30 settembre 2006

L'opinione non è più libera


La gente immagina di avere opinioni proprie, non quelle dei grandi magnati corporativi che competono per colonizzare la sfera pubblica. Non siamo proprio così liberi di pensare come crediamo.

Juergen Habermas, filosofo, storico e sociologo tedesco, è spesso citato, tra i molteplici studi accademici, per il grandissimo contributo dato alla sociologia ed alla teoria critica. Il suo risultato più prestigioso, tuttavia, consiste nell’introduzione del concetto di “sfera pubblica”, un fenomeno la cui nascita fa risalire all’Europa del XVIII secolo e che venne costretto ad un prematuro letargo dalle stesse forze che ne decretarono l’inizio.
La “sfera pubblica” teorizzata da Habermas potè svilupparsi grazie alla sua vantaggiosa nonchè logica specificità nello spazio e nel tempo: l’Inghilterra del XVIII secolo. La nascita della cultura borghese, insieme con lo sviluppo della democrazia liberale, diede vita ad una popolazione sempre più istruita con interessi, diritti ed aspettative ben definite. La frequentazione dei Caffè e di altri luoghi pubblici come punti di incontro per il dialogo permise alla borghesia inglese di creare la propria sfera pubblica, che contribuirà, infine, al formarsi dell’opinione pubblica. Le altre democrazie occidentali, e tanto più la Francia con la sua innegabile esperienza di cittadinanza attiva, sarebbero state presto coinvolte in questo cambiamento crescente.

Naturalmente l’idea di Habermas, come qualsiasi altra intuizione rivoluzionaria, diede vita a discussioni e generò accaniti dibattiti. Alcuni affermarono che esistono, in realtà, varie “sfere pubbliche” sovrapposte e simultanee; altri negarono del tutto l’esistenza di tale concetto. La questione è chiaramente assai più complessa e non sembra destinata a risolversi in un breve arco di tempo. Le congetture di Habermas e le loro implicazioni, esposte per la prima volta nel 1962 in “The Structural Transformation of the Public Sphere: An Inquiry into a Category of Bourgeois Society” [La trasformazione strutturale della Sfera Pubblica: un’indagine sulla categoria della società borghese n.d.t.], continuano ad essere attuali e di estrema rilevanza.

La crescita e la persistenza della sfera pubblica nel XVIII e XIX secolo fu di enorme importanza, dal momento che riuscì infine a definire la relazione tra Stato e Società in modo decisamente più imparziale che in passato. Finalmente l’opinione pubblica contava qualcosa, o almeno così sembrava. Il modo in cui tale opinione veniva trasmessa richiedeva meno mezzi ed assai meno intermediari.
A prescindere dal dove cominci e dove finisca la “sfera pubblica”, dal momento che ha fallito più volte nel rappresentare adeguatamente le donne, le minoranze, i lavoratori ed altri gruppi storicamente marginalizzati, di certo è riuscita almeno nello stabilire i confini tra il “Mondo della vita” [life-world: in tedesco lebenswelt, mondo vitale n.d.t.] e il “Sitema”; il primo rappresenta la mutua solidarietà di coloro che sono coinvolti nel formare la sfera pubblica, il secondo riguarda lo Stato, il suo apparato e la sua relazione col potere e l’autorità.
Di norma, il rapporto dovrebbe essere di tipo elastico [push and pull: tira e molla n.d.t.], dove il Mondo della vita cerca di proteggere ed espandere il suo peso sociale e politico, mentre il Sistema tenta incessantemente di colonizzare la sfera pubblica ed il suo Mondo della vita. Giustamente, ci si aspetterebbe che una democrazia esemplare sia quella che offra un bilanciamento del potere tra la Società e lo Stato, in modo da tenere sotto controllo coloro che rappresentano l’autorità e proteggere la Società dal caos.

È chiaro che solide democrazie avrebbero ben poco interesse a regredire al livello dei regimi feudali ed autoritari di precedenti epoche storiche. Il XX secolo fu prova di tale affermazione, tanto quanto della rapida colonizzazione della sfera pubblica [da parte dello Stato] con mezzi che andavano al di là del potere e della coercizione: quelli del capitalismo.
Il capitalismo determinò l’iniqua distribuzione della ricchezza e, conseguentemente, del potere. Mentre nei secoli passati la sfera pubblica della borghesia aveva da tempo accettato la continua espansione del Mondo della vita, la concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi, ancora una volta, ridefinì la relazione tra Società ed Autorità. Il Sistema aveva finalmente trovato il modo di penetrare la solidarietà di fatto del Mondo della vitaattraverso i recenti rapporti stabilitisi tra lo Stato ed i nuovi capitalisti. Questi si accorsero che era più redditizio tenere sotto controllo l’opinione pubblica, per compiacere lo Stato, in cambio di una parte del potere e dei privilegi che solo esso poteva garantire; la popolazione può continuare così a credere che la sua opinione conti qualcosa, mentre di fatto vale ben poco.

Questo può aiutarci a capire come mai Habermas, tra gli altri, abbia parlato di “ascesa e caduta” della sfera pubblica proprio nel momento in cui sembrava avessimo raggiunto un accesso ai mezzi di comunicazione mai visto prima. In breve, ciò che rimane della sfera pubblica è l’illusione che ce ne sia una.

Le idee di Habermas non richiedono spiegazioni convincenti per essere comprese; sono evidenti di per sè. Tuttavia, un articolo su “The Guardian” del primo luglio a firma di Lance Prince, ex consulente d’immagine [media advisor] del Primo Ministro inglese, ha riportato il soggetto alla ribalta. Price afferma che il magnate dell’informazione Rupert Murdoch è probabilmente l’uomo più potente nel panorama mondiale dei mezzi di comunicazione. Murdoch, cittadino americano nato in Australia, possiede letteralmente una quota significativa dell’opinione pubblica attraverso il controllo del più vasto impero mediatico al mondo.
“Non ho mai incontrato il signor Murdoch, ma a volte, quando lavoravo a Downing Street [10 Downing St. è l’indirizzo della residenza e dell’ufficio del Primo Ministro inglese n.d.t.], avevo l’impressione che fosse il 24˚ membro del gabinetto. Raramente si sentiva la sua voce (ed allora si sarebbe potuto dire lo stesso di molti degli altri 23 membri), ma la sua presenza era sempre percepita”, scrive Price.
Murdoch “partecipò a molte sedute di emergenza al Ministero dell’Interno e si potrebbe scrivere un’interessantissima tesi di dottorato su come la sua stampa influenzò la politica del governo riguardo ai temi dell’immigrazione e del diritto d’asilo,” aggiunge l’autore del best-seller The Spin Doctor's Diary [“Diario di uno Spin Doctor” n.d.t.]. “È davvero ironico che, durante il suo primo anno alla guida del Partito Laburista, Tony Blair sia volato dall’altra parte della Terra per discutere con il signor Murdoch e i suoi dirigenti di “News International”(1) e che si appresti nuovamente a fare lo stesso il mese prossimo (luglio 2006), probabilmente l’ultimo del suo mandato.”
Per quanto incredibili possano sembrare, le rivelazioni di Price, un uomo che fu profondamente coinvolto nei lavori del governo britannico, appaiono assolutamente coerenti con il rafforzarsi del legame tra il mondo dei media ed i governi delle democrazie occidentali. Tale vincolo è poi particolarmente visibile nel caso degli Stati Uniti.

La relazione tra media e Stati, però, diventa ancora più pericolosa nel momento in cui entrambi si alleano, e non a caso, sullo stesso terreno ideologico. Murdoch è un ideologo di destra, pro Israele (è ben nota la sua amicizia con Ariel Sharon), e favorevole alla guerra. Nel 2003 [attacco e invasione dell’Iraq – NdT], ogni pagina editoriale della massa dei suoi 175 giornali sparsi per il mondo recitò lo stesso identico mantra guerrafondaio. Alcuni potrebbero aver candidamente pensato che tutti i media mondiali stessero convergendo indipendentemente verso un consenso unanime che vedeva nel presidente Bush colui che “si comporta con un profondo senso della morale e nel modo più opportuno”, per usare le parole dello stesso Murdoch, e che tale convergenza fosse un riflesso complessivo del consenso pubblico internazionale riguardo l’argomento. La realtà, tuttavia, era spiacevolmente un’altra.
Naturalmente, Murdoch, proprietario di numerosi giornali, stazioni televisive e mezzi di informazione in tutto il mondo, non è un’eccezione, ma la regola. Nel mondo dei media statunitensi, infatti, si sta verificando una convergenza costante che tende ad accentrare in mano a poche multinazionali, in un modo mai osservato prima, la proprietà di migliaia di stazioni radio e televisive, giornali, riviste, ecc. Mentre alcuni, all’oscuro di chi possieda cosa, cantano ancora le lodi della “libertà di stampa”, la democrazia si sta avviando verso un declino pericolosissimo: il “Mondo della vita”, come mai accaduto prima, sta cedendo di fronte al perenne dilagare del “Sistema”, ed ormai non esiste quasi più una vera “sfera pubblica”, almeno non in forma significativa.
Benchè gli Stati non siano più in grado di prevenire incidenti o di garantirsi un potere assoluto, hanno, però compreso l’inestimabile valore dei mezzi di comunicazione nel manipolare un’opinione pubblica favorevole e, guarda caso, coincidente con quella dello Stato stesso. In cambio, gli interessi commerciali e persino quelli ideologici di coloro che controllano i media sono sempre garantiti. Fino a quando tale correlazione non sarà riconosciuta appieno e resa inefficace, la democrazia reale procederà verso uno spaventoso declino, alla fine del quale un’efficace democrazia partecipativa verrà scalzata dalla mera retorica democratica, utile solo a soddisfare fini politici, ideologici ed infine imperialistici. Tale spirale discendente è destinata solo a peggiorare senza la fondamentale presa di coscienza che porti la collettività a riappropriarsi di ciò che le appartiene: la propria opinione, la propria sfera pubblica e la propria democrazia.

28 settembre 2006

Lo scenario prossimo in Iran


Esperti militari di Washington hanno riconosciuto la validità dell'analisi di Lyndon LaRouche secondo cui Bush e Cheney si ripromettono un attacco contro l'Iran a tempi ravvicinati, “senza preavviso”, come ha detto lo statista democratico, senza consultare il Congresso, le Nazioni Uniti e gli “alleati” degli USA. Lo scenario più probabile, ha spiegato LaRouche, è un ordine di Bush di attaccare l'Iran dalla base aerea di Offutt nel Nebraska.

L'allarme è stato lanciato da diversi ambienti contrari alla politica imperiale:
- Il colonnello in congedo dell'Air Force Sam Gardiner ha scritto un articolo per «The Century Foundation» in cui spiega che elementi dell'amministrazione Bush non tengono conto delle preoccupazioni espresse dagli ufficiali in servizio ma sono sempre più propensi a ordinare gli attacchi aerei, miranti non solo ai siti del programma nucleare iraniano, ma a colpire lo stesso governo per “decapitare” il regime. L'analisi di 25 pagine di Gardiner è intitolata “La fine della 'estate della diplomazia'.”

- Un lungo articolo pubblicato il 21 settembre da The Nation, intitolato “Segnali di guerra”, riferisce: “The Nation è venuto a sapere che l'amministrazione Bush e il Pentagono hanno emesso ordini per la costituzione di 'gruppo d'assalto' di navi ... che si diriga verso il Golfo Persico, sulle coste occidentali dell'Iran”. Al gruppo apparterrebbero la portaerei Eisenhower e una scorta di sottomarini. The Nation cita Gardiner e diversi altri ufficiali militari e dell'intelligence, tra cui il noto ex analista della CIA Ray McGovern, che hanno confermato l'estrema gravità della situazione.

- Sull'American Conservative, l'ex funzionario CIA Phil Giraldi ha riferito i moniti provenienti da diversi militari in servizio e da parte di politici preoccupati per la fretta con la quale la Casa Bianca sta procedendo verso il bombardamento dell'Iran.

- Il colonnello dell'Air Force Karen Kwiatkowski spiega in un articolo su LewRockwell.com che l'invasione dell'Iran “non è soltanto già pianificata, ma è già in corso”. “Prove, piani e documenti mostrano che l'invasione dell'Iran, usando l'Iraq, il Golfo Persico, il Pakistan, la Turchia , il Kurdistan, soldati e marines iracheni e americani … è già in corso, illegalmente”.

- Lo scrittore iraniano Abbas Bakhtiar, professore universitario in Norvegia, ha pubblicato due analisi sul pericolo di un attacco USA in Iran. La prima è un articolo apparso il 28 agosto su “Scoop Independent News”, la seconda è un'analisi di 80 pagine intitolata “U.S. vs Iran: Hybrid War”.

Secondo Bakhtiar, l'Iran risponderà all'aggressione con l'impiego di forze regolari e irregolari (da qui il termine guerra ibrida). Dopo aver ampiamente descritto le forze di cui dispone l'Iran, (350 mila regolari, 100 mila della guardia repubblicana, 100 mila volontari. Inoltre: 350 mila riservisti dell'esercito e 300 mila riservisti dei volontari. 45-60 mila poliziotti. Ma secondo alcune stime i volontari potrebbero salire, con le riserve, fino ad alcuni milioni).
Bakhtiar cita rapporti della sicurezza saudita secondo cui l'Iran disporrebbe di elementi piazzati ad alto livello nei ministeri ed in altre istituzioni irachene. Di conseguenza l'Iran potrebbe scatenare la guerra asimmetrica in Iraq, colpendo in profondità le forze anglo-americane ivi stanziate e le loro linee di rifornimento.

Bakhtiar spiega inoltre che le forze iraniane hanno la capacità di bloccare lo stretto di Hormutz, in maniera tale da costringere gli USA ad occupare la regione meridionale dell'Iran e le trenta isole, con un impiego incredibile di forze navali per liquidare le numerose piccole imbarcazioni della guardia repubblicana. Sullo stretto di Hormuz grava inoltre un'ipoteca cinese: nel caso di blocco americano dello stretto, la Cina si troverebbe tagliata fuori dai rifornimenti vitali. Inoltre, lo stesso Iran potrebbe decidere di prendere di mira con i suoi missili tutti i pozzi della regione, compresi quelli del Qatar, del Bahrein e del Kuwait, dove sono presenti basi USA.
Bakhtiar illustra approfonditamente la strategia della guerra ibrida alla quale l'Iran si starebbe preparando dal 1980, anche studiando le esperienze USA in Afghanistan e Iraq. “Le recenti manovre militari iraniane mostrano come, se attaccato, il paese potrebbe schierare uno dei più imponenti eserciti irregolari che si sia mai visto…”

L'Iran probabilmente risponderà alle incursioni aeree USA con spedizioni della Guardia Rivoluzionaria a combattere le truppe americane sia in Iraq che in Afghanistan. A quel punto agli USA non resterebbe che l'opzione di invadere l'Iran, ma il grosso delle sue truppe sarebbe già inchiodato a combattere contro le truppe irregolari nei due paesi confinanti. Allora resterebbe solo l'opzione nucleare. L'Iran, di contro ha anche l'opzione delle armi chimiche e biologiche, scrive Bakhtiar. Inoltre, se l'Iran attacca Israele, quest'ultimo si rivolgerebbe contro la Siria , che comunque ha un patto di difesa con l'Iran e a quel punto non potrebbe restare fuori dal conflitto.

Lo studio è una utile esposizione, molto dettagliata, su come si sviluppa la guerra irregolare che LaRouche ha denunciato come il pericolo maggiore derivante da un attacco dei neocon contro l'Iran.
Non sorprende come un'accelerazione di questa politica folle sia avvenuta proprio nel momento in cui il presidente iraniano Mohamoud Ahmadinejad ha fatto diverse offerte a favore della pace nel corso della visita negli USA ed alle Nazioni Unite

Le audizioni dei democratici al Senato
Intanto sono iniziate il 25 settembre le audizioni del Senate Democratic Policy Committee sulla condotta della guerra in Iraq. La seduta è stata presieduta dal capogruppo Harry Reid e dai sen. Durbin, Dorgan e Shumer. La controparte repubblicana, vivamente invitata a partecipare, ha preferito disertare la seduta.
La lista di tutto quello che è andato per storto nella guerra in Iraq è stata presentata da Reid e sono stati poi ascoltati tre alti ufficiali in congedo. Tutti e tre hanno auspicato un avvicendamento ai vertici del Pentagono ma al tempo stesso hanno anche deprecato la latitanza del Congresso e degli stessi democratici nel contrastare la guerra.

Il colonnello dei Marines Thomas X. Hammes, autore di un libro molto apprezzato sulla guerra irregolare, ha ricordato ai senatori che la banda composta da Bush, Cheney e Rumsfeld non ha “preso il potere”, piuttosto, “il potere è stato loro ceduto” da parte dei parlamentari democratici quando nel 2002 decisero di non indire il dibattito sull'Iraq prima del voto. Dopo quelle elezioni fu troppo tardi, anche perché il dispiegamento militare era entrato in una fase avanzata.
Il general maggiore dell'esercito Paul Eaton ha dovuto rispondere al sen. Schumer sulla riluttanza degli ufficiali in servizio di parlare senza riserve sulla situazione reale in Iraq. Gli ha ricordato che il Congresso ha l'autorità di convocare a deporre, e di obbligare gli ufficiali a dire tutta la verità, a prescindere da chi è al governo. Se il Congresso lo facesse, gli ufficiali sarebbero finalmente liberi di ignorare le pressioni di Rumsfeld, ha detto Eaton.

Il general maggiore John Batiste, uno degli ufficiali in congedo più critico nei confronti di Rumsfeld, ha spiegato che occorre smetterla di “ipotecare il nostro futuro al tasso di 1,5 miliardi a settimana e di sostenere il nostro grande esercito e i Marines con finanziamenti straordinari”.
da movisol

27 settembre 2006

I colpi di Stato USA: per la democrazia!


Il magnate della stampa britannica, lord Northcliff aveva detto "l'informazione è ciò che qualcuno, da qualche parte, vi vuole nascondere, tutto il resto è soltanto della pubblicità." In questo caso, il finanziamento di Reporters senza frontiere da parte del governo degli Stati Uniti deve essere un'informazione, perché quest'organizzazione ed i suoi amici a Washington hanno tentato di tutto per nasconderlo.

Nonostante 14 mesi senza ricevere risposta da parte del "National Endowment for Democracy" (NED) alla nostra domanda sulla legge della libertà d'accesso all'informazione ("Freedom of information Act") ed un rifiuto netto da parte del direttore esecutivo di RSF, Lucia Morillon, la NED ha finalmente ammesso che Reporters senza frontiere aveva ricevuto regali nel corso degli ultimi tre anni dall'"International Republican Institute". La NED rifiuta sempre di fornire i documenti chiesti o anche di rivelare gli importi versati, ma questi regali sono identificati dai riferimenti seguenti: IRI 2002-022/7270, IRI 2003-027/7470 ED IRI 2004-035/7473. Il giornalista d'indagine Jeremy Bigwood ha chiesto il 25 aprile al direttore esecutivo di Reporters senza frontiere, Lucia Morillon, se la sua organizzazione ricevesse denaro del IRI, ella ha negato. Ma l'esistenza di questo finanziamento è stata confermata da Patrick Thomas, assistente del presidente del NED.

Questa scoperta mette a nudo una grande menzogna dell'organizzazione che, negli anni, ha negato di ricevere denaro da Washington fino a che alcuni importi relativamente deboli - da parte della NED e del "Center for a Free Cuba" - sono stati scoperti (1). Interrogata sulle origini del suo importante bilancio, RSF ha affermato che il denaro proveniva dalla vendita di libri di fotografie. Il ricercatore Salim Lamrani ha sottolineato l'incoerenza di tale risposta. Anche considerando che questi libri erano stati stampati gratuitamente, sarebbe stato necessario vendere 170200 copie nel 2004 e 188400 nel 2005 per ottenere quasi 2 milioni di dollari che l'organizzazione afferma di raccogliere ogni anno - cioè 516 copie vendute al giorno nel 2005. Evidentemente, dovevano esistere diverse fonti di finanziamento. E risulta che è così. La IRI, un'organizzazione americana repubblicana, è specializzata nell'ingerenza nelle elezioni di paesi terzi, come indicato nella relazione annuale del NED e nel sito Internet dell'IRI. La IRI è uno dei quattro principali finanziatori del NED, un'organizzazione fondata dal congresso USA nel 1983 sotto l'amministrazione Reagan per sostituire i programmi di azioni clandestine della CIA verso le società civili, programmi rivelati e smontati dalla Commissione d'indagine Church neli anni 70 (2). I tre altri pilastri del finanziamento del NED sono "National Democratic Institute" (della parte democratica), "Solidarity Center" (del sindacato AFL) e "Center for International Private Enterprise" (della camera di commercio degli Stati Uniti). Ma di tutti questi gruppi, è la IRI che è più vicina all'amministrazione Bush - come spiega anche il recente articolo del New York Times che rivela il ruolo di questa organizzazione nella deposizione del presidente haïtiano Jean-Bertrand Aristide.

È il presidente Bush che ha designato il suo presidente, Lorne W. Craner, per dirigere i programmi dell'amministrazione destinati ad "instaurare la democrazia". L'istituto, che interviene in più di 60 paesi, ha visto il suo finanziamento d'origine governativo praticamente triplicare quest'ultimi tre anni, passando da 26 milioni di dollari nel 2003 a 75 milioni di dollari nel 2005. Nella primavera scorsa (2005), in occasione di una serata di raccolta di fondi per la IRI, Bush ha qualificato la creazione di democrazie come una "industria in crescita". (3) Il finanziamento da parte della IRI costituisce un problema importante rispetto alla credibilità di RSF come organizzazione di "difesa della libertà della stampa" perché quest'ultimo è stato all'origine di propagande contro i movimenti popolari di Venezuela ed Haiti al momento anche dove uno dei suoi finanziatori, la IRI, tentava di sovvertirli. La IRI ha finanziato l'opposizione venezuelana al Presidente Hugo Chavez ed ha attivamente organizzato l'opposizione haïtiana ad Aristide in coordinamento con la CIA .

Il collegamento che manca tra RSF e quest'attività si chiama Otto Reich, che è inizialmente intervenuto su questi colpi di stato come primo segretario di stato aggiunto per l'America latina e, a decorrere da novembre 2002, come inviato speciale in America latina per conto del Consiglio nazionale di sicurezza. Oltre ad essere uno degli amministratori del "Center for a Free Cuba", finanziato dal governo degli Stati Uniti, e che versa 50.000 dollari all'anno a RSF, Reich ha lavorato dall'inizio degli anni 80 con il primo vicepresidente dell'IRI, Georges Fauriol, altro membro del "Center for a Free Cuba". Ma è l'esperienza di Reich in materia di propaganda che è particolarmente interessante. Negli anni 80, è stato oggetto di indagini sulla guerra illegale dell'amministrazione Reagan contro i Sandinisti. L'indagine ufficiale aveva rivelato nel 1987 che l'"Ufficio di diplomazia pubblica" di Reich "aveva condotto azioni clandestine illegali di propaganda.".

All'inizio dell'anno 2002, dopo che George Bush lo ha impegnato nel dipartimento di Stato, "Reich fu rapidamente destinato alla orchestrazione di una campagna mediatica di diffamazione massiccia contro Chavez che non ha cessato da allora" (5). È Reich all'origine del finanziamento di RSF da parte della IRI? È Reich che ha diretto le operazioni di propaganda di RSF contro Aristide, Chavez e Cuba? Un esame dei metodi dell'organizzazione sembra confermare la tesi; la propaganda contro Aristide, un ex sacerdote, fu altamente grezza. RSF qualificò il presidente haïtiano come "predatore della libertà di stampa" dopo averla implicato, senza nessuna prova, negli assassinii dei giornalisti Jean Dominica e Brignol Lindor. L'organizzazione presentò apertamente fotografie dei cadaveri dei giornalisti nel suo sito web, che li trasformò così in icone di una repressione supposta di Aristide contro la stampa.

Nel 2002, RSF scrisse "il 3 dicembre 2001, a Petit-Goâve, un borgo situato a 70 chilometri al sud-ovest di Port-au-Prince, un giornalista è stato colpito a morte da una banda di assassini legata agli enti politici locali legati al movimento Lavalas (la valanga) del presidente Jean-Bertrand Aristide...." Quest'omicidio si verifica mentre la situazione della libertà della stampa non cessa di deteriorarsi in Haiti dall'assassinio di Jean Dominica, direttore di radio Haiti Inter, il 3 aprile 2000 "(6). Notate l'errore di traduzione intenzionale" di Lavalas "(che significa inondazione e non valanga) e come RSF lega la gang di uccisori al movimento Lavalas di Aristide, implicando con ciò che la gang era diretta dal presidente stesso. L'articolo è pieno di questo tipo di insinuazioni e falsità grezze. "In questo contesto, l'assassinio di Brignol Lindor è interpretato come un nuovo avvertimento a tutta la professione (giornalisti)". Qui, RSF ha già condannato Aristide lasciando intendere che quest'ultimo ha ordinato l'omicidio dei giornalisti per inviare un avvertimento ai mass media d'opposizione e fare cessare le loro critiche al suo riguardo. Ma Jean-Dominica fu assassinato nell'aprile 2000, cioè di numerosi mesi prima dell'elezione di Aristide, e non ci sono prove che il presidente abbia un legame con l'omicidio di Lindor. Nello stesso articolo, RSF qualifica il governo di Aristide come "regime autorevole" e conclude che queste azioni "si integrano in una strategia più ampia delle autorità di ricorrere a milizie per intimidire la stampa".

