draghi... etc... ci hanno "ficcato" dentro l'euro, come un condannato a morte a cui si chiede di mettere la testa dentro al cappio che lo strangolerà...
E se sarò bravo a spiegarvelo, capirete che grande truffa è stata perpetrata a danno delle moltitudini di lavoratori italiani condannati alla miseria per fare arricchire pochi capitalisti parassiti e cedere ricchezza, sovranità e, soprattutto, la nostra dignità, ad una nazione verso la quale non abbiamo mai avuto grande simpatia: la Germania.
Ora che la rivoluzione è già in corso, ognuno ha il dovere di assumersi le sue responsabilità e fare la sua parte... io che scrivo, voi che leggete e, soprattutto, quegli altri, quelli che nell'euro ci hanno condotto, mantenuto e, ancora oggi, paventano grandi catastrofi se dovessimo uscirne...
Quando conduci milioni di lavoratori alla miseria non puoi sfuggire alla tua responsabilità "traccheggiando dialetticamente", ma devi essere pronto anche a pagare in prima persona i danni che hai procurato a così tante persone...
Non puoi invocare il principio di ignoranza (non lo sapevo) quando tanti altri si sono tolti la vita a causa di una tua errata decisione che li ha rovinati. Devi pagare tanto quanto hai fatto pagare a quelli... soprattutto se, contro ogni evidenza, persisti nell'errore e legittimi il sospetto che la tua non sia stata ingenua ignoranza, ma malsana malafede...
Io vi chiederò, dunque, di ricordarvi i nomi e le facce di coloro che, ancora oggi, difendono (o, peggio, ci impongono) l'euro senza spiegarcene i motivi... contando sull'ignoranza di chi l'ascolta... Costoro, quando tutto si compirà, dovranno rispondere della miseria in cui hanno condotto il popolo italiano e, soprattutto, delle migliaia di suicidi che ciò ha comportato.
Ma prima devo spiegarvi (con i numeri) la truffa compiuta ai danni dei lavoratori italiani... e non dovrò lasciarvi dubbi... diversamente non sarei diverso da quegli altri... quelli di cui, come un pubblico ministero, chiedo la condanna...
Per farlo mi avvarrò di una esempio estremamente semplice: due ditte una italiana e l'altra tedesca che producono bicarbonato di sodio... la bianca e banale polverina che fa passare il bruciore di stomaco.
Facciamo due ipotesi di ulteriore semplificazione: tutti i costi di produzione siano costi del lavoro (stipendi, salari, etc..) e, all'anno zero (ad esempio il 2003) i costi erano uguali per entrambe le aziende ed ammontavano ad 1.0 euro a scatola, sicché, vendendo a 1.15 euro, entrambe guadagnavano 15 centesimi (lordi) a scatola, ovvero 9.0 centesimi dopo tasse.
Questa, dunque, è la situazione nel 2003...
Azienda italianaAzienda tedesca
Numero di scatole vendute10.000.00010.000.000
Prezzo di vendita a scatola1,151,15
Dati in euro X 000
Fatturato Euro X 000011.50011.500
Costo del lavoro10.00010.000
Utile lordo1.5001.500
Imposte600600
Utile netto900900
Mezzi propri11.25011.250
Roe8,0%8,0%
... ed entrambe le aziende guadagnano un decoroso 8.0% sui loro mezzi propri.
Spostiamoci di 10 anni in avanti (al 2013) e supponiamo che l'azienda italiana abbia subito un aumento dei costi del 20% (che significa un incremento dell'1.85% l'anno) e, dunque, si trova nella situazione sotto...
Azienda italianaAzienda tedesca
Numero di scatole vendute10.000.00010.000.000
Prezzo di vendita a scatola1,151,15
Dati in euro X 000
Fatturato Euro X 000011.50011.500
Costo del lavoro12.00010.000
Utile lordo-5001.500
Imposte0600
Utile netto-500900
Mezzi propri11.25011.250
Roe-4,6%8,0%
L'azienda italiana adesso ha costi per 1.2 euro a scatola (ovvero 12 milioni di euro complessivamente) a fronte di un prezzo di vendita che è rimasto lo stesso (1.15 euro a scatola) perché l'azienda tedesca non ha subito nessun aumento di costi e, quindi, continua a praticare gli stessi prezzi di prima... e se l'italiana aumentasse i suoi prezzi (per recuperare i suoi maggiori costi) perderebbe i suoi clienti (... che si chiederebbero perché mai dovrebbero pagare a 1.38 euro a scatola dagli italiani, ciò che si può tranquillamente comprare dai tedeschi a 1.15 euro?).
Ebbene... cosa può succedere a questo punto?
Ci sono tre sole soluzioni:
  • 1) L'azienda italiana chiude a lascia tutto il mercato alla tedesca;
  • 2) L'azienda italiana si rivolge ai suoi dipendenti e gli chiede una riduzione di stipendi e salari del 20%;
  • 3) L'azienda italiana chiede al governo italiano di tornare alla lira e di svalutare del 20%.
Altro non c'è.
La prima soluzione significa che, supponendo che tutte le aziende italiane siano nelle stesse condizioni, si realizza il "default industriale" dell'Italia: poco a poco tutte le aziende chiudono ed il paese diventa "terzo mondo"...
Nell'Italia reale, è quello che sta succedendo da quando siamo entrati nell'euro (dal 2002 ad oggi abbiamo già perso il 30% della nostra produzione industriale)... e, quindi, l'esempio qui fatto, per quanto semplificato, rappresenta la realtà del paese.
La seconda soluzione significa fare pagare ai lavoratori il costo della competitività perduta a causa dell'euro...
