30 maggio 2013

Finanza: master of universe, ovvero una banda di ladri






  
   
Il crollo della Borsa di Tokyo(-7,32%) è stato il più alto e drammatico dopo Fukushima di 2 anni fa. Conferma che i due trilioni di yen, creati dalla Banca Centrale del Giappone con la cura Abe, non sono serviti a nulla, se non a procurare un primo disastro. Visto che il nuovo premier giapponese annuncia il raddoppio della propria massa monetaria da qui alla fine del 2014, che Dio gliela mandi buona, a lui e a tutti noi.
Anche perché sta continuando la danza assurda della Federal Reserve, che continua a “stampare” (cioè a creare al computer) 85 miliardi di dollari al mese. Quosque tandem, Ben Bernanke, abutere patientia nostra?
Non lo sa neanche lui. 

Affermano, Bernanke e Abe, di voler stimolare l’economia (leggi la finanza) stampando banconote, in attesa di Godot, che però non arriverà più. Per due motivi: perché stimolare la finanza non fa più crescere l’economia, e perché i limiti alla crescita sono ormai apparsi sulla scena e non andranno più via.
Tutte chiacchiere, naturalmente. Il crollo di Tokio e di tutte le Borse europee (per quanto valga poco come segnale) viene dai dati cinesi:  la crescita cinese rallenta. E questo produce il rallentamento di tutti i mercati. Dunque ecco il quadro: lo stimolo monetario americano e giapponese non funziona; l’austerità europea non funziona. Il mainstream media ci riferisce che  gli Stati Uniti sono in crescita, ma è un bluff clamoroso. E’ come dire che un eroinomane perso è in ottima salute quando ha preso la sua dose.
Invece, qui in Europa anche gli irresponsabili di Bruxelles e di Francoforte – tranne Mario Draghi  – cominciano a capire che sono sull’orlo del baratro. L’Economist gli dedica una copertina impietosa, raffigurandoli, tutti insieme, in quella scomoda posizione.
Tutto dovrebbe essere chiaro: si va verso il collasso della finanza mondiale. I segnali d’impazzimento del sistema non cessano. Come non capire che è il sistema che si sta rompendo?  Nel 2001 hanno inventato il nemico islamico, dopo il nemico rosso, ma questa volta non c’è dubbio che c’è un virus interno al sistema che lo sta conducendo all’agonia. Sembrerebbe logico tentare di cambiare qualche cosa, inventare qualche medicina che non sia la morfina. Per esempio le regole della finanza dovrebbero essere cambiate. Infatti – come ci informava nei giorni scorsi un autorevole e non firmato editoriale del New York Times – la Commodity Futures Trading Commission ha tentato di introdurre almeno la riforma per regolare i derivati. Non l’avesse mai fatto!
Le cinque banche più importanti del mondo occidentale (se volete l’elenco, eccolo: JPMorgan Chase, Goldman Sachs, Bank of America, Citigroup e Morgan Stanley)  hanno alzato la paletta rossa. Non se ne fa nulla. I padroni del mondo dettano legge anche al Governo di Washington. Anzi: sono il Governo di Washington. E decidono anche per l’Europa. La famosa crisi europea, l’altrettanto famosa crisi dell’euro, sono nate dagli Stati Uniti, negli Stati Uniti. Il loro subprime ha innescato tutto ed è esploso nel 2008, sotto il nostro naso, per importare in Europa il loro disastro, che adesso sembra il nostro disastro, solo perché è diventato il nostro disastro.
Ho rivisto il film di Curtis Hanson “Il crollo dei giganti” (Too Bigs to Fail). In quel caso le banche erano nove, ma le cinque di cui sopra c’erano tutte, tra quelle nove, e i proprietari universali di allora erano gli stessi di oggi. E fu il Governo degli Stati Uniti a salvare loro (con l’erogazione di 700 miliardi, approvata dal Congresso) e con quella, segreta e non approvata da nessuno, di 16 trilioni di $, tutti creati dal nulla, per salvare tutte le maggiori banche occidentali che erano, nel frattempo, fallite simultaneamente.
E’ cambiato qualcosa? Niente affatto. Passiamo in Europa. Leggo adesso (ancora  il New York Times) che la Apple ha evaso le tasse negli Stati uniti per la non modica cifra di 44 miliardi di dollari. Scandalo americano? Certo. Ma anche scandalo europeo. Infatti il signor Timothy Cook (il successore del guru Steve Jobs, che ci ha strappato molte più lacrime di quanto meritasse) è andato a Dublino e ha ottenuto dal governo irlandese di pagare appena il 2% dei suoi profitti. Cioè molto al di sotto della già molto bassa tassazione ufficiale locale del 12,5%, la quale è meno della metà di quella francese e tedesca, e meno di un terzo di quella italiana.
Il signor Cook (se lo guardate bene ha una faccia da killer peggiore di quella di Jamie Dimon, CEO della JPMorgan Chase) è riuscito così a evadere 12 miliardi di euro anche in Europa.  Così, leggendo, mi viene in mente il fiscal compact. E penso: ma dov’era la Banca Centrale Europea. E dov’è il signor Mario Draghi? Abbiamo scoperto da poco che avevamo un’off shore in più in Europa. Si chiamava Cipro. Adesso siamo passati a tre: con il Lussemburgo c’è anche l’Irlanda. Ma allora quale disciplina fiscale si può chiedere a Italia, Grecia, Spagna, Portogallo, quando le corporations Usa ricevono questi trattamenti di favore? Chi doveva vigilare? 
Se c’è una dimostrazione della necessità di prendere il controllo della BCE,e sottrarlo a questo maggiordomo, eccola qui squadernata. Che equivale a dire che questa Europa va rivoltata come un guanto. La domanda è sempre la stessa. Quanto tempo perderemo ancora? Per quanto tempo permetteremo a costoro di mettere le mani nelle nostre tasche? Attenti che siamo ormai a un passo dal prelievo forzoso dei nostri risparmi e a due passi dalla privatizzazione selvaggia delle ricchezze nazionali. Verranno, con i denari virtuali, a comprare le ricchezze reali (oro incluso). Poi bruceranno tutta la carta. Noi resteremo poveri in canna, e schiavi. Loro avranno la proprietà dei beni. 
di Giulietto Chiesa

29 maggio 2013

Apologia del brigante




1) Chi è, com'è, per che cosa si batte il tuo brigante?
 
Ringrazio per questo implicito rimando al piccolo libro che scrissi in una sola notte nel 1995, Apologia del brigante. Un tempo che consentiva una sosta dopo la asperrima campagna culturale europea in occasione del bicentenario dell’Insorgenza vandeana (1793-1993) e che già scivolava verso il non meno aspro bicentenario dell’invasione napoleonica dell’Italia e quindi delle immediate e capillari Insorgenze popolari antigiacobine con le conseguenti sanguinose repressioni prolungatesi fino al 1799 (1796-1996). Ligio ad una concezione del mondo fortemente antistoricistica, questo “mio” brigante resta in perenne e pericoloso equilibrio fra la storia e la metafisica, ed ha avuto l’arroganza di individuare tratti esistenziali e spirituali comuni ad esperienze di refrattari ed insorgenti appartenenti
 all’intera parabola della modernità, dal 1789 ad oggi. Un tentativo spericolato che tuttavia ne ha fatto un testo singolarmente fortunato. Provo quindi a rispondere alla domanda descrivendolo meno indegnamente con un po’ di poesia: «Il brigante della nostra storia italiana è un soldato disperso, un seminarista scacciato, un popolano un po’ curvo dal lavoro, che ama, quindi si arrabbia, e quando la campana sona segue il richiamo del cuore, e reagisce. Non ha mezze misure perché non è stato ben educato: non parla franzè, e forse nemmeno italiano. Il bello è che non se ne vergogna affatto, perché non ne comprende punto l’utilità. Capisce meglio il senso del suono della campana e il verso del vento e della civetta… Odia chi chiede sempre qualcosa in cambio di ogni cosa, soprat
tutto denaro. Accetta un signore solamente se l’ha visto diritto a cavallo o curvo sulla stessa sua terra, e se in battaglia se l’è visto davanti. Più di tutto diffida dell’astuzia di mercanti e girovaghi, e odia gli usurai.» Già. Un ritratto molto jungeriano, del tipo d’uomo capace di superare la crisi.
 
2) Fino a che punto è un controrivoluzionario "consapevole"? È cioè qualcosa di più di un ribelle viscerale ad un nuovo ordine che non capisce e non accetta?
 
Non sono certo del fatto che la visceralità sia in realtà un difetto per il brigante di ogni tempo. Nella pratica delle Arti marziali tradizionali si coltiva una “memoria della carne”, frutto di lunga consuetudine col ferro e il movimento, assai più rapida, essenziale e proficua della memoria razionale che di fronte al pericolo di vita si paralizza per la paura. Parimenti per imparare a suonare uno strumento musicale non si usa la memoria razionale, ma una fusione di corpo, occhi e strumento e solo così si suona… Il brigante è figlio di un’epoca di trasmissione pratica e diretta della cultura; la visceralità gli appartiene come un’arma in più. Vi sono quindi forme di consapevolezza fredde e razionali, e viceversa calde ed organiche; la mia scommessa risiede nella speranza che oggi le seconde abbrac
cino le prime, impedendo loro di decadere nell’intellettualismo borghese. 
Post Scriptum: per il brigante rifiutare un “nuovo ordine”, quello illuministico-giacobino, significa già averlo compreso nella sua essenza, e aver fatto l’unica scelta di campo possibile.
 
3) Alla grancassa retorico-oleografica del Risorgimento buono e giusto, non rischia di contrapporsi una grancassa uguale e contraria dell'Anti-Risorgimento?
 
Questo non è un rischio bensì un’esperienza quotidiana; ma deve esser detto con grande chiarezza che la responsabilità storica di questo brutto gioco di semplificazioni, impoverimenti, becerume contrapposti deve essere completamente addebitato alla parte “ufficiale” della cultura italiana degli ultimi 150 anni (in fila indiana savoiarda, liberale, azionista, marxista), che ha contagiato con fanfare e retorica deamicisiana anche molti (ma non tutti, con buona pace di Alessandro Barbero) dei suoi critici; come se la dogmatica ideologica fosse, secondo un tour d’esprit assolutamente moderno, il filtro obbligato per la lettura della realtà: mentre cambiando il colore del filtro, tocchiamo con mano come la deformazione non muti. Prova ne sia che chi cerca di esimersi da questo reciproco g
ioco di insulti – come noi - viene tendenzialmente emarginato. Già Alexander Solgenitsin ci aveva ammonito attorno alle modalità con cui si esercita la ferrea censura culturale nell’occidente, e decenni di egemonia gramsciana in Italia hanno ulteriormente irrigidito queste tagliole. Nell’esperienza di Identità Europea, la benemerita Associazione di cui sono ora il 3° Presidente dopo Franco Cardini e Francesco Mario Agnoli, ci siamo confrontati ripetutamente con questo stile paradossale che premia il becero insulto da TV e fugge dal confronto serio: già nell’anno 2000 dovemmo salvare in extremis la grande Mostra “Risorgimento. Un tempo da riscrivere” presentata al Meeting di Rimini dal tentativo di insabbiarla operato dalla combine marxista-azionista (una Mostra che ha dimostrato tutta la sua v
alidità proprio nell’anno del 150°). Nello stesso anno non possiamo non ricordare la triste sorte del film Li chiamarono briganti di Pasquale Squitieri, che venne censurato da smaccate pressioni politico-ideologiche e ancor oggi gira solamente in samizdat. E proprio quest’anno non siamo singolarmente riusciti ad avere uno spazio –per quelle che appaiono indubitabilmente delle pressioni ideologiche - per presentare a Gorizia, dentro E’Storia, l’ultimo saggio di Francesco Mario Agnoli La vera storia dei prigionieri borbonici dei Savoia, che rimette alcune importanti questioni al loro posto dopo la pubblicazione del pamphlet di Alessandro Barbero I prigionieri dei Savoia. Con tutta evidenza il kombinat marxista-azionista continua ancor oggi ad esercitare l’arte del dibattito storiografico juxta propria principia. Di tutto ciò il brigante non si stupisce affatto…
 
4) Come si spiega la nuova valutazione dei briganti da parte di storici liberal-democratici, laici, antitradizionalisti e "patriottici" come, ad esempio, Arrigo Petacco e Giordano Bruno Guerri?
 
In parte sulla base di semplici questioni di mercato: la questione del Brigantaggio “tira” ed attira pertanto una pletora di pubblicazioni pseudo divulgative di livello in media veramente sconsolante, opera di consolidati professionisti del ramo (e del livello). In parte dall’esigenza di recuperare quella che è senz’altro una smaccata sconfitta del kombinat di cui sopra attraverso una riproposizione oltretutto impoverita della classica interpretazione gramsciana del brigantaggio antiunitario come forma ancora inconscia di lotta di classe nel mezzogiorno arretrato. Ciò che unifica tutte le voci di questa reinterpretazione laico-patriottica sono appunto i due corni di una rivalutazione finale del processo storico di costruzione di uno stato giacobino-central
ista, anche addolcendo la pillola con il miele tossico del “senso della storia” (e come ben sappiamo dalla lezione di Franco Cardini, la storia un senso immanente non ce l’ha), la stupefacente rimozione di tutti i fatti di Insorgenza avvenuti fuori dal Meridione d’Italia dal 1792 in poi e della voluta e completa rimozione delle motivazioni spirituali ed antropologiche (ossia cattoliche) dello scontro europeo fra “antico” e “nuovo” regime. Nel momento in cui la modernità con tutti i suoi idola sta crollando su se stessa, uccisa dai veleni da essa stessa prodotti, dopo un secolo in cui le ideologie della modernità hanno dato il peggio di sé proprio affermandosi, non è tollerabile per costoro dover prender atto che d
alla Vandea in poi i “briganti”, gli insorgenti, l’intransigenza cattolica stavano dalla parte giusta. Avevano ragione loro, cioè noi.


di Adolfo Morganti - Mario Bernardi Guardi 

27 maggio 2013

Il signoraggio nasce con la nascita della moneta





Qualche anno fa ho conosciuto a Roma, in metropolitana, un signore distinto, professore all’Università di Teramo, che mi raccontò una storia: quell’incontro mi è servito a capire meglio ilRisiko giocato dai banKster sulle nostre vite. La moneta, mi disse, è uno strumento “econometrico”, sostitutivo del rudimentale baratto, che serve per misurare il valore nelle transazioni commerciali. Originariamente il valore della moneta era pari al valore dei metalli usati (oro, argento, rame ecc.): i sovrani acquistavano sul mercato i vari metalli, li convertivano in monete e questi nuovi valori ritornavano in circolo sul mercato stesso. Il sovrano tratteneva per sé un piccolo guadagno, corrispondente alle spese di coniazione e di amministrazione: nasceva così il “signoraggio”. La scarsa reperibilità di oro e argento ha comportato una carenza di quantità di denaro in circolo sul mercato, determinandone la stasi, ed ecco perché è nata la moneta convenzionale.

L’usurpazione perpetrata dal sistema bancario ai danni dello Stato, nella gestione e nell’emissione monetaria, ebbe inizio quando i banchieri cominciarono a prestare i certificati, rappresentativi di oro ed argento, da loro stessi emessi: nacque così la note of bank, ovvero, la banconota. I bankster si arrogarono il diritto di stampare banconote in vece dello Stato che poi acquistava il valore nominale delle banconote ricevute pagando con dei titoli cosiddetti di “debito pubblico”. I banchieri cominciarono, poi, ad emettere banconote in quantità ben superiore all’oro posseduto. Pertanto, così facendo, aumentarono il capitale ed ottennero il pagamento degli interessi anche a fronte dei titoli cartacei prestati, ma privi di riserva aurea.

ll 15 agosto 1971, Forte Knox era stato quasi svuotato dalla Francia che presentava all’incasso i titoli per convertirli in oro, come prevedeva il vigente trattato di Bretton Woods: ma i banchieri avevano stampato Dollari per 9 volte il valore dell’oro che possedevano. Il Presidente Nixon dovette spazzare i patti di Bretton Woods e sospese la convertibilità del Dollaro in oro: il dollaro, però, mantenne inalterato il proprio valore. Il valore della banconota non è determinato dalla sua riserva aurea, ma unicamente da una convenzione sociale. Ciò comporta che la Banca d’Emissione guadagna un lucrosissimo signoraggio che consiste nella differenza tra il valore facciale stampato sul foglietto e il costo della carta e dell’inchiostro sostenuto per realizzare i biglietti stessi. E’ evidente come non possa essere consentito alla Banca d’Emissione d’impossessarsi del signoraggio in occasione dell’emissione monetaria: il signoraggio deve essere solo ed esclusivamente di proprietà dello Stato. E’ lo Stato che deve garantire la stabilità di un mercato tenendo sotto controllo il rapporto tra circolazione monetaria e beni da misurare: se il mercato dispone e produce maggiori beni, occorre maggior quantità di moneta, per non incorrere nella “deflazione”; quantità che va ridotta in caso di diminuzione dei beni stessi, per non creare “inflazione”.