Questa propaganda sarebbe stata già sufficientemente forte se RSF non avesse adottato misure supplementari per strangolare un paese disperatamente povero e dipendente dall'aiuto esterno - tattica che è stata anche usata contro Cuba (1). L'agenzia Associated Press cita il segretario generale Robert Ménard, che parlava dell'incapacità supposta del governo haïtiano di fermare l'assassino di Dominica, "il Presidente Jean-Bertrand Aristide è responsabile di questa ostruzione, e lo classificheremo fra i predatori della libertà della stampa se nessun progresso verrà compiuto nei mesi che vengono" (8). Le sanzioni economiche imposte dagli Stati Uniti hanno causato un'esplosione dell'inflazione ed hanno privato il governo del denaro indispensabile al suo funzionamento ed alla sua difesa. Per illustrare il doppio standard applicato da RSF, il bilancio dei giornalisti assassinati in Colombia è impressionante, ma Ménard non ha mai fatto pressione sugli Stati Uniti o l'Unione europea per tagliare gli aiuti al governo Uribe. Ma Reporters senza frontiere non si accontentò di una semplice sospensione dell'aiuto. Nel mese di gennaio 2002, Ménard lanciava un appello presso il congresso degli Stati Uniti e dell'Ue per imporre "sanzioni individuali" contro Aristide ed il primo ministro Yvon Neptune, fra le quali i "rifiuti di visti d'entrata o di transito" ed "il congelamento di ogni conto bancario aperto all'estero" (9)

Dopo la cacciata di Aristide il 29 febbraio 2004, RSF ha ignorato praticamente tutte le violenze e persecuzioni contro i giornalisti critici verso il governo Latortue, imposto dell'esterno, affermando al contrario che la libertà di stampa era migliorata. Le relazioni 2005 e 2006 da RSF si astengono di condannare l'esecuzione extragiudiziaria di Abdias Jean che, secondo i testimoni, è stato ucciso dalla polizia dopo avere preso tre fotografie di tre giovani che la polizia aveva appena ucciso. RSF ha anche ignorato gli arresti di giornalisti Kevin Pina (Pacifica Radio - radio progressista USA) e Jean Ristil, e si è astenuto da condurre una vera indagine su molti attacchi contro stazioni di radio pro-lavalas.

Interrogato sulla rivelazione di questi finanziamenti, Pina ha dichiarato: "Fu rapidamente ovvio che RSF e Robert Ménard non erano custodi oggettivi della libertà dell'informazione in Haiti ma piuttosto degli attori chiave in ciò che occorre chiamare una campagna di disinformazione contro il governo di Aristide." I tentativi di implicare Aristide nell'omicidio di Jean Dominica ed il loro silenzio quando il supposto assassino, il senatore Lavalas Dany Toussaint, ha raggiunto il campo anti-Aristide e si presentò alle elezioni nel 2006 è soltanto uno dei numerosi esempi che rivelano il vero ruolo e la natura di organizzazioni come RSF. Diffondono informazioni false e relazioni distorte per fabbricare un'opposizione interna ai governi considerati incontrollabili e che non sono graditi a Washington preparando il terreno per la loro eventuale deposizione fornendo una giustificazione col pretesto di pericolo per la libertà di stampa."

Abbiamo chiesto all'esperto di Haiti a RSF, a Parigi, perché l'organizzazione aveva ignorato l'omicidio di Abdias Jean ed ha risposto: "Abbiamo interrogato la polizia sulla morte di Abdias Jean e ci ha risposto che l'attacco era stato sì effettuato dalla polizia ma che questa non sapeva che era giornalista." Prendeva fotografie. Riconobbe che nessuno dei testimoni dell'omicidio era stato interrogato mentre tutta l'informazione che possedeva su questo caso era basata sulla prova della polizia, conosciuta per i suoi assassinii ed abusi correnti. Per quanto riguarda l'arresto di Pina e Ristil, dice, "generalmente quando qualcuno è imprigionato, aspettiamo per sapere quanto tempo... Sono stati liberati e allora noi non siamo intervenuti." Dato che RSF non è mai intervenuta per il caso di Abdias Jean, è molto poco probabile che essa si impegni per Pina, critica allo stesso tempo del governo d'interim e di RSF. Chi paga decide. Prendendo istruzioni dal dipartimento di Stato USA, RSF si è resa colpevole di demonizzare i governi che gli Stati Uniti vogliono sovvertire, come quelli di Cuba, Venezuela ed Haiti, riducendo al minimo le segnalazioni delle violazioni dei diritti dell'uomo commesse dai suoi alleati strategici come il Messico o la Colombia. Poiché l'organizzazione è riuscita a nascondere il finanziamento dell'IRI, cosa che avrebbe potuto dare l'allarme all'opinione sui suoi obiettivi reali, RSF ha svolto un ruolo efficace nelle aggressioni clandestine dell'amministrazione Bush contro i capi di stati recalcitranti dell'America Latina. L'organizzazione è anche riuscita a usare la sua immagine di organizzazione indipendente a difesa dei diritti dell'uomo per fare passare il suo messaggio nei mass media USA e nelle aule universitarie. Tale risultato potrebbe passare per un'impresa da parte di un piccolo gruppo di individui senza esperienza reale del giornalismo se quest'ultimi non avessero alle spalle i padroni più ricchi e più potenti del mondo.
tratto da reporters sans frontieres

26 settembre 2006

Le bombe a grappole del Sionismo


Sono solamente gli osservatori al di fuori della massa ad aver notato che con i suoi sanguinosi attacchi al Libano, e al tempo stesso a Gaza, Israele ha finito col mostrare, anche ai più illusi, il totale fallimento dell'ideale alla base della sua nascita?

È possibile che gl'illusi continuino ad illudersi? È possibile che il fallimento d'Israele salti agli occhi solo di quelli che già lo avevano intuito, di quelli che avevano già bollato come illegittimo il sionismo per i principi razzisti che lo permeano?

È dunque possibile che solo quelli già convertiti riescano a vedere il collasso finale del sionismo, e della stessa Israele in quanto stato esclusivo degli ebrei?

Il razzismo è sempre stato la linfa vitale di Israele. Il sionismo si basa sulla convinzione che gli ebrei hanno maggiori diritti nazionali, umani e naturali sul territorio: una visione fondamentalmente razzista che esclude ogni possibilità di vera democrazia o uguaglianza tra i popoli.

La distruttiva violenza in Libano e a Gaza è stato il logico sviluppo di questa idea di fondo. Proprio perché postula l'esclusività e superiorità dei diritti di un popolo, l'ideologia non può ammettere limiti legali o morali al suo comportamento; e men che mai limiti territoriali, dato che ha bisogno di un territorio sempre più ampio per realizzare questi diritti illimitati.

Il sionismo non può tollerare che venga minacciato, o anche solo rimesso in questione, il controllo assoluto del proprio spazio: non semplicemente quello all'interno dei confini israeliani del 1967, ma anche quello che lo circonda, oltre i limiti geografici che il sionismo non ha ancora ritenuto opportuno fissare. Controllo assoluto significa nessuna minaccia fisica e nessuna minaccia demografica: gli ebrei dominano, gli ebrei sono totalmente protetti, gli ebrei sono sempre quelli più numerosi, gli ebrei hanno tutto il potere militare, gli ebrei controllano tutte le risorse naturali, e tutti i popoli vicini sono senza poteri e completamente asserviti. È questo il messaggio che Israele ha cercato di trasmettere attaccando il Libano: né Hezbollah né nessun altro in Libano che protegga Hezbollah potrà continuare ad esistere, per il solo fatto che Hezbollah sfida la suprema autorità di Israele nella regione e che Israele non può tollerare un simile affronto. Il sionismo non può coesistere con nessuna altra ideologia o etnicità che metta in gioco la sua posizione di preminenza, perché ogni ideologia che non sia quella sionista rappresenta una minaccia potenziale.

In Libano, Israele ha cercato con la sua selvaggia e temeraria violenza di distruggere la nazione, farne una zona di caccia all'uomo in cui solo il sionismo avrebbe dovuto regnare e in cui i non ebrei avrebbero dovuto o morire o scappare o sottomettersi, come avevano già dovuto fare durante l'ultima quasi venticinquennale occupazione israeliana dal 1978 al 2000. Mentre osservava la guerra a Beirut, dopo la prima settimana di bombardamenti, e descriveva la morte in un raid israeliano di quattro tecnici libanesi del genio militare venuti a riparare le linee elettriche e le tubature idriche per "mantenere in vita la città", il corrispondente britannico Robert Fisk ha scritto di avere infine capito sulla propria pelle quello che Israele voleva: "Beirut doveva morire...A nessuno doveva essere permesso di lasciare vivo la città". Il capo di stato maggiore israeliano Dan Halutz (lo stesso che quattro anni orsono, quando era a capo delle forze aeree israeliane, aveva affermato di non provare alcun disagio psicologico dopo che, nel mezzo della notte, uno dei suoi F16 aveva sganciato una bomba da una tonnellata su un edificio di appartamenti a Gaza, uccidendo 14 civili in gran parte bambini) aveva dichiarato, all'inizio dell'aggressione, di voler riportare il Libano indietro di 20 anni, quando il paese non era vivo e un terzo del suo territorio meridionale era occupato da Israele, a perenne ricordo di un decennio di guerra civile inutilmente distruttiva.

Le bombe a grappolo sono una prova evidente dell'intenzione d'Israele di rendere nuovamente il Libano, o quanto meno la sua parte meridionale, una regione priva di popolazione araba e incapace di funzionare, se non secondo il suo capriccio. Le bombe a grappolo - di cui gli Stati Uniti, che le forniscono a Israele, sono leader mondiali nella produzione (e in posti come la Yugoslavia anche nell'uso) - esplodono a mezz'aria, spargendo intorno centinaia di submunizioni (bombe secondarie) su una superficie di vari ettari. Oltre un quarto delle submunizioni non esplodono all'impatto col terreno e restano lì in attesa di essere scoperte da ignari civili che tornano alle proprie case. Gl'ispettori delle Nazioni Unite stimano che nel Libano meridionale ci siano oltre 100.000 submunizioni inesplose, sparse in oltre 400 raid aerei. Dopo il cessate il fuoco del mese scorso, numerosi ragazzi e adulti libanesi sono stati uccisi o feriti da questi residui bellici.
Disseminare mine anti-uomo in aree densamente abitate non è un'operazione chirurgica delle forze armate a caccia di obiettivi militari: è una operazione di pulizia etnica. Secondo Jan Egelund, coordinatore per gl'interventi umanitari dell'ONU, oltre il 90% delle bombe a grappolo israeliane sono state sganciate nelle 72 ore che hanno preceduto il cessate il fuoco, quando era oramai chiaro che la risoluzione dell'ONU per una sospensione delle ostilità sarebbe entrata in vigore. Non può essersi trattato che di un ultimo sforzo, senza dubbio inteso come un colpo di grazia, per spopolare l'area. Se a questo aggiungiamo i bombardamenti del mese precedente - che hanno distrutto il 50% (e in qualche caso l'80%) delle abitazioni di molti villaggi, inferto irreparabili danni all'infrastruttura civile dell'intera nazione, resa inutilizzabile una centrale elettrica sulla costa che ancora oggi sparge tonnellate di petrolio e di benzene sulle coste libanesi e su parte di quelle siriane, ucciso oltre 1.000 civili in edifici di appartamenti, in ambulanze, in auto che fuggivano inalberando la bandiera bianca - la guerra di Israele non può essere giudicata altro che una massiccia operazione di pulizia etnica per rendere la regione un'area sicura per il dominio ebraico.

Secondo le stime ONU, circa 250.000 persone non possono in effetti rientrare nelle loro case, o perché le abitazioni sono state distrutte o perché le bombe a grappolo inesplose e le altre armi non sono ancora state neutralizzate dalle squadre di sminamento. Questa non è stata, se non in misura marginale, una guerra contro Hezbollah, non è stata una guerra al terrorismo, come Israele e i suoi accoliti statunitensi vorrebbero farci credere (in effetti Hezbollah non ha compiuto atti terroristici ma si è impegnata lungo la frontiera in una serie di sporadiche scaramucce con i soldati israeliani, di solito scatenate dagli israeliani). Questa è stata una guerra per consentire a Israele di avere più spazio, di essere assolutamente sicura di dominare i vicini. Questa è stata una guerra contro un popolo non completamente sottomesso, tanto audace da ospitare una forza come Hezbollah e da non piegarsi alla volontà di Israele. Questa è stata una guerra contro altri esseri umani e la loro maniera di pensare, esseri umani che non sono ebrei e che non vivono per favorire il sionismo e l'egemonia ebraica.

In un modo o nell'altro, sin dalla sua creazione Israele ha sempre agito alla stessa maniera contro i suoi vicini, anche se ovviamente i palestinesi sono stati più a lungo le vittime, e i maggiori oppositori, del sionismo. I sionisti pensavano di essersi liberati del loro più grande problema, quello alla base stessa del loro credo, nel 1948, quando avevano costretto alla fuga circa due terzi della popolazione palestinese che intralciava i piani per fare di Israele uno stato unico a maggioranza ebraica; non era infatti possibile creare uno stato ebraico con una maggioranza della popolazione non ebraica. Diciannove anni più tardi, quando ha cominciato ad allargare i suoi confini conquistando la Cisgiordania e Gaza, Israele ha scoperto che quei palestinesi che pensava fossero spariti erano dopo tutto ancora nei dintorni, e minacciavano l'egemonia ebraica dei sionisti.
Nei quasi quarant'anni successivi, la politica di Israele è stata in massima parte – con brevi intervalli per avere il tempo di aggredire il Libano – diretta a far sparire definitivamente i palestinesi. I metodi di pulizia etnica sono molti: sottrazione dei territori, distruzione delle terre coltivabili e delle risorse, strangolamento economico, paralizzanti restrizioni sul commercio, abbattimento delle case, revoca dei permessi di soggiorno, deportazioni, arresti, omicidi, smembramento delle famiglie, limitazioni nei movimenti, distruzione dei registri della popolazione e del catasto, appropriazione delle tasse doganali, privazioni alimentari. Israele vuole tutte le terre dei palestinesi, incluse la Cisgiordania e Gaza, ma non può continuare ad essere un paese a maggioranza ebraica fino a quando continuano a viverci i palestinesi. Ed ecco il perché del lento strangolamento. A Gaza, dove quasi un milione e mezzo di persone vivono accatastate in un'area che non è nemmeno un decimo dell'isola di Rodi, Israele sta facendo senza interruzione quello che ha fatto in Libano per un mese: uccidere civili, distruggere le infrastrutture civili, rendere l'area inabitabile. A Gaza, i palestinesi vengono uccisi al ritmo di otto al giorno, le mutilazioni avvengono con un tasso più alto. Ecco quanto vale la vita dei non ebrei secondo la visione sionista del mondo.

Lo studioso israeliano Ilan Pappe lo definisce un genocidio al rallentatore (ElectronicIntifada, 2 settembre 2006).
Sin dal 1948, il minimo atto di resistenza dei palestinesi all'oppressione israeliana è stato preso come scusa da Israele per mettere in opera una politica di pulizia etnica, un fenomeno considerato nel paese talmente inevitabile e accettato che Pappe aggiunge "il lavoro giornaliero di uccidere deliberatamente i palestinesi, soprattutto i bambini, viene ora registrato nelle pagine interne della stampa locale, spesso in caratteri microscopici". Secondo il suo modo di vedere, gli ininterrotti omicidi a questo ritmo o porteranno a una migrazione di massa o a uno sterminio più massiccio, se, come è molto più probabile, i palestinesi si manterranno incrollabili e continueranno a resistere. Pappe ricorda che il mondo ha assolto Israele da ogni responsabilità e perseguibilità per la sua operazione di pulizia etnica del 1948, e ha permesso al paese di trasformare questa politica "in uno strumento legittimo del suo piano di sicurezza nazionale", che, se il mondo resta ancora una volta muto dinanzi a questa nuova fase di pulizia etnica, aumenterà inevitabilmente "in misura ancora più drammatica".

Ed è questo il punto cruciale dell'odierna situazione: qualcuno si accorgerà dell'orrore? Come abbiamo detto all'inizio, con la sua selvaggia campagna estiva di pulizia etnica nel Libano e a Gaza, Israele ha veramente mostrato il totale fallimento dell'ideale alla base della sua fondazione, l'illegittimità di base del principio sionista di esclusività ebraica? Se ne rendono conto anche i più illusi, o continueranno ad illudersi e il mondo seguiterà a guardare da un'altra parte, giustificando le atrocità perché vengono commesse da Israele per rendere i territori circostanti un luogo sicuro per gli ebrei?

Da quando ha lanciato la sua folle incursione nel Libano, numerosi attenti osservatori nei media alternativi europei e arabi hanno sottolineato la nudità morale d'Israele, e del suo fiancheggiatore americano, con un insolito livello di schiettezza. Si analizza anche molto la nuova consapevolezza della crescente opposizione araba e islamica alla incredibile brutalità delle azioni israelo-americane. Ai primi di agosto, lo studioso anglo-palestinese Karma Nabulsi ha lamentato "l'indiscriminata rabbia di un nemico guidato da una mania esistenziale che non può essere contenuta ma solo bloccata". La studiosa americana Virginia Tilley (Counterpunch, 5 agosto 2006) osserva che ogni possibilità di vita normale e pacifica è un anatema per Israele, obbligata a "guardare e trattare i suoi vicini come una minaccia alla propria esistenza, in modo da giustificare ... il suo carattere etnico e razziale". Già prima della guerra in Libano, ma dopo che Gaza aveva cominciato a essere affamata, l'economista politico Edward Herman (Z Magazine, marzo 2006) aveva condannato "la prolungata pulizia etnica e il razzismo istituzionalizzato" d'Israele, e l'ipocrisia con cui l'occidente e i media occidentali avevano accettato e sottoscritto queste politiche "in violazione di tutti i presunti illuminati valori".

Il razzismo è alla base dell'asse neoconservatore israelo-statunitense che ha oggi scatenato la sua furia omicida nel Medio Oriente. Il razzismo insito nel sionismo ha trovato un alleato naturale nella filosofia razzista imperiale fatta propria dai neoconservatori dell'amministrazione Bush. La logica ultima della guerra globale israelo-americana, scrive l'attivista israeliano Michel Warschawski, dell'Alternative Information Center di Gerusalemme (30 luglio 2006), è la "completa etnicizzazione" di tutti i conflitti, "nei quali non viene combattuta una politica, un governo o un obiettivo specifico, ma una minaccia che coincide con un'intera comunità" (o, nel caso d'Israele, con tutte le comunità non ebraiche).

Il concetto fondamentalmente razzista di scontro delle civiltà, esaltato sia dall'amministrazione Bush che da Israele, fornisce una giustificazione per le aggressioni ai palestinesi e al Libano. Come ha osservato (al-Ahram, 10-16 agosto 2006) Azmi Bishara, importante membro palestinese della Knesset israeliana, se l'argomento israelo-americano secondo cui il mondo è contraddistinto da due diverse e inconciliabili culture, noi contro loro, è corretto, allora l'idea che "noi" agiamo con un doppio standard perde ogni implicazione morale negativa, perché diventa l'ordine naturale delle cose. Per gl'israeliani, questo è sempre stato l'ordine naturale delle cose: nel mondo d'Israele e dei suoi alleati americani, l'idea che gli ebrei e la cultura ebraica siano superiori e incompatibili con i popoli vicini è alla base stessa dello stato.

Dopo la presa di coscienza che ha fatto seguito al fallimento israeliano in Libano, arabi e islamici hanno la sensazione, per la prima volta dall'arrivo degli ebrei nel cuore del Medio Oriente arabo circa 60 anni orsono, che Israele sia andata troppo lontano con la sua arroganza e che il suo potere e le sue azioni possono essere contrastate. La "etnicizzazione" del conflitto globale di cui parla Michel Warschawski – l'arrogante vecchio approccio coloniale, ora rinverdito con uno strato di alta tecnologia fornita dagli F16 e dalle armi nucleari, che ribadisce la superiorità dell'occidente e di Israele e postula uno scontro apocalittico tra l'occidente "civilizzato" e un oriente arretrato e furioso – è stata vista, dopo il folle assalto israeliano al Libano, per quello che è. Cioè, una brutale dichiarazione razzista di potere da parte di un regime sionista che persegue l'egemonia assoluta e incontrastata a livello regionale e di un regime neoconservatore americano che persegue l'egemonia assoluta e incontrastata a livello mondiale. Come ha fatto notare, una settimana dopo l'inizio della guerra libanese, il commentatore palestinese Rami Khouri in un'intervista con Charlie Rose, sia Hezbollah in Libano che Hamas in Palestina sono il frutto delle prime guerre di egemonia israeliane e rappresentano la risposta politica di popolazioni che "sono state ripetutamente degradate, occupate, bombardate, uccise e umiliate dagli israeliani, spesso con il consenso tacito o esplicito o, come abbiamo capito adesso, l'aiuto degli Stati Uniti".

Queste popolazioni oppresse hanno adesso ricominciato a lottare. Non importa quanti leader arabi – in Egitto, Giordania e Arabia Saudita – possano chinare la testa di fronte agli Stati Uniti e a Israele: il popolo arabo vede adesso l'intrinseca debolezza della cultura e della politica razzista israeliana e ha una crescente fiducia nella possibilità di arrivare alla fine a sconfiggerla. I palestinesi, in particolare, aspettano questo momento da 60 anni, senza mai sparire nonostante la migliore buona volontà israeliana e senza mai smettere di ricordare a Israele e al resto del mondo la loro esistenza. Non è certo adesso che soccomberanno, e il resto del mondo arabo sta prendendo coraggio dopo aver visto la loro capacità di resistere, e quella di Hezbollah.

Qualcosa deve cambiare nel modo di fare di Israele, e nel modo in cui gli USA sostengono i suo modo di agire. Sempre più commentatori, dentro e al di fuori del mondo arabo, hanno cominciato a rendersene conto, e un numero sorprendente si sente abbastanza audace da prevedere una sorta di fine del sionismo, nella forma razzista ed esclusivista in cui esiste e funziona al giorno d'oggi. Non si tratta di buttare i sionisti a mare. Israele non verrà battuta sul piano militare, ma può essere battuta sul piano psicologico: il che vuol dire limitare la sua egemonia, fermare la sua avanzata predatoria nei territori dei vicini, mettere fine al dominio razziale e religioso sugli altri paesi.

Rami Khouri sostiene che il più ampio sostegno del mondo arabo a Hezbollah e Hamas è una "catastrofe" per Israele e gli Stati Uniti, perché sottolinea l'opposizione ai loro progetti imperialistici. Khouri non si spinge più lontano nelle sue previsioni, ma altri lo fanno, delineando, anche se solo nelle linee generali, la visione di un futuro in cui Israele non godrà più del dominio assoluto. Il pensatore e musicista jazz Gilad Atzmon, un ex israeliano che vive in Gran Bretagna, vede nella vittoria di Hezbollah in Libano un segnale della disfatta di quello che chiama il sionismo globale, termine con cui indica l'asse neoconservatore israelo-americano. Sono i libanesi, i palestinesi, gli iracheni, gli afgani e gli iraniani – sostiene – ad essere "in prima linea nella battaglia per l'umanità e l'umanesimo", mentre Israele e gli USA seminano morte e distruzione; un numero sempre crescente di europei e americani se ne rende conto e sta scendendo dal carrozzone dei sionisti e dei neoconservatori. Atzmon definisce in ultima analisi Israele "un episodio della storia" e una "entità morta".