I lavoratori, difatti, dovranno accettare salari inferiori del 20%... ma non tutti, solo quelli esposti alla concorrenza internazionale (per i quali si pone il problema di allinearsi ai prezzi di vendita dei concorrenti esteri)... quelli non esposti (impiegati pubblici, farmacisti, tassisti, notai, ed in generale tutti quelli che operano in mercati "chiusi") manterranno i loro "privilegi" e non subiranno (provvisoriamente) alcuna decurtazione...
Sicché i lavoratori esposti alla concorrenza internazionale (che supponiamo essere il 50% del totale) si vedranno ridurre del 20% i loro stipendi, mentre i prezzi  si ridurranno solo del 10% (il 50% li riduce del 20%, e l'altro 50% non ha bisogno di ridurre alcunché) e, quindi, subiranno una riduzione del 10% del loro potere d'acquisto...
Cosa dovranno fare a quel punto?
... Ridurre del 10% i loro consumi (guadagni il 10% in meno... spendi il 10% meno)...
E questo cosa comporta?
Recessione... ovviamente: se i consumi del 50% degli italiani si riducono del 10%, significa che i consumi totali si riducono del 5.0%... e siccome i consumi interni rappresentano circa il 60% del Pil, questo si riduce del 3.0% (il 60% del 5.0%)...
... Vi ricorda qualcosa questa riduzione del 3.0% del Pil?
... Cosa succede alle aziende che sono interessate a quel calo dei consumi (che porta alla riduzione del 3.0% del Pil)?
... Vendono di meno e, quindi, devono ridurre le loro produzioni... ed in conseguenza di ciò devono licenziare... ridurre... chiudere, ovvero causare altre riduzioni dei consumi da parte dei lavoratori che sono licenziati o messi in cassa integrazione.
Significa altre riduzioni di consumi... di Pil... di produzione... etc...
In poche parole, significa "spirale recessiva"... esattamente quella in cui siamo entrati noi nel 2002... prima come stagnazione e poi come recessione che è diventata sempre più dura...
E chi paga in questa spirale recessiva?
Tutti i lavoratori... alla fine anche i tassisti, i farmacisti e tutti quegli altri che inizialmente erano rimasti al riparo dalla crisi vengono colpiti perché quando i consumi calano... calano (più o meno) per tutti i settori...
E chi non viene colpito... anzi si arricchisce?
Quelli che non campano di "lavoro"... ma "speculano" sui mercati finanziari... ovvero i "capitalisti" che, grazie ad una moneta forte, possono comprare a basso prezzo ciò che è in vendita...
Quando il PD e SEL difendono l'euro e ci mantengono dentro... stanno, dunque, difendendo il capitale a scapito del lavoro...
Capite perché non vanno più nelle fabbriche a parlare con i lavoratori?
Capite perché il piano Merkel prevedeva Bersani + Monti al governo? ... Entrambi difendono i capitalisti... ma i primi (quelli del PD) hanno anche la faccia tosta di proclamarsi un partito di sinistra...
E la terza soluzione (la svalutazione)?
Torni alla lira, la svaluti del 20% (rispetto alla moneta dei tedeschi) e, quindi, sul mercato i prezzi dell'azienda italiana sono uguali a quelli della tedesca...
Chi paga in questo caso?
Quelli che hanno soldi che impiegano fuori dai confini nazionali (gli speculatori internazionali, le mafie che riciclano i loro proventi all'estero, gli evasori fiscali, i politici che portano i soldi in Svizzera... etc.. )... sono loro che ci rimettono il 20% quando convertono i loro denari nelle valute straniere...
E chi lascia i suoi soldi in Italia e non ha contatti con l'estero?
... Quasi manco si accorge della svalutazione...
Perché "quasi"?
Alcuni prodotti "obbligati" (tipo il petrolio) costeranno il 20% in più (rispetto a prima) e siccome rappresentano circa il 6% del Pil, produrranno un aumento dei prezzi interni del (20% x 6%=) 1.2%... un quasi zero...
Ed i lavoratori?
Percepiranno lo stesso stipendio di prima e, con l'esclusione dei prodotti obbligatoriamente importati, non si accorgeranno neanche della svalutazione...
In conclusione: la svalutazione danneggia prevalentemente i ricchi capitalisti, mentre la riduzione dei costi interni danneggia prevalentemente i lavoratori...
E non è un'opinione, ma matematica...
Cosa ha fatto l'Italia con l'entrata nell'euro?
Ha scelto di privilegiare i ricchi capitalisti a scapito dei poveracci che campano del loro lavoro...
... Ci credereste che a condurci dentro l'euro siano stati Prodi, Amato, Bersani, D'Alema... tutti coloro, cioè, che qualche anno prima si professavano "partito dei lavoratori"...??
... E ci credereste che per condurci in quella gabbia mortale, ci abbiano imposto tasse spaventose e ci abbiano anche raccontato l'ignobile balla che gli "altri europei" non ci volevano e, dunque, dovevamo "guadagnarci la loro fiducia"?
Capite cosa intendo quando dico che... vi chiederò, dunque, di ricordarvi i nomi e le facce di coloro che, ancora oggi, difendono (o, peggio, ci impongono) l'euro senza spiegarcene i motivi... contando sull'ignoranza di chi l'ascolta... Costoro, quando tutto si compirà, dovranno rispondere della miseria in cui hanno condotto il popolo italiano e, soprattutto, delle migliaia di suicidi che ciò ha comportato...
Non basta mandarli a casa, bisognerà mandarli di fronte ad un tribunale speciale con l'accusa di alto tradimento...
... E che resti di monito nei secoli a venire...

di G. Migliorino