Ora, è evidente come l’attuale crisi economica è stata realizzata mediante la folle distribuzione di titoli inventati, piazzati dalle grandi banche ai privati ed alle stesse banche minori, valori poi volatilizzati.Lo Stato deve ritornare alla propria emissione monetaria diretta, non solo per riacquisire la propria sovranità economica e politica, ma ancor più per smettere d’indebitarsi per acquistare al valore facciale la moneta emessa dai bancheri pagandola con i propri titoli di debito, sui quali scatta da subito anche il pagamento degli interessi passivi. Queste crisi vengono organizzate per sottrarre beni e sistemi produttivi ai legittimi proprietari, per farli confluire alle grandi multinazionali controllate dai banchieri stessi. Ah, già ! … quel signore in metro era Giacinto Auriti, al quale prima della sua morte ho potuto donare, grazie a Savino Frigiola, la sentenza n. 3712/04 del GdP di Lecce, prototipo della provocazione giudiziaria del cittadino ai Signori delle banche.
 

di Antonio Tanza 

25 maggio 2013

Banca di Stato: se ne parla. In USA



Come qualcuno ricorderà, c’è un solo Stato americano ad avere la sua banca pubblica: è il Nord Dakota. Ed è il solo Stato americano il cui bilancio pubblico non è passato al passivo dal 2008 (data della crisi bancaria); quello che ha il tasso minore di sequestri di immobili per insolvenza, e la minor percentuale di defaults sulle carte di credito. Lo Stato è così sano, che ha potuto permettersi di ridurre le tasse sul reddito e sulla proprietà nel 2011 (1). Il segreto del successo è l’accesso al credito, che la banca pubblica, Bank of North Dakota (BND), ha mantenuto aperto anche nei momenti peggiori della crisi quando – come in Italia ed Europa – le banche privata prosciugano il loro. La BND non s’è messa in competizione con le banche commerciali, ma vi si associa, intervenendo per completare le esigenze di capitale e liquidità richieste. Essa ha un proprio programma di prestiti chiamato Flex PACEm che aiuta le comunità locali ad assistere i debitori in precisi settori: mantenimento dei posti-lavoro (job retention), creazione di tecnologie, vendite al dettaglio, piccole industrie e servizi pubblici essenziali. Nel 2010 gli interventi del Flex PACE sono cresciuti del 62% per finanziare servizi pubblici essenziali, e ciò ha trascinato l’aumento del credito partecipato delle banche commerciali, cresciuto del 64%. La banca fa profitti, che vengono retrocessi allo Stato; i depositi e le riserve della BND (crescenti ininterrottamente anche nel pieno della crisi) vengono tenuti nello stato ed investiti entro i suoi confini.

La novità è che in Usa, la patria ideologica del liberismo selvaggio, l’idea sta prendendo piede. Una ventina di Stati stanno considerando di varare una legislazione che renda possibile una banca pubblica in funzione anti-ciclica. Non basta: il 2-4 giugno, all’università dei domenicani a San Rafael (California), si terrà una grande «Public Bank Conference» per diffondere l’idea, su un tema che credo non necessiti di traduzione: «Funding the New Economy».

Organizza la conferenza una fondazione culturale che, confesso, mi giunge nuova: il Public Bank Institute. Più volte abbiamo parlato della funzione e del potere delle fondazioni culturali in America: strumenti di elaborazione intellettuale e politica, e di pressione e lobby sul governo, tali fondazioni sono finanziate da grandi gruppi e famiglie oligarchiche (l’importantissimo Council on Foreign Relations dai Rockefeller e dai Ford, ad esempio) e promuovono gli interessi dei loro finanziatori, essenzialmente il liberismo globale e il superamento delle sovranità nazionali.

Il Public Banking Institute è una ardita eccezione. Se si guarda al suo board e ai suoi comitati di consulenti, si scopre una netta mancanza di miliardari e di «autorevoli personalità» alla Kissinger e Brzezinski. La presidentessa è Ellen Brown, famosa in America come autrice del saggio «Web of Debt», un documentatissimo atto d’accusa sulla speculazione bancaria e come la finanza privata «ha usurpato il diritto del popolo alla sua moneta». Gli altri direttori sono uno sperimentato funzionario pubblico della Pennsylvania, una laureata in ingegneria elettronica che lavora per l’industria spaziale, un antropologo che ha fondato piccole imprese in settori «alternativi». Nel comitato degli advisors, trovo un docente emerito della business school di Stoccolma, un medico nato in Estonia, un architetto, diversi esperti del «terzo settore» che di quello vivono. Insomma, dei cittadini normali. (Board and staff Advisory Committee)

Ad aprire la conferenza, oltre alla citata Ellen Brown, la sola «celebrità» che vedo è Matt Taibbi, il giornalista di punta del «Rolling Stones Magazine», che parlerà sul tema: «Reclamiamo la nostra economia da Wall Street col public banking». Poi è stata invitata una signora Birgitta Jonsdottir, in quanto «deputata del parlamento d’Islanda» e Gar Alperowitz, docente di economia politica all’università del Maryland, che risulta autore di un saggio «America oltre il caputalismo»: si può solo immaginare quanto successo abbia avuto fra un’opinione pubblica del tutto votata al liberismo dogmatico. Lo stesso Alperowitz lo ammette: «Per la maggior parte degli americani è difficilissimo riflettere abbastanza a lungo da capire quanto profondamente il loro modo di pensare è stato ingabbiato dai padroni della finanza, in modo molto, molto più insidiosi e potenti di quanto dimostri la crisi finanziaria attuale».

La sola idea di public banking, per un pubblico americano così condizionato, è ovviamente qualcosa che si avvicina al «comunismo», la pretesa di instaurare in Usa il socialismo sovietico. Cambiare questa idea fissa da parte di persone che non sono perennemente viste nel talk shows, e possono essere facilmente bollate come sinistroidi, e per di più che non hanno dietro le casse del Big Business, sembra una battaglia persa in partenza. Eppure, questo gruppo ci prova.

Ed è questo fermo coraggio civile, fra le cose deplorevoli, da ammirare nell’America. L’idea che le idee nuove vanno poste all’agone pubblico, portate con tutta la forza nel dibattito, nonostante tutti gli ostacoli. Se facciamo il confronto con l’Italia, e l’Europa, vediamo come non solo il dibattito pubblico sui temi più urgenti (uscire dall’euro? far tornare le banche centrali sotto lo Stato? ) è bloccato di «divieti di pensare» preventivi, censure sorvegliate dai media e dai privilegiati dello status quo, come e più che in Usa; ma vediamo anche, dall’altra parte, l’incapacità totale di una minima elaborazione intellettuale.

Chi aveva sperato nel 5 Stelle (noi un po’ fra questi), si aspettava di vederli subissare il parlamento di idee nuove, di proposte di legge audaci come il public banking e ancor più ardite, per costringere a discuterle e a diffonderle. Invece vediamo il «nuovo» partito incagliato da settimane nella accanita discussione su cosa? Sui rimborsi-spese di loro stessi parlamentari. Su qualunque idea e proposta «discutibile» (come devono essere: le idee vanno discusse, si deve lottare, si deve convincere...) i 5 Stelle se la cavano: facciamo un referendum. Ius solis? Facciamo un referendum. Uscire dall’euro? Si può fare un referendum. Imu? Un referendum, magari sul web. Così decide «la gente» – democrazia orizzontale, diretta e continua, dicono. Invece è scarico di responsabilità. La verità è che non sanno decidere loro, che la gente ha votato per decidere (2).

Pochezza intellettuale? Anche. Ma forse peggio, è pochezza morale: «paura» di gettare nello spazio pubblico le idee, perché non le si sa difendere ed argomentare; e perché un’idea «divide», fa perdere elettori; ad esprimere idee ci si fa impallinare, deridere, bollare (se qualcuno fosse così audace di proporre la banca di stato) come – a piacere – «fascista», «comunista», statalista e populista, e quasi sicuramente complottista e antisemita – dai media che contano.

È per questo che, se qualcosa cambierà mai nel pensiero unico totalitario globale, il cambiamento verrà (ancora una volta) dall’America, dove c’è ancora gente che formula soluzioni e si batte per le idee. Solo allora si comincerà a parlare della cosa anche da noi, ma solo perché sarà diventata una moda americana: come le nozze gay… Nel frattempo il PD, invece di pensare ed esporre idee sull’intervento pubblico in economia (una volta era la sua «dottrina»), discute nelle sue varie componenti allo scopo di esprime il suo mal di pancia per dover governare con Berlusconi; e ciò, da settimane.

Nel frattempo in Usa escono studi scientifici dal titolo: «L’Opzione pubblica: a favore di banche parallele pubbliche» (The Public Option: The Case for Parallel Public Banking Institutions,») pubblicato nel giugno 2011 da Timothy Canova, docente di Diritto Economico Internazionale alla Chapman University della contea di Orange, California. Il professore spiega come «lo Stato (del Nord Dakota) deposita tutti i suoi introiti fiscali presso la Banca di Stato, la quale dal canto suo assicura che una gran parte dei fondi dello stato siano investiti nell’economia dello Stato stesso. Inoltre, la Banca restituisce alla tesoreria statale parte dei suoi guadagni. Anche per questo il Nord Dakota è il solo Stato che ha un costante surplus di bilancio dall’inizio della crisi finanziaria, e il più basso livello di disoccupazione degli Stati Uniti»: 3,3 % nel 2011.

Al contrario la California, la più ricca economia del Paese «ma priva di una banca di Stato, non riesce a investire centinaia di miliardi di dollari di gettito e altri introiti dello Stato in investimenti produttivi dentro lo Stato. La California deposita miliardi degli introiti tributari in grandi banche private, le quali investono i fondi all’esterno, e in trading speculativi (comprese scommesse coi derivati «contro» i titoli pubblico della California), e non rimettono i loro profitti alla tesoreria pubblica. Intanto la California soffre di restrizioni del credito, alta disoccupazione al disopra della media nazionale, e stagnazione del gettito fiscale». (The Case for Parallel Public Banking Institutions)

Il parassitismo della finanza privata è bel illustrato dal caso californiano: questo Stato ha affidato alle banche d’affari di Wall Street gli «investimenti» per assicurare pensioni ai suoi dipendenti: si calcola, 500 miliardi. Su questo capitale, i maghi della finanza hanno dato alla California 1 miliardo di rendita; un bellissimo rendimento dello 0,20%. In compenso, i maghi di Wall Street, per le loro commissioni, si sono trattenuti 2 miliardi. Succede così che lo Stato non può pagare tutte le pensioni, è sotto di 27 miliardi, e deve rincarare le imposte (ed ha licenziato 20 mila insegnanti in un continuo programma di austerità).

Farid Khavari
  Farid Khavari
Nel 2009, un economista di nome Farid Khavari si è candidato a governatore della Florida con un programma centrato sulla fondazione di una banca pubblica: una banca che «crea prestando 25 dollari per ogni dollaro depositato» (come le banche private: è il capitale richiesto dalla Banca dei Regolamenti Internazionali) ma, al contrario di quelle, «per il bene pubblico invece che per loro profitto». Khavari ha documentato che una tale banca, prestando al 6% sulle carte di credito e al 3-4% sui prestiti commerciali, potrebbe coprire il fabbisogno del bilancio dello Stato; e nei momenti di restrizione e depressione, lo stato può prestare a se stesso allo 0%, risparmiando le enormi spese di interessi passivi, la pietra al collo che ben conosciamo come italiani.

Khavari non ha vinto la competizione, non è governatore della Florida; non ha convinto i suoi concittadini. Il suo resta tuttavia un atto di quel coraggio politico (intellettuale, ma soprattutto morale) di cui abbiamo deplorato la mancanza in Italia. D’altra parte, la promozione di una riforma monetaria che sottragga alle banche private la creazione di liquidità dal nulla (e la relativa scrematura di profitti dai produttori di ricchezza reale) è stata, in Usa, compresa da alcune delle migliori menti della loro storia: da Benjamin Franklin a Thomas Jefferson («Il circolante deve essere restituito al popolo, cui appartiene»), da Edison a Charles Lindbergh sr., fino al grande economista di Yale Irving Fisher, che in piena Grande Depressione propose l’abolizione della riserva frazionaria (le banche potevano emettere tanti prestiti, quanti depositi avevano, non più: 100 % money). Ovviamente, potenti interessi hanno contrastato queste idee e proposte, fino ad oggi con il ben noto successo. Ma come si vede, la lotta continua.

Quanto a noi, limitiamoci a ricordare che un settore bancario pubblico è stato non l’eresia innominabile, bensì la «normalità» per lunghi periodi della nostra storia recente; la cultura e il know-how delle economia politica era stata assimilata, e le banche pubbliche fecero sostanzialmente meglio, per lo sviluppo, delle private. Del resto la scarsità di vere capacità imprenditoriali (da noi gli imprenditori tendono a diventare redditieri, senza rischiare) e di capitalisti di rischio (abbiamo sempre avuto «capitalisti senza capitale») hanno reso l’intervento pubblico in economia una pura e semplice necessità.

Solo da un certo periodo in poi il sistema si guastò perché ebbero conferma le accuse che gli ideologi del «più privato meno Stato» volgono al sistema economico antagonista, ossia che mettere in mano il potere bancario ai politici significava mettere a loro disposizione il mezzo per la corruzione loro ed altrui, l’ingrasso delle loro clientele e la mala, inefficiente allocazione delle risorse finanziare.

Questa obiezione è sicuramente vera e sensata, come noi italiani sappiamo fin troppo bene. Anche se proprio il Nord Dakota, con le sue interessanti metodologie di «sterilizzazione» dell’attività della banca pubblica dalle voglie dei politici, la smentisce. Una gestione pubblica oculata ed efficace, di fatto più efficiente del credito privato, è possibile, e lo Stato americano lo dimostra. Certo è che, da noi, un ritorno del «pubblico» in economia non è neppure pensabile, fino a quando l’attuale classe «politica» non sarà eliminata, e le caste amministratrici non recuperano, con la competenza, il senso della missione al servizio della nazione. Qualità che un tempo possedeva, e che il pluripartitismo insaziabile ha guastato.

Ma non abbandoniamo la speranza. Le borse salgono mentre l’economia collassa seppellendo milioni di disoccupati sotto le sue macerie: è l’assurdo, aberrante «impiego» che trova l’inondazione di liquidità della Fed, della Banca centrale nipponica e di nascosto, della BCE. In tal modo, il sistema finanziario privato succhia per sé le ultime gocce di ricchezza reale che i produttori stanno smettendo di produrre. La scarsità di credito nel mare di liquidità mostra la sua essenza assurda, intollerabile.

Il capitalismo terminale suscita energie e volontà di combatterlo, e le idee per riformarlo sono in campo. Non da noi, certo. Ma viene a mente una vecchia barzelletta dei tempi sovietici; uno degli apocrifi di «radio Erivan», un’emittente comunista che distillava in pillole il verbo sovietico, ossia propaganda ideologica. Un ascoltatore chiede a Radio Erivan:

«Che cosa fa il capitalismo?»

Risposta: «Corre alla propria rovina»

«E qual è lo scopo supremo del socialismo?»

«Raggiungere e superare il capitalismo!».

Qualcuno ha detto, negli anni ’90 quando crollò il Muro, che assistevamo alla seconda parte di questa barzelletta. La prima doveva ancora avverarsi, ed è qui.





1) Naturalmente, si suole eccepire che il Nord Dakota è uno stato di soli 700 mila abitanti, dove tutti i politici sono sotto l’occhio della cittadinanza, e per di più ha un buon settore petrolifero. Tuttavia l’Alaska, con popolazione poco superiore e un settore petrolifero almeno doppio, ha un tasso di disoccupazione del 7.7%, il doppio del N.D.
2) In questo senso, ai lettori che giustamente mi facevano notare la tenebrosa ideologia «esoterica» di Casaleggio e Grillo, ho replicato chiamando Grillo «il Gran Belinone»: essenzialmente, volevo indicare l’incapacità di elaborazione intellettuale dei leader del movimento. Il duo «esoterico» non ha propriamente idee, ma spezzoni malcotti di idee altrui, residui slegati di utopie depassées, assunti per giunta non come temi del dibattito, ma come atti di fede. Nello stesso senso qui, mentre i media celebravano a comando «il tecnico» Mario Monti, lo si è chiamato «un solenne cretino»: cretino, ancorché indubitabilmente solenne. Privo di idee e di competenza, ha precipitato il collasso dell’economia nazionale applicando le ricette eurocratiche, senza il minimo discernimento. Con ciò, non vogliamo risparmiare gli altri. Abbiamo visto spesso l’azione delle Fondazioni culturali in Usa, la loro funzione motrice e di centrali di idee. Ci sfugge, e resta inosservata, la produzione intellettuale della Fondazione culturale di D’Alema, che se non sbaglio si chiama «Italianieuropei»; nessuna aspettativa per contro, abbiamo avuto in FareFuturo, la fondazione «culturale» Gianfranco Fini, il politicamente defunto: la parola stessa «culturale» qui è fuori luogo. Le fondazioni in Italia sono un altro trucchetto per succhiare denaro pubbblico e distribuirlo a compari «intellettuali». La stretta attualità ci obbliga poi ad additare, fra gli esempi preclari di insufficienza intellettuale, l’accanimento paranoide della d.ssa Ilda Boccassini: la quale, sulla base di indizi pericolanti smentibilissimi in appello, ha chiesto per Berlusconi 6 anni di galera e l’interdizione perpetua dai pubblici uffici. Sei anni di carcere, i nostri magistrati non li danno più nemmeno per l’omicidio premeditato (specie se l’omicida è un extracomunitario). I magistrati stanno facendo un’altra volta di tutto per dar ragione al Cavaliere: è un perseguitato, indubbiamente. 