Molti altri hanno un punto di vista simile. Sempre più spesso i commentatori discutono la possibilità che Israele, ora che si è sgonfiato il suo mito d'invincibilità, attraversi una fase di trasformazione simile a quella sudafricana, in cui i leader politici riconoscano in qualche modo l'errore della scelta razzista e in un impulso di umanità abbandonino le iniquità sioniste, ammettendo che ebrei e palestinesi devono vivere su un piano di parità in uno stato unitario. Il parlamentare britannico George Galloway (Guardian, 31 agosto 2006) prevede la possibilità che in Israele e tra i suoi sostenitori internazionali si sviluppi "un momento F.W. de Klerk ", nel quale, come accadde in Sudafrica, una "massa critica di oppositori" andrebbe oltre le posizioni della precedente minoranza e i leader giustificherebbero il trasferimento dei poteri partendo dalla constatazione che farlo più tardi, in una posizione più sfavorevole, risulterebbe meno vantaggioso. In mancanza di una simile transizione pacifica, e di una contemporanea azione per risolvere il conflitto israelo-palestinese, Galloway, come molti altri, non vede altro che "guerra, guerra e ancora guerra, fino al giorno in cui Tel Aviv sarà a fuoco e l'intransigenza dei capi israeliani farà crollare sulle loro teste l'intera impalcatura dello stato ebraico".
E sempre di più questa sembra essere l'alternativa futura: o Israele e i suoi sostenitori neoconservatori americani riescono a eliminare i peggiori aspetti del sionismo, accettando di creare uno stato unitario in una Palestina abitata da palestinesi ed ebrei, o il mondo si troverà di fronte a un conflitto di un livello oggi non immaginabile.
Proprio come Hezbollah è parte integrante del Libano, impossibile da distruggere con il bombardamento di ponti e centrali, così, prima del 1948, i palestinesi erano la Palestina, e continuano ad esserlo. Colpendoli dove vivevano, in senso proprio e figurato, Israele ha lasciato ai palestinesi un solo obiettivo e una sola visione. Una visione di giustizia e compensazione, dove compensazione significa, in ultima analisi, sconfitta del sionismo e recupero della Palestina, oppure riconciliazione con Israele a condizione che quest'ultima agisca come un vicino normale e non da conquistatore, o infine unione con gli ebrei israeliani in un unico stato in cui nessuna parte goda di più diritti dell'altra parte. In Libano, Israele ha ancora una volta dato l'impressione di voler imporre a un altro popolo la propria volontà, il suo dominio, la sua cultura e la sua etnicità. Non ha funzionato in Palestina, non ha funzionato in Libano, non funzionerà da nessuna parte nel mondo arabo. Siamo a un crocevia morale. Nel “nuovo Medio Oriente” progettato da Israele, Bush e i neoconservatori, solo Israele e gli USA possono dominare, solo loro avranno la forza, solo loro potranno vivere al sicuro. Ma nel mondo giusto all'altro lato del crocevia, questa visione è inaccettabile. La giustizia deve prevalere.
di Kathleen Christison è stata analista politico della CIA e ha lavorato sui temi medio-orientali per 30 anni. Ha scritto Perceptions of Palestine e The Wound of Dispossession .

24 settembre 2006

L'Aiea denuncia gli Usa: "Iran, dossier disonesto"


L'AIEA smentisce il Congresso americano. Un rapporto recente sulla pericolosità nucleare dell'Iran contiene «affermazioni erronee., fuorvianti e non sostanziate», accusa l'Agenzia internazionale sull'energia atomica. E non sbaglia mai per difetto. Se di errori si tratta vanno sempre nel senso di magnificare l'entità della minaccia che Teheran costituirebbe per il resto del mondo. Anche a costo di pesantissime forzature che lo rendono, in certe parti, «oltraggioso e disonesto». Come quando sostiene che la Repubblica islamica starebbe producendo uranio "weapons-grade", buono per fini militari, nella centrale di Natanz. «Non è corretto» si legge nella denuncia spedita da Vienna, perché quello è arricchito al 90% mentre gli iraniani sono arrivati solo al 3,5%. Una differenza abissale [quella che c'è tra un reattore ad uso pacifico ed un bomba, ndr].

Nel giorno in cui il presidente Mahmud Ahmadinejad offre generiche aperture («siamo disponibili, pronti per nuove condizioni») ma senza neppure prendere in considerazione l'ipotesi della sospensione del programma, lo scontro tra Aiea e amministrazione Bush raggiunge livelli inediti. Nel rapporto di 29 pagine compilato dal comitato parlamentare per l'intelligence Usa glierrori gravi sarebbero cinque.Ma fonti del Washington Posi sostengono che le dichiarazioni indimostrabili sono una dozzina. Tutta farina del sacco del repubblicano Fredrick Fleitz, ex agente CIA e assistente particolare dell'ambasciatore all'Onu John Bolton, uno dei più entusiasti teorici del "cambio di regime" a Teheran. A un certo punto si legge che El Baradei, il capo dell'Agenzia, avrebbe licenziato un ispettore troppo zelante nel segnalare i rischi del programma nucleare. Un'invenzione di sana pianta. Che fa il paio con una campagna piuttosto scoperta, durante il primo mandato Bush, per far fuori il riottoso direttore generale che tanti dubbi aveva espresso sulle armi di distruzione di massa irachene. Il rapporto contestato sembra essere stato chiuso in tutta fretta. «Contiene una quantità di semplificazioni che presentano la minaccia iraniana come assai più grave di quel che è» ammette con il Post Jane Harman, vice presidente del comitato. Lo stesso Fleitz è ora al lavoro sulla Corea del Nord. E chi ha visto la bozza avverte: le illazioni abbondano.

di RICCARDO STAGLIANO'

22 settembre 2006

I jihadisti, made in CIA


Jürgen Elsässer: ’La CIA ha reclutato e addestrato i Jihadisti’
Nel suo ultimo libro "Come la Jihad è arrivata in Europa", il giornalista tedesco Jürgen Elsässer rivela la trama jihadista. I combattenti musulmani, reclutati dalla CIA per lottare contro i sovietici in Afghanistan, sono stati successivamente usati in Yugoslavia e in Cecenia, sempre col sostegno della CIA ma sfuggendo forse in parte al suo controllo. Basandosi su fonti diverse (principalmente yugoslave, olandesi e tedesche), il giornalista ha ricostruito la crescita di Osama Bin Laden e dei suoi luogotenenti a fianco della NATO in Bosnia-Erzegovina.

Silvia Cattori: La sua indagine sull’operato dei servizi segreti fornisce un’analisi agghiacciante. Scopriamo che sin dagli anni ’80 gli Stati Uniti hanno investito miliardi di dollari per finanziare attività criminose e che attraverso la CIA sono direttamente implicati in attacchi di solito attribuiti ai musulmani. Cosa offre di nuovo il suo libro?
Jurgen Elsässer: È il solo lavoro che stabilisca un rapporto tra le guerre degli anni ’90 nei Balcani e l’attacco dell’11 settembre 2001. Tutti i grandi attentati - New York, Londra, Madrid – non sarebbero mai avvenuti se i servizi segreti americano e inglese non avessero reclutato quei jihadisti ai quali sono stati poi attribuiti. Faccio nuova luce sulle manipolazioni dei servizi segreti. Altri libri avevano già sottolineato la presenza nei Balcani di Osama Bin Laden, ma gli autori avevano presentato i combattenti musulmani come nemici dell’occidente. Le informazioni che ho raccolto da molteplici fonti dimostrano che questi jihadisti sono marionette nelle mani dell’Occidente, e non, come si pretende, nemici.
Silvia Cattori: Nel caso delle guerre nei Balcani, il suo libro indica chiaramente le manipolazioni di vari paesi: gli Stati Uniti hanno sostenuto Bin Laden, che aveva il compito di formare i Mujahidin. Com’è possibile che alcuni continuino ad ignorare che gli attentati che hanno sconvolto l’opinione pubblica non avrebbero mai avuto luogo se i «terroristi» non fossero stati pilotati e finanziati dai servizi segreti occidentali?
Jürgen Elsässer: Sì, certo, questa è la conclusione cui si arriva guardando ai fatti. Ma non possiamo dire che l’intervento occidentale nell’ex Yugoslavia mirasse a preparare l’attacco dell’11 settembre. Per essere precisi: gli attacchi sono una conseguenza della politica occidentale negli anni ’90, quando la NATO mise in piazza nei Balcani i jihadisti e collaborò con loro. I militanti musulmani che sono stati indicati come responsabili degli attacchi dell’11 settembre facevano parte di questa rete.
Silvia Cattori: Secondo lei, che interesse avevano Stati Uniti e Germania ad aizzare gli abitanti dei Balcani gli uni contro gli altri?
Jürgen Elsässer: L’Occidente aveva un interesse comune a distruggere e smembrare la Yugoslavia, che, dopo la fine del blocco sovietico, avrebbe potuto essere una intelligente combinazione di elementi capitalisti e socialisti. L’Occidente voleva invece imporre a tutti i paesi il suo modello neoliberale.
Silvia Cattori: L’Europa si è imprudentemente impegnata in una guerra manipolata dai neoconservatori?
Jürgen Elsässer: È difficile dirlo. Penso che negli anni ’90 la politica degli Stati Uniti fosse ispirata dalla loro vittoria sui sovietici in Afghanistan. Volevano replicare lo stesso modello anche nei Balcani. Se in quegli anni l’economia americana non fosse precipitata in una fase depressiva, forse i politici più realistici, ad esempio Kissinger, avrebbero potuto prendere il controllo della politica statunitense. La mia opinione è che il coincidere della depressione economica con l’aggressività dei neoconservatori abbia determinato il corso degli avvenimenti.
Silvia Cattori: Ritiene che, una volta imbarcatosi in un progetto neoconservatore, un leader come Blair, ad esempio, sia diventato in una certa misura un ostaggio?
Jürgen Elsässer: Non conosco abbastanza bene la posizione di Blair. È più facile vedere quello che è accaduto negli Stati Uniti: è evidente che Bush è un ostaggio nelle mani di quelli che lo attorniano. E poiché non è molto intelligente e non è in grado di prendere decisioni in modo autonomo, deve seguire le idee di chi lo circonda. Salta agli occhi che nel 2003 suo padre era contrario a un attacco all’Iraq.
Silvia Cattori: La prima guerra del Golfo faceva parte di un piano per innescare successivamente altre guerre?
Jürgen Elsässer: No, non esiste alcun legame con la guerra in Iraq del 1991. Ci sono state due fasi. Fino al termine del periodo Clinton, la politica degli Stati Uniti è stata imperialistica ma al tempo stesso pragmatica: hanno cacciato i sovietici dall’Afganistan e hanno vinto gl’iracheni nel 1991. La loro guerra è finita dopo la liberazione del Kuwait. Poi hanno attaccato la Bosnia e la Yugoslavia; ma questo è accaduto in fasi successive. La situazione è sfuggita a ogni controllo dopo l’11 settembre.
Silvia Cattori: I neoconservatori c’entrano per qualcosa?
Jürgen Elsässer: Un anno prima dell’11 settembre, i neoconservatori riuniti attorno a Pearl avevano pubblicato un documento nel quale affermavano che l’America aveva bisogno di un evento catalizzatore simile all’attacco di Pearl Harbor. L’11 settembre ha rappresentato l’evento catalizzatore, e io penso che il gruppo attorno a Pearl desiderasse qualcosa di simile.
Silvia Cattori: Quale obiettivo si proponevano gli Stati Uniti attaccando la Serbia? Volevano solamente, come afferma nel suo libro, installarsi in una regione strategica posta sulla linea di passaggio del petrolio e del gas provenienti dall’Asia centrale? Oppure la loro alleanza con i combattenti musulmani guidati da Izetbegovic aveva un secondo fine, creare un estremismo islamico alle porte dell’Europa per usarlo nelle manipolazioni terroristiche? E se è così, a quale scopo?
Jürgen Elsässer: Gli Stati Uniti, così come l’Austria alla fine del XIX secolo in Bosnia, volevano creare un Islam “europeo”, per indebolire gli stati islamici del Medio Oriente: allora l’impero ottomano, oggi l’Iran e gli Stati arabi. I piani dei neoconservatori erano differenti: volevano costruire una rete clandestina di fantocci “fondamentalisti” che si occupasse del lavoro sporco ai danni della “vecchia” Europa.
Silvia Cattori: Il risultato è stato una terribile guerra civile. Com’è possibile che l’Europa abbia contribuito a distruggere la Yugoslavia, che sembrava un esempio di una coabitazione perfettamente riuscita tra gruppi etnici diversi? Considerando colpevoli i Serbi, non ha forse distrutto un paese che era uno dei maggiori risultati della postguerra? Come ha legittimato il suo intervento?
Jürgen Elsässer: Agl’inizi degli anni ’90, è stata la Germania a cominciare l’attacco, in base al principio di autodeterminazione dei gruppi etnici: in altre parole, lo stesso vecchio trucco usato da Hitler nel 1938/39 contro la Cecoslovacchia e la Polonia. Poi la guerra è stata continuata dagli Stati Uniti in nome dei “diritti umani”, un evidente imbroglio.
Silvia Cattori: Nella sua indagine non nomina mai Israele. Non ha per caso minimizzato l’importanza dei neoconservatori proisraeliani in seno al Pentagono, che si preoccupano più degl’interessi dello stato ebraico che di quelli del proprio paese?
Jürgen Elsässer: Ci sono israeliani che hanno collaborato con i neoconservatori: è un fatto innegabile. Ma non sono sicuro del ruolo svolto da Israele in questa storia. Sharon non approvava il sostegno della NATO agli albanesi del Kosovo. E nel 1998 aveva manifestato la sua preoccupazione per il sostegno della NATO allo sviluppo di nuclei proislamici nei Balcani. E penso che fosse contrario anche alle guerre degli anni seguenti.
Silvia Cattori: Non vede alcun legame tra i servizi segreti israeliani e gli attacchi dell’11 settembre 2001 ?
Jürgen Elsässer: Ci sono dei legami, ma non ne ho analizzato le caratteristiche. Ad esempio, subito dopo l’11 settembre negli Stati Uniti furono arrestati numerosi agenti segreti israeliani che si erano trovati là dove erano stati preparati gli attacchi. Alcuni analisti citano questo fatto come prova dell’implicazione diretta di Israele nei tragici avvenimenti. Ma l’interpretazione potrebbe essere differente. È possibile che gli agenti stessero osservando gli avvenimenti, che fossero al corrente dell’aiuto fornito dai servizi segreti americani ai “terroristi” nel preparare gli attacchi, ma che si siano limitati a prender nota della situazione per usare poi le informazioni al momento opportuno e ricattare la controparte: “Se non aumentate il volume di aiuti a Israele siamo pronti a passare le informazioni ai media”. Esiste anche una terza possibilità: che le spie di Israele abbiano cercato di segnalare il pericolo senza riuscirci. Tutto quello che per adesso sappiamo è che erano sul posto e che sono state arrestate. Sono necessarie altre indagini.
Silvia Cattori: I legami lasciano pensare che gli attacchi dell’11 settembre 2001 facessero parte di un piano pronto da molto tempo?
Jürgen Elsässer: Non sono sicuro che il piano fosse pronto da molto tempo. È possibile che gente come Richard Perle improvvisi sul campo e usi gli elementi criminali prima addestrati, senza però riuscire a controllarli permanentemente. Proprio come all’epoca dell’uccisione di Kennedy, salta agli occhi il coinvolgimento della CIA, ma non è chiaro se il piano fosse stato approvato dai massimi livelli a Langley [il quartier generale della CIA] o se fosse stato messo a punto dagli esuli cubani particolarmente violenti che lavoravano per la CIA e che il quartier generale si limitava a tollerare.
Silvia Cattori: Se in futuro i personaggi che si raccolgono attorno a Pearl venissero rimossi, la strategia antimusulmana degli Stati Uniti, e la manipolazione che la giustifica, cesserebbe?
Jürgen Elsässer: Finirà quando perderanno la guerra.
Silvia Cattori: In Iraq non l’hanno già persa?
Jürgen Elsässer: La guerra sarà persa solo quando si ritireranno dal paese, come in Vietnam.
Silvia Cattori: Come è possibile che musulmani come Mohammed Atta, normali cittadini prima di essere arruolati dalla CIA, si siano lasciati trascinare a compiere azioni talmente orribili senza rendersi conto di essere manipolati dai servizi segreti del campo nemico?
Jürgen Elsässer: Ci sono giovani che i servizi segreti possono trasformare in fanatici e manipolare con estrema facilità. I più importanti sanno quel che sta succedendo e da chi sono stati arruolati.
Silvia Cattori: Bin Laden, ad esempio, sapeva di servire gl’interessi degli Stati Uniti?
Jürgen Elsässer: Non ho studiato il suo caso. Ho studiato invece quello di Al Zawahiri, il suo braccio destro, che era il capo delle operazioni nei Balcani. Agl’inizi degli anni ’90 aveva percorso in lungo e in largo gli Stati Uniti in compagnia di un agente dell’US Special Command per raccogliere fondi destinati alla Jihad; l’uomo sapeva perfettamente che la raccolta di fondi era un’attività sostenuta dagli Stati Uniti.

Silvia Cattori: Tutto ciò è molto inquietante. Lei dimostra che gli attacchi susseguitisi dal 1996 (attacchi alla metropolitana parigina) non sarebbero stati possibili senza la guerra nei Balcani, e addebita le stragi, che hanno provocato migliaia di vittime, ai servizi segreti occidentali. L’opinione pubblica occidentale sarebbe dunque stata ingannata da governi che si sono imbarcati in azioni terroristiche?
Jürgen Elsässer: La rete terroristica creata dai servizi segreti americano e britannico durante la guerra civile in Bosnia, e più tardi in Kosovo, ha rappresentato un serbatoio di militanti, che troviamo poi implicati negli attacchi di New York, Madrid e Londra.
Silvia Cattori: Come sono andate le cose in pratica?
Jürgen Elsässer: Dopo la fine della guerra in Afghanistan, Osama Bin Laden ha reclutato questi jihadisti militanti. Era il suo lavoro: è stato lui che li ha addestrati, con il parziale sostegno della CIA, e li ha mandati in Bosnia. Gli americani hanno tollerato il legame tra il presidente Izetbegovic e Bin Laden. Due anni più tardi, nel 1994, gli americani hanno cominciato a inviare armi, in un’operazione clandestina comune con l’Iran. Dopo il trattato di Dayton, nel novembre 1995, CIA e Pentagono hanno reclutato i migliori jihadisti che avevano combattuto in Bosnia.
Silvia Cattori: Come è possibile che questi musulmani siano finiti nelle mani di servizi che proteggevano interessi ideologici opposti ai loro?
Jürgen Elsässer: Ho analizzato le testimonianze di alcuni jihadisti interrogati dai giudici tedeschi. Hanno dichiarato che dopo il trattato di Dayton, in virtù del quale tutti gli ex combattenti stranieri dovevano lasciare il paese, si erano ritrovati senza soldi e senza un posto dove andare. Quelli che potevano rimanere in Bosnia, perché avevano ricevuto un passaporto bosniaco, erano senza soldi e senza lavoro. Il giorno in cui i reclutatori hanno bussato alle loro porte offrendo uno stipendio di 3.000 dollari al mese per servire l’armata bosniaca, non si sono resi conto di essere in realtà stati reclutati e pagati da emissari della CIA per servire gli Stati Uniti.
Silvia Cattori: E più tardi, quando per esempio furono mandati a preparare gli attacchi di Londra del luglio 2005, non si resero conto di essere nelle mani di agenti dei servizi segreti occidentali che li manipolavano?
Jürgen Elsässer: Non è chiaro se furono realmente i giovani musulmani della periferia londinese a compiere gli attentati, come afferma la polizia. Ci sono altri indizi in base i quali le bombe sarebbero state fissate sotto i treni, ed è possibile in questo caso che i giovani non ne fossero al corrente. In tal caso non è detto che i giovani musulmani incriminati dagli investigatori abbiano realmente compiuto gli atti terroristici.
Silvia Cattori: È possibile capire gli obiettivi perseguiti dagli stati occidentali quando ingaggiavano i loro servizi in tali manipolazioni criminali?
Jürgen Elsässer: Non è facile a dirsi. Pensiamo all’uccisione di Kennedy. Chi ne fu responsabile? È certo che furono gli uomini della CIA ad aiutare il secondo assassino, ed è certo che Oswald fu ucciso su ordine della CIA. Ma quel che non è chiaro è se questa gente reclutata dalla CIA agì per ordine di Johnson o Dulles, o se c’erano legami con l’ambiente degli esiliati cubani, in altri termini se erano affiliati alla mafia. Non credo che Bush o Blair siano alla testa di tutto. E non credo alla teoria della grande cospirazione. Credo invece che i servizi segreti reclutino uomini cui viene ordinato di fare i lavori sporchi, e questi agenti facciano poi quello che vogliono. Lei forse sa che l’11 settembre 2001 qualcuno tentò di uccidere Bush. Che senso ha? È difficile spiegarlo.
Silvia Cattori: Intende dire che Bush, ad esempio, è lui stesso ostaggio di gente che all’interno del Pentagono forma uno stato nello stato e che sfugge anche al controllo dell’esercito americano? Sta pensando a persone sotto l’influenza diretta di personaggi come Pearl, Wolfowitz, Feith? Ritiene che, dopo la guerra nei Balcani, ci siano stati loro dietro gli attacchi e che gli attentati non siano atti isolati, che esista un legame tra Madrid e Londra? Vuol dire che gli americani sono pronti ad allearsi col diavolo per creare il caos dovunque, col pretesto di una guerra antimusulmana e antiaraba, venduta sotto la bandiera del terrorismo? Un terrorismo fabbricato?
Jürgen Elsässer: Si, esiste un secondo governo che sfugge al controllo di Bush, formato da neoconservatori come Cheney, Rumsfeld, Wolfowitz, Pearl, individui legati al petrolio e all’industria militare. Il caos totale fa il gioco dell’industria militare: quando il caos impera in tutto il mondo si possono vendere armi e petrolio a un prezzo più alto.
Silvia Cattori: Questo stato nello stato è stato descritto molto bene da Youssef Asckar, e lei gliene riconosce il merito. Ma Israele non è il primo paese a trarre vantaggio da una strategia del caos, e quindi il più interessato a manipolare gli attacchi terroristici? La propaganda della lobby proisraeliana non tende forse a volerci fare credere che Israele sia minacciata dai fanatici arabi?
Jürgen Elsässer: Non è sicuro che una simile strategia serva gl’interessi di Israele, perché continuando su questa strada l’intero Medio Oriente, Israele incluso, sarà in fiamme. Durante la guerra in Bosnia è stato usato lo stesso sistema. Per demonizzare i Serbi, i media occidentali hanno inventato storie di campi di concentramento e mostrato fotomontaggi che mettevano sullo stesso piano Serbi e nazisti. La propaganda voleva convincere l’opinione pubblica sulla necessità della guerra contro la Serbia, ma, per quanto riguarda gli Stati Uniti, è stata alimentata non tanto dalla lobby ebraica quanto piuttosto dagli strateghi cristiani e atei, che hanno giocato la carta “ebrea”. Questa è la mia opinione. La stessa cosa si ripete oggi con la campagna propagandistica contro l’Iran: gli strateghi giocano la carta “ebrea” per convincere la gente con più impulsività che intelligenza.
Silvia Cattori: Le recenti manipolazioni confermano, in parte, la sua tesi: proprio quando gli Stati Uniti hanno chiesto al Consiglio di sicurezza di approvare le sanzioni contro l’Iran, un quotidiano canadese ha scritto che l’Iran voleva obbligare gli ebrei residenti nel paese a portare l’equivalente della stella gialla. Ma io mi riferisco a quelle personalità apertamente proisraeliane che, in Francia ad esempio, svolgono un ruolo importante nel plasmare l’opinione pubblica perché occupano posizioni strategiche nei media, e la cui lealtà di gruppo li spinge a sostenere la politica israeliana e americana, anche se criminale. Pensi al sostegno attivo che Bernard-Henri Lévy e Bernard Kouchner hanno offerto in Bosnia a Izetbegovic. E non appena messa in ginocchio la Serbia, subito la loro propaganda si è riorientata contro gli arabi e i musulmani, questa volta per mobilitare l’opinione pubblica a sostegno della cosiddetta “guerra delle civiltà”. Quando parlavano di “campi di concentramento” per associare Serbi e Hitler, non stavano forse partecipando alle manipolazioni della NATO?
Jürgen Elsässer: Abbiamo potuto osservare lo stesso fenomeno in Germania. I giornalisti ebrei favorevoli alla guerra contro la Yugoslavia avevano libero accesso agli studi televisivi, i giornalisti, ebrei o no, contrari erano invece esclusi dai dibattiti. Ritengo che media e politici usino le voci ebree per obiettivi geostrategici.