di Maurizio Blondet


24 maggio 2013

La privatizzazione della politica e il Moloch dello sviluppo



LA PRIVATIZZAZIONE DELLA POLITICA E IL MOLOCH DELLO SVILUPPO
La tragedia avvenuta in Bangladesh riaccende i riflettori sulla questione delle esternalizzazioni nella produzione di beni da parte dei grandi marchi. La produzione materiale di abiti, macchinari e accessori tecnologici avviene spesso in Paesi del terzo mondo o cosiddetti emergenti; se da una parte c’è l’ovvia e immediata ragione economica (produrre in quei Paesi, dove le telecamere non sono mai accese, a costi ridottissimi e mantenendo in condizioni di semi-schiavitù la forza lavoro), dall’altra c’è anche la questione del marchio.
Il vero marchio trascende il prodotto in sé e diventa un’esperienza di vita, diventa filosofia di vita e parte della vita stessa, trascende il prodotto fisico anzi, il sogno dei grandi guru dei marchi è proprio quello di disfarsi del prodotto e di vendere il concetto, l’esperienza, l’emozione che esso contiene. Diventa difficile parlare di territorialità e di legame con il territorio quando si tratta di questi colossi, e internet diventa quindi lo spazio ideale per i marchi, “liberati dai Paesi del mondo reale dei negozi e della produzione, questi marchi sono liberi di elevarsi, proponendosi non tanto come diffusori di merci o servizi quanto come allucinazioni collettive” (1).
La politica non è da meno e le due amministrazioni Bush Jr. hanno attinto a piene mani dal modello delle hollow corporations, consultando esperti di indagini di mercato e di marchi. Difesa dei confini, protezione civile, intelligence e missioni militari all’estero sono state tutte appaltate a settori privati; il direttore del fondo di finanziamento, Mitch Daniels, ha espresso chiaramente il concetto: “il governo non ha il compito di fornire servizi, ma di accertarsi che siano forniti”. Chealrotte Beers, che aveva diretto diverse agenzie pubblicitarie, venne assunta come sottosegretario alla Diplomazia e agli Affari Pubblici e le critiche per quella nomina furono respinte dal segretario di Stato Colin Powell con queste parole: “Non c’è niente di male ad assumere una persona che sappia vendere. Noi vendiamo un prodotto, e ci serve qualcuno che possa rinnovare il marchio della politica estera e della diplomazia americana”.
La Lockheed Martin, famosa tra le altre cose per la paternità dei discussi caccia F-35, è il più grande appaltatore al mondo della difesa, e un’inchiesta del 2004 del “New York Times” elencava tutti gli ambiti in cui opera, tra cui l’organizzazione del censimento nazionale, la gestione dei voli spaziali e l’assistenza sanitaria. La privatizzazione della politica si estende anche oltre i patri confini: l’occupazione militare dell’Iraq ha visto un consistente impegno di compagnie private quali Blackwater e Halliburton. Quando uomini della Blackwater aprirono il fuoco in piazza Nisour a Baghdad, uccidendo diciassette civili, l’amministrazione statunitense se ne lavò le mani scaricando sugli appaltatori tutta la responsabilità, e la compagnia risorse rinnovando il marchio e assumendo il nuovo nome di Xe Services.
Gli attentati dell’11 settembre 2001 strinsero la nazione attorno al presidente Bush, molto contestato e molto poco apprezzato, e raccolsero molti Paesi europei e non, ostili a quell’amministrazione, attorno agli USA, cosicché l’intervento militare in Afghanistan venne accettato. La guerra all’Iraq fece però scendere nuovamente le quotazioni della Casa Bianca all’estero e a lungo andare anche all’interno della nazione. Il marchio USA era ai minimi storici, finché non arrivò Obama.
Barack Obama, durante la sua prima campagna presidenziale, ricevette più finanziamenti da Wall Street di qualsiasi altro candidato e, una volta eletto presidente, ha confermato nei gangli delle istituzioni economiche e finanziarie persone come Ben Barnake, e continua tuttora sulla strada neoliberista.
Le strategie geopolitiche statunitensi non cambiano: ostilità aperta nei confronti dell’Iran, un uso intensificato dei droni nelle zone di guerra, sostegno incondizionato a Israele (nonostante l’evidente e autentica antipatia di Obama per Netanyahu), opposizione a un blocco europeo unitario, Guantanamo rimane tuttora aperta e funzionante e Obama si è opposto ai processi contro i responsabili di Bush che autorizzarono le torture (2).
Si assiste così a una progressiva privatizzazione dello Stato e della res publica e delle relazioni internazionali. Il liberalismo economico è diventato un modello per i governi occidentali, d’altra parte il capitalismo è anche il portatore di una sua propria antropologia, quella dell’Homo  oeconomicus con la relativa riduzione di qualsiasi cosa a merce, a valore economico con una conseguente tendenza a ridurre i costi. La penetrazione del modello occidentale, che ha come modello gli Stati Uniti  ma che ormai li ha superati e inglobati, passa attraverso la proliferazione dei bisogni di nuovi beni da acquistare.
Il modello dello sviluppo prevede sempre nuovi consumatori e nicchie di mercato in ogni angolo del mondo, poiché ha bisogno di una inarrestabile ed esponenziale crescita. La crisi strutturale che stiamo vivendo e la consapevolezza che questo modello di crescita infinita non si concilia con un sistema chiuso e finito, quale è il nostro pianeta, stanno accelerando e diffondendo ideologie alternative, quali comunitarismo e decrescita.
Inquinamento e sfruttamento dell’ambiente stanno facendo sensibilizzare l’opinione pubblica, senza però mettere veramente in discussione il nostro modello, facendo così parlare di sviluppo sostenibile e di green economy; ma, come scrive Serge Latouche, per tentare di scongiurare magicamente gli effetti negativi dell’impresa sviluppista, siamo entrati nell’era degli sviluppi con l’aggettivo. […] Affiancando un aggettivo al concetto di sviluppo, non si rimette veramente in discussione l’accumulazione capitalista. […] Questo lavoro di ridefinizione dello sviluppo […] si regge sempre su idee di cultura, natura, giustizia sociale. Si ritiene di poter guarire un Male che colpirebbe lo sviluppo in modo accidentale e non congenito. […] Lo sviluppo sostenibile è il più bel risultato di questa arte di ringiovanimento dei vecchi tempi. Illustra perfettamente il processo di eufemizzazione attraverso gli aggettivi volti a cambiare le parole ma non le cose”.
Qual è allora un modello credibile e alternativo a quello dello sviluppo? Il punto è proprio questo: non esiste una grande potenza o un continente, una confederazione di stati e nazioni che possa offrirne uno. Crollato il blocco sovietico, è crollato anche il contrasto tra due grandi modelli e quello sopravvissuto ha invaso il mondo, sia pure con adattamenti particolari. Si tratta quindi di trovare una via che non metta al centro il profitto e i mercati, ma comunità, identità e non veda il pianeta contemporaneamente come una miniera da sfruttare indefinitamente e come discarica.

di Francesco Viaro 


* Francesco Viaro è laureato in Lingue e Letterature straniere presso l’Università degli Studi di Padova.

23 maggio 2013

Il Partito Democratico non ha ragione di esistere




   
   
Io, cittadino stufo della farsa partitocratica, non ce l’ho col Pd. È il Pd a avercela con me e con l’Italia. E con sé stesso. È nato nel 2008, questo bambino deforme, dall’unione contro natura e mal riuscita fra ex democristiani di sinistra ed ex comunisti di destra. I militanti pecoroni - verso i quali, spiace, ma non può esserci più comprensione - si sono bevuti la sola del Partito Democratico sul modello americano: una fregnaccia di Prodi e Veltroni che pretendeva di cancellare la storia centenaria di due tradizioni politiche e culturali con le loro peculiarità, idiosincrasie, incompatibilità, identità.

La solita cialtroneria italiana, al servizio di un disegno ben preciso e serissimo nella sua pericolosità: omologare i paesi occidentali al sistema partitico anglosassone, ideale per imporre una dialettica semplificata e distorcente non sul cosa, ma sul come gestire l’ordinaria amministrazione, coi veri piloti in cabina – gli interessi finanziari sovranazionali - a decidere la rotta unica e obbligata.

L’arrivo in scena del berluschino – o veltronino - Renzi è la ciliegina sulla torta: lui non finge neanche più di essere di sinistra nell’accezione comunemente accettata della parola, rappresenta l’indistinto luogo comune trasversale (il merito, più mercato, più efficienza, più modernità, più leggerezza, e già che ci siamo più figa per tutti).

Dopo cinque anni, l’aborto è palese. Lo snobismo, la sicumera, la scissione d’origine mai composta e rimescolata nel duello generazionale più che sostanziale Bersani-Renzi, l’annacquamento di ogni istanza nel “ma anche”, lo spadroneggiare di potentati a volte criminali hanno portato alla sconfitta netta delle elezioni politiche e alla caporetto del Quirinale, con 101 parlamentari ancora in incognito che hanno abbattuto a colpi di voto segreto il padre fondatore Prodi, dando la plastica dimostrazione che il Pd è davvero Pdmenoelle: meglio riconfermare Napolitano, sommo sacerdote dell’inciucio, andando così al governo assieme al finto nemico Berlusconi, che optare per la traversata nel deserto (i grillini non avrebbero comunque sostenuto un loro governo di minoranza, o almeno si spera) ma a testa alta.

Ora, se fossi un iscritto al Pd, nel guardarmi allo specchio mi sputerei in faccia. Che ci starei a fare in un nido di serpi, ciechi, illusi e complici in malafede che ha suggellato vent’anni di collusione con Silvio, odiato a parole e servito e riverito nei fatti? Se fossi onesto con me stesso, straccerei la tessera. L’opa ostile di Grillo ai giovani che occupano le sedi è nella logica delle cose, sempre che le cose debbano ancora avere una logica, in questa Italietta di eunuchi e saltimbanchi. Occupy Pd? Refuse Pd! Non c’è più alcuna ragione sensata per cui una persona dotata di cervello e in buona fede resti ancora là dentro. In nome della sinistra? Ma la sinistra resiste soltanto come mito reazionario, per far sopravvivere un immaginario superato e arcisuperato mentre in tutte le scelte fondamentali la sedicente sinistra col marchio Pd ha sposato l’ideologia dominante liberal-liberista, giusto un pelo temperata e camuffata con la retorica delle liberalizzazioni pro-consumatori (quando in realtà sono pro-grandi catene, come guarda caso le coop). In nome dell’antiberlusconismo? Oggi risulta arduo perfino pensarlo, visto che sono tutti seduti amorevolmente insieme a Palazzo Chigi a brigare per tornare agli antichi fasti (magari con norme ad hoc per far fuori il Movimento 5 Stelle, su cui il pacato commento non può che essere uno: farabutti!). 

In nome dell’Europa? Ma ormai lo capisce anche un decerebrato che l’Unione Europea è stata una solenne fregatura, tanto è vero che adesso non si trova un difensore delle regole di Maastricht (3% di deficit consentito, la legge ferrea dell’oppressione) neanche col lanternino.

In nome di che, di grazia, il Pd ha ancora un motivo valido di esistere? Con tutta la buona volontà, non riesco a trovarlo. Ah certo, uno c’è: fare i guardiani della controrivoluzione, reggendo pure il moccolo al beneamato Silvietto. Ci risparmino la sceneggiata, i presunti giovani del Pd. Se vogliono cambiare l’Italia, si suppone in meglio, non c’è unica via che lasciarlo. Ha fatto troppi danni e continua a farli.

Alessio Mannino   

22 maggio 2013

A CAPACI NON C'ERANO SOLO GLI UOMINI DI TOTO' RIINA


A CAPACI NON C'ERANO SOLO GLI UOMINI DI TOTO' RIINA


"La strage di Capaci è al 90% di mafia, il resto lo hanno messo altri, per quella di via D'Amelio siamo 50 e 50 e per le stragi sul continente la percentuale mafiosa scende vertiginosamente".
Luca Cianferoni, avvocato di Toto' Riina, 2010.


La strage di Capaci non fu opera solo degli uomini di Toto Riina: ormai si può affermare questa verità oltre ogni ragionevole dubbio.

La strage di Capaci non fu opera solo degli uomini di Toto Riina: ormai si può affermare questa verità oltre ogni ragionevole dubbio.

Un uomo della Gladio siciliana mi ha parlato concretamente di un "doppio livello" nella strage di Capaci. Lo incontrai nel maggio del 2010 e durante una lunga conversazione mi disse: "non penserà mica che fu opera soltanto di quattro mafiosi?". Qualche anno prima il boss Giovanni Brusca, l'uomo che schiacciò il telecomando appostato sulla collinetta a ridosso della strada, aveva ribadito, tanto tempo dopo, la sua incredulità per il "successo" dell'assalto. Disse così al magistrato Luca Tescaroli: "Quattro stupidi...quattro stupidi, perché poi alla fine eravamo...un po' di persone, in maniera molto rozza...in maniera artigianale, siamo riusciti a portare a termine un attentato così importante". Non poteva ancora crederci che avevano fatto tutto da soli.

L'agguato teso all'auto di Giovanni Falcone, tecnicamente un'imboscata, fu realizzato in un teatro di guerra allestito dai migliori artificieri. Fu una operazione militare, un atto di strategia della tensione: una mano fu mafiosa, l'altra no. Qualcuno trasformò un'azione di vendetta mafiosa in un atto di brutale manifestazione politica, cioè in una strage. Partecipò a tutte le fasi organizzative dell'azione anche Pietro Rampulla, il mafioso addestrato da Ordine nuovo, il servizio segreto clandestino di stampo neofascista: ma il 23 maggio non poté stare al fianco dei suoi complici perché "aveva impegni familiari", sfilandosi così dalla scena e mandandoBrusca a schiacciare il telecomando.

Dobbiamo ricordare che dalle numerose e diverse dichiarazioni dei pentiti non è possibile stabilire il momento dell'ideazione di quel tipo di strage. Come si arrivò alla decisione di fare una strage per ammazzare Falcone? La trappola mortale contro il nemico storico di Cosa nostra era già pronta prima del 23 maggio 1992. Un gruppo di fuoco composto da mafiosi di Brancaccio e della provincia di Trapani nel febbraio del 1992 era stato inviato a Roma per fare fuoco su Giovanni Falcone con le armi tradizionali: niente esplosivo, niente botti, solo i proiettili mafiosi avrebbero dovuto abbattere l'uomo che più di tutti aveva penetrato i segreti dei boss e scardinato il loro tradizionale assetto di potere. Ma un giorno Salvatore Biondino, il luogotenente di Toto Riina, va ad incontrareFrancesco Cancemi e Raffaele Ganci al cantiere di Piazza Principe di Camporeale e gli comunica che il padrino aveva intenzione di passare all'esecuzione del progetto di uccidere il magistrato con un ordigno esplosivo lungo l'autostrada da Punta Raisi per Palermo. Dunque, tutto era stato attentamente preordinato. Il momento dell'ideazione del progetto criminale di Capaci viene solo comunicato alle famiglie che poi avrebbero cooperato per realizzarlo; ma nessuno tra tutti coloro che lo attuano può raccontare il momento in cui viene elaborata quell'idea così originale e senza precedenti del delitto, e questo semplicemente perché l'idea gli vienesuggerita dall'estero. Dice sempre Giovanni Brusca, l'uomo del telecomando, che il posto dove fare l'attentato "non l'ha scelto lui". Sostiene che in una riunione a casa di Girolamo Guddo, il 20 febbraio prima della strage, scopre che "Cancemi, Salvatore Biondino, Raffaele Ganci avevano parlato della possibilità dell'autostrada". Non sa che Cancemi e Ganci, come tutti gli altri, avevano solo ricevuto le istruzioni per realizzare l'attentato in quel modo. Ma il "suggeritore" non si sa chi sia e che gente frequenti.

Ci sono poi strani oggetti sulla scena del crimine: un sacchetto di carta di colore bianco che conteneva una torcia a pile, un tubetto di alluminio con del mastice di marca Arexons e due guanti in lattice, evidentemente usati. Chi li aveva usati? E per fare cosa? I giudici scrivono considerazioni molto interessanti: innanzitutto, notano che quelle cose non possono essere state lasciate lì dal giorno in cui sicuramente tutto fu predisposto e ultimato (e dopo il quale i mafiosi non tornarono , l'8 di maggio, perché "sicuramente le intemperie, frequenti in quel periodo sulla zona, avrebbero determinato la lacerazione del contenitore, che lo si deve ricordare, era di carta". Dunque, non potevano essere strumenti impiegati dai killer della mafia. Secondo loro è proprio "da escludere che gli imputati (...) avessero lasciato quegli oggetti proprio in prossimità del cunicolo, perché si sarebbe trattato di una macroscopica distrazione, inconcepibile a fronte dell'emergere dalla descrizione di tutte le operazioni che si sono via via susseguite nel corso dei preparativi, di una meticolosa e puntuale curanell'evitare che potessero restare tracce delle azioni compiute".

Il ritrovamento di questi oggetti particolari, lasciati lì sicuramente nelle ore di poco precedenti l'esplosione, è molto importante se si considera un'altra strana circostanza: alcuni testimoni hanno denunciato che il giorno precedente proprio nell'area della strage, ma a livello della strada, non in quello sottostante dove erano state condotte le operazioni di caricamento del cunicolo, era stato notato un furgone Ducato di colore bianco e alcune persone che apparentemente erano concentrate ad eseguire dei lavori. Fu anche deviato il corso delle automobili di passaggio, furono usati birilli per spartire il traffico. Lo hanno spiegato i testimoni indicati con i numeri d'ordine 26 e 27 e il loro racconto si riferisce a ciò che vedono il 22 maggio 1992, intorno alle ore 12: ma per Brusca e compagnia non c'è alcuna necessità di lavorare lungo la corsia, il loro lavoro si era concentrato a livello dell'imbocco del cunicolo, al di sotto nel livello stradale. E poi loro erano pronti già da tempo. Per di più, fu subito accertato che in quei giorni non erano in corso lavori di nessun genere e perciò si deve sicuramente escludere qualsiasi attività di manutenzione stradale, ordinaria o straordinaria: in pratica ci fu "un secondo cantiere, senza volto né nomi" e tuttavia anch'esso attivato con ogni probabilità per provocare la strage.