Silvia Cattori: Così, secondo lei, gli avvenimenti nei Balcani sono stati solo una replica degli avvenimenti in Afghanistan, e quello che è venuto dopo era solo parte di uno stesso processo. Pensa che le nostre autorità conoscessero i rischi delle guerre fomentate dai loro servizi segreti?
Jürgen Elsässer: La mia speranza è che ci sia una reazione degli ambienti militari statunitensi. Tra di loro c’è gente perfettamente consapevole del fatto che tutte queste guerre non sono intelligenti, che gli Stati Uniti si avviano a perdere la guerra. Gli uomini dell’esercito americano sono imperialisti ma non stupidi, e non approvano quel che sta succedendo. I neoconservatori, invece, sono folli e vogliono scatenare la terza guerra mondiale contro tutti gli arabi e tutti i musulmani, proprio come Hitler, che voleva uccidere tutti gli ebrei e attaccare tutti gli altri paesi: i generali tedeschi avevano messo in guardia Hitler sui rischi cui andava incontro.
Silvia Cattori: Si augura che le cose cambino in modo repentino?
Jürgen Elsässer: Per fermare questa follia, vedo una possibilità di cambiamento solo tra quelle forze che sono rimaste razionali. Il comando supremo dell’esercito americano ha scritto una lettera a Bush per dire che non intendeva partecipare a un attacco contro l’Iran che prevedesse l’uso di armi nucleari. Può darsi che Bush scateni la guerra, ma le conseguenze sarebbero questa volta più gravi che nel caso dell’Iraq. Con i nazisti accadde la stessa cosa: attaccarono una volta, e poi ancora e ancora, e un giorno arrivò Stalingrado e l’inizio della disfatta. Ma l’avventura costò la vita a 60 milioni di esseri umani.
Silvia Cattori: Allora è questa la ragione dei suoi sforzi per scrivere il libro: risvegliare la coscienza della gente per evitare nuovi disastri e sofferenze? E far sapere che dopo l’Iraq potrebbe toccare all’Iran?
Jürgen Elsässer: Sì. Ma individui come Bush non si preoccupano minimamente di tutto ciò. Non sono del tutto pessimista sull’Iran: potremmo assistere a una ripetizione dell’asse Parigi-Berlino-Mosca. Il nostro cancelliere, di solito un pupazzo manovrato dagli Stati Uniti, ha offerto una cooperazione strategica alla Russia, perché la Germania dipende interamente dal petrolio e il gas russo. È un argomento forte: i tedeschi sono imperialisti ma non stupidi.
Silvia Cattori: Ma non è stata proprio la Germania ad aprire le porte alla guerra nei Balcani?
Jürgen Elsässer: Sì, è vero. Ma, oggi, abbiamo visto Joschka Fischer e Madeleine Albright indirizzare una lettera aperta a Bush per metterlo in guardia dall’attaccare l’Iran, e la signora Albright ha aggiunto che non è possibile far la guerra a tutti i paesi che non ci piacciono. È logico.
Silvia Cattori: Se ha potuto raccogliere gli elementi che dimostrano le azioni di servizi segreti non è forse perché oggi la gente che teme l’evoluzione in atto della politica internazionale ha cominciato a parlare?
Jürgen Elsässer: Sì. Devo moltissimo alle informazioni ricevute da quelli che sono nell’occhio del ciclone.
Silvia Cattori: In tutto il mondo?
Jürgen Elsässer: Posso solo dirle che si tratta di cittadini dell’Europa occidentale che non hanno smesso di usare il loro cervello.
Silvia Cattori: Per ottenere le prove delle manipolazioni del famoso “incidente del Golfo del Tonkino”, l’incidente che permise agli Stati Uniti di scatenare la guerra contro i vietnamiti, si è dovuto attendere per molto tempo. Le cose oggi sono cambiate, ed è possibile reagire rapidamente?
Jürgen Elsässer: C’è un’enorme differenza tra la situazione degli anno ’60 e quella attuale. La Repubblica federale tedesca, ad esempio, a quel tempo era favorevole alla guerra contro i comunisti del Vietnam, e la versione ufficiale, secondo la quale la nostra repubblica correva il rischio di essere attaccata dai comunisti, era accettata da buona parte dell’opinione pubblica. Oggi, invece, la maggioranza della popolazione è contro la guerra, e non ammette discussioni.
Silvia Cattori: Lei sottolinea giustamente l’estremismo religioso che caratterizzava la Bosnia-Erzegovina ai tempi di Izetbegovic, e dubita del sostegno israeliano a questo emirato in nuce dei Talebani; ma non sta per caso sopravvalutando il ruolo dell’Iran e dell’Arabia Saudita? Richard Perle era il principale consigliere politico di Izetbegovic. Iraniani e Sauditi non sollevarono la questione dell’Islam sperando di assumere il controllo di un regime musulmano che prendeva ordini solo da Tel Aviv e Washington? E in effetti Izetbegovic non era un agente israeliano?
Jürgen Elsässer: Il Mossad aiutò i serbobosniaci, fornendo loro persino delle armi. Nulla prova che il governo israeliano abbia aiutato Izetbegovic. Questi era sostenuto dagli americani, e Clinton dipendeva dalla lobby sionista degli Stati Uniti, ma durante la guerra in Bosnia la lobby non ebbe il sostegno del governo israeliano.
Silvia Cattori: Per quanto riguarda alcune delle sue fonti, si possono prendere per buone le dichiarazioni di Yossef Bodanski, direttore del Gruppo di lavoro sul terrorismo e la guerra non convenzionale, molto vicino al Senato americano?
Jürgen Elsässer: Io non prendo per buono niente. Dicono che Bodansky abbia contatti con gente del Mossad e che ciò renda alcune sue affermazioni sospette. D’altra parte ci ha fatto conoscere un sacco di fatti interessanti che contraddicono la propaganda ufficiale. Nel mio libro mostro le contraddizioni all’interno dei gruppi statunitensi dominanti, e in questo senso Bodansky è estremamente interessante.
Silvia Cattori: Nel suo libro si afferma: “In Kosovo e in Macedonia esiste il terrorismo, che però in massima parte non è controllato da Bin Laden ma dai servizi segreti americani”. Non crede all’esistenza di Al Qaeda?
Jürgen Elsässer: Come ho scritto nel mio libro, è tutta propaganda fabbricata in occidente.
Silvia Cattori: Se si spinge a fondo la sua logica, in certi momenti si ha l’impressione che l’indagine non sia terminata. Certo, la Yugoslavia ha rappresentato un laboratorio per la creazione delle reti islamiche, e il suo libro mostra che queste reti servono gl’interessi degli Stati Uniti. Lei sembra credere all’esistenza di reti islamiche internazionali che avrebbero una base popolare nel mondo islamico, ma allo stesso tempo la sua ricerca mostra che le reti sono formate solo da mercenari degli Stati uniti che non hanno mai fatto niente per i musulmani.
Jürgen Elsässer: Guardiamo al caso di Hamas: nei primi anni ’80 era fomentato dal Mossad per contrastare l’influenza dell’OLP. Più tardi Hamas ha però sviluppato una sua base popolare, e ora fa parte della resistenza, anche se temo che vi siano ancora agenti stranieri al suo interno.
Silvia Cattori: Lei ha detto che tra gl’ispettori delle Nazioni Unite si sono infiltrate spie americane. Può essere più preciso?
Jürgen Elsässer: In Bosnia, alcuni caschi blu dell’UNPROFOR trasportavamo armi destinate ai Mujahidin.
Silvia Cattori: Quando Peter Handke afferma che i Serbi non sono i soli responsabili, che sono vittime della guerra nei Balcani, viene messo a tacere. Chi ha ragione, in questa storia?
Jürgen Elsässer: Dappertutto – tra i Serbi, i Croati o i Mussulmani – la gente comune ha perso. I musulmani hanno vinto la guerra in Bosnia con l’aiuto di Bin Laden e Clinton, ma ora il loro paese è occupato dalla NATO: oggi hanno perso l’indipendenza, proprio come la Yugoslavia.
Silvia Cattori: Come si posiziona la sua ricerca rispetto a quelle di Andreas Von Bülow e Thierry Meyssan?
Jurgen Elsässer: Abbiamo lo stesso punto di vista sugli avvenimenti dell’11 settembre 2001: pensiamo che la versione ufficiale sia falsa. Tutto quest’insieme di ricerche è estremamente utile per consentirci di continuare ad approfondire la verità sui fatti. Io mi distinguo per aver messo in luce i legami tra le guerre nei Balcani e i fatti dell’11 settembre, mentre Thierry Meyssan ha analizzato l’attacco al Pentagono per dimostrare che era dovuto a un missile e non a un aereo, e Von Bülow è giunto alla conclusione che gli aerei erano radiocomandati.
Silvia Cattori: Per aver messo in dubbio la verità ufficiale, Thierry Meyssan è stato screditato e bandito dai media. Riuscirà a sottrarsi alla stessa sorte?
Jürgen Elsässer: Anche il mio libro è stato bandito. Non è possibile per un autore infrangere da solo questo muro, ma non si può impedire alle nostre tesi di farsi strada. Il pubblico non accetta quello che dicono i media: nonostante l’ostracismo, il 35-40% della gente non prende sul serio quello che gli raccontano i media. L’uccisione di Kennedy è un buon esempio: oggi il 90% della gente non crede alla versione ufficiale e pensa che l’omicidio del presidente sia stata un’operazione della CIA.
Silvia Cattori: Non è pericoloso mettere a nudo le manipolazioni degli stati che usano i loro servizi segreti per fini criminosi?
Jürgen Elsässer: Penso che il pericolo inizi solo quando sono stati venduti almeno 100.000 libri. E in Germania il mio libro ha venduto in 11 mesi solo 6.000 copie.

21 settembre 2006

Quando il potere è in mano ai fuorilegge



Anti Digital Divide propone lo scorporo della rete di Telecom Italia come soluzione necessaria a far cessare gli abusi dell'incumbent.
Le illecite intercettazioni di dati attuate da Telecom Italia ai danni di Fastweb e di migliaia di utenti rappresentano solo la punta dell' iceberg di un avvincente thriller che vede come protagonista Telecom Italia e il gruppo del patron Marco Tronchetti Provera.
A tenerci informati sulla storia ci pensa la Repubblica con l'ottimo Giuseppe D'Avanzo, che snocciola dati e contenuti davvero interessanti.
Si va dalla questione spionaggio contro Piero Marrazzo e Alessandra Mussolini, passando per l’Inter, in anticipo di circa 3 anni sullo scandalo calciopoli e sul "metodo Moggi" venuto alla luce solo nelle ultime settimane, dalla scalata del 1999 alla Telecom compresi i politici e i finanziere che guardarono con interesse a quella operazione, al caso Bpi – Antonveneta e Unipol – Bnl, per arrivare più o meno ai nomi dell'intera classe dirigente - politico, economica, finanziaria - del Paese.
Si parla di un numero elevatissimo di intercettazione che potrebbe arrivare addirittura a 100.000 fascicoli.
“Gli spioni privati, ingaggiati e pagati da Pirelli e dalla sua controllata Telecom Italia, hanno raccolto migliaia di "fascicoli" sul conto di politici, uomini di finanza, banchieri e finanche su arbitri e manager di calcio.”
L’intero archivio è ora a disposizione e al vaglio della procura di Milano grazie alla collaborazione di Emanuele Cipriani, uno dei principali indagati, che ha fornito l’ultima password per entrare in un file presente su un computer e superare un sistema di difesa con dieci livelli di protezione.
Emanuele Cipriani, è a capo di un'importante agenzia d'investigazione, la Polis d'Istinto, da alcuni anni al centro di un network d'intelligence messo su da Giuliano Tavaroli, già responsabile della sicurezza di Telecom Italia.
“Entrambi sono accusati di "associazione per delinquere finalizzata alla rivelazione del segreto istruttorio" (da una costola di quest'inchiesta sono già saltate fuori le manovre storte contro Piero Marrazzo e Alessandra Mussolini).”
“"Decine e decine di migliaia di fascicoli" ("centomila"?) svelano un lavoro accuratissimo portato avanti con la collaborazione di pubblici funzionari infedeli capaci di violare le banche dati del Viminale, della Banca d'Italia, degli uffici della pubblica amministrazione.
Le schede hanno un loro preciso canone. Si interrogano le conservatorie dei registri immobiliari, gli archivi notarili, il pubblico registro automobilistico, il registro navale, l'anagrafe tributaria. Si scava negli istituti di credito, nei fondi di investimento, nelle società finanziarie. Si annotano i soggiorni all'estero, la presenza abituale in luoghi di villeggiatura. Quasi sempre, gli accertamenti sono estesi al coniuge o ai figli, alle persone fisiche o giuridiche, società, consorzi, associazioni del cui patrimonio il poveretto "schedato" risulta poter disporre "in tutto o in parte, direttamente o indirettamente".
I file si arricchiscono dei tabulati telefonici del maggiore gestore italiano di telefonia - sono documenti che permettono di ricostruire l'intera mappa dei contatti del "soggetto di interesse" - in qualche caso, delle intercettazioni della magistratura perché Giuliano Tavaroli ha controllato, fino a qualche tempo fa, il Centro nazionale autorità giudiziaria (Cnag) dove transitano tutte le richieste d'intercettazione dell'autorità giudiziaria.”
Ora i punti da chiarire sono, perché si sono effettuate tali intercettazioni chi le ha “commissionate” che uso ne è stato fatto e/o se ne voleva fare.
“Emanuele Cipriani sostiene che il suo lavoro è stato regolarmente commissionato, attraverso Giuliano Tavaroli, dal presidente Marco Tronchetti Provera. Ma è vero? O è vero che, confidando nel loro incarico ufficiale, Cipriani e Tavaroli si sono messi, con il tempo, in proprio schedando obiettivi ("soggetti di interesse") selezionati di volta in volta da altri misteriosi "clienti" o così fragili da poter essere ricattati e "condizionati"?”
“Emanuele Cipriani rintuzza i dubbi mostrando le fatture regolarmente emesse da Pirelli-Telecom, anche se per prestazioni definite negli archivi delle società in modo molto generico. Più o meno quattordici milioni di euro, anche se Cipriani preferisce farsi pagare in sterline e a Londra. Da dove curiosamente il denaro comincia a muoversi come in un vortice. Montecarlo. Svizzera. Infine, l'approdo in un conto della Deutsche Bank del Lussemburgo, intestato alla Plus venture management, società off shore con base nel paradiso fiscale delle Isole Vergini britanniche.
Che necessità c'è di far fare a quel denaro, compenso di regolare contratto di consulenza/collaborazione, il giro del mondo? Per quel che se ne sa, non è la sola domanda che non trova ancora una risposta. Ce n'è un'altra, forse più importante. Se è Marco Tronchetti Provera a commissionare quei dossier, perché alcuni fascicoli riguardano lo stesso Tronchetti e gli affari di sua moglie Afef? Anche loro, i "padroni" della Telecom, potevano essere sottoposti a pressioni? In questo caso, chi davvero muoveva la mano degli spioni. Soltanto l'avidità personale o altri "clienti" desiderosi di indirizzare le mosse del presidente di Pirelli/Telecom? La storia del grande archivio spionistico e illegale della Seconda Repubblica è ancora tutta da scrivere.”
Volendo attenerci ad un tipica trama di un film thriller, potrebbe essere possibile che quei documenti magari siano proprio una valvola di sicurezza per Tronchetti Provera, che così può impostare un autodifesa molto convincente, del tipo, se ero io il mandante perché ci sono delle intercettazioni a mio carico? Quindi sarebbe da valutare il “valore” delle intercettazioni riguardanti Tronchetti Provera e confrontarle con le altre.
Ma questa è solo una digressione teorica, puramente cinematografica, toccherà ai magistrati fare luce su quanto veramente accaduto.
In un altro articolo la Repubblica mette in luce l’operazione di distorsione della realtà attuata da Telecom Italia, che tende a negare e minimizzare fatti evidenti e di elevata gravità.
Poi pone l’accento sullo scarso risalto che i media e la politica hanno dato alle questioni intercettazioni, nonostante la gravità di quanto successo. Infine sprona i politici a reagire a quanto accaduto, augurandosi che non si faccia finta di niente.
“L'ordinanza della magistratura ci dice che se ne è abusato per fini commerciali. Domanda ragionevole: se ne può abusare e se ne abusa per altri fini? Come è chiaro, sono questioni di interesse vitale per libertà, diritti e democrazia, ma Telecom Italia non sembra darsene per inteso. Quando il 16 maggio diffonde una nota per dar conto delle severe conclusioni del giudice, nega l'evidenza e scrive: "Sulle strategie applicate da Telecom Italia, la società precisa che non sono mai stati utilizzati i dati di ex-clienti...". E' l'esatto contrario di quanto si legge nell'ordinanza del giudice milanese. E', diciamo, una variazione falsaria.
Dunque, si deve concludere che conviene diffidare delle prese di posizione di Telecom (ieri sono state necessarie quasi dieci ore per avere nessuna risposta a qualche domandina di routine). La società controllata dalla Pirelli pare mettere insieme i difetti dell'impresa pubblica e le debolezze dell'impresa privata. Della prima conserva l'arroganza del monopolista che non deve rendere conto di quel che fa. Della seconda, l'autoreferenzialità del proprio interesse."
Telecom non ha digerito molto gli articoli apparsi su Repubblica, e ha annunciato azioni civili e penali, inoltre il patron Marco Tronchetti Provera ha scritto, per la prima volta, una lettera ai dipendenti Telecom Italia, per rassicurarli sull’estraneità dell’azienda sulla questione intercettazioni. Non è la prima volta che Telecom mette in atto questo comportamento per difendere la propria immagine da quelle che, secondo l’incumbent, sono illazioni tutte da confermare.
Forse Telecom dovrebbe pensare più spesso alla propria immagine, non solo quando ci sono di mezzo procedimenti penali, ma anche per temi, come trasparenza, etica , rapporti con gli utenti che vanno sempre più deteriorandosi. Telecom vuole difendere la propria immagine, forse è un po’ in ritardo, perché il pensiero che gli italiani hanno sulla Telecom, lo si può intuire guardando alcune punteta delle trasmissioni che si sono occupate dell'incumbent, come Mi Manda Rai Tre oppure Le Iene o Striscia la Notizia e non si discosta molto da questo.
Quello che è chiaro è che siamo di fronte a questioni gravissime, sia per quanto riguarda l’aspetto della violazioni delle norme sulla concorrenza sia per le questioni delle intercettazioni.
Pare quindi evidente che le politiche fin ora attuate per garantire un mercato delle Telecomunicazioni che rispetti i principi di correttezza, concorrenza e trasparenza siano state errate o comunque non sufficientemente idonee.
La decisione di una mera divisione contabile della società Telecom Italia, al fine di garantire il rispetto della concorrenza, si è rivelata del tutto inadatta ed anche le procedure sanzionatorie non sono servite a far cessare le condotte scorrette dell’incumbent.
Tattiche di concorrenza scorretta che Telecom ha perpetrato con costanza per anni tanto che è stato possibile schematizzarle, ( sarebbe sufficiente leggere il documento e tener conto delle soluzioni ma Agcom non lo fa).
Una delle tattiche scorrette è costituita dall’esclusione dei concorrenti da un nuovo mercato, l’ultimo esempio, è di pochi giorni fa con la violazione della delibera 34/06 e il tentativo di non far accedere alla nuova rete IP di Telecom i suoi competitor.
E’ chiaro quindi che si debbano assumere seri provvedimenti affinché il mercato venga finalmente liberalizzato e venga garantita una reale concorrenza. Condizione necessaria perché questo avvenga è lo scorporo della rete di Telecom Italia, chiesto in passato da Mario Monti ex presidente dell’Antitrust europea, da Giuseppe Tesauro ex presidente dell’antitrust italiana, da illustri economisti, dalla corte dei conti e addirittura nel 2001 da Gasparri, ma "stranamente" mai posto in essere.
Deve quindi essere attuata la divisione di Telecom Italia in due società distinte, sul modello inglese, una che si occupi della rete e della vendita all’ingrosso, con tariffe uguali per tutti gli operatori, l’altra della vendita dei servizi al dettaglio, servizi che acquisterebbe alle stesse condizioni dei competitor, dalla prima società.
Infatti nonostante la quota di mercato di British Telecom nei collegamenti a larga banda fosse pari al 25%, contro il 73% in Italia dell’operatore dominante, Telecom Italia, (Dati: COCOM 2005 , Communications Committee, e ERG 2005, European Regulators Group), British Telecom è stata obbligata dall’autorità delle comunicazioni inglesi (OFCOM) a garantire ai concorrenti la "market equivalence": parità di trattamento tecnico e commerciale nella fornitura all’ingrosso rispetto a BT Retail attiva sul mercato della clientela finale. BT Retail è il maggior cliente di BT Wholesale, la struttura che fornisce all'ingrosso anche i concorrenti.
L'autorità ha stabilito che questa azienda avrà il solo compito di rivendere all’ingrosso l’accesso alla rete di BT e sarà governata da un consiglio di amministrazione composto da una maggioranza di amministratori indipendenti. Indipendenti non come gli amministratori di Telecom che da una parta hanno dichiarato che il modello inglese avrebbe ricalcato quello italiano e dell’altra che lo scorporo della rete non esiste in nessuna nazione, questo sempre per la correttezza e trasparenza delle informazioni.
Altro provvedimento fondamentale consiste nel far tornare ultimo miglio e centrali telefoniche di proprietà statale. Si porrebbe così finalmente rimedio all’errore fatto dal governo D’Alema nella privatizzazione della Sip. Si parla solo di doppini e centrali telefoniche, quindi la rete di trasporto rimarrebbe di Telecom, così come tutti gli apparati montati in centrale e le nuove reti costruite dall’incumbent, anche tutti i clienti attuali rimarrebbero di Telecom, passerebbero invece alla stato le centrali, il doppino e l’obbligo del servizio universale.
Telecom ha effettuato pochissimi investimenti per l’ammodernamento delle centrali , che sono rimaste, nella maggior parte dei casi, come erano al tempo della Sip. Così come per i doppini, Telecom si è limitata a collegare quelli già disponibili, e solo raramente ha effettuato scavi/lavori per portare doppini nuovi agli utenti e comunque in questi casi i costi sostenuti dagli utenti erano molto elevati inoltre questi erano ampiamente coperti dagli introiti derivanti dal canone Telefonico, che Telecom richiede proprio per la manutenzione e ammodernamento delle linee.
Oltre al canone Telefonico di 15 euro mensili per 26.000.000 di linee, Telecom chiede in Italia tariffe salatissime per l’adsl, nonostante questo, circa 10 milioni di italiani non possono usufruire della banda larga. Infatti i canoni e le tariffe spropositate non servono per manutenere e ammodernare la rete, ma per la maggior parte finiscono per essere utilizzate per ripagare i debiti derivati dalla finanza creativa del dottor Tronchetti Provera.
Tutti gli operatori, alle stesse condizioni, riscatterebbero all’ingrosso il canone telefonico dallo stato, che dovrà fissarne l’entità calcolandolo con il metodo cost plus cioè basandosi sui costi effettivi sostenuti per fornire il servizio di accesso. In questo modo si premierebbero gli operatori che hanno investito nella costruzione di una rete di accesso proprietaria e si incentiverebbero tutti gli operatori a investire in una propria infrastruttura, questo porterebbe ampi benefici agli utenti, che avrebbero maggiori possibilità di scelta, con tariffe minori e qualità dei servizi più elevata, grazie all’aumento della concorrenza.
Naturalmente Telecom continuerebbe a dover essere notificato come operatore dominante almeno finché la sua quota di mercato non risulti inferiore al 50%.
In seguito alla sentenza con cui la Corte d'Appello Civile di Milano ha condannato il principale operatore di telecomunicazioni in Italia per "trattamento illecito di dati riservati", il garante della privaci ha avviato una procedura d’urgenza per far luce sull’accaduto. Anche l’AGCOM sta indagando sull’accaduto:
"Della vicenda si occuperà quanto prima anche l'Authority per le Comunicazioni che già ieri ha fatto sapere di aver acquisiti i primi elementi del caso e che nelle prossime riunioni valuterà il risultato degli accertamenti in corso. Non solo: Agcom ha tenuto a precisare come Telecom - già nei mesi scorsi - sia stata diffidata a non attivare azioni unilaterali di rientro di utenti di altri operatori senza rispettare le procedure condivise con altri gestori e con la stessa Autorità. Inoltre, Agcom ha ricordato come tutti i principali operatori - proprio per indagare su possibili violazioni a danno degli utenti e per accertare eventuali comportamenti abusivi - siano stati ispezionati nelle scorse settimane da funzionari dell'Autorità, dalla polizia postale e dalla Guardia di Finanza."
Si comincia a parlare anche di un'indagine politica con l’istituzione di una commissione parlamentare.
Intanto il responsabile della sicurezza di Telecom Italia e di quella personale del suo presidente Marco Tronchetti Provera, ha rassegnato le proprie dimissioni.
ADD da tempo si batte perché ci sia lo scorporo della rete, in seguito agli ultimi avvenimenti che coinvolgono Telecom Italia e palesano l’inadeguatezza degli interventi fin ora attuati dalle autorità garanti, ritiene che questa decisione non sia più rimandabile.
Diffide, multe, divisione contabile di Telecom Italia, non sono servite a far rispettare le norme per una corretta concorrenza, per Telecom regna l’anarchia, anche l’ultima delibera la 34/06 che doveva portare ad una maggiore concorrenza nel mercato adsl è stata palesemente violata, Anti Digital Divide ha scritto per questo all’AGCOM da cui però non è arrivata risposta quindi l’associazione di provider AIIP ha presentato ricorso al TAR perché venga fatta rispettare tale delibera.
Nei prossimi giorni scriveremo alle autorità garanti ed al nuovo ministro delle comunicazioni Paolo Gentiloni, proprio per chiedere di attuare questo provvedimento.