E ancora, l'esplosivo. Anche qui i conti non tornano. Sono state ritrovate tracce di nitroglicerina, un componente che non fa parte di nessuna delle due componenti che costituiscono la carica: ma la nitroglicerina rafforza la detonabilità della carica. L'esplosivo con cui è stato riempito il cunicolo che passava sotto l'autostrada in prossimità di Capaci era di due tipi: c'era l'ANFO, vale a dire il Nitrato di Ammonio addizionato a cherosene - in alcuni bidoncini fu messo allo stato puro - e c'era poi il tritolo, procurato da Biondino e recuperato dalle mine giacenti sotto il mare che venivamo trovate in grandi quantità dai pescatori, secondo una modalità raccontata minuziosamente da Gaspare Spatuzza (un racconto proprio identifico a quello del pentito di Piazza Fontana, Carlo Digilio, sull'esplosivo usato per la strage del '69!). Le indagini non si sono mai concluse: nel novembre del 2012 è stato arrestato Cosimo D'Amato, il pescatore di Santa Flavia che oltre al pesce tirava su anche le vecchie bombe. D'Amato è stato accusato dalla procura di Firenze di aver fornito in modo continuativo l'esplosivo usato per le stragi del '93, almeno quella parte proveniente dai recuperi in mare. Perché le vie degli esplosivi erano diverse: c'era quello da cava e poi quello più sofisticato, come il Semtex, proveniente dai traffici internazionali. Oltra alle tracce di nitroglicerina, ci sono poi quelle di T4, un esplosivo noto anche con RDX utilizzato soprattutto per scopi militari, che nel cratere di Capaci non viene unito ad altre sostanze e che potrebbe essere stato usato per aumentare la detonabilità della carica o come legante esplosivo fra le frazioni di carica. Inizialmente si era pensato che il T4 fosse presente unito al tritolo con cui può formare un composto chiamato Compound B ma poi l'ipotesi è stata scartata perché il tritolo, come abbiamo detto, era stato sicuramente messo da solo nei bidoncini: in pratica, l'uso del T4 sembrerebbe essere stato aggiunto all'esplosivo trovato dai due gruppi di mafiosi per rendere più micidiale la carica. Sia la pentrite che il T4 sono, infatti, sostanze non compatibili con quelle descritte dai pentiti con le quali è stato riempito il cunicolo.

Con quel materiale in più, la strage era assicurata. Falcone sarebbe morto sicuramente.
Ci spingemmo su "un terreno che non era il nostro", raccontò poi a proposito delle stragi di mafia il pentito Gaspare Spatuzza. Era il terreno del doppio livello quello che si realizza quando siedono ad uno stesso tavolo entità diverse, interessate a cooperare ad uno stesso identico progetto criminale con scopi spesso diversi.

Nel "doppio livello" c'è la regia degli eventi politici, quella che non siamo mai riusciti ad afferrare. Il "doppio livello" dello stragismo e dell'omicidio politico ha garantito l'impunità ai mandanti, lasciando sempre l'opinione pubblica smarrita e confusa, irrisolti i processi giudiziari e un Paese da sempre in cerca delle sue verità. Nelle cospirazioni nate in quel modo, per essere cioè realizzate con l'apporto di mani diverse, la trama diventa impossibile da sbrogliare, la complicità finale di tutti permette di lasciare il delitto senza una apparente firma e l'esecutore, che sia il neofascista degli anni 70 o il boss mafioso della fine dello scorso secolo, si trova coinvolto in un'azione attentamente progettata sulla base di tante informazioni, come sanno fare i servizi segreti o tutte quelle agenzie affini, tanto che non potrà mai provare la sua estraneità. Se non vuole ammettere di essere stato manipolato, deve solo tacere e pagare
di Stefania Limiti

19 maggio 2013

Il mostro e i suoi creatori






IL BERLUSCONISMO E’ FINITO PERCHE’ SONO FINITI I SUOI EVOCATORI


Le uniche cose che possono competere in numerosità coi processi in cui è stato coinvolto Berlusconi sono i suoi trattamenti di chirurgia estetica. Più egli veniva martirizzato e più si marmorizzava nell’aspetto e nel petto divenendo un busto vivente che attirava, come ogni monumento, orde di adoratori e frotte di vandali devastatori. Tali facce di bronzo, proseguenti a lamentarsene dopo averlo scolpito nella piccola storia che ci compete, ne hanno fatto una statua di stato, anzi uno “stat(u)ista”.
Costui è stato accusato di tutto nel corso degli anni, dal traffico di sostanze stupefacenti, alle stragi, fino alla prostituzione. Assoluzioni, prescrizioni, amnistie ecc. ecc. e, almeno finora, nessun verdetto di condanna definitiva. Oltre vent’anni di demonizzazioni e d’accanimenti che potrebbero presto approdare ad una sentenza inappellabile con la quale sarà chiuso il suo ciclo pubblico.
Peccato però che questo ciclo si sia esaurito da un pezzo, politicamente parlando, ma i suoi detrattori, presi come sono a combattere contro la loro fervida immaginazione, non se ne sono nemmeno accorti. Ben altre e ferali battaglie si stanno giocando alle spalle dei processi di B. coi quali si continua a depistare la pubblica opinione mentre sciacalli internazionali e iene nazionali stanno spolpando quel che resta della carogna peninsulare.
Il mostro B. è nato dall’odio dei suoi creatori-calunniatori ed è cresciuto sino all’inverosimile nutrendosi del loro disprezzo sociale e culturale.
Più lo perseguitavano, attribuendogli la somma dei dolori e delle perversioni del Paese, e più egli si ingigantiva e li sovrastava con la sua bassa statura che era pur sempre uno slancio verso il cielo rispetto alla fossa dove giacevano i suoi denigratori. Ma ora che i cacciatori di ombre sono diventati tutt’uno col mito in putrefazione, adesso che la mitopoiesi si è sciolta, come il cerone col quale lo avevano truccato da vampiro assetato di scandali, seguiranno il suo infausto destino giù nella tomba. Il loro funerale sarà una festa popolare.
L’Essere immondo scomparirà soltanto quando anche l’ultimo dei rovistatori nella melma della Repubblica, impastati della stessa materia ideologica degli incubi e delle angosce sociali, sarà perito. Siamo realmente al termine un’epoca che ci ha devastati nel cervello e nel tessuto sociale.
Ancora ieri, durante la trasmissione di “Sant’oro”, un altro cattivo prodotto dell’era degli intubati del tubo catodico,  guardavo in televisione lo spettacolo miserevole e reiterato di questi zombies che si mordono i polpacci a vicenda. Da un lato i militanti di sinistra che giustificavano le larghe intese per non far tornare Berlusconi e dall’altro i simpatizzanti delusi che li accusavano di aver fatto tornare Berlusconi. Il circolo vezzoso, almeno per chi assiste e non resiste alle risa, dei matti irrecuperabili.
Entrambe le schiere sclerotizzate non hanno inteso che quello che va e viene non è Berlusconi ma l’allucinazione identitaria della loro mente malata che proietta sul palcoscenico nazionale ogni tipo di tormento politico mascherato da cavaliere “ingrifato”.
Ricordate quante campagne di sensibilizzazione contro la cattiva maestra televisione? Fascismo mediatico e feticismo immodico di mediocri soggetti con gli occhi fasciati che vedevano manipolatori dappertutto. Venne iscritto d’ufficio al club dei cialtroni persino il povero Popper, improvvisamente ed improvvidamente intruppato nelle file dei catastrofisti dell’etere, per un libretto di scarso valore intellettuale divenuto una bibbia nell’ambiente del ceto medio semicolto, il quale alla sera leggeva Baricco in salotto e alla mattina in piazza sapeva tutto di olgettine e orgettine. Addirittura, l’era del porcone di Arcore era stata accostata al completamento di una mutazione antropologica che dalla specie sapiens ci trasfigurava in quella videns dei suggestionati dallo schermo privi di coscienza civile. Dicevano di se stessi riferendosi agli altri.
Sventolando le bandiere della purezza e dell’interezza si alzava però la puzza sotto il naso ed il tanfo dell’imbroglio di partito che nessuna morigeratezza verbale o individuale poteva occultare. Le persone sane di testa non si sono mai interessate dei baccanali presidenziali a porte chiuse e cosce aperte. E’ lo stupro delle proprietà pubbliche, l’abuso sul corpo nazionale , il bordello istituzionale dove viene denudata la sovranità centrale, lo spogliarello dei tesori pubblici per soddisfare i lenoni mondiali, la promiscuità corporativa, l’autoreferenzialità onanistica degli occupatori di poltrone per il tradimento collettivo, questo è quello che dovrebbe preoccupare ed indignare. Ma su ciò si tace o si taccia di chiusura provinciale chiunque osi opporsi al puttaneggiamento generale.
Fortunatamente siamo vicino all’epilogo della pantomima ma non alla conclusione delle tribolazioni perché non c’è trapasso che si compia senza una esplosione di brutalità liberatoria. Non si tratta di eversione ma di leggi della Storia. Prepariamoci al meglio del peggio.

di Gianni Petrosillo 

18 maggio 2013

Alla ricerca della liquidità perduta







  
   
Il sistema-paese soffre di arretratezza tecnologica e infrastrutturale, di inefficienza e dispendiosità della macchina amministrativa, di lentezza e corruzione di quella giudiziaria, di costi elevati di una politica e di una burocrazia ampiamente parassitarie, per non parlare dell’influenza istituzionale della criminalità organizzata e, ovviamente, della insostenibile pressione fiscale. 
Il male di fondo, che toglie i mezzi anche per affrontare gli altri mali, e da cui direttamente dipendono insolvenze, fallimenti, licenziamenti, crollo di speranza, investimenti e consumi, è però un altro, ossia la carenza di mezzi monetari, il costo eccessivo (rispetto ai paesi competitori) del denaro, le difficoltà ad ottenere credito.

Una carenza crescente, sempre crescente, che, attraverso la deflazione, rende sempre più oneroso, difficile o impossibile, il pagamento degli interessi e dei debiti. E delle imposte. E dei contributi. Non dimenticate che la Corte dei Conti ha rilevato che molti enti pubblici sono morosi di parecchi miliardi di versamenti contributivi all’Inpdap-Inps. Corre voce, forse gonfiata, che questa mina esploderà presto. 

Immaginiamo una pozza in cui l’acqua stia calando lentamente progressivamente. I pesci rossi, gialli e verdi boccheggiano. Perché cala l’acqua nella pozza? In parte evapora, in parte defluisce seguendo rigagnoli, in parte – la parte maggiore – si raccoglie in una cavità nascosta sotto il fondo dello stagno. 

I pesci non hanno più lo strumento della creazione di liquido e non possono usarlo per compensare l’acqua che se ne va. Hanno ancora lo strumento fiscale, con cui possono distribuire l’acqua diversamente tra pesci rossi, gialli, verdi – ossia, tra settore pubblico e privato, tra nord e sud – ma non possono trattenerla né rabboccarla. Anzi, le misure fiscali tendono a far aumentare la fuga dei liquidi e scoraggiano gli investimenti stranieri. La gente comune non ha ben chiaro che i soldi che lo Stato prende con imposte e con la lotta all’evasione sono soldi che semplicemente si spostano all’interno della pozza, ma non aumentano la quantità di liquidi disponibile, quindi non alzano il livello dell’acqua nella pozza, ma semmai accelerano il suo deflusso. 

L’acqua che evapora sono quei capitali – miliardi di Euro – che si spostano all’estero e vengono investiti in modi tali da sottrarsi al fisco nazionale (vedi scandalo Offshore-Leaks: 32.000 miliardi di dollari scoperti sinora, ovviamente in ambito globale). L’acqua che defluisce nei rigagnoli sono i liquidi che vanno all’estero come pagamenti di interessi e capitali (disavanzo commerciale), come rimesse degli immigrati (pensiamo particolarmente ai cinesi), come trasferimenti netti a favore di UE, MES, etc. 

Su queste perdite di liquidi si può intervenire, ma solo marginalmente e non certo risolutivamente, anche perché per attrarre liquidità dall’estero mediante saldi attivi della bilancia commerciale, turismo e investimenti, dovremmo svalutare rispetto ai partners, ma questa opzione è preclusa dall’Euro, dalla cessione del controllo sui cambi. Il calo del livello dell’acqua continuerà inevitabilmente e mortalmente. Possiamo ritardare il calo, guadagnare qualche mese, ma non fermarlo, non cambiare l’esito, e l’esito è che i pesci moriranno uno dopo l’altro, sempre più velocemente. Lo stanno già facendo. 

Diversamente dai pesci della pozza USA e della pozza del Sol Levante, noi non possiamo creare acqua per ristabilire il livello vitale, poiché anche questo potere l’abbiamo trasferito alla BCE, la quale, per statuto, non può fare interventi di questo tipo, che invece fanno la Fed con Obama e la BoJ con Shinzo Abe. La BCE e altri istituti internazionali ed esteri intervengono abbassando i tassi e dando denaro fresco alle banche e al settore finanziario, però questa liquidità non arriva, sostanzialmente alla pozza, ai pesci, all’economia reale – rimane dei circuiti finanziari, in impieghi che non pagano tasse nel Paese, perché le banche usano quei soldi non per prestiti all’economia reale, ma per chiudere buchi di bilancio (contenzioso sommerso) e per investimenti speculativi, più redditizi e sicuri in un’epoca di depressione con outlook sfavorevole. Anche i tassi rimangono alti e handicappanti nella competizione internazionale. 

In conclusione, le possibilità di intervento sono scarse, marginali e nessuna è idonea a risanare la situazione e a rilanciare l’economia. Il dibattito attuale è quindi improduttivo. 

Rimane l’acqua nascosta nella caverna sotto il fondo dello stagno. E la falla attraverso cui quell’acqua è finita nella caverna. E’ una falla causata da principi contabili errati, cioè non corrispondenti alla realtà economica, in materia monetaria e creditizia. Il concetto è estremamente semplice – così semplice, da risultare sfuggente, ma è oggettivo e verificabile. Si tratta di riuscire a riflettere sull’ovvio. Se si chiude la falla, migliorano drasticamente i bilanci delle banche commerciali, sia come conto economico, sia come stato patrimoniale; inoltre la erogazione dei crediti diventa molto più leggera patrimonialmente. Do per scontato che tutti sia noto che il sistema bancario opera attraverso un moltiplicatore, che gli consente di prestare un multiplo della raccolta – le banche non sono soltanto intermediari del credito, non si limitano a prestare la raccolta applicando una forbice sui tassi, ma creano liquidità – ecco perché il credit crunch è anche un liquidity crunch. 

La falla consiste nel mancato rilevamento contabile, in conto di ricavo della banca, di una realtà economica oggettiva e fondamentale, ossia dell’acquisizione di potere d’acquisto (valore) da parte dei mezzi monetari – denaro primario e denaro creditizio, come assegni circolari, bonifici, lettere di credito, saldi attivi di conti correnti. I mezzi monetari non hanno un valore intrinseco non essendo fatti di metalli pregiati, né sono convertibili in metalli pregiati. Il loro valore, cioè il potere d’acquisto, non è prodotto dalla banca, ovviamente, la quale non produce beni reali; esso deriva dalla loro accettazione da parte del mercato, dal fatto che il mercato è disponibile a dare beni o servizi reali in cambio di essi, sebbene essi non siano beni reali. Essi quindi, nel momento in cui la banca li emette sotto forma di erogazione di credito o di acquisto diretto di titoli finanziari, assorbono o ricevono dall’esterno il valore, il potere di acquisto, e cessano di essere meri pezzi di carta o impulsi elettronici per divenire moneta. La banca preleva dal mercato, dalla generalità dei soggetti, un potere d’acquisto che essa non crea, e lo presta a un soggetto determinato, percependo da questo soggetto un interesse. 

Orbene, questa trasformazione, questa acquisizione di valore, è un fatto economico reale, esattamente un ricavo della banca che emette la moneta primaria o quella creditizia. Un ricavo che, con i principi contabili vigenti, non viene contabilizzato. Conseguentemente abbiamo che la banca, quando eroga 100, dovrebbe, nel conto economico, registrare, a scalare: 

ricavo da acquisizione di potere d’acquisto: + 100

costo da erogazione di potere d’acquisto: – 100

ricavo da acquisizione di credito: + 100

SALDO OPERAZIONE: + 100

Sotto gli attuali principi contabili, la prima registrazione non avviene, quindi il ricavo di 100 “sparisce” nella caverna sotterranea, non viene tassato, non si traduce in attivo patrimoniale, in possibilità di credito. Le sorti di questi ricavi non contabilizzati dovrebbero essere indagati. Probabilmente prendono la via di paradisi fiscali, dove riaffiorano, carsicamente, e sono impiegabili in operazioni speculative o in vantaggiosi investimenti reali.

Con questo concludo, ritenendo di aver perlomeno indicato in linee generali dove bisogna metter mano, se non si vuole sprofondare domani o fra una settimana nel buco nero dell’indebitamento. E di aver anche dimostrato la sostanziale impotenza, o il valore meramente dilatorio, delle altre opzioni sul tavolo. 