30 settembre 2006

L'opinione non è più libera


La gente immagina di avere opinioni proprie, non quelle dei grandi magnati corporativi che competono per colonizzare la sfera pubblica. Non siamo proprio così liberi di pensare come crediamo.

Juergen Habermas, filosofo, storico e sociologo tedesco, è spesso citato, tra i molteplici studi accademici, per il grandissimo contributo dato alla sociologia ed alla teoria critica. Il suo risultato più prestigioso, tuttavia, consiste nell’introduzione del concetto di “sfera pubblica”, un fenomeno la cui nascita fa risalire all’Europa del XVIII secolo e che venne costretto ad un prematuro letargo dalle stesse forze che ne decretarono l’inizio.
La “sfera pubblica” teorizzata da Habermas potè svilupparsi grazie alla sua vantaggiosa nonchè logica specificità nello spazio e nel tempo: l’Inghilterra del XVIII secolo. La nascita della cultura borghese, insieme con lo sviluppo della democrazia liberale, diede vita ad una popolazione sempre più istruita con interessi, diritti ed aspettative ben definite. La frequentazione dei Caffè e di altri luoghi pubblici come punti di incontro per il dialogo permise alla borghesia inglese di creare la propria sfera pubblica, che contribuirà, infine, al formarsi dell’opinione pubblica. Le altre democrazie occidentali, e tanto più la Francia con la sua innegabile esperienza di cittadinanza attiva, sarebbero state presto coinvolte in questo cambiamento crescente.

Naturalmente l’idea di Habermas, come qualsiasi altra intuizione rivoluzionaria, diede vita a discussioni e generò accaniti dibattiti. Alcuni affermarono che esistono, in realtà, varie “sfere pubbliche” sovrapposte e simultanee; altri negarono del tutto l’esistenza di tale concetto. La questione è chiaramente assai più complessa e non sembra destinata a risolversi in un breve arco di tempo. Le congetture di Habermas e le loro implicazioni, esposte per la prima volta nel 1962 in “The Structural Transformation of the Public Sphere: An Inquiry into a Category of Bourgeois Society” [La trasformazione strutturale della Sfera Pubblica: un’indagine sulla categoria della società borghese n.d.t.], continuano ad essere attuali e di estrema rilevanza.

La crescita e la persistenza della sfera pubblica nel XVIII e XIX secolo fu di enorme importanza, dal momento che riuscì infine a definire la relazione tra Stato e Società in modo decisamente più imparziale che in passato. Finalmente l’opinione pubblica contava qualcosa, o almeno così sembrava. Il modo in cui tale opinione veniva trasmessa richiedeva meno mezzi ed assai meno intermediari.
A prescindere dal dove cominci e dove finisca la “sfera pubblica”, dal momento che ha fallito più volte nel rappresentare adeguatamente le donne, le minoranze, i lavoratori ed altri gruppi storicamente marginalizzati, di certo è riuscita almeno nello stabilire i confini tra il “Mondo della vita” [life-world: in tedesco lebenswelt, mondo vitale n.d.t.] e il “Sitema”; il primo rappresenta la mutua solidarietà di coloro che sono coinvolti nel formare la sfera pubblica, il secondo riguarda lo Stato, il suo apparato e la sua relazione col potere e l’autorità.
Di norma, il rapporto dovrebbe essere di tipo elastico [push and pull: tira e molla n.d.t.], dove il Mondo della vita cerca di proteggere ed espandere il suo peso sociale e politico, mentre il Sistema tenta incessantemente di colonizzare la sfera pubblica ed il suo Mondo della vita. Giustamente, ci si aspetterebbe che una democrazia esemplare sia quella che offra un bilanciamento del potere tra la Società e lo Stato, in modo da tenere sotto controllo coloro che rappresentano l’autorità e proteggere la Società dal caos.

È chiaro che solide democrazie avrebbero ben poco interesse a regredire al livello dei regimi feudali ed autoritari di precedenti epoche storiche. Il XX secolo fu prova di tale affermazione, tanto quanto della rapida colonizzazione della sfera pubblica [da parte dello Stato] con mezzi che andavano al di là del potere e della coercizione: quelli del capitalismo.
Il capitalismo determinò l’iniqua distribuzione della ricchezza e, conseguentemente, del potere. Mentre nei secoli passati la sfera pubblica della borghesia aveva da tempo accettato la continua espansione del Mondo della vita, la concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi, ancora una volta, ridefinì la relazione tra Società ed Autorità. Il Sistema aveva finalmente trovato il modo di penetrare la solidarietà di fatto del Mondo della vitaattraverso i recenti rapporti stabilitisi tra lo Stato ed i nuovi capitalisti. Questi si accorsero che era più redditizio tenere sotto controllo l’opinione pubblica, per compiacere lo Stato, in cambio di una parte del potere e dei privilegi che solo esso poteva garantire; la popolazione può continuare così a credere che la sua opinione conti qualcosa, mentre di fatto vale ben poco.

Questo può aiutarci a capire come mai Habermas, tra gli altri, abbia parlato di “ascesa e caduta” della sfera pubblica proprio nel momento in cui sembrava avessimo raggiunto un accesso ai mezzi di comunicazione mai visto prima. In breve, ciò che rimane della sfera pubblica è l’illusione che ce ne sia una.

Le idee di Habermas non richiedono spiegazioni convincenti per essere comprese; sono evidenti di per sè. Tuttavia, un articolo su “The Guardian” del primo luglio a firma di Lance Prince, ex consulente d’immagine [media advisor] del Primo Ministro inglese, ha riportato il soggetto alla ribalta. Price afferma che il magnate dell’informazione Rupert Murdoch è probabilmente l’uomo più potente nel panorama mondiale dei mezzi di comunicazione. Murdoch, cittadino americano nato in Australia, possiede letteralmente una quota significativa dell’opinione pubblica attraverso il controllo del più vasto impero mediatico al mondo.
“Non ho mai incontrato il signor Murdoch, ma a volte, quando lavoravo a Downing Street [10 Downing St. è l’indirizzo della residenza e dell’ufficio del Primo Ministro inglese n.d.t.], avevo l’impressione che fosse il 24˚ membro del gabinetto. Raramente si sentiva la sua voce (ed allora si sarebbe potuto dire lo stesso di molti degli altri 23 membri), ma la sua presenza era sempre percepita”, scrive Price.
Murdoch “partecipò a molte sedute di emergenza al Ministero dell’Interno e si potrebbe scrivere un’interessantissima tesi di dottorato su come la sua stampa influenzò la politica del governo riguardo ai temi dell’immigrazione e del diritto d’asilo,” aggiunge l’autore del best-seller The Spin Doctor's Diary [“Diario di uno Spin Doctor” n.d.t.]. “È davvero ironico che, durante il suo primo anno alla guida del Partito Laburista, Tony Blair sia volato dall’altra parte della Terra per discutere con il signor Murdoch e i suoi dirigenti di “News International”(1) e che si appresti nuovamente a fare lo stesso il mese prossimo (luglio 2006), probabilmente l’ultimo del suo mandato.”
Per quanto incredibili possano sembrare, le rivelazioni di Price, un uomo che fu profondamente coinvolto nei lavori del governo britannico, appaiono assolutamente coerenti con il rafforzarsi del legame tra il mondo dei media ed i governi delle democrazie occidentali. Tale vincolo è poi particolarmente visibile nel caso degli Stati Uniti.

La relazione tra media e Stati, però, diventa ancora più pericolosa nel momento in cui entrambi si alleano, e non a caso, sullo stesso terreno ideologico. Murdoch è un ideologo di destra, pro Israele (è ben nota la sua amicizia con Ariel Sharon), e favorevole alla guerra. Nel 2003 [attacco e invasione dell’Iraq – NdT], ogni pagina editoriale della massa dei suoi 175 giornali sparsi per il mondo recitò lo stesso identico mantra guerrafondaio. Alcuni potrebbero aver candidamente pensato che tutti i media mondiali stessero convergendo indipendentemente verso un consenso unanime che vedeva nel presidente Bush colui che “si comporta con un profondo senso della morale e nel modo più opportuno”, per usare le parole dello stesso Murdoch, e che tale convergenza fosse un riflesso complessivo del consenso pubblico internazionale riguardo l’argomento. La realtà, tuttavia, era spiacevolmente un’altra.
Naturalmente, Murdoch, proprietario di numerosi giornali, stazioni televisive e mezzi di informazione in tutto il mondo, non è un’eccezione, ma la regola. Nel mondo dei media statunitensi, infatti, si sta verificando una convergenza costante che tende ad accentrare in mano a poche multinazionali, in un modo mai osservato prima, la proprietà di migliaia di stazioni radio e televisive, giornali, riviste, ecc. Mentre alcuni, all’oscuro di chi possieda cosa, cantano ancora le lodi della “libertà di stampa”, la democrazia si sta avviando verso un declino pericolosissimo: il “Mondo della vita”, come mai accaduto prima, sta cedendo di fronte al perenne dilagare del “Sistema”, ed ormai non esiste quasi più una vera “sfera pubblica”, almeno non in forma significativa.
Benchè gli Stati non siano più in grado di prevenire incidenti o di garantirsi un potere assoluto, hanno, però compreso l’inestimabile valore dei mezzi di comunicazione nel manipolare un’opinione pubblica favorevole e, guarda caso, coincidente con quella dello Stato stesso. In cambio, gli interessi commerciali e persino quelli ideologici di coloro che controllano i media sono sempre garantiti. Fino a quando tale correlazione non sarà riconosciuta appieno e resa inefficace, la democrazia reale procederà verso uno spaventoso declino, alla fine del quale un’efficace democrazia partecipativa verrà scalzata dalla mera retorica democratica, utile solo a soddisfare fini politici, ideologici ed infine imperialistici. Tale spirale discendente è destinata solo a peggiorare senza la fondamentale presa di coscienza che porti la collettività a riappropriarsi di ciò che le appartiene: la propria opinione, la propria sfera pubblica e la propria democrazia.

28 settembre 2006

Lo scenario prossimo in Iran


Esperti militari di Washington hanno riconosciuto la validità dell'analisi di Lyndon LaRouche secondo cui Bush e Cheney si ripromettono un attacco contro l'Iran a tempi ravvicinati, “senza preavviso”, come ha detto lo statista democratico, senza consultare il Congresso, le Nazioni Uniti e gli “alleati” degli USA. Lo scenario più probabile, ha spiegato LaRouche, è un ordine di Bush di attaccare l'Iran dalla base aerea di Offutt nel Nebraska.

L'allarme è stato lanciato da diversi ambienti contrari alla politica imperiale:
- Il colonnello in congedo dell'Air Force Sam Gardiner ha scritto un articolo per «The Century Foundation» in cui spiega che elementi dell'amministrazione Bush non tengono conto delle preoccupazioni espresse dagli ufficiali in servizio ma sono sempre più propensi a ordinare gli attacchi aerei, miranti non solo ai siti del programma nucleare iraniano, ma a colpire lo stesso governo per “decapitare” il regime. L'analisi di 25 pagine di Gardiner è intitolata “La fine della 'estate della diplomazia'.”

- Un lungo articolo pubblicato il 21 settembre da The Nation, intitolato “Segnali di guerra”, riferisce: “The Nation è venuto a sapere che l'amministrazione Bush e il Pentagono hanno emesso ordini per la costituzione di 'gruppo d'assalto' di navi ... che si diriga verso il Golfo Persico, sulle coste occidentali dell'Iran”. Al gruppo apparterrebbero la portaerei Eisenhower e una scorta di sottomarini. The Nation cita Gardiner e diversi altri ufficiali militari e dell'intelligence, tra cui il noto ex analista della CIA Ray McGovern, che hanno confermato l'estrema gravità della situazione.

- Sull'American Conservative, l'ex funzionario CIA Phil Giraldi ha riferito i moniti provenienti da diversi militari in servizio e da parte di politici preoccupati per la fretta con la quale la Casa Bianca sta procedendo verso il bombardamento dell'Iran.

- Il colonnello dell'Air Force Karen Kwiatkowski spiega in un articolo su LewRockwell.com che l'invasione dell'Iran “non è soltanto già pianificata, ma è già in corso”. “Prove, piani e documenti mostrano che l'invasione dell'Iran, usando l'Iraq, il Golfo Persico, il Pakistan, la Turchia , il Kurdistan, soldati e marines iracheni e americani … è già in corso, illegalmente”.

- Lo scrittore iraniano Abbas Bakhtiar, professore universitario in Norvegia, ha pubblicato due analisi sul pericolo di un attacco USA in Iran. La prima è un articolo apparso il 28 agosto su “Scoop Independent News”, la seconda è un'analisi di 80 pagine intitolata “U.S. vs Iran: Hybrid War”.

Secondo Bakhtiar, l'Iran risponderà all'aggressione con l'impiego di forze regolari e irregolari (da qui il termine guerra ibrida). Dopo aver ampiamente descritto le forze di cui dispone l'Iran, (350 mila regolari, 100 mila della guardia repubblicana, 100 mila volontari. Inoltre: 350 mila riservisti dell'esercito e 300 mila riservisti dei volontari. 45-60 mila poliziotti. Ma secondo alcune stime i volontari potrebbero salire, con le riserve, fino ad alcuni milioni).
Bakhtiar cita rapporti della sicurezza saudita secondo cui l'Iran disporrebbe di elementi piazzati ad alto livello nei ministeri ed in altre istituzioni irachene. Di conseguenza l'Iran potrebbe scatenare la guerra asimmetrica in Iraq, colpendo in profondità le forze anglo-americane ivi stanziate e le loro linee di rifornimento.

Bakhtiar spiega inoltre che le forze iraniane hanno la capacità di bloccare lo stretto di Hormutz, in maniera tale da costringere gli USA ad occupare la regione meridionale dell'Iran e le trenta isole, con un impiego incredibile di forze navali per liquidare le numerose piccole imbarcazioni della guardia repubblicana. Sullo stretto di Hormuz grava inoltre un'ipoteca cinese: nel caso di blocco americano dello stretto, la Cina si troverebbe tagliata fuori dai rifornimenti vitali. Inoltre, lo stesso Iran potrebbe decidere di prendere di mira con i suoi missili tutti i pozzi della regione, compresi quelli del Qatar, del Bahrein e del Kuwait, dove sono presenti basi USA.
Bakhtiar illustra approfonditamente la strategia della guerra ibrida alla quale l'Iran si starebbe preparando dal 1980, anche studiando le esperienze USA in Afghanistan e Iraq. “Le recenti manovre militari iraniane mostrano come, se attaccato, il paese potrebbe schierare uno dei più imponenti eserciti irregolari che si sia mai visto…”

L'Iran probabilmente risponderà alle incursioni aeree USA con spedizioni della Guardia Rivoluzionaria a combattere le truppe americane sia in Iraq che in Afghanistan. A quel punto agli USA non resterebbe che l'opzione di invadere l'Iran, ma il grosso delle sue truppe sarebbe già inchiodato a combattere contro le truppe irregolari nei due paesi confinanti. Allora resterebbe solo l'opzione nucleare. L'Iran, di contro ha anche l'opzione delle armi chimiche e biologiche, scrive Bakhtiar. Inoltre, se l'Iran attacca Israele, quest'ultimo si rivolgerebbe contro la Siria , che comunque ha un patto di difesa con l'Iran e a quel punto non potrebbe restare fuori dal conflitto.

Lo studio è una utile esposizione, molto dettagliata, su come si sviluppa la guerra irregolare che LaRouche ha denunciato come il pericolo maggiore derivante da un attacco dei neocon contro l'Iran.
Non sorprende come un'accelerazione di questa politica folle sia avvenuta proprio nel momento in cui il presidente iraniano Mohamoud Ahmadinejad ha fatto diverse offerte a favore della pace nel corso della visita negli USA ed alle Nazioni Unite

Le audizioni dei democratici al Senato
Intanto sono iniziate il 25 settembre le audizioni del Senate Democratic Policy Committee sulla condotta della guerra in Iraq. La seduta è stata presieduta dal capogruppo Harry Reid e dai sen. Durbin, Dorgan e Shumer. La controparte repubblicana, vivamente invitata a partecipare, ha preferito disertare la seduta.
La lista di tutto quello che è andato per storto nella guerra in Iraq è stata presentata da Reid e sono stati poi ascoltati tre alti ufficiali in congedo. Tutti e tre hanno auspicato un avvicendamento ai vertici del Pentagono ma al tempo stesso hanno anche deprecato la latitanza del Congresso e degli stessi democratici nel contrastare la guerra.

Il colonnello dei Marines Thomas X. Hammes, autore di un libro molto apprezzato sulla guerra irregolare, ha ricordato ai senatori che la banda composta da Bush, Cheney e Rumsfeld non ha “preso il potere”, piuttosto, “il potere è stato loro ceduto” da parte dei parlamentari democratici quando nel 2002 decisero di non indire il dibattito sull'Iraq prima del voto. Dopo quelle elezioni fu troppo tardi, anche perché il dispiegamento militare era entrato in una fase avanzata.
Il general maggiore dell'esercito Paul Eaton ha dovuto rispondere al sen. Schumer sulla riluttanza degli ufficiali in servizio di parlare senza riserve sulla situazione reale in Iraq. Gli ha ricordato che il Congresso ha l'autorità di convocare a deporre, e di obbligare gli ufficiali a dire tutta la verità, a prescindere da chi è al governo. Se il Congresso lo facesse, gli ufficiali sarebbero finalmente liberi di ignorare le pressioni di Rumsfeld, ha detto Eaton.

Il general maggiore John Batiste, uno degli ufficiali in congedo più critico nei confronti di Rumsfeld, ha spiegato che occorre smetterla di “ipotecare il nostro futuro al tasso di 1,5 miliardi a settimana e di sostenere il nostro grande esercito e i Marines con finanziamenti straordinari”.
da movisol

27 settembre 2006

I colpi di Stato USA: per la democrazia!


Il magnate della stampa britannica, lord Northcliff aveva detto "l'informazione è ciò che qualcuno, da qualche parte, vi vuole nascondere, tutto il resto è soltanto della pubblicità." In questo caso, il finanziamento di Reporters senza frontiere da parte del governo degli Stati Uniti deve essere un'informazione, perché quest'organizzazione ed i suoi amici a Washington hanno tentato di tutto per nasconderlo.

Nonostante 14 mesi senza ricevere risposta da parte del "National Endowment for Democracy" (NED) alla nostra domanda sulla legge della libertà d'accesso all'informazione ("Freedom of information Act") ed un rifiuto netto da parte del direttore esecutivo di RSF, Lucia Morillon, la NED ha finalmente ammesso che Reporters senza frontiere aveva ricevuto regali nel corso degli ultimi tre anni dall'"International Republican Institute". La NED rifiuta sempre di fornire i documenti chiesti o anche di rivelare gli importi versati, ma questi regali sono identificati dai riferimenti seguenti: IRI 2002-022/7270, IRI 2003-027/7470 ED IRI 2004-035/7473. Il giornalista d'indagine Jeremy Bigwood ha chiesto il 25 aprile al direttore esecutivo di Reporters senza frontiere, Lucia Morillon, se la sua organizzazione ricevesse denaro del IRI, ella ha negato. Ma l'esistenza di questo finanziamento è stata confermata da Patrick Thomas, assistente del presidente del NED.

Questa scoperta mette a nudo una grande menzogna dell'organizzazione che, negli anni, ha negato di ricevere denaro da Washington fino a che alcuni importi relativamente deboli - da parte della NED e del "Center for a Free Cuba" - sono stati scoperti (1). Interrogata sulle origini del suo importante bilancio, RSF ha affermato che il denaro proveniva dalla vendita di libri di fotografie. Il ricercatore Salim Lamrani ha sottolineato l'incoerenza di tale risposta. Anche considerando che questi libri erano stati stampati gratuitamente, sarebbe stato necessario vendere 170200 copie nel 2004 e 188400 nel 2005 per ottenere quasi 2 milioni di dollari che l'organizzazione afferma di raccogliere ogni anno - cioè 516 copie vendute al giorno nel 2005. Evidentemente, dovevano esistere diverse fonti di finanziamento. E risulta che è così. La IRI, un'organizzazione americana repubblicana, è specializzata nell'ingerenza nelle elezioni di paesi terzi, come indicato nella relazione annuale del NED e nel sito Internet dell'IRI. La IRI è uno dei quattro principali finanziatori del NED, un'organizzazione fondata dal congresso USA nel 1983 sotto l'amministrazione Reagan per sostituire i programmi di azioni clandestine della CIA verso le società civili, programmi rivelati e smontati dalla Commissione d'indagine Church neli anni 70 (2). I tre altri pilastri del finanziamento del NED sono "National Democratic Institute" (della parte democratica), "Solidarity Center" (del sindacato AFL) e "Center for International Private Enterprise" (della camera di commercio degli Stati Uniti). Ma di tutti questi gruppi, è la IRI che è più vicina all'amministrazione Bush - come spiega anche il recente articolo del New York Times che rivela il ruolo di questa organizzazione nella deposizione del presidente haïtiano Jean-Bertrand Aristide.

È il presidente Bush che ha designato il suo presidente, Lorne W. Craner, per dirigere i programmi dell'amministrazione destinati ad "instaurare la democrazia". L'istituto, che interviene in più di 60 paesi, ha visto il suo finanziamento d'origine governativo praticamente triplicare quest'ultimi tre anni, passando da 26 milioni di dollari nel 2003 a 75 milioni di dollari nel 2005. Nella primavera scorsa (2005), in occasione di una serata di raccolta di fondi per la IRI, Bush ha qualificato la creazione di democrazie come una "industria in crescita". (3) Il finanziamento da parte della IRI costituisce un problema importante rispetto alla credibilità di RSF come organizzazione di "difesa della libertà della stampa" perché quest'ultimo è stato all'origine di propagande contro i movimenti popolari di Venezuela ed Haiti al momento anche dove uno dei suoi finanziatori, la IRI, tentava di sovvertirli. La IRI ha finanziato l'opposizione venezuelana al Presidente Hugo Chavez ed ha attivamente organizzato l'opposizione haïtiana ad Aristide in coordinamento con la CIA .

Il collegamento che manca tra RSF e quest'attività si chiama Otto Reich, che è inizialmente intervenuto su questi colpi di stato come primo segretario di stato aggiunto per l'America latina e, a decorrere da novembre 2002, come inviato speciale in America latina per conto del Consiglio nazionale di sicurezza. Oltre ad essere uno degli amministratori del "Center for a Free Cuba", finanziato dal governo degli Stati Uniti, e che versa 50.000 dollari all'anno a RSF, Reich ha lavorato dall'inizio degli anni 80 con il primo vicepresidente dell'IRI, Georges Fauriol, altro membro del "Center for a Free Cuba". Ma è l'esperienza di Reich in materia di propaganda che è particolarmente interessante. Negli anni 80, è stato oggetto di indagini sulla guerra illegale dell'amministrazione Reagan contro i Sandinisti. L'indagine ufficiale aveva rivelato nel 1987 che l'"Ufficio di diplomazia pubblica" di Reich "aveva condotto azioni clandestine illegali di propaganda.".

All'inizio dell'anno 2002, dopo che George Bush lo ha impegnato nel dipartimento di Stato, "Reich fu rapidamente destinato alla orchestrazione di una campagna mediatica di diffamazione massiccia contro Chavez che non ha cessato da allora" (5). È Reich all'origine del finanziamento di RSF da parte della IRI? È Reich che ha diretto le operazioni di propaganda di RSF contro Aristide, Chavez e Cuba? Un esame dei metodi dell'organizzazione sembra confermare la tesi; la propaganda contro Aristide, un ex sacerdote, fu altamente grezza. RSF qualificò il presidente haïtiano come "predatore della libertà di stampa" dopo averla implicato, senza nessuna prova, negli assassinii dei giornalisti Jean Dominica e Brignol Lindor. L'organizzazione presentò apertamente fotografie dei cadaveri dei giornalisti nel suo sito web, che li trasformò così in icone di una repressione supposta di Aristide contro la stampa.

Nel 2002, RSF scrisse "il 3 dicembre 2001, a Petit-Goâve, un borgo situato a 70 chilometri al sud-ovest di Port-au-Prince, un giornalista è stato colpito a morte da una banda di assassini legata agli enti politici locali legati al movimento Lavalas (la valanga) del presidente Jean-Bertrand Aristide...." Quest'omicidio si verifica mentre la situazione della libertà della stampa non cessa di deteriorarsi in Haiti dall'assassinio di Jean Dominica, direttore di radio Haiti Inter, il 3 aprile 2000 "(6). Notate l'errore di traduzione intenzionale" di Lavalas "(che significa inondazione e non valanga) e come RSF lega la gang di uccisori al movimento Lavalas di Aristide, implicando con ciò che la gang era diretta dal presidente stesso. L'articolo è pieno di questo tipo di insinuazioni e falsità grezze. "In questo contesto, l'assassinio di Brignol Lindor è interpretato come un nuovo avvertimento a tutta la professione (giornalisti)". Qui, RSF ha già condannato Aristide lasciando intendere che quest'ultimo ha ordinato l'omicidio dei giornalisti per inviare un avvertimento ai mass media d'opposizione e fare cessare le loro critiche al suo riguardo. Ma Jean-Dominica fu assassinato nell'aprile 2000, cioè di numerosi mesi prima dell'elezione di Aristide, e non ci sono prove che il presidente abbia un legame con l'omicidio di Lindor. Nello stesso articolo, RSF qualifica il governo di Aristide come "regime autorevole" e conclude che queste azioni "si integrano in una strategia più ampia delle autorità di ricorrere a milizie per intimidire la stampa".