Un’ultima osservazione: nel mondo l’aggregato del debito soggetto a interesse è di almeno 2 milioni di miliardi di Dollari, e l’aggregato degli interessi da pagare sicuramente supera i 100.000 miliardi, mentre il prodotto lordo globale arriva a 74.000 miliardi. Il servizio del debito esistente viene quindi pagato contraendo nuovo debito. Il mondo è un grande schema Ponzi, e non vedo altre vie che la riforma contabile suddetta, per prevenire che lo schema Ponzi scoppi in un global meltdown.

di Marco Della Luna 

17 maggio 2013

L'allarme della CIA









Rapporto dell’Intelligence USA: per la prima volta dal XV secolo, grazie alla crisi del 2008, l’Occidente perde il predominio di fronte a Cina e BRICS. E mentre L’UE non terrà la sua coesione, crescono il popolo post-politico di “Facebookland” e “Twitterland” insieme allo strapotere dei magnati dell’informazione. Esaurite le risorse, nascono i “conflitti idrici”.
Ogni quattro anni, con l’inizio del nuovo mandato presidenziale negli Stati Uniti, il National Intelligence Council (NIC), Ufficio di analisi e di anticipazione geopolitica ed economica della Central Intelligence Agency (CIA), pubblica un rapporto che diventa automaticamente un riferimento per tutti i ministeri degli esteri del mondo. Anche se, ovviamente, si tratta di una visione molto particolare (quella di Washington), preparata da un’agenzia, la CIA, la cui missione principale è quella di difendere gli interessi degli Stati Uniti, il rapporto strategico del Nic presenta una indiscutibile utilità perché è il risultato di una messa in comune – rivista da tutte le agenzie di intelligence degli Stati Uniti – di studi elaborati da esperti indipendenti di molti altri paesi (Europa, Cina, India, Africa, America Latina, mondo arabo-musulmano, ecc.). 
Il documento confidenziale che il presidente Barack Obama ha trovato sulla sua scrivania, lo scorso 21 gennaio, quando ha preso possesso del suo secondo mandato, è stato appena pubblicato con il titolo “Global Trends 2030. Alternative Worlds”. Cosa ci dice? 
La constatazione principale è il declino dell’Occidente. Per la prima volta a partire dal XV secolo, i paesi occidentali stanno perdendo potere di fronte all’ascesa delle nuove potenze emergenti. Inizia la fase finale di cinque secoli di dominazione occidentale del mondo. Anche se gli Stati Uniti rimarranno una delle principali potenze planetarie, perderanno la loro egemonia economica a favore della Cina. E non eserciteranno più la loro «egemonia militare solitaria», come hanno fatto dalla fine della guerra fredda (1989). Andiamo verso un mondo multipolare nel quale nuovi attori (Cina, India, Brasile, Russia, Sud Africa) hanno la vocazione a costituire solidi poli regionali e a insidiare a Washington e ai suoi alleati (Giappone, Germania, Regno Unito, Francia) la supremazia internazionale. 


Un lungo declino fino al 2030

Per avere un’idea dell’importanza e della velocità del declassamento occidentale che si avvicina, basta segnalare queste cifre: la quota dei paesi occidentali nell’economia globale passerà dal 56% attuale al 25% nel 2030... Così, in meno di vent’anni, l’Occidente perderà più della metà del suo predominio economico... Una delle conseguenze di questo è che gli Usa e i loro alleati non avranno probabilmente più i mezzi finanziari per assumere il ruolo di gendarmi del mondo... In modo che questo cambiamento strutturale (aggiunto alla attuale crisi finanziaria ed economica) potrebbe realizzare ciò che non hanno ottenuto né l’Unione Sovietica né al-Qaeda: indebolire stabilmente l’Occidente. 
Secondo questo rapporto, in Europa la crisi durerà almeno un decennio, cioè fino al 2023... E, sempre secondo il documento della Cia, non è certo che l’Unione europea sarà in grado di mantenere la sua coesione. Nel frattempo, si conferma l’emergere della Cina come seconda economia mondiale, con la vocazione a diventare la prima. Allo stesso tempo, gli altri paesi del gruppo chiamato BRICS (Brasile, Russia, India e Sud Africa) si piazzano nella seconda fila competendo direttamente con gli antichi imperi dominanti del gruppo Jafru (Giappone, Germania, Francia, Regno unito: l’acronimo deriva dai nomi di questi paesi in spagnolo, ndt). 
In terza linea appaiono ora una serie di potenze intermedie, con demografie in aumento e con forti tassi di crescita economica, anch’esse chiamate a convertirsi in poli egemonici regionali, con la tendenza a trasformarsi in gruppo con una influenza mondiale, il Cinetv (Colombia, Indonesia, Nigeria, Etiopia, Turchia, Vietnam). Ma da qui al 2030, nel “Nuovo Sistema Internazionale”, alcune delle maggiori collettività del mondo non saranno più paesi ma comunità aggregate e vincolate tra loro attraverso Internet e le reti sociali. Per esempio, “Facebookland”: più di un miliardo di utenti... O “Twitterland”, più di 800 milioni... La loro influenza, nel gioco dei poteri della geopolitica mondiale, potrà rivelarsi decisiva. Le strutture di potere diventeranno liquide grazie all’accesso universale alla Rete e all’uso di nuovi software. 
A questo proposito, il rapporto della CIA annuncia la nascita di tensioni tra i cittadini e alcuni governi in un tipo di dinamiche che vari sociologi definiscono “post-politiche” o “post-democratiche”... Da una parte, la generalizzazione dell’accesso alla Rete e l’universalizzazione dell’uso delle nuove tecnologie permetteranno alla cittadinanza di conquistare alti livelli di libertà e di sfidare i suoi rappresentanti politici (come durante le primavere arabe o la crisi, in Spagna, degli indignados). Ma, allo stesso tempo, secondo gli autori del rapporto, questi stessi mezzi elettronici forniranno ai governi «una capacità senza precedenti di controllo sui propri cittadini». 
«La tecnologia – aggiungono gli analisti di Global Trends 2030 – continuerà ad essere il grande livellatore, e i futuri magnati di Internet, come potrebbe essere il caso di Google e di Facebook, possiedono intere montagne di dati, e gestiscono in tempo reale più informazione di qualunque governo». Per questo, la CIA raccomanda all’amministrazione Usa di far fronte a questa eventuale minaccia delle grandi aziende di Internet attivando lo Special Collection Service, un servizio di intelligence ultrasegreto - amministrato congiuntamente dalla NSA (National Security Agency) e dal SCE (Service Criptology Elements) delle forze armate – specializzato nell’intercettazione clandestina di informazioni di origine digitale. Il pericolo che un gruppo di imprese private controlli tutta questa massa di dati risiede, principalmente, nel fatto che questo potrebbe condizionare il comportamento a grande scala della popolazione mondiale e anche delle entità governative. Si teme anche che il terrorismo jihadista sia rimpiazzato da un cyberterrorismo ancora più pervasivo.


Veloce addio dell’acqua dolce

La CIA prende tanto più sul serio questo nuovo tipo di minacce perché, alla fine, il declino degli Stati Uniti non è stato provocato da una causa esterna ma da una crisi interna: il crollo economico iniziato nel 2008. Il rapporto insiste sul fatto che la geopolitica di oggi deve interessarsi a nuovi fenomeni che non hanno necessariamente un carattere militare. Anche se le minacce militari non sono scomparse (si vedano le intimidazioni armate contro la Siria o il recente atteggiamento della Corea del Nord e il suo annuncio di un possibile uso dell’arma atomica), i pericoli principali che oggi corrono le nostre società sono di ordine non-militare: cambiamento climatico, conflitti economici, crimine organizzato, guerre digitali, esaurimento delle risorse naturali...
Su quest’ultimo aspetto, il rapporto indica che una delle risorse che si sta più velocemente esaurendo è l’acqua dolce. Nel 2030, il 60% della popolazione mondiale avrà problemi di rifornimento di acqua, ciò che darà luogo all’apparizione di “conflitti idrici”... In quanto alla fine degli idrocarburi, in cambio, la Cia si mostra molto più ottimista degli ecologisti. Grazie alle nuove tecniche di fracking (fratturazione idraulica), lo sfruttamento del petrolio e del gas di scisto sta raggiungendo livelli eccezionali. Già gli Stati Uniti sono autosufficienti per quanto riguarda il gas, e nel 2030 lo saranno per il petrolio, la qual cosa rende più bassi i suoi costi di produzione manifatturiera e suggerisce la rilocalizzazione delle industrie, Ma se gli USA – principali importatori attuali di idrocarburi – smettono di importare petrolio, è da prevedere che i prezzi precipiteranno. Quali saranno allora le conseguenze per gli attuali paesi esportatori?
Nel mondo verso il quale andiamo il 60% delle persone vivranno, per la prima volta nella storia dell’umanità, nelle città. E, in conseguenza della riduzione accelerata della povertà, le classi medie saranno dominanti e triplicheranno, passando da uno a tre miliardi di persone. Questo, che in sé è una rivoluzione colossale, comporterà come conseguenza, tra altri effetti, un cambiamento generale nei costumi dell’alimentazione e, in particolare, un aumento del consumo di carne a scala planetaria. Il che aggraverà la crisi ambientale. Perché si moltiplicherà l’allevamento di bovini, maiali e pollame, e questo presuppone un consumo di acqua (per produrre mangime, di fertilizzanti e di energia. Con conseguenze negative in termini di effetto serra e di riscaldamento globale...
Il rapporto della CIA annuncia anche che, nel 2030, gli abitanti del pianeta saranno 8,4 miliardi, ma l’aumento demografico cesserà in tutti i continenti meno che in Africa, con il conseguente invecchiamento della popolazione mondiale. In cambio, il legame tra l’essere umano e le protesi tecnologiche accelererà il suo sviluppo fino a nuove generazioni di robot e l’apparizione di “superuomini” capaci di prodezze fisiche e intellettuali inedite. 
Il futuro è scarsamente prevedibile. Non per questo bisogna smettere di immaginarne le prospettive. Preparandoci ad agire nelle diverse circostanze possibili, delle quali alla fine una sola si produrrà. Anche se abbiamo già avvertito che la Cia ha il suo proprio punto di vista soggettivo sull’evoluzione del mondo, condizionato dal filtro della difesa degli interessi statunitensi, il suo rapporto quadriennale non smette di essere uno strumento estremamente utile. La sua lettura ci aiuta e prendere coscienza delle rapide evoluzioni in corso e a riflettere sulla possibilità di ciascuno di noi di intervenire e a orientarne la direzione. Per costruire un futuro più giusto. 

di Ignacio Ramonet 

NOTE 

1. http://www.dni.gov/index.php/about/organization/national-intelligence-council-global-trends 
2. Atlante, nuove potenze emergenti, su Le Monde Diplomatique in spagnolo, Valencia, 2012. 

30 maggio 2013

Finanza: master of universe, ovvero una banda di ladri






  
   
Il crollo della Borsa di Tokyo(-7,32%) è stato il più alto e drammatico dopo Fukushima di 2 anni fa. Conferma che i due trilioni di yen, creati dalla Banca Centrale del Giappone con la cura Abe, non sono serviti a nulla, se non a procurare un primo disastro. Visto che il nuovo premier giapponese annuncia il raddoppio della propria massa monetaria da qui alla fine del 2014, che Dio gliela mandi buona, a lui e a tutti noi.
Anche perché sta continuando la danza assurda della Federal Reserve, che continua a “stampare” (cioè a creare al computer) 85 miliardi di dollari al mese. Quosque tandem, Ben Bernanke, abutere patientia nostra?
Non lo sa neanche lui. 

Affermano, Bernanke e Abe, di voler stimolare l’economia (leggi la finanza) stampando banconote, in attesa di Godot, che però non arriverà più. Per due motivi: perché stimolare la finanza non fa più crescere l’economia, e perché i limiti alla crescita sono ormai apparsi sulla scena e non andranno più via.
Tutte chiacchiere, naturalmente. Il crollo di Tokio e di tutte le Borse europee (per quanto valga poco come segnale) viene dai dati cinesi:  la crescita cinese rallenta. E questo produce il rallentamento di tutti i mercati. Dunque ecco il quadro: lo stimolo monetario americano e giapponese non funziona; l’austerità europea non funziona. Il mainstream media ci riferisce che  gli Stati Uniti sono in crescita, ma è un bluff clamoroso. E’ come dire che un eroinomane perso è in ottima salute quando ha preso la sua dose.
Invece, qui in Europa anche gli irresponsabili di Bruxelles e di Francoforte – tranne Mario Draghi  – cominciano a capire che sono sull’orlo del baratro. L’Economist gli dedica una copertina impietosa, raffigurandoli, tutti insieme, in quella scomoda posizione.
Tutto dovrebbe essere chiaro: si va verso il collasso della finanza mondiale. I segnali d’impazzimento del sistema non cessano. Come non capire che è il sistema che si sta rompendo?  Nel 2001 hanno inventato il nemico islamico, dopo il nemico rosso, ma questa volta non c’è dubbio che c’è un virus interno al sistema che lo sta conducendo all’agonia. Sembrerebbe logico tentare di cambiare qualche cosa, inventare qualche medicina che non sia la morfina. Per esempio le regole della finanza dovrebbero essere cambiate. Infatti – come ci informava nei giorni scorsi un autorevole e non firmato editoriale del New York Times – la Commodity Futures Trading Commission ha tentato di introdurre almeno la riforma per regolare i derivati. Non l’avesse mai fatto!
Le cinque banche più importanti del mondo occidentale (se volete l’elenco, eccolo: JPMorgan Chase, Goldman Sachs, Bank of America, Citigroup e Morgan Stanley)  hanno alzato la paletta rossa. Non se ne fa nulla. I padroni del mondo dettano legge anche al Governo di Washington. Anzi: sono il Governo di Washington. E decidono anche per l’Europa. La famosa crisi europea, l’altrettanto famosa crisi dell’euro, sono nate dagli Stati Uniti, negli Stati Uniti. Il loro subprime ha innescato tutto ed è esploso nel 2008, sotto il nostro naso, per importare in Europa il loro disastro, che adesso sembra il nostro disastro, solo perché è diventato il nostro disastro.
Ho rivisto il film di Curtis Hanson “Il crollo dei giganti” (Too Bigs to Fail). In quel caso le banche erano nove, ma le cinque di cui sopra c’erano tutte, tra quelle nove, e i proprietari universali di allora erano gli stessi di oggi. E fu il Governo degli Stati Uniti a salvare loro (con l’erogazione di 700 miliardi, approvata dal Congresso) e con quella, segreta e non approvata da nessuno, di 16 trilioni di $, tutti creati dal nulla, per salvare tutte le maggiori banche occidentali che erano, nel frattempo, fallite simultaneamente.
E’ cambiato qualcosa? Niente affatto. Passiamo in Europa. Leggo adesso (ancora  il New York Times) che la Apple ha evaso le tasse negli Stati uniti per la non modica cifra di 44 miliardi di dollari. Scandalo americano? Certo. Ma anche scandalo europeo. Infatti il signor Timothy Cook (il successore del guru Steve Jobs, che ci ha strappato molte più lacrime di quanto meritasse) è andato a Dublino e ha ottenuto dal governo irlandese di pagare appena il 2% dei suoi profitti. Cioè molto al di sotto della già molto bassa tassazione ufficiale locale del 12,5%, la quale è meno della metà di quella francese e tedesca, e meno di un terzo di quella italiana.
Il signor Cook (se lo guardate bene ha una faccia da killer peggiore di quella di Jamie Dimon, CEO della JPMorgan Chase) è riuscito così a evadere 12 miliardi di euro anche in Europa.  Così, leggendo, mi viene in mente il fiscal compact. E penso: ma dov’era la Banca Centrale Europea. E dov’è il signor Mario Draghi? Abbiamo scoperto da poco che avevamo un’off shore in più in Europa. Si chiamava Cipro. Adesso siamo passati a tre: con il Lussemburgo c’è anche l’Irlanda. Ma allora quale disciplina fiscale si può chiedere a Italia, Grecia, Spagna, Portogallo, quando le corporations Usa ricevono questi trattamenti di favore? Chi doveva vigilare? 
Se c’è una dimostrazione della necessità di prendere il controllo della BCE,e sottrarlo a questo maggiordomo, eccola qui squadernata. Che equivale a dire che questa Europa va rivoltata come un guanto. La domanda è sempre la stessa. Quanto tempo perderemo ancora? Per quanto tempo permetteremo a costoro di mettere le mani nelle nostre tasche? Attenti che siamo ormai a un passo dal prelievo forzoso dei nostri risparmi e a due passi dalla privatizzazione selvaggia delle ricchezze nazionali. Verranno, con i denari virtuali, a comprare le ricchezze reali (oro incluso). Poi bruceranno tutta la carta. Noi resteremo poveri in canna, e schiavi. Loro avranno la proprietà dei beni. 
di Giulietto Chiesa

29 maggio 2013

Apologia del brigante




1) Chi è, com'è, per che cosa si batte il tuo brigante?
 
Ringrazio per questo implicito rimando al piccolo libro che scrissi in una sola notte nel 1995, Apologia del brigante. Un tempo che consentiva una sosta dopo la asperrima campagna culturale europea in occasione del bicentenario dell’Insorgenza vandeana (1793-1993) e che già scivolava verso il non meno aspro bicentenario dell’invasione napoleonica dell’Italia e quindi delle immediate e capillari Insorgenze popolari antigiacobine con le conseguenti sanguinose repressioni prolungatesi fino al 1799 (1796-1996). Ligio ad una concezione del mondo fortemente antistoricistica, questo “mio” brigante resta in perenne e pericoloso equilibrio fra la storia e la metafisica, ed ha avuto l’arroganza di individuare tratti esistenziali e spirituali comuni ad esperienze di refrattari ed insorgenti appartenenti
 all’intera parabola della modernità, dal 1789 ad oggi. Un tentativo spericolato che tuttavia ne ha fatto un testo singolarmente fortunato. Provo quindi a rispondere alla domanda descrivendolo meno indegnamente con un po’ di poesia: «Il brigante della nostra storia italiana è un soldato disperso, un seminarista scacciato, un popolano un po’ curvo dal lavoro, che ama, quindi si arrabbia, e quando la campana sona segue il richiamo del cuore, e reagisce. Non ha mezze misure perché non è stato ben educato: non parla franzè, e forse nemmeno italiano. Il bello è che non se ne vergogna affatto, perché non ne comprende punto l’utilità. Capisce meglio il senso del suono della campana e il verso del vento e della civetta… Odia chi chiede sempre qualcosa in cambio di ogni cosa, soprat
tutto denaro. Accetta un signore solamente se l’ha visto diritto a cavallo o curvo sulla stessa sua terra, e se in battaglia se l’è visto davanti. Più di tutto diffida dell’astuzia di mercanti e girovaghi, e odia gli usurai.» Già. Un ritratto molto jungeriano, del tipo d’uomo capace di superare la crisi.
 
2) Fino a che punto è un controrivoluzionario "consapevole"? È cioè qualcosa di più di un ribelle viscerale ad un nuovo ordine che non capisce e non accetta?
 