Questa propaganda sarebbe stata già sufficientemente forte se RSF non avesse adottato misure supplementari per strangolare un paese disperatamente povero e dipendente dall'aiuto esterno - tattica che è stata anche usata contro Cuba (1). L'agenzia Associated Press cita il segretario generale Robert Ménard, che parlava dell'incapacità supposta del governo haïtiano di fermare l'assassino di Dominica, "il Presidente Jean-Bertrand Aristide è responsabile di questa ostruzione, e lo classificheremo fra i predatori della libertà della stampa se nessun progresso verrà compiuto nei mesi che vengono" (8). Le sanzioni economiche imposte dagli Stati Uniti hanno causato un'esplosione dell'inflazione ed hanno privato il governo del denaro indispensabile al suo funzionamento ed alla sua difesa. Per illustrare il doppio standard applicato da RSF, il bilancio dei giornalisti assassinati in Colombia è impressionante, ma Ménard non ha mai fatto pressione sugli Stati Uniti o l'Unione europea per tagliare gli aiuti al governo Uribe. Ma Reporters senza frontiere non si accontentò di una semplice sospensione dell'aiuto. Nel mese di gennaio 2002, Ménard lanciava un appello presso il congresso degli Stati Uniti e dell'Ue per imporre "sanzioni individuali" contro Aristide ed il primo ministro Yvon Neptune, fra le quali i "rifiuti di visti d'entrata o di transito" ed "il congelamento di ogni conto bancario aperto all'estero" (9)

Dopo la cacciata di Aristide il 29 febbraio 2004, RSF ha ignorato praticamente tutte le violenze e persecuzioni contro i giornalisti critici verso il governo Latortue, imposto dell'esterno, affermando al contrario che la libertà di stampa era migliorata. Le relazioni 2005 e 2006 da RSF si astengono di condannare l'esecuzione extragiudiziaria di Abdias Jean che, secondo i testimoni, è stato ucciso dalla polizia dopo avere preso tre fotografie di tre giovani che la polizia aveva appena ucciso. RSF ha anche ignorato gli arresti di giornalisti Kevin Pina (Pacifica Radio - radio progressista USA) e Jean Ristil, e si è astenuto da condurre una vera indagine su molti attacchi contro stazioni di radio pro-lavalas.

Interrogato sulla rivelazione di questi finanziamenti, Pina ha dichiarato: "Fu rapidamente ovvio che RSF e Robert Ménard non erano custodi oggettivi della libertà dell'informazione in Haiti ma piuttosto degli attori chiave in ciò che occorre chiamare una campagna di disinformazione contro il governo di Aristide." I tentativi di implicare Aristide nell'omicidio di Jean Dominica ed il loro silenzio quando il supposto assassino, il senatore Lavalas Dany Toussaint, ha raggiunto il campo anti-Aristide e si presentò alle elezioni nel 2006 è soltanto uno dei numerosi esempi che rivelano il vero ruolo e la natura di organizzazioni come RSF. Diffondono informazioni false e relazioni distorte per fabbricare un'opposizione interna ai governi considerati incontrollabili e che non sono graditi a Washington preparando il terreno per la loro eventuale deposizione fornendo una giustificazione col pretesto di pericolo per la libertà di stampa."

Abbiamo chiesto all'esperto di Haiti a RSF, a Parigi, perché l'organizzazione aveva ignorato l'omicidio di Abdias Jean ed ha risposto: "Abbiamo interrogato la polizia sulla morte di Abdias Jean e ci ha risposto che l'attacco era stato sì effettuato dalla polizia ma che questa non sapeva che era giornalista." Prendeva fotografie. Riconobbe che nessuno dei testimoni dell'omicidio era stato interrogato mentre tutta l'informazione che possedeva su questo caso era basata sulla prova della polizia, conosciuta per i suoi assassinii ed abusi correnti. Per quanto riguarda l'arresto di Pina e Ristil, dice, "generalmente quando qualcuno è imprigionato, aspettiamo per sapere quanto tempo... Sono stati liberati e allora noi non siamo intervenuti." Dato che RSF non è mai intervenuta per il caso di Abdias Jean, è molto poco probabile che essa si impegni per Pina, critica allo stesso tempo del governo d'interim e di RSF. Chi paga decide. Prendendo istruzioni dal dipartimento di Stato USA, RSF si è resa colpevole di demonizzare i governi che gli Stati Uniti vogliono sovvertire, come quelli di Cuba, Venezuela ed Haiti, riducendo al minimo le segnalazioni delle violazioni dei diritti dell'uomo commesse dai suoi alleati strategici come il Messico o la Colombia. Poiché l'organizzazione è riuscita a nascondere il finanziamento dell'IRI, cosa che avrebbe potuto dare l'allarme all'opinione sui suoi obiettivi reali, RSF ha svolto un ruolo efficace nelle aggressioni clandestine dell'amministrazione Bush contro i capi di stati recalcitranti dell'America Latina. L'organizzazione è anche riuscita a usare la sua immagine di organizzazione indipendente a difesa dei diritti dell'uomo per fare passare il suo messaggio nei mass media USA e nelle aule universitarie. Tale risultato potrebbe passare per un'impresa da parte di un piccolo gruppo di individui senza esperienza reale del giornalismo se quest'ultimi non avessero alle spalle i padroni più ricchi e più potenti del mondo.
tratto da reporters sans frontieres

26 settembre 2006

Le bombe a grappole del Sionismo


Sono solamente gli osservatori al di fuori della massa ad aver notato che con i suoi sanguinosi attacchi al Libano, e al tempo stesso a Gaza, Israele ha finito col mostrare, anche ai più illusi, il totale fallimento dell'ideale alla base della sua nascita?

È possibile che gl'illusi continuino ad illudersi? È possibile che il fallimento d'Israele salti agli occhi solo di quelli che già lo avevano intuito, di quelli che avevano già bollato come illegittimo il sionismo per i principi razzisti che lo permeano?

È dunque possibile che solo quelli già convertiti riescano a vedere il collasso finale del sionismo, e della stessa Israele in quanto stato esclusivo degli ebrei?

Il razzismo è sempre stato la linfa vitale di Israele. Il sionismo si basa sulla convinzione che gli ebrei hanno maggiori diritti nazionali, umani e naturali sul territorio: una visione fondamentalmente razzista che esclude ogni possibilità di vera democrazia o uguaglianza tra i popoli.

La distruttiva violenza in Libano e a Gaza è stato il logico sviluppo di questa idea di fondo. Proprio perché postula l'esclusività e superiorità dei diritti di un popolo, l'ideologia non può ammettere limiti legali o morali al suo comportamento; e men che mai limiti territoriali, dato che ha bisogno di un territorio sempre più ampio per realizzare questi diritti illimitati.

Il sionismo non può tollerare che venga minacciato, o anche solo rimesso in questione, il controllo assoluto del proprio spazio: non semplicemente quello all'interno dei confini israeliani del 1967, ma anche quello che lo circonda, oltre i limiti geografici che il sionismo non ha ancora ritenuto opportuno fissare. Controllo assoluto significa nessuna minaccia fisica e nessuna minaccia demografica: gli ebrei dominano, gli ebrei sono totalmente protetti, gli ebrei sono sempre quelli più numerosi, gli ebrei hanno tutto il potere militare, gli ebrei controllano tutte le risorse naturali, e tutti i popoli vicini sono senza poteri e completamente asserviti. È questo il messaggio che Israele ha cercato di trasmettere attaccando il Libano: né Hezbollah né nessun altro in Libano che protegga Hezbollah potrà continuare ad esistere, per il solo fatto che Hezbollah sfida la suprema autorità di Israele nella regione e che Israele non può tollerare un simile affronto. Il sionismo non può coesistere con nessuna altra ideologia o etnicità che metta in gioco la sua posizione di preminenza, perché ogni ideologia che non sia quella sionista rappresenta una minaccia potenziale.

In Libano, Israele ha cercato con la sua selvaggia e temeraria violenza di distruggere la nazione, farne una zona di caccia all'uomo in cui solo il sionismo avrebbe dovuto regnare e in cui i non ebrei avrebbero dovuto o morire o scappare o sottomettersi, come avevano già dovuto fare durante l'ultima quasi venticinquennale occupazione israeliana dal 1978 al 2000. Mentre osservava la guerra a Beirut, dopo la prima settimana di bombardamenti, e descriveva la morte in un raid israeliano di quattro tecnici libanesi del genio militare venuti a riparare le linee elettriche e le tubature idriche per "mantenere in vita la città", il corrispondente britannico Robert Fisk ha scritto di avere infine capito sulla propria pelle quello che Israele voleva: "Beirut doveva morire...A nessuno doveva essere permesso di lasciare vivo la città". Il capo di stato maggiore israeliano Dan Halutz (lo stesso che quattro anni orsono, quando era a capo delle forze aeree israeliane, aveva affermato di non provare alcun disagio psicologico dopo che, nel mezzo della notte, uno dei suoi F16 aveva sganciato una bomba da una tonnellata su un edificio di appartamenti a Gaza, uccidendo 14 civili in gran parte bambini) aveva dichiarato, all'inizio dell'aggressione, di voler riportare il Libano indietro di 20 anni, quando il paese non era vivo e un terzo del suo territorio meridionale era occupato da Israele, a perenne ricordo di un decennio di guerra civile inutilmente distruttiva.

Le bombe a grappolo sono una prova evidente dell'intenzione d'Israele di rendere nuovamente il Libano, o quanto meno la sua parte meridionale, una regione priva di popolazione araba e incapace di funzionare, se non secondo il suo capriccio. Le bombe a grappolo - di cui gli Stati Uniti, che le forniscono a Israele, sono leader mondiali nella produzione (e in posti come la Yugoslavia anche nell'uso) - esplodono a mezz'aria, spargendo intorno centinaia di submunizioni (bombe secondarie) su una superficie di vari ettari. Oltre un quarto delle submunizioni non esplodono all'impatto col terreno e restano lì in attesa di essere scoperte da ignari civili che tornano alle proprie case. Gl'ispettori delle Nazioni Unite stimano che nel Libano meridionale ci siano oltre 100.000 submunizioni inesplose, sparse in oltre 400 raid aerei. Dopo il cessate il fuoco del mese scorso, numerosi ragazzi e adulti libanesi sono stati uccisi o feriti da questi residui bellici.
Disseminare mine anti-uomo in aree densamente abitate non è un'operazione chirurgica delle forze armate a caccia di obiettivi militari: è una operazione di pulizia etnica. Secondo Jan Egelund, coordinatore per gl'interventi umanitari dell'ONU, oltre il 90% delle bombe a grappolo israeliane sono state sganciate nelle 72 ore che hanno preceduto il cessate il fuoco, quando era oramai chiaro che la risoluzione dell'ONU per una sospensione delle ostilità sarebbe entrata in vigore. Non può essersi trattato che di un ultimo sforzo, senza dubbio inteso come un colpo di grazia, per spopolare l'area. Se a questo aggiungiamo i bombardamenti del mese precedente - che hanno distrutto il 50% (e in qualche caso l'80%) delle abitazioni di molti villaggi, inferto irreparabili danni all'infrastruttura civile dell'intera nazione, resa inutilizzabile una centrale elettrica sulla costa che ancora oggi sparge tonnellate di petrolio e di benzene sulle coste libanesi e su parte di quelle siriane, ucciso oltre 1.000 civili in edifici di appartamenti, in ambulanze, in auto che fuggivano inalberando la bandiera bianca - la guerra di Israele non può essere giudicata altro che una massiccia operazione di pulizia etnica per rendere la regione un'area sicura per il dominio ebraico.

Secondo le stime ONU, circa 250.000 persone non possono in effetti rientrare nelle loro case, o perché le abitazioni sono state distrutte o perché le bombe a grappolo inesplose e le altre armi non sono ancora state neutralizzate dalle squadre di sminamento. Questa non è stata, se non in misura marginale, una guerra contro Hezbollah, non è stata una guerra al terrorismo, come Israele e i suoi accoliti statunitensi vorrebbero farci credere (in effetti Hezbollah non ha compiuto atti terroristici ma si è impegnata lungo la frontiera in una serie di sporadiche scaramucce con i soldati israeliani, di solito scatenate dagli israeliani). Questa è stata una guerra per consentire a Israele di avere più spazio, di essere assolutamente sicura di dominare i vicini. Questa è stata una guerra contro un popolo non completamente sottomesso, tanto audace da ospitare una forza come Hezbollah e da non piegarsi alla volontà di Israele. Questa è stata una guerra contro altri esseri umani e la loro maniera di pensare, esseri umani che non sono ebrei e che non vivono per favorire il sionismo e l'egemonia ebraica.

In un modo o nell'altro, sin dalla sua creazione Israele ha sempre agito alla stessa maniera contro i suoi vicini, anche se ovviamente i palestinesi sono stati più a lungo le vittime, e i maggiori oppositori, del sionismo. I sionisti pensavano di essersi liberati del loro più grande problema, quello alla base stessa del loro credo, nel 1948, quando avevano costretto alla fuga circa due terzi della popolazione palestinese che intralciava i piani per fare di Israele uno stato unico a maggioranza ebraica; non era infatti possibile creare uno stato ebraico con una maggioranza della popolazione non ebraica. Diciannove anni più tardi, quando ha cominciato ad allargare i suoi confini conquistando la Cisgiordania e Gaza, Israele ha scoperto che quei palestinesi che pensava fossero spariti erano dopo tutto ancora nei dintorni, e minacciavano l'egemonia ebraica dei sionisti.
Nei quasi quarant'anni successivi, la politica di Israele è stata in massima parte – con brevi intervalli per avere il tempo di aggredire il Libano – diretta a far sparire definitivamente i palestinesi. I metodi di pulizia etnica sono molti: sottrazione dei territori, distruzione delle terre coltivabili e delle risorse, strangolamento economico, paralizzanti restrizioni sul commercio, abbattimento delle case, revoca dei permessi di soggiorno, deportazioni, arresti, omicidi, smembramento delle famiglie, limitazioni nei movimenti, distruzione dei registri della popolazione e del catasto, appropriazione delle tasse doganali, privazioni alimentari. Israele vuole tutte le terre dei palestinesi, incluse la Cisgiordania e Gaza, ma non può continuare ad essere un paese a maggioranza ebraica fino a quando continuano a viverci i palestinesi. Ed ecco il perché del lento strangolamento. A Gaza, dove quasi un milione e mezzo di persone vivono accatastate in un'area che non è nemmeno un decimo dell'isola di Rodi, Israele sta facendo senza interruzione quello che ha fatto in Libano per un mese: uccidere civili, distruggere le infrastrutture civili, rendere l'area inabitabile. A Gaza, i palestinesi vengono uccisi al ritmo di otto al giorno, le mutilazioni avvengono con un tasso più alto. Ecco quanto vale la vita dei non ebrei secondo la visione sionista del mondo.

Lo studioso israeliano Ilan Pappe lo definisce un genocidio al rallentatore (ElectronicIntifada, 2 settembre 2006).
Sin dal 1948, il minimo atto di resistenza dei palestinesi all'oppressione israeliana è stato preso come scusa da Israele per mettere in opera una politica di pulizia etnica, un fenomeno considerato nel paese talmente inevitabile e accettato che Pappe aggiunge "il lavoro giornaliero di uccidere deliberatamente i palestinesi, soprattutto i bambini, viene ora registrato nelle pagine interne della stampa locale, spesso in caratteri microscopici". Secondo il suo modo di vedere, gli ininterrotti omicidi a questo ritmo o porteranno a una migrazione di massa o a uno sterminio più massiccio, se, come è molto più probabile, i palestinesi si manterranno incrollabili e continueranno a resistere. Pappe ricorda che il mondo ha assolto Israele da ogni responsabilità e perseguibilità per la sua operazione di pulizia etnica del 1948, e ha permesso al paese di trasformare questa politica "in uno strumento legittimo del suo piano di sicurezza nazionale", che, se il mondo resta ancora una volta muto dinanzi a questa nuova fase di pulizia etnica, aumenterà inevitabilmente "in misura ancora più drammatica".

Ed è questo il punto cruciale dell'odierna situazione: qualcuno si accorgerà dell'orrore? Come abbiamo detto all'inizio, con la sua selvaggia campagna estiva di pulizia etnica nel Libano e a Gaza, Israele ha veramente mostrato il totale fallimento dell'ideale alla base della sua fondazione, l'illegittimità di base del principio sionista di esclusività ebraica? Se ne rendono conto anche i più illusi, o continueranno ad illudersi e il mondo seguiterà a guardare da un'altra parte, giustificando le atrocità perché vengono commesse da Israele per rendere i territori circostanti un luogo sicuro per gli ebrei?

Da quando ha lanciato la sua folle incursione nel Libano, numerosi attenti osservatori nei media alternativi europei e arabi hanno sottolineato la nudità morale d'Israele, e del suo fiancheggiatore americano, con un insolito livello di schiettezza. Si analizza anche molto la nuova consapevolezza della crescente opposizione araba e islamica alla incredibile brutalità delle azioni israelo-americane. Ai primi di agosto, lo studioso anglo-palestinese Karma Nabulsi ha lamentato "l'indiscriminata rabbia di un nemico guidato da una mania esistenziale che non può essere contenuta ma solo bloccata". La studiosa americana Virginia Tilley (Counterpunch, 5 agosto 2006) osserva che ogni possibilità di vita normale e pacifica è un anatema per Israele, obbligata a "guardare e trattare i suoi vicini come una minaccia alla propria esistenza, in modo da giustificare ... il suo carattere etnico e razziale". Già prima della guerra in Libano, ma dopo che Gaza aveva cominciato a essere affamata, l'economista politico Edward Herman (Z Magazine, marzo 2006) aveva condannato "la prolungata pulizia etnica e il razzismo istituzionalizzato" d'Israele, e l'ipocrisia con cui l'occidente e i media occidentali avevano accettato e sottoscritto queste politiche "in violazione di tutti i presunti illuminati valori".

Il razzismo è alla base dell'asse neoconservatore israelo-statunitense che ha oggi scatenato la sua furia omicida nel Medio Oriente. Il razzismo insito nel sionismo ha trovato un alleato naturale nella filosofia razzista imperiale fatta propria dai neoconservatori dell'amministrazione Bush. La logica ultima della guerra globale israelo-americana, scrive l'attivista israeliano Michel Warschawski, dell'Alternative Information Center di Gerusalemme (30 luglio 2006), è la "completa etnicizzazione" di tutti i conflitti, "nei quali non viene combattuta una politica, un governo o un obiettivo specifico, ma una minaccia che coincide con un'intera comunità" (o, nel caso d'Israele, con tutte le comunità non ebraiche).

Il concetto fondamentalmente razzista di scontro delle civiltà, esaltato sia dall'amministrazione Bush che da Israele, fornisce una giustificazione per le aggressioni ai palestinesi e al Libano. Come ha osservato (al-Ahram, 10-16 agosto 2006) Azmi Bishara, importante membro palestinese della Knesset israeliana, se l'argomento israelo-americano secondo cui il mondo è contraddistinto da due diverse e inconciliabili culture, noi contro loro, è corretto, allora l'idea che "noi" agiamo con un doppio standard perde ogni implicazione morale negativa, perché diventa l'ordine naturale delle cose. Per gl'israeliani, questo è sempre stato l'ordine naturale delle cose: nel mondo d'Israele e dei suoi alleati americani, l'idea che gli ebrei e la cultura ebraica siano superiori e incompatibili con i popoli vicini è alla base stessa dello stato.

Dopo la presa di coscienza che ha fatto seguito al fallimento israeliano in Libano, arabi e islamici hanno la sensazione, per la prima volta dall'arrivo degli ebrei nel cuore del Medio Oriente arabo circa 60 anni orsono, che Israele sia andata troppo lontano con la sua arroganza e che il suo potere e le sue azioni possono essere contrastate. La "etnicizzazione" del conflitto globale di cui parla Michel Warschawski – l'arrogante vecchio approccio coloniale, ora rinverdito con uno strato di alta tecnologia fornita dagli F16 e dalle armi nucleari, che ribadisce la superiorità dell'occidente e di Israele e postula uno scontro apocalittico tra l'occidente "civilizzato" e un oriente arretrato e furioso – è stata vista, dopo il folle assalto israeliano al Libano, per quello che è. Cioè, una brutale dichiarazione razzista di potere da parte di un regime sionista che persegue l'egemonia assoluta e incontrastata a livello regionale e di un regime neoconservatore americano che persegue l'egemonia assoluta e incontrastata a livello mondiale. Come ha fatto notare, una settimana dopo l'inizio della guerra libanese, il commentatore palestinese Rami Khouri in un'intervista con Charlie Rose, sia Hezbollah in Libano che Hamas in Palestina sono il frutto delle prime guerre di egemonia israeliane e rappresentano la risposta politica di popolazioni che "sono state ripetutamente degradate, occupate, bombardate, uccise e umiliate dagli israeliani, spesso con il consenso tacito o esplicito o, come abbiamo capito adesso, l'aiuto degli Stati Uniti".

Queste popolazioni oppresse hanno adesso ricominciato a lottare. Non importa quanti leader arabi – in Egitto, Giordania e Arabia Saudita – possano chinare la testa di fronte agli Stati Uniti e a Israele: il popolo arabo vede adesso l'intrinseca debolezza della cultura e della politica razzista israeliana e ha una crescente fiducia nella possibilità di arrivare alla fine a sconfiggerla. I palestinesi, in particolare, aspettano questo momento da 60 anni, senza mai sparire nonostante la migliore buona volontà israeliana e senza mai smettere di ricordare a Israele e al resto del mondo la loro esistenza. Non è certo adesso che soccomberanno, e il resto del mondo arabo sta prendendo coraggio dopo aver visto la loro capacità di resistere, e quella di Hezbollah.

Qualcosa deve cambiare nel modo di fare di Israele, e nel modo in cui gli USA sostengono i suo modo di agire. Sempre più commentatori, dentro e al di fuori del mondo arabo, hanno cominciato a rendersene conto, e un numero sorprendente si sente abbastanza audace da prevedere una sorta di fine del sionismo, nella forma razzista ed esclusivista in cui esiste e funziona al giorno d'oggi. Non si tratta di buttare i sionisti a mare. Israele non verrà battuta sul piano militare, ma può essere battuta sul piano psicologico: il che vuol dire limitare la sua egemonia, fermare la sua avanzata predatoria nei territori dei vicini, mettere fine al dominio razziale e religioso sugli altri paesi.

Rami Khouri sostiene che il più ampio sostegno del mondo arabo a Hezbollah e Hamas è una "catastrofe" per Israele e gli Stati Uniti, perché sottolinea l'opposizione ai loro progetti imperialistici. Khouri non si spinge più lontano nelle sue previsioni, ma altri lo fanno, delineando, anche se solo nelle linee generali, la visione di un futuro in cui Israele non godrà più del dominio assoluto. Il pensatore e musicista jazz Gilad Atzmon, un ex israeliano che vive in Gran Bretagna, vede nella vittoria di Hezbollah in Libano un segnale della disfatta di quello che chiama il sionismo globale, termine con cui indica l'asse neoconservatore israelo-americano. Sono i libanesi, i palestinesi, gli iracheni, gli afgani e gli iraniani – sostiene – ad essere "in prima linea nella battaglia per l'umanità e l'umanesimo", mentre Israele e gli USA seminano morte e distruzione; un numero sempre crescente di europei e americani se ne rende conto e sta scendendo dal carrozzone dei sionisti e dei neoconservatori. Atzmon definisce in ultima analisi Israele "un episodio della storia" e una "entità morta".

Molti altri hanno un punto di vista simile. Sempre più spesso i commentatori discutono la possibilità che Israele, ora che si è sgonfiato il suo mito d'invincibilità, attraversi una fase di trasformazione simile a quella sudafricana, in cui i leader politici riconoscano in qualche modo l'errore della scelta razzista e in un impulso di umanità abbandonino le iniquità sioniste, ammettendo che ebrei e palestinesi devono vivere su un piano di parità in uno stato unitario. Il parlamentare britannico George Galloway (Guardian, 31 agosto 2006) prevede la possibilità che in Israele e tra i suoi sostenitori internazionali si sviluppi "un momento F.W. de Klerk ", nel quale, come accadde in Sudafrica, una "massa critica di oppositori" andrebbe oltre le posizioni della precedente minoranza e i leader giustificherebbero il trasferimento dei poteri partendo dalla constatazione che farlo più tardi, in una posizione più sfavorevole, risulterebbe meno vantaggioso. In mancanza di una simile transizione pacifica, e di una contemporanea azione per risolvere il conflitto israelo-palestinese, Galloway, come molti altri, non vede altro che "guerra, guerra e ancora guerra, fino al giorno in cui Tel Aviv sarà a fuoco e l'intransigenza dei capi israeliani farà crollare sulle loro teste l'intera impalcatura dello stato ebraico".
E sempre di più questa sembra essere l'alternativa futura: o Israele e i suoi sostenitori neoconservatori americani riescono a eliminare i peggiori aspetti del sionismo, accettando di creare uno stato unitario in una Palestina abitata da palestinesi ed ebrei, o il mondo si troverà di fronte a un conflitto di un livello oggi non immaginabile.
Proprio come Hezbollah è parte integrante del Libano, impossibile da distruggere con il bombardamento di ponti e centrali, così, prima del 1948, i palestinesi erano la Palestina, e continuano ad esserlo. Colpendoli dove vivevano, in senso proprio e figurato, Israele ha lasciato ai palestinesi un solo obiettivo e una sola visione. Una visione di giustizia e compensazione, dove compensazione significa, in ultima analisi, sconfitta del sionismo e recupero della Palestina, oppure riconciliazione con Israele a condizione che quest'ultima agisca come un vicino normale e non da conquistatore, o infine unione con gli ebrei israeliani in un unico stato in cui nessuna parte goda di più diritti dell'altra parte. In Libano, Israele ha ancora una volta dato l'impressione di voler imporre a un altro popolo la propria volontà, il suo dominio, la sua cultura e la sua etnicità. Non ha funzionato in Palestina, non ha funzionato in Libano, non funzionerà da nessuna parte nel mondo arabo. Siamo a un crocevia morale. Nel “nuovo Medio Oriente” progettato da Israele, Bush e i neoconservatori, solo Israele e gli USA possono dominare, solo loro avranno la forza, solo loro potranno vivere al sicuro. Ma nel mondo giusto all'altro lato del crocevia, questa visione è inaccettabile. La giustizia deve prevalere.
di Kathleen Christison è stata analista politico della CIA e ha lavorato sui temi medio-orientali per 30 anni. Ha scritto Perceptions of Palestine e The Wound of Dispossession .

24 settembre 2006

L'Aiea denuncia gli Usa: "Iran, dossier disonesto"


L'AIEA smentisce il Congresso americano. Un rapporto recente sulla pericolosità nucleare dell'Iran contiene «affermazioni erronee., fuorvianti e non sostanziate», accusa l'Agenzia internazionale sull'energia atomica. E non sbaglia mai per difetto. Se di errori si tratta vanno sempre nel senso di magnificare l'entità della minaccia che Teheran costituirebbe per il resto del mondo. Anche a costo di pesantissime forzature che lo rendono, in certe parti, «oltraggioso e disonesto». Come quando sostiene che la Repubblica islamica starebbe producendo uranio "weapons-grade", buono per fini militari, nella centrale di Natanz. «Non è corretto» si legge nella denuncia spedita da Vienna, perché quello è arricchito al 90% mentre gli iraniani sono arrivati solo al 3,5%. Una differenza abissale [quella che c'è tra un reattore ad uso pacifico ed un bomba, ndr].

Nel giorno in cui il presidente Mahmud Ahmadinejad offre generiche aperture («siamo disponibili, pronti per nuove condizioni») ma senza neppure prendere in considerazione l'ipotesi della sospensione del programma, lo scontro tra Aiea e amministrazione Bush raggiunge livelli inediti. Nel rapporto di 29 pagine compilato dal comitato parlamentare per l'intelligence Usa glierrori gravi sarebbero cinque.Ma fonti del Washington Posi sostengono che le dichiarazioni indimostrabili sono una dozzina. Tutta farina del sacco del repubblicano Fredrick Fleitz, ex agente CIA e assistente particolare dell'ambasciatore all'Onu John Bolton, uno dei più entusiasti teorici del "cambio di regime" a Teheran. A un certo punto si legge che El Baradei, il capo dell'Agenzia, avrebbe licenziato un ispettore troppo zelante nel segnalare i rischi del programma nucleare. Un'invenzione di sana pianta. Che fa il paio con una campagna piuttosto scoperta, durante il primo mandato Bush, per far fuori il riottoso direttore generale che tanti dubbi aveva espresso sulle armi di distruzione di massa irachene. Il rapporto contestato sembra essere stato chiuso in tutta fretta. «Contiene una quantità di semplificazioni che presentano la minaccia iraniana come assai più grave di quel che è» ammette con il Post Jane Harman, vice presidente del comitato. Lo stesso Fleitz è ora al lavoro sulla Corea del Nord. E chi ha visto la bozza avverte: le illazioni abbondano.

di RICCARDO STAGLIANO'

22 settembre 2006

I jihadisti, made in CIA


Jürgen Elsässer: ’La CIA ha reclutato e addestrato i Jihadisti’
Nel suo ultimo libro "Come la Jihad è arrivata in Europa", il giornalista tedesco Jürgen Elsässer rivela la trama jihadista. I combattenti musulmani, reclutati dalla CIA per lottare contro i sovietici in Afghanistan, sono stati successivamente usati in Yugoslavia e in Cecenia, sempre col sostegno della CIA ma sfuggendo forse in parte al suo controllo. Basandosi su fonti diverse (principalmente yugoslave, olandesi e tedesche), il giornalista ha ricostruito la crescita di Osama Bin Laden e dei suoi luogotenenti a fianco della NATO in Bosnia-Erzegovina.

Silvia Cattori: La sua indagine sull’operato dei servizi segreti fornisce un’analisi agghiacciante. Scopriamo che sin dagli anni ’80 gli Stati Uniti hanno investito miliardi di dollari per finanziare attività criminose e che attraverso la CIA sono direttamente implicati in attacchi di solito attribuiti ai musulmani. Cosa offre di nuovo il suo libro?
Jurgen Elsässer: È il solo lavoro che stabilisca un rapporto tra le guerre degli anni ’90 nei Balcani e l’attacco dell’11 settembre 2001. Tutti i grandi attentati - New York, Londra, Madrid – non sarebbero mai avvenuti se i servizi segreti americano e inglese non avessero reclutato quei jihadisti ai quali sono stati poi attribuiti. Faccio nuova luce sulle manipolazioni dei servizi segreti. Altri libri avevano già sottolineato la presenza nei Balcani di Osama Bin Laden, ma gli autori avevano presentato i combattenti musulmani come nemici dell’occidente. Le informazioni che ho raccolto da molteplici fonti dimostrano che questi jihadisti sono marionette nelle mani dell’Occidente, e non, come si pretende, nemici.
Silvia Cattori: Nel caso delle guerre nei Balcani, il suo libro indica chiaramente le manipolazioni di vari paesi: gli Stati Uniti hanno sostenuto Bin Laden, che aveva il compito di formare i Mujahidin. Com’è possibile che alcuni continuino ad ignorare che gli attentati che hanno sconvolto l’opinione pubblica non avrebbero mai avuto luogo se i «terroristi» non fossero stati pilotati e finanziati dai servizi segreti occidentali?
Jürgen Elsässer: Sì, certo, questa è la conclusione cui si arriva guardando ai fatti. Ma non possiamo dire che l’intervento occidentale nell’ex Yugoslavia mirasse a preparare l’attacco dell’11 settembre. Per essere precisi: gli attacchi sono una conseguenza della politica occidentale negli anni ’90, quando la NATO mise in piazza nei Balcani i jihadisti e collaborò con loro. I militanti musulmani che sono stati indicati come responsabili degli attacchi dell’11 settembre facevano parte di questa rete.
Silvia Cattori: Secondo lei, che interesse avevano Stati Uniti e Germania ad aizzare gli abitanti dei Balcani gli uni contro gli altri?
Jürgen Elsässer: L’Occidente aveva un interesse comune a distruggere e smembrare la Yugoslavia, che, dopo la fine del blocco sovietico, avrebbe potuto essere una intelligente combinazione di elementi capitalisti e socialisti. L’Occidente voleva invece imporre a tutti i paesi il suo modello neoliberale.
Silvia Cattori: L’Europa si è imprudentemente impegnata in una guerra manipolata dai neoconservatori?
Jürgen Elsässer: È difficile dirlo. Penso che negli anni ’90 la politica degli Stati Uniti fosse ispirata dalla loro vittoria sui sovietici in Afghanistan. Volevano replicare lo stesso modello anche nei Balcani. Se in quegli anni l’economia americana non fosse precipitata in una fase depressiva, forse i politici più realistici, ad esempio Kissinger, avrebbero potuto prendere il controllo della politica statunitense. La mia opinione è che il coincidere della depressione economica con l’aggressività dei neoconservatori abbia determinato il corso degli avvenimenti.
Silvia Cattori: Ritiene che, una volta imbarcatosi in un progetto neoconservatore, un leader come Blair, ad esempio, sia diventato in una certa misura un ostaggio?
Jürgen Elsässer: Non conosco abbastanza bene la posizione di Blair. È più facile vedere quello che è accaduto negli Stati Uniti: è evidente che Bush è un ostaggio nelle mani di quelli che lo attorniano. E poiché non è molto intelligente e non è in grado di prendere decisioni in modo autonomo, deve seguire le idee di chi lo circonda. Salta agli occhi che nel 2003 suo padre era contrario a un attacco all’Iraq.
Silvia Cattori: La prima guerra del Golfo faceva parte di un piano per innescare successivamente altre guerre?
Jürgen Elsässer: No, non esiste alcun legame con la guerra in Iraq del 1991. Ci sono state due fasi. Fino al termine del periodo Clinton, la politica degli Stati Uniti è stata imperialistica ma al tempo stesso pragmatica: hanno cacciato i sovietici dall’Afganistan e hanno vinto gl’iracheni nel 1991. La loro guerra è finita dopo la liberazione del Kuwait. Poi hanno attaccato la Bosnia e la Yugoslavia; ma questo è accaduto in fasi successive. La situazione è sfuggita a ogni controllo dopo l’11 settembre.
Silvia Cattori: I neoconservatori c’entrano per qualcosa?
Jürgen Elsässer: Un anno prima dell’11 settembre, i neoconservatori riuniti attorno a Pearl avevano pubblicato un documento nel quale affermavano che l’America aveva bisogno di un evento catalizzatore simile all’attacco di Pearl Harbor. L’11 settembre ha rappresentato l’evento catalizzatore, e io penso che il gruppo attorno a Pearl desiderasse qualcosa di simile.
Silvia Cattori: Quale obiettivo si proponevano gli Stati Uniti attaccando la Serbia? Volevano solamente, come afferma nel suo libro, installarsi in una regione strategica posta sulla linea di passaggio del petrolio e del gas provenienti dall’Asia centrale? Oppure la loro alleanza con i combattenti musulmani guidati da Izetbegovic aveva un secondo fine, creare un estremismo islamico alle porte dell’Europa per usarlo nelle manipolazioni terroristiche? E se è così, a quale scopo?
Jürgen Elsässer: Gli Stati Uniti, così come l’Austria alla fine del XIX secolo in Bosnia, volevano creare un Islam “europeo”, per indebolire gli stati islamici del Medio Oriente: allora l’impero ottomano, oggi l’Iran e gli Stati arabi. I piani dei neoconservatori erano differenti: volevano costruire una rete clandestina di fantocci “fondamentalisti” che si occupasse del lavoro sporco ai danni della “vecchia” Europa.
Silvia Cattori: Il risultato è stato una terribile guerra civile. Com’è possibile che l’Europa abbia contribuito a distruggere la Yugoslavia, che sembrava un esempio di una coabitazione perfettamente riuscita tra gruppi etnici diversi? Considerando colpevoli i Serbi, non ha forse distrutto un paese che era uno dei maggiori risultati della postguerra? Come ha legittimato il suo intervento?
Jürgen Elsässer: Agl’inizi degli anni ’90, è stata la Germania a cominciare l’attacco, in base al principio di autodeterminazione dei gruppi etnici: in altre parole, lo stesso vecchio trucco usato da Hitler nel 1938/39 contro la Cecoslovacchia e la Polonia. Poi la guerra è stata continuata dagli Stati Uniti in nome dei “diritti umani”, un evidente imbroglio.
Silvia Cattori: Nella sua indagine non nomina mai Israele. Non ha per caso minimizzato l’importanza dei neoconservatori proisraeliani in seno al Pentagono, che si preoccupano più degl’interessi dello stato ebraico che di quelli del proprio paese?
Jürgen Elsässer: Ci sono israeliani che hanno collaborato con i neoconservatori: è un fatto innegabile. Ma non sono sicuro del ruolo svolto da Israele in questa storia. Sharon non approvava il sostegno della NATO agli albanesi del Kosovo. E nel 1998 aveva manifestato la sua preoccupazione per il sostegno della NATO allo sviluppo di nuclei proislamici nei Balcani. E penso che fosse contrario anche alle guerre degli anni seguenti.
Silvia Cattori: Non vede alcun legame tra i servizi segreti israeliani e gli attacchi dell’11 settembre 2001 ?
Jürgen Elsässer: Ci sono dei legami, ma non ne ho analizzato le caratteristiche. Ad esempio, subito dopo l’11 settembre negli Stati Uniti furono arrestati numerosi agenti segreti israeliani che si erano trovati là dove erano stati preparati gli attacchi. Alcuni analisti citano questo fatto come prova dell’implicazione diretta di Israele nei tragici avvenimenti. Ma l’interpretazione potrebbe essere differente. È possibile che gli agenti stessero osservando gli avvenimenti, che fossero al corrente dell’aiuto fornito dai servizi segreti americani ai “terroristi” nel preparare gli attacchi, ma che si siano limitati a prender nota della situazione per usare poi le informazioni al momento opportuno e ricattare la controparte: “Se non aumentate il volume di aiuti a Israele siamo pronti a passare le informazioni ai media”. Esiste anche una terza possibilità: che le spie di Israele abbiano cercato di segnalare il pericolo senza riuscirci. Tutto quello che per adesso sappiamo è che erano sul posto e che sono state arrestate. Sono necessarie altre indagini.
Silvia Cattori: I legami lasciano pensare che gli attacchi dell’11 settembre 2001 facessero parte di un piano pronto da molto tempo?
Jürgen Elsässer: Non sono sicuro che il piano fosse pronto da molto tempo. È possibile che gente come Richard Perle improvvisi sul campo e usi gli elementi criminali prima addestrati, senza però riuscire a controllarli permanentemente. Proprio come all’epoca dell’uccisione di Kennedy, salta agli occhi il coinvolgimento della CIA, ma non è chiaro se il piano fosse stato approvato dai massimi livelli a Langley [il quartier generale della CIA] o se fosse stato messo a punto dagli esuli cubani particolarmente violenti che lavoravano per la CIA e che il quartier generale si limitava a tollerare.
Silvia Cattori: Se in futuro i personaggi che si raccolgono attorno a Pearl venissero rimossi, la strategia antimusulmana degli Stati Uniti, e la manipolazione che la giustifica, cesserebbe?
Jürgen Elsässer: Finirà quando perderanno la guerra.
Silvia Cattori: In Iraq non l’hanno già persa?
Jürgen Elsässer: La guerra sarà persa solo quando si ritireranno dal paese, come in Vietnam.
Silvia Cattori: Come è possibile che musulmani come Mohammed Atta, normali cittadini prima di essere arruolati dalla CIA, si siano lasciati trascinare a compiere azioni talmente orribili senza rendersi conto di essere manipolati dai servizi segreti del campo nemico?
Jürgen Elsässer: Ci sono giovani che i servizi segreti possono trasformare in fanatici e manipolare con estrema facilità. I più importanti sanno quel che sta succedendo e da chi sono stati arruolati.
Silvia Cattori: Bin Laden, ad esempio, sapeva di servire gl’interessi degli Stati Uniti?
Jürgen Elsässer: Non ho studiato il suo caso. Ho studiato invece quello di Al Zawahiri, il suo braccio destro, che era il capo delle operazioni nei Balcani. Agl’inizi degli anni ’90 aveva percorso in lungo e in largo gli Stati Uniti in compagnia di un agente dell’US Special Command per raccogliere fondi destinati alla Jihad; l’uomo sapeva perfettamente che la raccolta di fondi era un’attività sostenuta dagli Stati Uniti.

Silvia Cattori: Tutto ciò è molto inquietante. Lei dimostra che gli attacchi susseguitisi dal 1996 (attacchi alla metropolitana parigina) non sarebbero stati possibili senza la guerra nei Balcani, e addebita le stragi, che hanno provocato migliaia di vittime, ai servizi segreti occidentali. L’opinione pubblica occidentale sarebbe dunque stata ingannata da governi che si sono imbarcati in azioni terroristiche?
Jürgen Elsässer: La rete terroristica creata dai servizi segreti americano e britannico durante la guerra civile in Bosnia, e più tardi in Kosovo, ha rappresentato un serbatoio di militanti, che troviamo poi implicati negli attacchi di New York, Madrid e Londra.
Silvia Cattori: Come sono andate le cose in pratica?
Jürgen Elsässer: Dopo la fine della guerra in Afghanistan, Osama Bin Laden ha reclutato questi jihadisti militanti. Era il suo lavoro: è stato lui che li ha addestrati, con il parziale sostegno della CIA, e li ha mandati in Bosnia. Gli americani hanno tollerato il legame tra il presidente Izetbegovic e Bin Laden. Due anni più tardi, nel 1994, gli americani hanno cominciato a inviare armi, in un’operazione clandestina comune con l’Iran. Dopo il trattato di Dayton, nel novembre 1995, CIA e Pentagono hanno reclutato i migliori jihadisti che avevano combattuto in Bosnia.
Silvia Cattori: Come è possibile che questi musulmani siano finiti nelle mani di servizi che proteggevano interessi ideologici opposti ai loro?
Jürgen Elsässer: Ho analizzato le testimonianze di alcuni jihadisti interrogati dai giudici tedeschi. Hanno dichiarato che dopo il trattato di Dayton, in virtù del quale tutti gli ex combattenti stranieri dovevano lasciare il paese, si erano ritrovati senza soldi e senza un posto dove andare. Quelli che potevano rimanere in Bosnia, perché avevano ricevuto un passaporto bosniaco, erano senza soldi e senza lavoro. Il giorno in cui i reclutatori hanno bussato alle loro porte offrendo uno stipendio di 3.000 dollari al mese per servire l’armata bosniaca, non si sono resi conto di essere in realtà stati reclutati e pagati da emissari della CIA per servire gli Stati Uniti.
Silvia Cattori: E più tardi, quando per esempio furono mandati a preparare gli attacchi di Londra del luglio 2005, non si resero conto di essere nelle mani di agenti dei servizi segreti occidentali che li manipolavano?
Jürgen Elsässer: Non è chiaro se furono realmente i giovani musulmani della periferia londinese a compiere gli attentati, come afferma la polizia. Ci sono altri indizi in base i quali le bombe sarebbero state fissate sotto i treni, ed è possibile in questo caso che i giovani non ne fossero al corrente. In tal caso non è detto che i giovani musulmani incriminati dagli investigatori abbiano realmente compiuto gli atti terroristici.
Silvia Cattori: È possibile capire gli obiettivi perseguiti dagli stati occidentali quando ingaggiavano i loro servizi in tali manipolazioni criminali?
Jürgen Elsässer: Non è facile a dirsi. Pensiamo all’uccisione di Kennedy. Chi ne fu responsabile? È certo che furono gli uomini della CIA ad aiutare il secondo assassino, ed è certo che Oswald fu ucciso su ordine della CIA. Ma quel che non è chiaro è se questa gente reclutata dalla CIA agì per ordine di Johnson o Dulles, o se c’erano legami con l’ambiente degli esiliati cubani, in altri termini se erano affiliati alla mafia. Non credo che Bush o Blair siano alla testa di tutto. E non credo alla teoria della grande cospirazione. Credo invece che i servizi segreti reclutino uomini cui viene ordinato di fare i lavori sporchi, e questi agenti facciano poi quello che vogliono. Lei forse sa che l’11 settembre 2001 qualcuno tentò di uccidere Bush. Che senso ha? È difficile spiegarlo.
Silvia Cattori: Intende dire che Bush, ad esempio, è lui stesso ostaggio di gente che all’interno del Pentagono forma uno stato nello stato e che sfugge anche al controllo dell’esercito americano? Sta pensando a persone sotto l’influenza diretta di personaggi come Pearl, Wolfowitz, Feith? Ritiene che, dopo la guerra nei Balcani, ci siano stati loro dietro gli attacchi e che gli attentati non siano atti isolati, che esista un legame tra Madrid e Londra? Vuol dire che gli americani sono pronti ad allearsi col diavolo per creare il caos dovunque, col pretesto di una guerra antimusulmana e antiaraba, venduta sotto la bandiera del terrorismo? Un terrorismo fabbricato?
Jürgen Elsässer: Si, esiste un secondo governo che sfugge al controllo di Bush, formato da neoconservatori come Cheney, Rumsfeld, Wolfowitz, Pearl, individui legati al petrolio e all’industria militare. Il caos totale fa il gioco dell’industria militare: quando il caos impera in tutto il mondo si possono vendere armi e petrolio a un prezzo più alto.
Silvia Cattori: Questo stato nello stato è stato descritto molto bene da Youssef Asckar, e lei gliene riconosce il merito. Ma Israele non è il primo paese a trarre vantaggio da una strategia del caos, e quindi il più interessato a manipolare gli attacchi terroristici? La propaganda della lobby proisraeliana non tende forse a volerci fare credere che Israele sia minacciata dai fanatici arabi?
Jürgen Elsässer: Non è sicuro che una simile strategia serva gl’interessi di Israele, perché continuando su questa strada l’intero Medio Oriente, Israele incluso, sarà in fiamme. Durante la guerra in Bosnia è stato usato lo stesso sistema. Per demonizzare i Serbi, i media occidentali hanno inventato storie di campi di concentramento e mostrato fotomontaggi che mettevano sullo stesso piano Serbi e nazisti. La propaganda voleva convincere l’opinione pubblica sulla necessità della guerra contro la Serbia, ma, per quanto riguarda gli Stati Uniti, è stata alimentata non tanto dalla lobby ebraica quanto piuttosto dagli strateghi cristiani e atei, che hanno giocato la carta “ebrea”. Questa è la mia opinione. La stessa cosa si ripete oggi con la campagna propagandistica contro l’Iran: gli strateghi giocano la carta “ebrea” per convincere la gente con più impulsività che intelligenza.
Silvia Cattori: Le recenti manipolazioni confermano, in parte, la sua tesi: proprio quando gli Stati Uniti hanno chiesto al Consiglio di sicurezza di approvare le sanzioni contro l’Iran, un quotidiano canadese ha scritto che l’Iran voleva obbligare gli ebrei residenti nel paese a portare l’equivalente della stella gialla. Ma io mi riferisco a quelle personalità apertamente proisraeliane che, in Francia ad esempio, svolgono un ruolo importante nel plasmare l’opinione pubblica perché occupano posizioni strategiche nei media, e la cui lealtà di gruppo li spinge a sostenere la politica israeliana e americana, anche se criminale. Pensi al sostegno attivo che Bernard-Henri Lévy e Bernard Kouchner hanno offerto in Bosnia a Izetbegovic. E non appena messa in ginocchio la Serbia, subito la loro propaganda si è riorientata contro gli arabi e i musulmani, questa volta per mobilitare l’opinione pubblica a sostegno della cosiddetta “guerra delle civiltà”. Quando parlavano di “campi di concentramento” per associare Serbi e Hitler, non stavano forse partecipando alle manipolazioni della NATO?
Jürgen Elsässer: Abbiamo potuto osservare lo stesso fenomeno in Germania. I giornalisti ebrei favorevoli alla guerra contro la Yugoslavia avevano libero accesso agli studi televisivi, i giornalisti, ebrei o no, contrari erano invece esclusi dai dibattiti. Ritengo che media e politici usino le voci ebree per obiettivi geostrategici.