Non sono certo del fatto che la visceralità sia in realtà un difetto per il brigante di ogni tempo. Nella pratica delle Arti marziali tradizionali si coltiva una “memoria della carne”, frutto di lunga consuetudine col ferro e il movimento, assai più rapida, essenziale e proficua della memoria razionale che di fronte al pericolo di vita si paralizza per la paura. Parimenti per imparare a suonare uno strumento musicale non si usa la memoria razionale, ma una fusione di corpo, occhi e strumento e solo così si suona… Il brigante è figlio di un’epoca di trasmissione pratica e diretta della cultura; la visceralità gli appartiene come un’arma in più. Vi sono quindi forme di consapevolezza fredde e razionali, e viceversa calde ed organiche; la mia scommessa risiede nella speranza che oggi le seconde abbrac
cino le prime, impedendo loro di decadere nell’intellettualismo borghese. 
Post Scriptum: per il brigante rifiutare un “nuovo ordine”, quello illuministico-giacobino, significa già averlo compreso nella sua essenza, e aver fatto l’unica scelta di campo possibile.
 
3) Alla grancassa retorico-oleografica del Risorgimento buono e giusto, non rischia di contrapporsi una grancassa uguale e contraria dell'Anti-Risorgimento?
 
Questo non è un rischio bensì un’esperienza quotidiana; ma deve esser detto con grande chiarezza che la responsabilità storica di questo brutto gioco di semplificazioni, impoverimenti, becerume contrapposti deve essere completamente addebitato alla parte “ufficiale” della cultura italiana degli ultimi 150 anni (in fila indiana savoiarda, liberale, azionista, marxista), che ha contagiato con fanfare e retorica deamicisiana anche molti (ma non tutti, con buona pace di Alessandro Barbero) dei suoi critici; come se la dogmatica ideologica fosse, secondo un tour d’esprit assolutamente moderno, il filtro obbligato per la lettura della realtà: mentre cambiando il colore del filtro, tocchiamo con mano come la deformazione non muti. Prova ne sia che chi cerca di esimersi da questo reciproco g
ioco di insulti – come noi - viene tendenzialmente emarginato. Già Alexander Solgenitsin ci aveva ammonito attorno alle modalità con cui si esercita la ferrea censura culturale nell’occidente, e decenni di egemonia gramsciana in Italia hanno ulteriormente irrigidito queste tagliole. Nell’esperienza di Identità Europea, la benemerita Associazione di cui sono ora il 3° Presidente dopo Franco Cardini e Francesco Mario Agnoli, ci siamo confrontati ripetutamente con questo stile paradossale che premia il becero insulto da TV e fugge dal confronto serio: già nell’anno 2000 dovemmo salvare in extremis la grande Mostra “Risorgimento. Un tempo da riscrivere” presentata al Meeting di Rimini dal tentativo di insabbiarla operato dalla combine marxista-azionista (una Mostra che ha dimostrato tutta la sua v
alidità proprio nell’anno del 150°). Nello stesso anno non possiamo non ricordare la triste sorte del film Li chiamarono briganti di Pasquale Squitieri, che venne censurato da smaccate pressioni politico-ideologiche e ancor oggi gira solamente in samizdat. E proprio quest’anno non siamo singolarmente riusciti ad avere uno spazio –per quelle che appaiono indubitabilmente delle pressioni ideologiche - per presentare a Gorizia, dentro E’Storia, l’ultimo saggio di Francesco Mario Agnoli La vera storia dei prigionieri borbonici dei Savoia, che rimette alcune importanti questioni al loro posto dopo la pubblicazione del pamphlet di Alessandro Barbero I prigionieri dei Savoia. Con tutta evidenza il kombinat marxista-azionista continua ancor oggi ad esercitare l’arte del dibattito storiografico juxta propria principia. Di tutto ciò il brigante non si stupisce affatto…
 
4) Come si spiega la nuova valutazione dei briganti da parte di storici liberal-democratici, laici, antitradizionalisti e "patriottici" come, ad esempio, Arrigo Petacco e Giordano Bruno Guerri?
 
In parte sulla base di semplici questioni di mercato: la questione del Brigantaggio “tira” ed attira pertanto una pletora di pubblicazioni pseudo divulgative di livello in media veramente sconsolante, opera di consolidati professionisti del ramo (e del livello). In parte dall’esigenza di recuperare quella che è senz’altro una smaccata sconfitta del kombinat di cui sopra attraverso una riproposizione oltretutto impoverita della classica interpretazione gramsciana del brigantaggio antiunitario come forma ancora inconscia di lotta di classe nel mezzogiorno arretrato. Ciò che unifica tutte le voci di questa reinterpretazione laico-patriottica sono appunto i due corni di una rivalutazione finale del processo storico di costruzione di uno stato giacobino-central
ista, anche addolcendo la pillola con il miele tossico del “senso della storia” (e come ben sappiamo dalla lezione di Franco Cardini, la storia un senso immanente non ce l’ha), la stupefacente rimozione di tutti i fatti di Insorgenza avvenuti fuori dal Meridione d’Italia dal 1792 in poi e della voluta e completa rimozione delle motivazioni spirituali ed antropologiche (ossia cattoliche) dello scontro europeo fra “antico” e “nuovo” regime. Nel momento in cui la modernità con tutti i suoi idola sta crollando su se stessa, uccisa dai veleni da essa stessa prodotti, dopo un secolo in cui le ideologie della modernità hanno dato il peggio di sé proprio affermandosi, non è tollerabile per costoro dover prender atto che d
alla Vandea in poi i “briganti”, gli insorgenti, l’intransigenza cattolica stavano dalla parte giusta. Avevano ragione loro, cioè noi.


di Adolfo Morganti - Mario Bernardi Guardi 

27 maggio 2013

Il signoraggio nasce con la nascita della moneta





Qualche anno fa ho conosciuto a Roma, in metropolitana, un signore distinto, professore all’Università di Teramo, che mi raccontò una storia: quell’incontro mi è servito a capire meglio ilRisiko giocato dai banKster sulle nostre vite. La moneta, mi disse, è uno strumento “econometrico”, sostitutivo del rudimentale baratto, che serve per misurare il valore nelle transazioni commerciali. Originariamente il valore della moneta era pari al valore dei metalli usati (oro, argento, rame ecc.): i sovrani acquistavano sul mercato i vari metalli, li convertivano in monete e questi nuovi valori ritornavano in circolo sul mercato stesso. Il sovrano tratteneva per sé un piccolo guadagno, corrispondente alle spese di coniazione e di amministrazione: nasceva così il “signoraggio”. La scarsa reperibilità di oro e argento ha comportato una carenza di quantità di denaro in circolo sul mercato, determinandone la stasi, ed ecco perché è nata la moneta convenzionale.

L’usurpazione perpetrata dal sistema bancario ai danni dello Stato, nella gestione e nell’emissione monetaria, ebbe inizio quando i banchieri cominciarono a prestare i certificati, rappresentativi di oro ed argento, da loro stessi emessi: nacque così la note of bank, ovvero, la banconota. I bankster si arrogarono il diritto di stampare banconote in vece dello Stato che poi acquistava il valore nominale delle banconote ricevute pagando con dei titoli cosiddetti di “debito pubblico”. I banchieri cominciarono, poi, ad emettere banconote in quantità ben superiore all’oro posseduto. Pertanto, così facendo, aumentarono il capitale ed ottennero il pagamento degli interessi anche a fronte dei titoli cartacei prestati, ma privi di riserva aurea.

ll 15 agosto 1971, Forte Knox era stato quasi svuotato dalla Francia che presentava all’incasso i titoli per convertirli in oro, come prevedeva il vigente trattato di Bretton Woods: ma i banchieri avevano stampato Dollari per 9 volte il valore dell’oro che possedevano. Il Presidente Nixon dovette spazzare i patti di Bretton Woods e sospese la convertibilità del Dollaro in oro: il dollaro, però, mantenne inalterato il proprio valore. Il valore della banconota non è determinato dalla sua riserva aurea, ma unicamente da una convenzione sociale. Ciò comporta che la Banca d’Emissione guadagna un lucrosissimo signoraggio che consiste nella differenza tra il valore facciale stampato sul foglietto e il costo della carta e dell’inchiostro sostenuto per realizzare i biglietti stessi. E’ evidente come non possa essere consentito alla Banca d’Emissione d’impossessarsi del signoraggio in occasione dell’emissione monetaria: il signoraggio deve essere solo ed esclusivamente di proprietà dello Stato. E’ lo Stato che deve garantire la stabilità di un mercato tenendo sotto controllo il rapporto tra circolazione monetaria e beni da misurare: se il mercato dispone e produce maggiori beni, occorre maggior quantità di moneta, per non incorrere nella “deflazione”; quantità che va ridotta in caso di diminuzione dei beni stessi, per non creare “inflazione”.

Ora, è evidente come l’attuale crisi economica è stata realizzata mediante la folle distribuzione di titoli inventati, piazzati dalle grandi banche ai privati ed alle stesse banche minori, valori poi volatilizzati.Lo Stato deve ritornare alla propria emissione monetaria diretta, non solo per riacquisire la propria sovranità economica e politica, ma ancor più per smettere d’indebitarsi per acquistare al valore facciale la moneta emessa dai bancheri pagandola con i propri titoli di debito, sui quali scatta da subito anche il pagamento degli interessi passivi. Queste crisi vengono organizzate per sottrarre beni e sistemi produttivi ai legittimi proprietari, per farli confluire alle grandi multinazionali controllate dai banchieri stessi. Ah, già ! … quel signore in metro era Giacinto Auriti, al quale prima della sua morte ho potuto donare, grazie a Savino Frigiola, la sentenza n. 3712/04 del GdP di Lecce, prototipo della provocazione giudiziaria del cittadino ai Signori delle banche.
 

di Antonio Tanza 

25 maggio 2013

Banca di Stato: se ne parla. In USA



Come qualcuno ricorderà, c’è un solo Stato americano ad avere la sua banca pubblica: è il Nord Dakota. Ed è il solo Stato americano il cui bilancio pubblico non è passato al passivo dal 2008 (data della crisi bancaria); quello che ha il tasso minore di sequestri di immobili per insolvenza, e la minor percentuale di defaults sulle carte di credito. Lo Stato è così sano, che ha potuto permettersi di ridurre le tasse sul reddito e sulla proprietà nel 2011 (1). Il segreto del successo è l’accesso al credito, che la banca pubblica, Bank of North Dakota (BND), ha mantenuto aperto anche nei momenti peggiori della crisi quando – come in Italia ed Europa – le banche privata prosciugano il loro. La BND non s’è messa in competizione con le banche commerciali, ma vi si associa, intervenendo per completare le esigenze di capitale e liquidità richieste. Essa ha un proprio programma di prestiti chiamato Flex PACEm che aiuta le comunità locali ad assistere i debitori in precisi settori: mantenimento dei posti-lavoro (job retention), creazione di tecnologie, vendite al dettaglio, piccole industrie e servizi pubblici essenziali. Nel 2010 gli interventi del Flex PACE sono cresciuti del 62% per finanziare servizi pubblici essenziali, e ciò ha trascinato l’aumento del credito partecipato delle banche commerciali, cresciuto del 64%. La banca fa profitti, che vengono retrocessi allo Stato; i depositi e le riserve della BND (crescenti ininterrottamente anche nel pieno della crisi) vengono tenuti nello stato ed investiti entro i suoi confini.

La novità è che in Usa, la patria ideologica del liberismo selvaggio, l’idea sta prendendo piede. Una ventina di Stati stanno considerando di varare una legislazione che renda possibile una banca pubblica in funzione anti-ciclica. Non basta: il 2-4 giugno, all’università dei domenicani a San Rafael (California), si terrà una grande «Public Bank Conference» per diffondere l’idea, su un tema che credo non necessiti di traduzione: «Funding the New Economy».

Organizza la conferenza una fondazione culturale che, confesso, mi giunge nuova: il Public Bank Institute. Più volte abbiamo parlato della funzione e del potere delle fondazioni culturali in America: strumenti di elaborazione intellettuale e politica, e di pressione e lobby sul governo, tali fondazioni sono finanziate da grandi gruppi e famiglie oligarchiche (l’importantissimo Council on Foreign Relations dai Rockefeller e dai Ford, ad esempio) e promuovono gli interessi dei loro finanziatori, essenzialmente il liberismo globale e il superamento delle sovranità nazionali.

Il Public Banking Institute è una ardita eccezione. Se si guarda al suo board e ai suoi comitati di consulenti, si scopre una netta mancanza di miliardari e di «autorevoli personalità» alla Kissinger e Brzezinski. La presidentessa è Ellen Brown, famosa in America come autrice del saggio «Web of Debt», un documentatissimo atto d’accusa sulla speculazione bancaria e come la finanza privata «ha usurpato il diritto del popolo alla sua moneta». Gli altri direttori sono uno sperimentato funzionario pubblico della Pennsylvania, una laureata in ingegneria elettronica che lavora per l’industria spaziale, un antropologo che ha fondato piccole imprese in settori «alternativi». Nel comitato degli advisors, trovo un docente emerito della business school di Stoccolma, un medico nato in Estonia, un architetto, diversi esperti del «terzo settore» che di quello vivono. Insomma, dei cittadini normali. (Board and staff Advisory Committee)

Ad aprire la conferenza, oltre alla citata Ellen Brown, la sola «celebrità» che vedo è Matt Taibbi, il giornalista di punta del «Rolling Stones Magazine», che parlerà sul tema: «Reclamiamo la nostra economia da Wall Street col public banking». Poi è stata invitata una signora Birgitta Jonsdottir, in quanto «deputata del parlamento d’Islanda» e Gar Alperowitz, docente di economia politica all’università del Maryland, che risulta autore di un saggio «America oltre il caputalismo»: si può solo immaginare quanto successo abbia avuto fra un’opinione pubblica del tutto votata al liberismo dogmatico. Lo stesso Alperowitz lo ammette: «Per la maggior parte degli americani è difficilissimo riflettere abbastanza a lungo da capire quanto profondamente il loro modo di pensare è stato ingabbiato dai padroni della finanza, in modo molto, molto più insidiosi e potenti di quanto dimostri la crisi finanziaria attuale».

La sola idea di public banking, per un pubblico americano così condizionato, è ovviamente qualcosa che si avvicina al «comunismo», la pretesa di instaurare in Usa il socialismo sovietico. Cambiare questa idea fissa da parte di persone che non sono perennemente viste nel talk shows, e possono essere facilmente bollate come sinistroidi, e per di più che non hanno dietro le casse del Big Business, sembra una battaglia persa in partenza. Eppure, questo gruppo ci prova.

Ed è questo fermo coraggio civile, fra le cose deplorevoli, da ammirare nell’America. L’idea che le idee nuove vanno poste all’agone pubblico, portate con tutta la forza nel dibattito, nonostante tutti gli ostacoli. Se facciamo il confronto con l’Italia, e l’Europa, vediamo come non solo il dibattito pubblico sui temi più urgenti (uscire dall’euro? far tornare le banche centrali sotto lo Stato? ) è bloccato di «divieti di pensare» preventivi, censure sorvegliate dai media e dai privilegiati dello status quo, come e più che in Usa; ma vediamo anche, dall’altra parte, l’incapacità totale di una minima elaborazione intellettuale.

Chi aveva sperato nel 5 Stelle (noi un po’ fra questi), si aspettava di vederli subissare il parlamento di idee nuove, di proposte di legge audaci come il public banking e ancor più ardite, per costringere a discuterle e a diffonderle. Invece vediamo il «nuovo» partito incagliato da settimane nella accanita discussione su cosa? Sui rimborsi-spese di loro stessi parlamentari. Su qualunque idea e proposta «discutibile» (come devono essere: le idee vanno discusse, si deve lottare, si deve convincere...) i 5 Stelle se la cavano: facciamo un referendum. Ius solis? Facciamo un referendum. Uscire dall’euro? Si può fare un referendum. Imu? Un referendum, magari sul web. Così decide «la gente» – democrazia orizzontale, diretta e continua, dicono. Invece è scarico di responsabilità. La verità è che non sanno decidere loro, che la gente ha votato per decidere (2).

Pochezza intellettuale? Anche. Ma forse peggio, è pochezza morale: «paura» di gettare nello spazio pubblico le idee, perché non le si sa difendere ed argomentare; e perché un’idea «divide», fa perdere elettori; ad esprimere idee ci si fa impallinare, deridere, bollare (se qualcuno fosse così audace di proporre la banca di stato) come – a piacere – «fascista», «comunista», statalista e populista, e quasi sicuramente complottista e antisemita – dai media che contano.

È per questo che, se qualcosa cambierà mai nel pensiero unico totalitario globale, il cambiamento verrà (ancora una volta) dall’America, dove c’è ancora gente che formula soluzioni e si batte per le idee. Solo allora si comincerà a parlare della cosa anche da noi, ma solo perché sarà diventata una moda americana: come le nozze gay… Nel frattempo il PD, invece di pensare ed esporre idee sull’intervento pubblico in economia (una volta era la sua «dottrina»), discute nelle sue varie componenti allo scopo di esprime il suo mal di pancia per dover governare con Berlusconi; e ciò, da settimane.

Nel frattempo in Usa escono studi scientifici dal titolo: «L’Opzione pubblica: a favore di banche parallele pubbliche» (The Public Option: The Case for Parallel Public Banking Institutions,») pubblicato nel giugno 2011 da Timothy Canova, docente di Diritto Economico Internazionale alla Chapman University della contea di Orange, California. Il professore spiega come «lo Stato (del Nord Dakota) deposita tutti i suoi introiti fiscali presso la Banca di Stato, la quale dal canto suo assicura che una gran parte dei fondi dello stato siano investiti nell’economia dello Stato stesso. Inoltre, la Banca restituisce alla tesoreria statale parte dei suoi guadagni. Anche per questo il Nord Dakota è il solo Stato che ha un costante surplus di bilancio dall’inizio della crisi finanziaria, e il più basso livello di disoccupazione degli Stati Uniti»: 3,3 % nel 2011.