Silvia Cattori: Così, secondo lei, gli avvenimenti nei Balcani sono stati solo una replica degli avvenimenti in Afghanistan, e quello che è venuto dopo era solo parte di uno stesso processo. Pensa che le nostre autorità conoscessero i rischi delle guerre fomentate dai loro servizi segreti?
Jürgen Elsässer: La mia speranza è che ci sia una reazione degli ambienti militari statunitensi. Tra di loro c’è gente perfettamente consapevole del fatto che tutte queste guerre non sono intelligenti, che gli Stati Uniti si avviano a perdere la guerra. Gli uomini dell’esercito americano sono imperialisti ma non stupidi, e non approvano quel che sta succedendo. I neoconservatori, invece, sono folli e vogliono scatenare la terza guerra mondiale contro tutti gli arabi e tutti i musulmani, proprio come Hitler, che voleva uccidere tutti gli ebrei e attaccare tutti gli altri paesi: i generali tedeschi avevano messo in guardia Hitler sui rischi cui andava incontro.
Silvia Cattori: Si augura che le cose cambino in modo repentino?
Jürgen Elsässer: Per fermare questa follia, vedo una possibilità di cambiamento solo tra quelle forze che sono rimaste razionali. Il comando supremo dell’esercito americano ha scritto una lettera a Bush per dire che non intendeva partecipare a un attacco contro l’Iran che prevedesse l’uso di armi nucleari. Può darsi che Bush scateni la guerra, ma le conseguenze sarebbero questa volta più gravi che nel caso dell’Iraq. Con i nazisti accadde la stessa cosa: attaccarono una volta, e poi ancora e ancora, e un giorno arrivò Stalingrado e l’inizio della disfatta. Ma l’avventura costò la vita a 60 milioni di esseri umani.
Silvia Cattori: Allora è questa la ragione dei suoi sforzi per scrivere il libro: risvegliare la coscienza della gente per evitare nuovi disastri e sofferenze? E far sapere che dopo l’Iraq potrebbe toccare all’Iran?
Jürgen Elsässer: Sì. Ma individui come Bush non si preoccupano minimamente di tutto ciò. Non sono del tutto pessimista sull’Iran: potremmo assistere a una ripetizione dell’asse Parigi-Berlino-Mosca. Il nostro cancelliere, di solito un pupazzo manovrato dagli Stati Uniti, ha offerto una cooperazione strategica alla Russia, perché la Germania dipende interamente dal petrolio e il gas russo. È un argomento forte: i tedeschi sono imperialisti ma non stupidi.
Silvia Cattori: Ma non è stata proprio la Germania ad aprire le porte alla guerra nei Balcani?
Jürgen Elsässer: Sì, è vero. Ma, oggi, abbiamo visto Joschka Fischer e Madeleine Albright indirizzare una lettera aperta a Bush per metterlo in guardia dall’attaccare l’Iran, e la signora Albright ha aggiunto che non è possibile far la guerra a tutti i paesi che non ci piacciono. È logico.
Silvia Cattori: Se ha potuto raccogliere gli elementi che dimostrano le azioni di servizi segreti non è forse perché oggi la gente che teme l’evoluzione in atto della politica internazionale ha cominciato a parlare?
Jürgen Elsässer: Sì. Devo moltissimo alle informazioni ricevute da quelli che sono nell’occhio del ciclone.
Silvia Cattori: In tutto il mondo?
Jürgen Elsässer: Posso solo dirle che si tratta di cittadini dell’Europa occidentale che non hanno smesso di usare il loro cervello.
Silvia Cattori: Per ottenere le prove delle manipolazioni del famoso “incidente del Golfo del Tonkino”, l’incidente che permise agli Stati Uniti di scatenare la guerra contro i vietnamiti, si è dovuto attendere per molto tempo. Le cose oggi sono cambiate, ed è possibile reagire rapidamente?
Jürgen Elsässer: C’è un’enorme differenza tra la situazione degli anno ’60 e quella attuale. La Repubblica federale tedesca, ad esempio, a quel tempo era favorevole alla guerra contro i comunisti del Vietnam, e la versione ufficiale, secondo la quale la nostra repubblica correva il rischio di essere attaccata dai comunisti, era accettata da buona parte dell’opinione pubblica. Oggi, invece, la maggioranza della popolazione è contro la guerra, e non ammette discussioni.
Silvia Cattori: Lei sottolinea giustamente l’estremismo religioso che caratterizzava la Bosnia-Erzegovina ai tempi di Izetbegovic, e dubita del sostegno israeliano a questo emirato in nuce dei Talebani; ma non sta per caso sopravvalutando il ruolo dell’Iran e dell’Arabia Saudita? Richard Perle era il principale consigliere politico di Izetbegovic. Iraniani e Sauditi non sollevarono la questione dell’Islam sperando di assumere il controllo di un regime musulmano che prendeva ordini solo da Tel Aviv e Washington? E in effetti Izetbegovic non era un agente israeliano?
Jürgen Elsässer: Il Mossad aiutò i serbobosniaci, fornendo loro persino delle armi. Nulla prova che il governo israeliano abbia aiutato Izetbegovic. Questi era sostenuto dagli americani, e Clinton dipendeva dalla lobby sionista degli Stati Uniti, ma durante la guerra in Bosnia la lobby non ebbe il sostegno del governo israeliano.
Silvia Cattori: Per quanto riguarda alcune delle sue fonti, si possono prendere per buone le dichiarazioni di Yossef Bodanski, direttore del Gruppo di lavoro sul terrorismo e la guerra non convenzionale, molto vicino al Senato americano?
Jürgen Elsässer: Io non prendo per buono niente. Dicono che Bodansky abbia contatti con gente del Mossad e che ciò renda alcune sue affermazioni sospette. D’altra parte ci ha fatto conoscere un sacco di fatti interessanti che contraddicono la propaganda ufficiale. Nel mio libro mostro le contraddizioni all’interno dei gruppi statunitensi dominanti, e in questo senso Bodansky è estremamente interessante.
Silvia Cattori: Nel suo libro si afferma: “In Kosovo e in Macedonia esiste il terrorismo, che però in massima parte non è controllato da Bin Laden ma dai servizi segreti americani”. Non crede all’esistenza di Al Qaeda?
Jürgen Elsässer: Come ho scritto nel mio libro, è tutta propaganda fabbricata in occidente.
Silvia Cattori: Se si spinge a fondo la sua logica, in certi momenti si ha l’impressione che l’indagine non sia terminata. Certo, la Yugoslavia ha rappresentato un laboratorio per la creazione delle reti islamiche, e il suo libro mostra che queste reti servono gl’interessi degli Stati Uniti. Lei sembra credere all’esistenza di reti islamiche internazionali che avrebbero una base popolare nel mondo islamico, ma allo stesso tempo la sua ricerca mostra che le reti sono formate solo da mercenari degli Stati uniti che non hanno mai fatto niente per i musulmani.
Jürgen Elsässer: Guardiamo al caso di Hamas: nei primi anni ’80 era fomentato dal Mossad per contrastare l’influenza dell’OLP. Più tardi Hamas ha però sviluppato una sua base popolare, e ora fa parte della resistenza, anche se temo che vi siano ancora agenti stranieri al suo interno.
Silvia Cattori: Lei ha detto che tra gl’ispettori delle Nazioni Unite si sono infiltrate spie americane. Può essere più preciso?
Jürgen Elsässer: In Bosnia, alcuni caschi blu dell’UNPROFOR trasportavamo armi destinate ai Mujahidin.
Silvia Cattori: Quando Peter Handke afferma che i Serbi non sono i soli responsabili, che sono vittime della guerra nei Balcani, viene messo a tacere. Chi ha ragione, in questa storia?
Jürgen Elsässer: Dappertutto – tra i Serbi, i Croati o i Mussulmani – la gente comune ha perso. I musulmani hanno vinto la guerra in Bosnia con l’aiuto di Bin Laden e Clinton, ma ora il loro paese è occupato dalla NATO: oggi hanno perso l’indipendenza, proprio come la Yugoslavia.
Silvia Cattori: Come si posiziona la sua ricerca rispetto a quelle di Andreas Von Bülow e Thierry Meyssan?
Jurgen Elsässer: Abbiamo lo stesso punto di vista sugli avvenimenti dell’11 settembre 2001: pensiamo che la versione ufficiale sia falsa. Tutto quest’insieme di ricerche è estremamente utile per consentirci di continuare ad approfondire la verità sui fatti. Io mi distinguo per aver messo in luce i legami tra le guerre nei Balcani e i fatti dell’11 settembre, mentre Thierry Meyssan ha analizzato l’attacco al Pentagono per dimostrare che era dovuto a un missile e non a un aereo, e Von Bülow è giunto alla conclusione che gli aerei erano radiocomandati.
Silvia Cattori: Per aver messo in dubbio la verità ufficiale, Thierry Meyssan è stato screditato e bandito dai media. Riuscirà a sottrarsi alla stessa sorte?
Jürgen Elsässer: Anche il mio libro è stato bandito. Non è possibile per un autore infrangere da solo questo muro, ma non si può impedire alle nostre tesi di farsi strada. Il pubblico non accetta quello che dicono i media: nonostante l’ostracismo, il 35-40% della gente non prende sul serio quello che gli raccontano i media. L’uccisione di Kennedy è un buon esempio: oggi il 90% della gente non crede alla versione ufficiale e pensa che l’omicidio del presidente sia stata un’operazione della CIA.
Silvia Cattori: Non è pericoloso mettere a nudo le manipolazioni degli stati che usano i loro servizi segreti per fini criminosi?
Jürgen Elsässer: Penso che il pericolo inizi solo quando sono stati venduti almeno 100.000 libri. E in Germania il mio libro ha venduto in 11 mesi solo 6.000 copie.

21 settembre 2006

Quando il potere è in mano ai fuorilegge



Anti Digital Divide propone lo scorporo della rete di Telecom Italia come soluzione necessaria a far cessare gli abusi dell'incumbent.
Le illecite intercettazioni di dati attuate da Telecom Italia ai danni di Fastweb e di migliaia di utenti rappresentano solo la punta dell' iceberg di un avvincente thriller che vede come protagonista Telecom Italia e il gruppo del patron Marco Tronchetti Provera.
A tenerci informati sulla storia ci pensa la Repubblica con l'ottimo Giuseppe D'Avanzo, che snocciola dati e contenuti davvero interessanti.
Si va dalla questione spionaggio contro Piero Marrazzo e Alessandra Mussolini, passando per l’Inter, in anticipo di circa 3 anni sullo scandalo calciopoli e sul "metodo Moggi" venuto alla luce solo nelle ultime settimane, dalla scalata del 1999 alla Telecom compresi i politici e i finanziere che guardarono con interesse a quella operazione, al caso Bpi – Antonveneta e Unipol – Bnl, per arrivare più o meno ai nomi dell'intera classe dirigente - politico, economica, finanziaria - del Paese.
Si parla di un numero elevatissimo di intercettazione che potrebbe arrivare addirittura a 100.000 fascicoli.
“Gli spioni privati, ingaggiati e pagati da Pirelli e dalla sua controllata Telecom Italia, hanno raccolto migliaia di "fascicoli" sul conto di politici, uomini di finanza, banchieri e finanche su arbitri e manager di calcio.”
L’intero archivio è ora a disposizione e al vaglio della procura di Milano grazie alla collaborazione di Emanuele Cipriani, uno dei principali indagati, che ha fornito l’ultima password per entrare in un file presente su un computer e superare un sistema di difesa con dieci livelli di protezione.
Emanuele Cipriani, è a capo di un'importante agenzia d'investigazione, la Polis d'Istinto, da alcuni anni al centro di un network d'intelligence messo su da Giuliano Tavaroli, già responsabile della sicurezza di Telecom Italia.
“Entrambi sono accusati di "associazione per delinquere finalizzata alla rivelazione del segreto istruttorio" (da una costola di quest'inchiesta sono già saltate fuori le manovre storte contro Piero Marrazzo e Alessandra Mussolini).”
“"Decine e decine di migliaia di fascicoli" ("centomila"?) svelano un lavoro accuratissimo portato avanti con la collaborazione di pubblici funzionari infedeli capaci di violare le banche dati del Viminale, della Banca d'Italia, degli uffici della pubblica amministrazione.
Le schede hanno un loro preciso canone. Si interrogano le conservatorie dei registri immobiliari, gli archivi notarili, il pubblico registro automobilistico, il registro navale, l'anagrafe tributaria. Si scava negli istituti di credito, nei fondi di investimento, nelle società finanziarie. Si annotano i soggiorni all'estero, la presenza abituale in luoghi di villeggiatura. Quasi sempre, gli accertamenti sono estesi al coniuge o ai figli, alle persone fisiche o giuridiche, società, consorzi, associazioni del cui patrimonio il poveretto "schedato" risulta poter disporre "in tutto o in parte, direttamente o indirettamente".
I file si arricchiscono dei tabulati telefonici del maggiore gestore italiano di telefonia - sono documenti che permettono di ricostruire l'intera mappa dei contatti del "soggetto di interesse" - in qualche caso, delle intercettazioni della magistratura perché Giuliano Tavaroli ha controllato, fino a qualche tempo fa, il Centro nazionale autorità giudiziaria (Cnag) dove transitano tutte le richieste d'intercettazione dell'autorità giudiziaria.”
Ora i punti da chiarire sono, perché si sono effettuate tali intercettazioni chi le ha “commissionate” che uso ne è stato fatto e/o se ne voleva fare.
“Emanuele Cipriani sostiene che il suo lavoro è stato regolarmente commissionato, attraverso Giuliano Tavaroli, dal presidente Marco Tronchetti Provera. Ma è vero? O è vero che, confidando nel loro incarico ufficiale, Cipriani e Tavaroli si sono messi, con il tempo, in proprio schedando obiettivi ("soggetti di interesse") selezionati di volta in volta da altri misteriosi "clienti" o così fragili da poter essere ricattati e "condizionati"?”
“Emanuele Cipriani rintuzza i dubbi mostrando le fatture regolarmente emesse da Pirelli-Telecom, anche se per prestazioni definite negli archivi delle società in modo molto generico. Più o meno quattordici milioni di euro, anche se Cipriani preferisce farsi pagare in sterline e a Londra. Da dove curiosamente il denaro comincia a muoversi come in un vortice. Montecarlo. Svizzera. Infine, l'approdo in un conto della Deutsche Bank del Lussemburgo, intestato alla Plus venture management, società off shore con base nel paradiso fiscale delle Isole Vergini britanniche.
Che necessità c'è di far fare a quel denaro, compenso di regolare contratto di consulenza/collaborazione, il giro del mondo? Per quel che se ne sa, non è la sola domanda che non trova ancora una risposta. Ce n'è un'altra, forse più importante. Se è Marco Tronchetti Provera a commissionare quei dossier, perché alcuni fascicoli riguardano lo stesso Tronchetti e gli affari di sua moglie Afef? Anche loro, i "padroni" della Telecom, potevano essere sottoposti a pressioni? In questo caso, chi davvero muoveva la mano degli spioni. Soltanto l'avidità personale o altri "clienti" desiderosi di indirizzare le mosse del presidente di Pirelli/Telecom? La storia del grande archivio spionistico e illegale della Seconda Repubblica è ancora tutta da scrivere.”
Volendo attenerci ad un tipica trama di un film thriller, potrebbe essere possibile che quei documenti magari siano proprio una valvola di sicurezza per Tronchetti Provera, che così può impostare un autodifesa molto convincente, del tipo, se ero io il mandante perché ci sono delle intercettazioni a mio carico? Quindi sarebbe da valutare il “valore” delle intercettazioni riguardanti Tronchetti Provera e confrontarle con le altre.
Ma questa è solo una digressione teorica, puramente cinematografica, toccherà ai magistrati fare luce su quanto veramente accaduto.
In un altro articolo la Repubblica mette in luce l’operazione di distorsione della realtà attuata da Telecom Italia, che tende a negare e minimizzare fatti evidenti e di elevata gravità.
Poi pone l’accento sullo scarso risalto che i media e la politica hanno dato alle questioni intercettazioni, nonostante la gravità di quanto successo. Infine sprona i politici a reagire a quanto accaduto, augurandosi che non si faccia finta di niente.
“L'ordinanza della magistratura ci dice che se ne è abusato per fini commerciali. Domanda ragionevole: se ne può abusare e se ne abusa per altri fini? Come è chiaro, sono questioni di interesse vitale per libertà, diritti e democrazia, ma Telecom Italia non sembra darsene per inteso. Quando il 16 maggio diffonde una nota per dar conto delle severe conclusioni del giudice, nega l'evidenza e scrive: "Sulle strategie applicate da Telecom Italia, la società precisa che non sono mai stati utilizzati i dati di ex-clienti...". E' l'esatto contrario di quanto si legge nell'ordinanza del giudice milanese. E', diciamo, una variazione falsaria.
Dunque, si deve concludere che conviene diffidare delle prese di posizione di Telecom (ieri sono state necessarie quasi dieci ore per avere nessuna risposta a qualche domandina di routine). La società controllata dalla Pirelli pare mettere insieme i difetti dell'impresa pubblica e le debolezze dell'impresa privata. Della prima conserva l'arroganza del monopolista che non deve rendere conto di quel che fa. Della seconda, l'autoreferenzialità del proprio interesse."
Telecom non ha digerito molto gli articoli apparsi su Repubblica, e ha annunciato azioni civili e penali, inoltre il patron Marco Tronchetti Provera ha scritto, per la prima volta, una lettera ai dipendenti Telecom Italia, per rassicurarli sull’estraneità dell’azienda sulla questione intercettazioni. Non è la prima volta che Telecom mette in atto questo comportamento per difendere la propria immagine da quelle che, secondo l’incumbent, sono illazioni tutte da confermare.
Forse Telecom dovrebbe pensare più spesso alla propria immagine, non solo quando ci sono di mezzo procedimenti penali, ma anche per temi, come trasparenza, etica , rapporti con gli utenti che vanno sempre più deteriorandosi. Telecom vuole difendere la propria immagine, forse è un po’ in ritardo, perché il pensiero che gli italiani hanno sulla Telecom, lo si può intuire guardando alcune punteta delle trasmissioni che si sono occupate dell'incumbent, come Mi Manda Rai Tre oppure Le Iene o Striscia la Notizia e non si discosta molto da questo.
Quello che è chiaro è che siamo di fronte a questioni gravissime, sia per quanto riguarda l’aspetto della violazioni delle norme sulla concorrenza sia per le questioni delle intercettazioni.
Pare quindi evidente che le politiche fin ora attuate per garantire un mercato delle Telecomunicazioni che rispetti i principi di correttezza, concorrenza e trasparenza siano state errate o comunque non sufficientemente idonee.
La decisione di una mera divisione contabile della società Telecom Italia, al fine di garantire il rispetto della concorrenza, si è rivelata del tutto inadatta ed anche le procedure sanzionatorie non sono servite a far cessare le condotte scorrette dell’incumbent.
Tattiche di concorrenza scorretta che Telecom ha perpetrato con costanza per anni tanto che è stato possibile schematizzarle, ( sarebbe sufficiente leggere il documento e tener conto delle soluzioni ma Agcom non lo fa).
Una delle tattiche scorrette è costituita dall’esclusione dei concorrenti da un nuovo mercato, l’ultimo esempio, è di pochi giorni fa con la violazione della delibera 34/06 e il tentativo di non far accedere alla nuova rete IP di Telecom i suoi competitor.
E’ chiaro quindi che si debbano assumere seri provvedimenti affinché il mercato venga finalmente liberalizzato e venga garantita una reale concorrenza. Condizione necessaria perché questo avvenga è lo scorporo della rete di Telecom Italia, chiesto in passato da Mario Monti ex presidente dell’Antitrust europea, da Giuseppe Tesauro ex presidente dell’antitrust italiana, da illustri economisti, dalla corte dei conti e addirittura nel 2001 da Gasparri, ma "stranamente" mai posto in essere.
Deve quindi essere attuata la divisione di Telecom Italia in due società distinte, sul modello inglese, una che si occupi della rete e della vendita all’ingrosso, con tariffe uguali per tutti gli operatori, l’altra della vendita dei servizi al dettaglio, servizi che acquisterebbe alle stesse condizioni dei competitor, dalla prima società.
Infatti nonostante la quota di mercato di British Telecom nei collegamenti a larga banda fosse pari al 25%, contro il 73% in Italia dell’operatore dominante, Telecom Italia, (Dati: COCOM 2005 , Communications Committee, e ERG 2005, European Regulators Group), British Telecom è stata obbligata dall’autorità delle comunicazioni inglesi (OFCOM) a garantire ai concorrenti la "market equivalence": parità di trattamento tecnico e commerciale nella fornitura all’ingrosso rispetto a BT Retail attiva sul mercato della clientela finale. BT Retail è il maggior cliente di BT Wholesale, la struttura che fornisce all'ingrosso anche i concorrenti.
L'autorità ha stabilito che questa azienda avrà il solo compito di rivendere all’ingrosso l’accesso alla rete di BT e sarà governata da un consiglio di amministrazione composto da una maggioranza di amministratori indipendenti. Indipendenti non come gli amministratori di Telecom che da una parta hanno dichiarato che il modello inglese avrebbe ricalcato quello italiano e dell’altra che lo scorporo della rete non esiste in nessuna nazione, questo sempre per la correttezza e trasparenza delle informazioni.
Altro provvedimento fondamentale consiste nel far tornare ultimo miglio e centrali telefoniche di proprietà statale. Si porrebbe così finalmente rimedio all’errore fatto dal governo D’Alema nella privatizzazione della Sip. Si parla solo di doppini e centrali telefoniche, quindi la rete di trasporto rimarrebbe di Telecom, così come tutti gli apparati montati in centrale e le nuove reti costruite dall’incumbent, anche tutti i clienti attuali rimarrebbero di Telecom, passerebbero invece alla stato le centrali, il doppino e l’obbligo del servizio universale.
Telecom ha effettuato pochissimi investimenti per l’ammodernamento delle centrali , che sono rimaste, nella maggior parte dei casi, come erano al tempo della Sip. Così come per i doppini, Telecom si è limitata a collegare quelli già disponibili, e solo raramente ha effettuato scavi/lavori per portare doppini nuovi agli utenti e comunque in questi casi i costi sostenuti dagli utenti erano molto elevati inoltre questi erano ampiamente coperti dagli introiti derivanti dal canone Telefonico, che Telecom richiede proprio per la manutenzione e ammodernamento delle linee.
Oltre al canone Telefonico di 15 euro mensili per 26.000.000 di linee, Telecom chiede in Italia tariffe salatissime per l’adsl, nonostante questo, circa 10 milioni di italiani non possono usufruire della banda larga. Infatti i canoni e le tariffe spropositate non servono per manutenere e ammodernare la rete, ma per la maggior parte finiscono per essere utilizzate per ripagare i debiti derivati dalla finanza creativa del dottor Tronchetti Provera.
Tutti gli operatori, alle stesse condizioni, riscatterebbero all’ingrosso il canone telefonico dallo stato, che dovrà fissarne l’entità calcolandolo con il metodo cost plus cioè basandosi sui costi effettivi sostenuti per fornire il servizio di accesso. In questo modo si premierebbero gli operatori che hanno investito nella costruzione di una rete di accesso proprietaria e si incentiverebbero tutti gli operatori a investire in una propria infrastruttura, questo porterebbe ampi benefici agli utenti, che avrebbero maggiori possibilità di scelta, con tariffe minori e qualità dei servizi più elevata, grazie all’aumento della concorrenza.
Naturalmente Telecom continuerebbe a dover essere notificato come operatore dominante almeno finché la sua quota di mercato non risulti inferiore al 50%.
In seguito alla sentenza con cui la Corte d'Appello Civile di Milano ha condannato il principale operatore di telecomunicazioni in Italia per "trattamento illecito di dati riservati", il garante della privaci ha avviato una procedura d’urgenza per far luce sull’accaduto. Anche l’AGCOM sta indagando sull’accaduto:
"Della vicenda si occuperà quanto prima anche l'Authority per le Comunicazioni che già ieri ha fatto sapere di aver acquisiti i primi elementi del caso e che nelle prossime riunioni valuterà il risultato degli accertamenti in corso. Non solo: Agcom ha tenuto a precisare come Telecom - già nei mesi scorsi - sia stata diffidata a non attivare azioni unilaterali di rientro di utenti di altri operatori senza rispettare le procedure condivise con altri gestori e con la stessa Autorità. Inoltre, Agcom ha ricordato come tutti i principali operatori - proprio per indagare su possibili violazioni a danno degli utenti e per accertare eventuali comportamenti abusivi - siano stati ispezionati nelle scorse settimane da funzionari dell'Autorità, dalla polizia postale e dalla Guardia di Finanza."
Si comincia a parlare anche di un'indagine politica con l’istituzione di una commissione parlamentare.
Intanto il responsabile della sicurezza di Telecom Italia e di quella personale del suo presidente Marco Tronchetti Provera, ha rassegnato le proprie dimissioni.
ADD da tempo si batte perché ci sia lo scorporo della rete, in seguito agli ultimi avvenimenti che coinvolgono Telecom Italia e palesano l’inadeguatezza degli interventi fin ora attuati dalle autorità garanti, ritiene che questa decisione non sia più rimandabile.
Diffide, multe, divisione contabile di Telecom Italia, non sono servite a far rispettare le norme per una corretta concorrenza, per Telecom regna l’anarchia, anche l’ultima delibera la 34/06 che doveva portare ad una maggiore concorrenza nel mercato adsl è stata palesemente violata, Anti Digital Divide ha scritto per questo all’AGCOM da cui però non è arrivata risposta quindi l’associazione di provider AIIP ha presentato ricorso al TAR perché venga fatta rispettare tale delibera.
Nei prossimi giorni scriveremo alle autorità garanti ed al nuovo ministro delle comunicazioni Paolo Gentiloni, proprio per chiedere di attuare questo provvedimento.