Al contrario la California, la più ricca economia del Paese «ma priva di una banca di Stato, non riesce a investire centinaia di miliardi di dollari di gettito e altri introiti dello Stato in investimenti produttivi dentro lo Stato. La California deposita miliardi degli introiti tributari in grandi banche private, le quali investono i fondi all’esterno, e in trading speculativi (comprese scommesse coi derivati «contro» i titoli pubblico della California), e non rimettono i loro profitti alla tesoreria pubblica. Intanto la California soffre di restrizioni del credito, alta disoccupazione al disopra della media nazionale, e stagnazione del gettito fiscale». (The Case for Parallel Public Banking Institutions)

Il parassitismo della finanza privata è bel illustrato dal caso californiano: questo Stato ha affidato alle banche d’affari di Wall Street gli «investimenti» per assicurare pensioni ai suoi dipendenti: si calcola, 500 miliardi. Su questo capitale, i maghi della finanza hanno dato alla California 1 miliardo di rendita; un bellissimo rendimento dello 0,20%. In compenso, i maghi di Wall Street, per le loro commissioni, si sono trattenuti 2 miliardi. Succede così che lo Stato non può pagare tutte le pensioni, è sotto di 27 miliardi, e deve rincarare le imposte (ed ha licenziato 20 mila insegnanti in un continuo programma di austerità).

Farid Khavari
  Farid Khavari
Nel 2009, un economista di nome Farid Khavari si è candidato a governatore della Florida con un programma centrato sulla fondazione di una banca pubblica: una banca che «crea prestando 25 dollari per ogni dollaro depositato» (come le banche private: è il capitale richiesto dalla Banca dei Regolamenti Internazionali) ma, al contrario di quelle, «per il bene pubblico invece che per loro profitto». Khavari ha documentato che una tale banca, prestando al 6% sulle carte di credito e al 3-4% sui prestiti commerciali, potrebbe coprire il fabbisogno del bilancio dello Stato; e nei momenti di restrizione e depressione, lo stato può prestare a se stesso allo 0%, risparmiando le enormi spese di interessi passivi, la pietra al collo che ben conosciamo come italiani.

Khavari non ha vinto la competizione, non è governatore della Florida; non ha convinto i suoi concittadini. Il suo resta tuttavia un atto di quel coraggio politico (intellettuale, ma soprattutto morale) di cui abbiamo deplorato la mancanza in Italia. D’altra parte, la promozione di una riforma monetaria che sottragga alle banche private la creazione di liquidità dal nulla (e la relativa scrematura di profitti dai produttori di ricchezza reale) è stata, in Usa, compresa da alcune delle migliori menti della loro storia: da Benjamin Franklin a Thomas Jefferson («Il circolante deve essere restituito al popolo, cui appartiene»), da Edison a Charles Lindbergh sr., fino al grande economista di Yale Irving Fisher, che in piena Grande Depressione propose l’abolizione della riserva frazionaria (le banche potevano emettere tanti prestiti, quanti depositi avevano, non più: 100 % money). Ovviamente, potenti interessi hanno contrastato queste idee e proposte, fino ad oggi con il ben noto successo. Ma come si vede, la lotta continua.

Quanto a noi, limitiamoci a ricordare che un settore bancario pubblico è stato non l’eresia innominabile, bensì la «normalità» per lunghi periodi della nostra storia recente; la cultura e il know-how delle economia politica era stata assimilata, e le banche pubbliche fecero sostanzialmente meglio, per lo sviluppo, delle private. Del resto la scarsità di vere capacità imprenditoriali (da noi gli imprenditori tendono a diventare redditieri, senza rischiare) e di capitalisti di rischio (abbiamo sempre avuto «capitalisti senza capitale») hanno reso l’intervento pubblico in economia una pura e semplice necessità.

Solo da un certo periodo in poi il sistema si guastò perché ebbero conferma le accuse che gli ideologi del «più privato meno Stato» volgono al sistema economico antagonista, ossia che mettere in mano il potere bancario ai politici significava mettere a loro disposizione il mezzo per la corruzione loro ed altrui, l’ingrasso delle loro clientele e la mala, inefficiente allocazione delle risorse finanziare.

Questa obiezione è sicuramente vera e sensata, come noi italiani sappiamo fin troppo bene. Anche se proprio il Nord Dakota, con le sue interessanti metodologie di «sterilizzazione» dell’attività della banca pubblica dalle voglie dei politici, la smentisce. Una gestione pubblica oculata ed efficace, di fatto più efficiente del credito privato, è possibile, e lo Stato americano lo dimostra. Certo è che, da noi, un ritorno del «pubblico» in economia non è neppure pensabile, fino a quando l’attuale classe «politica» non sarà eliminata, e le caste amministratrici non recuperano, con la competenza, il senso della missione al servizio della nazione. Qualità che un tempo possedeva, e che il pluripartitismo insaziabile ha guastato.

Ma non abbandoniamo la speranza. Le borse salgono mentre l’economia collassa seppellendo milioni di disoccupati sotto le sue macerie: è l’assurdo, aberrante «impiego» che trova l’inondazione di liquidità della Fed, della Banca centrale nipponica e di nascosto, della BCE. In tal modo, il sistema finanziario privato succhia per sé le ultime gocce di ricchezza reale che i produttori stanno smettendo di produrre. La scarsità di credito nel mare di liquidità mostra la sua essenza assurda, intollerabile.

Il capitalismo terminale suscita energie e volontà di combatterlo, e le idee per riformarlo sono in campo. Non da noi, certo. Ma viene a mente una vecchia barzelletta dei tempi sovietici; uno degli apocrifi di «radio Erivan», un’emittente comunista che distillava in pillole il verbo sovietico, ossia propaganda ideologica. Un ascoltatore chiede a Radio Erivan:

«Che cosa fa il capitalismo?»

Risposta: «Corre alla propria rovina»

«E qual è lo scopo supremo del socialismo?»

«Raggiungere e superare il capitalismo!».

Qualcuno ha detto, negli anni ’90 quando crollò il Muro, che assistevamo alla seconda parte di questa barzelletta. La prima doveva ancora avverarsi, ed è qui.





1) Naturalmente, si suole eccepire che il Nord Dakota è uno stato di soli 700 mila abitanti, dove tutti i politici sono sotto l’occhio della cittadinanza, e per di più ha un buon settore petrolifero. Tuttavia l’Alaska, con popolazione poco superiore e un settore petrolifero almeno doppio, ha un tasso di disoccupazione del 7.7%, il doppio del N.D.
2) In questo senso, ai lettori che giustamente mi facevano notare la tenebrosa ideologia «esoterica» di Casaleggio e Grillo, ho replicato chiamando Grillo «il Gran Belinone»: essenzialmente, volevo indicare l’incapacità di elaborazione intellettuale dei leader del movimento. Il duo «esoterico» non ha propriamente idee, ma spezzoni malcotti di idee altrui, residui slegati di utopie depassées, assunti per giunta non come temi del dibattito, ma come atti di fede. Nello stesso senso qui, mentre i media celebravano a comando «il tecnico» Mario Monti, lo si è chiamato «un solenne cretino»: cretino, ancorché indubitabilmente solenne. Privo di idee e di competenza, ha precipitato il collasso dell’economia nazionale applicando le ricette eurocratiche, senza il minimo discernimento. Con ciò, non vogliamo risparmiare gli altri. Abbiamo visto spesso l’azione delle Fondazioni culturali in Usa, la loro funzione motrice e di centrali di idee. Ci sfugge, e resta inosservata, la produzione intellettuale della Fondazione culturale di D’Alema, che se non sbaglio si chiama «Italianieuropei»; nessuna aspettativa per contro, abbiamo avuto in FareFuturo, la fondazione «culturale» Gianfranco Fini, il politicamente defunto: la parola stessa «culturale» qui è fuori luogo. Le fondazioni in Italia sono un altro trucchetto per succhiare denaro pubbblico e distribuirlo a compari «intellettuali». La stretta attualità ci obbliga poi ad additare, fra gli esempi preclari di insufficienza intellettuale, l’accanimento paranoide della d.ssa Ilda Boccassini: la quale, sulla base di indizi pericolanti smentibilissimi in appello, ha chiesto per Berlusconi 6 anni di galera e l’interdizione perpetua dai pubblici uffici. Sei anni di carcere, i nostri magistrati non li danno più nemmeno per l’omicidio premeditato (specie se l’omicida è un extracomunitario). I magistrati stanno facendo un’altra volta di tutto per dar ragione al Cavaliere: è un perseguitato, indubbiamente. 

di Maurizio Blondet


24 maggio 2013

La privatizzazione della politica e il Moloch dello sviluppo



LA PRIVATIZZAZIONE DELLA POLITICA E IL MOLOCH DELLO SVILUPPO
La tragedia avvenuta in Bangladesh riaccende i riflettori sulla questione delle esternalizzazioni nella produzione di beni da parte dei grandi marchi. La produzione materiale di abiti, macchinari e accessori tecnologici avviene spesso in Paesi del terzo mondo o cosiddetti emergenti; se da una parte c’è l’ovvia e immediata ragione economica (produrre in quei Paesi, dove le telecamere non sono mai accese, a costi ridottissimi e mantenendo in condizioni di semi-schiavitù la forza lavoro), dall’altra c’è anche la questione del marchio.
Il vero marchio trascende il prodotto in sé e diventa un’esperienza di vita, diventa filosofia di vita e parte della vita stessa, trascende il prodotto fisico anzi, il sogno dei grandi guru dei marchi è proprio quello di disfarsi del prodotto e di vendere il concetto, l’esperienza, l’emozione che esso contiene. Diventa difficile parlare di territorialità e di legame con il territorio quando si tratta di questi colossi, e internet diventa quindi lo spazio ideale per i marchi, “liberati dai Paesi del mondo reale dei negozi e della produzione, questi marchi sono liberi di elevarsi, proponendosi non tanto come diffusori di merci o servizi quanto come allucinazioni collettive” (1).
La politica non è da meno e le due amministrazioni Bush Jr. hanno attinto a piene mani dal modello delle hollow corporations, consultando esperti di indagini di mercato e di marchi. Difesa dei confini, protezione civile, intelligence e missioni militari all’estero sono state tutte appaltate a settori privati; il direttore del fondo di finanziamento, Mitch Daniels, ha espresso chiaramente il concetto: “il governo non ha il compito di fornire servizi, ma di accertarsi che siano forniti”. Chealrotte Beers, che aveva diretto diverse agenzie pubblicitarie, venne assunta come sottosegretario alla Diplomazia e agli Affari Pubblici e le critiche per quella nomina furono respinte dal segretario di Stato Colin Powell con queste parole: “Non c’è niente di male ad assumere una persona che sappia vendere. Noi vendiamo un prodotto, e ci serve qualcuno che possa rinnovare il marchio della politica estera e della diplomazia americana”.
La Lockheed Martin, famosa tra le altre cose per la paternità dei discussi caccia F-35, è il più grande appaltatore al mondo della difesa, e un’inchiesta del 2004 del “New York Times” elencava tutti gli ambiti in cui opera, tra cui l’organizzazione del censimento nazionale, la gestione dei voli spaziali e l’assistenza sanitaria. La privatizzazione della politica si estende anche oltre i patri confini: l’occupazione militare dell’Iraq ha visto un consistente impegno di compagnie private quali Blackwater e Halliburton. Quando uomini della Blackwater aprirono il fuoco in piazza Nisour a Baghdad, uccidendo diciassette civili, l’amministrazione statunitense se ne lavò le mani scaricando sugli appaltatori tutta la responsabilità, e la compagnia risorse rinnovando il marchio e assumendo il nuovo nome di Xe Services.
Gli attentati dell’11 settembre 2001 strinsero la nazione attorno al presidente Bush, molto contestato e molto poco apprezzato, e raccolsero molti Paesi europei e non, ostili a quell’amministrazione, attorno agli USA, cosicché l’intervento militare in Afghanistan venne accettato. La guerra all’Iraq fece però scendere nuovamente le quotazioni della Casa Bianca all’estero e a lungo andare anche all’interno della nazione. Il marchio USA era ai minimi storici, finché non arrivò Obama.
Barack Obama, durante la sua prima campagna presidenziale, ricevette più finanziamenti da Wall Street di qualsiasi altro candidato e, una volta eletto presidente, ha confermato nei gangli delle istituzioni economiche e finanziarie persone come Ben Barnake, e continua tuttora sulla strada neoliberista.
Le strategie geopolitiche statunitensi non cambiano: ostilità aperta nei confronti dell’Iran, un uso intensificato dei droni nelle zone di guerra, sostegno incondizionato a Israele (nonostante l’evidente e autentica antipatia di Obama per Netanyahu), opposizione a un blocco europeo unitario, Guantanamo rimane tuttora aperta e funzionante e Obama si è opposto ai processi contro i responsabili di Bush che autorizzarono le torture (2).
Si assiste così a una progressiva privatizzazione dello Stato e della res publica e delle relazioni internazionali. Il liberalismo economico è diventato un modello per i governi occidentali, d’altra parte il capitalismo è anche il portatore di una sua propria antropologia, quella dell’Homo  oeconomicus con la relativa riduzione di qualsiasi cosa a merce, a valore economico con una conseguente tendenza a ridurre i costi. La penetrazione del modello occidentale, che ha come modello gli Stati Uniti  ma che ormai li ha superati e inglobati, passa attraverso la proliferazione dei bisogni di nuovi beni da acquistare.
Il modello dello sviluppo prevede sempre nuovi consumatori e nicchie di mercato in ogni angolo del mondo, poiché ha bisogno di una inarrestabile ed esponenziale crescita. La crisi strutturale che stiamo vivendo e la consapevolezza che questo modello di crescita infinita non si concilia con un sistema chiuso e finito, quale è il nostro pianeta, stanno accelerando e diffondendo ideologie alternative, quali comunitarismo e decrescita.
Inquinamento e sfruttamento dell’ambiente stanno facendo sensibilizzare l’opinione pubblica, senza però mettere veramente in discussione il nostro modello, facendo così parlare di sviluppo sostenibile e di green economy; ma, come scrive Serge Latouche, per tentare di scongiurare magicamente gli effetti negativi dell’impresa sviluppista, siamo entrati nell’era degli sviluppi con l’aggettivo. […] Affiancando un aggettivo al concetto di sviluppo, non si rimette veramente in discussione l’accumulazione capitalista. […] Questo lavoro di ridefinizione dello sviluppo […] si regge sempre su idee di cultura, natura, giustizia sociale. Si ritiene di poter guarire un Male che colpirebbe lo sviluppo in modo accidentale e non congenito. […] Lo sviluppo sostenibile è il più bel risultato di questa arte di ringiovanimento dei vecchi tempi. Illustra perfettamente il processo di eufemizzazione attraverso gli aggettivi volti a cambiare le parole ma non le cose”.
Qual è allora un modello credibile e alternativo a quello dello sviluppo? Il punto è proprio questo: non esiste una grande potenza o un continente, una confederazione di stati e nazioni che possa offrirne uno. Crollato il blocco sovietico, è crollato anche il contrasto tra due grandi modelli e quello sopravvissuto ha invaso il mondo, sia pure con adattamenti particolari. Si tratta quindi di trovare una via che non metta al centro il profitto e i mercati, ma comunità, identità e non veda il pianeta contemporaneamente come una miniera da sfruttare indefinitamente e come discarica.

di Francesco Viaro 


* Francesco Viaro è laureato in Lingue e Letterature straniere presso l’Università degli Studi di Padova.

23 maggio 2013

Il Partito Democratico non ha ragione di esistere




   
   
Io, cittadino stufo della farsa partitocratica, non ce l’ho col Pd. È il Pd a avercela con me e con l’Italia. E con sé stesso. È nato nel 2008, questo bambino deforme, dall’unione contro natura e mal riuscita fra ex democristiani di sinistra ed ex comunisti di destra. I militanti pecoroni - verso i quali, spiace, ma non può esserci più comprensione - si sono bevuti la sola del Partito Democratico sul modello americano: una fregnaccia di Prodi e Veltroni che pretendeva di cancellare la storia centenaria di due tradizioni politiche e culturali con le loro peculiarità, idiosincrasie, incompatibilità, identità.

La solita cialtroneria italiana, al servizio di un disegno ben preciso e serissimo nella sua pericolosità: omologare i paesi occidentali al sistema partitico anglosassone, ideale per imporre una dialettica semplificata e distorcente non sul cosa, ma sul come gestire l’ordinaria amministrazione, coi veri piloti in cabina – gli interessi finanziari sovranazionali - a decidere la rotta unica e obbligata.

L’arrivo in scena del berluschino – o veltronino - Renzi è la ciliegina sulla torta: lui non finge neanche più di essere di sinistra nell’accezione comunemente accettata della parola, rappresenta l’indistinto luogo comune trasversale (il merito, più mercato, più efficienza, più modernità, più leggerezza, e già che ci siamo più figa per tutti).

Dopo cinque anni, l’aborto è palese. Lo snobismo, la sicumera, la scissione d’origine mai composta e rimescolata nel duello generazionale più che sostanziale Bersani-Renzi, l’annacquamento di ogni istanza nel “ma anche”, lo spadroneggiare di potentati a volte criminali hanno portato alla sconfitta netta delle elezioni politiche e alla caporetto del Quirinale, con 101 parlamentari ancora in incognito che hanno abbattuto a colpi di voto segreto il padre fondatore Prodi, dando la plastica dimostrazione che il Pd è davvero Pdmenoelle: meglio riconfermare Napolitano, sommo sacerdote dell’inciucio, andando così al governo assieme al finto nemico Berlusconi, che optare per la traversata nel deserto (i grillini non avrebbero comunque sostenuto un loro governo di minoranza, o almeno si spera) ma a testa alta.

Ora, se fossi un iscritto al Pd, nel guardarmi allo specchio mi sputerei in faccia. Che ci starei a fare in un nido di serpi, ciechi, illusi e complici in malafede che ha suggellato vent’anni di collusione con Silvio, odiato a parole e servito e riverito nei fatti? Se fossi onesto con me stesso, straccerei la tessera. L’opa ostile di Grillo ai giovani che occupano le sedi è nella logica delle cose, sempre che le cose debbano ancora avere una logica, in questa Italietta di eunuchi e saltimbanchi. Occupy Pd? Refuse Pd! Non c’è più alcuna ragione sensata per cui una persona dotata di cervello e in buona fede resti ancora là dentro. In nome della sinistra? Ma la sinistra resiste soltanto come mito reazionario, per far sopravvivere un immaginario superato e arcisuperato mentre in tutte le scelte fondamentali la sedicente sinistra col marchio Pd ha sposato l’ideologia dominante liberal-liberista, giusto un pelo temperata e camuffata con la retorica delle liberalizzazioni pro-consumatori (quando in realtà sono pro-grandi catene, come guarda caso le coop). In nome dell’antiberlusconismo? Oggi risulta arduo perfino pensarlo, visto che sono tutti seduti amorevolmente insieme a Palazzo Chigi a brigare per tornare agli antichi fasti (magari con norme ad hoc per far fuori il Movimento 5 Stelle, su cui il pacato commento non può che essere uno: farabutti!). 

In nome dell’Europa? Ma ormai lo capisce anche un decerebrato che l’Unione Europea è stata una solenne fregatura, tanto è vero che adesso non si trova un difensore delle regole di Maastricht (3% di deficit consentito, la legge ferrea dell’oppressione) neanche col lanternino.

In nome di che, di grazia, il Pd ha ancora un motivo valido di esistere? Con tutta la buona volontà, non riesco a trovarlo. Ah certo, uno c’è: fare i guardiani della controrivoluzione, reggendo pure il moccolo al beneamato Silvietto. Ci risparmino la sceneggiata, i presunti giovani del Pd. Se vogliono cambiare l’Italia, si suppone in meglio, non c’è unica via che lasciarlo. Ha fatto troppi danni e continua a farli.

Alessio Mannino   

22 maggio 2013

A CAPACI NON C'ERANO SOLO GLI UOMINI DI TOTO' RIINA


A CAPACI NON C'ERANO SOLO GLI UOMINI DI TOTO' RIINA


"La strage di Capaci è al 90% di mafia, il resto lo hanno messo altri, per quella di via D'Amelio siamo 50 e 50 e per le stragi sul continente la percentuale mafiosa scende vertiginosamente".
Luca Cianferoni, avvocato di Toto' Riina, 2010.


La strage di Capaci non fu opera solo degli uomini di Toto Riina: ormai si può affermare questa verità oltre ogni ragionevole dubbio.

La strage di Capaci non fu opera solo degli uomini di Toto Riina: ormai si può affermare questa verità oltre ogni ragionevole dubbio.

Un uomo della Gladio siciliana mi ha parlato concretamente di un "doppio livello" nella strage di Capaci. Lo incontrai nel maggio del 2010 e durante una lunga conversazione mi disse: "non penserà mica che fu opera soltanto di quattro mafiosi?". Qualche anno prima il boss Giovanni Brusca, l'uomo che schiacciò il telecomando appostato sulla collinetta a ridosso della strada, aveva ribadito, tanto tempo dopo, la sua incredulità per il "successo" dell'assalto. Disse così al magistrato Luca Tescaroli: "Quattro stupidi...quattro stupidi, perché poi alla fine eravamo...un po' di persone, in maniera molto rozza...in maniera artigianale, siamo riusciti a portare a termine un attentato così importante". Non poteva ancora crederci che avevano fatto tutto da soli.

L'agguato teso all'auto di Giovanni Falcone, tecnicamente un'imboscata, fu realizzato in un teatro di guerra allestito dai migliori artificieri. Fu una operazione militare, un atto di strategia della tensione: una mano fu mafiosa, l'altra no. Qualcuno trasformò un'azione di vendetta mafiosa in un atto di brutale manifestazione politica, cioè in una strage. Partecipò a tutte le fasi organizzative dell'azione anche Pietro Rampulla, il mafioso addestrato da Ordine nuovo, il servizio segreto clandestino di stampo neofascista: ma il 23 maggio non poté stare al fianco dei suoi complici perché "aveva impegni familiari", sfilandosi così dalla scena e mandandoBrusca a schiacciare il telecomando.

Dobbiamo ricordare che dalle numerose e diverse dichiarazioni dei pentiti non è possibile stabilire il momento dell'ideazione di quel tipo di strage. Come si arrivò alla decisione di fare una strage per ammazzare Falcone? La trappola mortale contro il nemico storico di Cosa nostra era già pronta prima del 23 maggio 1992. Un gruppo di fuoco composto da mafiosi di Brancaccio e della provincia di Trapani nel febbraio del 1992 era stato inviato a Roma per fare fuoco su Giovanni Falcone con le armi tradizionali: niente esplosivo, niente botti, solo i proiettili mafiosi avrebbero dovuto abbattere l'uomo che più di tutti aveva penetrato i segreti dei boss e scardinato il loro tradizionale assetto di potere. Ma un giorno Salvatore Biondino, il luogotenente di Toto Riina, va ad incontrareFrancesco Cancemi e Raffaele Ganci al cantiere di Piazza Principe di Camporeale e gli comunica che il padrino aveva intenzione di passare all'esecuzione del progetto di uccidere il magistrato con un ordigno esplosivo lungo l'autostrada da Punta Raisi per Palermo. Dunque, tutto era stato attentamente preordinato. Il momento dell'ideazione del progetto criminale di Capaci viene solo comunicato alle famiglie che poi avrebbero cooperato per realizzarlo; ma nessuno tra tutti coloro che lo attuano può raccontare il momento in cui viene elaborata quell'idea così originale e senza precedenti del delitto, e questo semplicemente perché l'idea gli vienesuggerita dall'estero. Dice sempre Giovanni Brusca, l'uomo del telecomando, che il posto dove fare l'attentato "non l'ha scelto lui". Sostiene che in una riunione a casa di Girolamo Guddo, il 20 febbraio prima della strage, scopre che "Cancemi, Salvatore Biondino, Raffaele Ganci avevano parlato della possibilità dell'autostrada". Non sa che Cancemi e Ganci, come tutti gli altri, avevano solo ricevuto le istruzioni per realizzare l'attentato in quel modo. Ma il "suggeritore" non si sa chi sia e che gente frequenti.

Ci sono poi strani oggetti sulla scena del crimine: un sacchetto di carta di colore bianco che conteneva una torcia a pile, un tubetto di alluminio con del mastice di marca Arexons e due guanti in lattice, evidentemente usati. Chi li aveva usati? E per fare cosa? I giudici scrivono considerazioni molto interessanti: innanzitutto, notano che quelle cose non possono essere state lasciate lì dal giorno in cui sicuramente tutto fu predisposto e ultimato (e dopo il quale i mafiosi non tornarono , l'8 di maggio, perché "sicuramente le intemperie, frequenti in quel periodo sulla zona, avrebbero determinato la lacerazione del contenitore, che lo si deve ricordare, era di carta". Dunque, non potevano essere strumenti impiegati dai killer della mafia. Secondo loro è proprio "da escludere che gli imputati (...) avessero lasciato quegli oggetti proprio in prossimità del cunicolo, perché si sarebbe trattato di una macroscopica distrazione, inconcepibile a fronte dell'emergere dalla descrizione di tutte le operazioni che si sono via via susseguite nel corso dei preparativi, di una meticolosa e puntuale curanell'evitare che potessero restare tracce delle azioni compiute".

Il ritrovamento di questi oggetti particolari, lasciati lì sicuramente nelle ore di poco precedenti l'esplosione, è molto importante se si considera un'altra strana circostanza: alcuni testimoni hanno denunciato che il giorno precedente proprio nell'area della strage, ma a livello della strada, non in quello sottostante dove erano state condotte le operazioni di caricamento del cunicolo, era stato notato un furgone Ducato di colore bianco e alcune persone che apparentemente erano concentrate ad eseguire dei lavori. Fu anche deviato il corso delle automobili di passaggio, furono usati birilli per spartire il traffico. Lo hanno spiegato i testimoni indicati con i numeri d'ordine 26 e 27 e il loro racconto si riferisce a ciò che vedono il 22 maggio 1992, intorno alle ore 12: ma per Brusca e compagnia non c'è alcuna necessità di lavorare lungo la corsia, il loro lavoro si era concentrato a livello dell'imbocco del cunicolo, al di sotto nel livello stradale. E poi loro erano pronti già da tempo. Per di più, fu subito accertato che in quei giorni non erano in corso lavori di nessun genere e perciò si deve sicuramente escludere qualsiasi attività di manutenzione stradale, ordinaria o straordinaria: in pratica ci fu "un secondo cantiere, senza volto né nomi" e tuttavia anch'esso attivato con ogni probabilità per provocare la strage.

E ancora, l'esplosivo. Anche qui i conti non tornano. Sono state ritrovate tracce di nitroglicerina, un componente che non fa parte di nessuna delle due componenti che costituiscono la carica: ma la nitroglicerina rafforza la detonabilità della carica. L'esplosivo con cui è stato riempito il cunicolo che passava sotto l'autostrada in prossimità di Capaci era di due tipi: c'era l'ANFO, vale a dire il Nitrato di Ammonio addizionato a cherosene - in alcuni bidoncini fu messo allo stato puro - e c'era poi il tritolo, procurato da Biondino e recuperato dalle mine giacenti sotto il mare che venivamo trovate in grandi quantità dai pescatori, secondo una modalità raccontata minuziosamente da Gaspare Spatuzza (un racconto proprio identifico a quello del pentito di Piazza Fontana, Carlo Digilio, sull'esplosivo usato per la strage del '69!). Le indagini non si sono mai concluse: nel novembre del 2012 è stato arrestato Cosimo D'Amato, il pescatore di Santa Flavia che oltre al pesce tirava su anche le vecchie bombe. D'Amato è stato accusato dalla procura di Firenze di aver fornito in modo continuativo l'esplosivo usato per le stragi del '93, almeno quella parte proveniente dai recuperi in mare. Perché le vie degli esplosivi erano diverse: c'era quello da cava e poi quello più sofisticato, come il Semtex, proveniente dai traffici internazionali. Oltra alle tracce di nitroglicerina, ci sono poi quelle di T4, un esplosivo noto anche con RDX utilizzato soprattutto per scopi militari, che nel cratere di Capaci non viene unito ad altre sostanze e che potrebbe essere stato usato per aumentare la detonabilità della carica o come legante esplosivo fra le frazioni di carica. Inizialmente si era pensato che il T4 fosse presente unito al tritolo con cui può formare un composto chiamato Compound B ma poi l'ipotesi è stata scartata perché il tritolo, come abbiamo detto, era stato sicuramente messo da solo nei bidoncini: in pratica, l'uso del T4 sembrerebbe essere stato aggiunto all'esplosivo trovato dai due gruppi di mafiosi per rendere più micidiale la carica. Sia la pentrite che il T4 sono, infatti, sostanze non compatibili con quelle descritte dai pentiti con le quali è stato riempito il cunicolo.

Con quel materiale in più, la strage era assicurata. Falcone sarebbe morto sicuramente.
Ci spingemmo su "un terreno che non era il nostro", raccontò poi a proposito delle stragi di mafia il pentito Gaspare Spatuzza. Era il terreno del doppio livello quello che si realizza quando siedono ad uno stesso tavolo entità diverse, interessate a cooperare ad uno stesso identico progetto criminale con scopi spesso diversi.

Nel "doppio livello" c'è la regia degli eventi politici, quella che non siamo mai riusciti ad afferrare. Il "doppio livello" dello stragismo e dell'omicidio politico ha garantito l'impunità ai mandanti, lasciando sempre l'opinione pubblica smarrita e confusa, irrisolti i processi giudiziari e un Paese da sempre in cerca delle sue verità. Nelle cospirazioni nate in quel modo, per essere cioè realizzate con l'apporto di mani diverse, la trama diventa impossibile da sbrogliare, la complicità finale di tutti permette di lasciare il delitto senza una apparente firma e l'esecutore, che sia il neofascista degli anni 70 o il boss mafioso della fine dello scorso secolo, si trova coinvolto in un'azione attentamente progettata sulla base di tante informazioni, come sanno fare i servizi segreti o tutte quelle agenzie affini, tanto che non potrà mai provare la sua estraneità. Se non vuole ammettere di essere stato manipolato, deve solo tacere e pagare
di Stefania Limiti

19 maggio 2013

Il mostro e i suoi creatori






IL BERLUSCONISMO E’ FINITO PERCHE’ SONO FINITI I SUOI EVOCATORI


Le uniche cose che possono competere in numerosità coi processi in cui è stato coinvolto Berlusconi sono i suoi trattamenti di chirurgia estetica. Più egli veniva martirizzato e più si marmorizzava nell’aspetto e nel petto divenendo un busto vivente che attirava, come ogni monumento, orde di adoratori e frotte di vandali devastatori. Tali facce di bronzo, proseguenti a lamentarsene dopo averlo scolpito nella piccola storia che ci compete, ne hanno fatto una statua di stato, anzi uno “stat(u)ista”.
Costui è stato accusato di tutto nel corso degli anni, dal traffico di sostanze stupefacenti, alle stragi, fino alla prostituzione. Assoluzioni, prescrizioni, amnistie ecc. ecc. e, almeno finora, nessun verdetto di condanna definitiva. Oltre vent’anni di demonizzazioni e d’accanimenti che potrebbero presto approdare ad una sentenza inappellabile con la quale sarà chiuso il suo ciclo pubblico.
Peccato però che questo ciclo si sia esaurito da un pezzo, politicamente parlando, ma i suoi detrattori, presi come sono a combattere contro la loro fervida immaginazione, non se ne sono nemmeno accorti. Ben altre e ferali battaglie si stanno giocando alle spalle dei processi di B. coi quali si continua a depistare la pubblica opinione mentre sciacalli internazionali e iene nazionali stanno spolpando quel che resta della carogna peninsulare.
Il mostro B. è nato dall’odio dei suoi creatori-calunniatori ed è cresciuto sino all’inverosimile nutrendosi del loro disprezzo sociale e culturale.
Più lo perseguitavano, attribuendogli la somma dei dolori e delle perversioni del Paese, e più egli si ingigantiva e li sovrastava con la sua bassa statura che era pur sempre uno slancio verso il cielo rispetto alla fossa dove giacevano i suoi denigratori. Ma ora che i cacciatori di ombre sono diventati tutt’uno col mito in putrefazione, adesso che la mitopoiesi si è sciolta, come il cerone col quale lo avevano truccato da vampiro assetato di scandali, seguiranno il suo infausto destino giù nella tomba. Il loro funerale sarà una festa popolare.
L’Essere immondo scomparirà soltanto quando anche l’ultimo dei rovistatori nella melma della Repubblica, impastati della stessa materia ideologica degli incubi e delle angosce sociali, sarà perito. Siamo realmente al termine un’epoca che ci ha devastati nel cervello e nel tessuto sociale.
Ancora ieri, durante la trasmissione di “Sant’oro”, un altro cattivo prodotto dell’era degli intubati del tubo catodico,  guardavo in televisione lo spettacolo miserevole e reiterato di questi zombies che si mordono i polpacci a vicenda. Da un lato i militanti di sinistra che giustificavano le larghe intese per non far tornare Berlusconi e dall’altro i simpatizzanti delusi che li accusavano di aver fatto tornare Berlusconi. Il circolo vezzoso, almeno per chi assiste e non resiste alle risa, dei matti irrecuperabili.
Entrambe le schiere sclerotizzate non hanno inteso che quello che va e viene non è Berlusconi ma l’allucinazione identitaria della loro mente malata che proietta sul palcoscenico nazionale ogni tipo di tormento politico mascherato da cavaliere “ingrifato”.
Ricordate quante campagne di sensibilizzazione contro la cattiva maestra televisione? Fascismo mediatico e feticismo immodico di mediocri soggetti con gli occhi fasciati che vedevano manipolatori dappertutto. Venne iscritto d’ufficio al club dei cialtroni persino il povero Popper, improvvisamente ed improvvidamente intruppato nelle file dei catastrofisti dell’etere, per un libretto di scarso valore intellettuale divenuto una bibbia nell’ambiente del ceto medio semicolto, il quale alla sera leggeva Baricco in salotto e alla mattina in piazza sapeva tutto di olgettine e orgettine. Addirittura, l’era del porcone di Arcore era stata accostata al completamento di una mutazione antropologica che dalla specie sapiens ci trasfigurava in quella videns dei suggestionati dallo schermo privi di coscienza civile. Dicevano di se stessi riferendosi agli altri.
Sventolando le bandiere della purezza e dell’interezza si alzava però la puzza sotto il naso ed il tanfo dell’imbroglio di partito che nessuna morigeratezza verbale o individuale poteva occultare. Le persone sane di testa non si sono mai interessate dei baccanali presidenziali a porte chiuse e cosce aperte. E’ lo stupro delle proprietà pubbliche, l’abuso sul corpo nazionale , il bordello istituzionale dove viene denudata la sovranità centrale, lo spogliarello dei tesori pubblici per soddisfare i lenoni mondiali, la promiscuità corporativa, l’autoreferenzialità onanistica degli occupatori di poltrone per il tradimento collettivo, questo è quello che dovrebbe preoccupare ed indignare. Ma su ciò si tace o si taccia di chiusura provinciale chiunque osi opporsi al puttaneggiamento generale.
Fortunatamente siamo vicino all’epilogo della pantomima ma non alla conclusione delle tribolazioni perché non c’è trapasso che si compia senza una esplosione di brutalità liberatoria. Non si tratta di eversione ma di leggi della Storia. Prepariamoci al meglio del peggio.

di Gianni Petrosillo 

18 maggio 2013

Alla ricerca della liquidità perduta







  
   
Il sistema-paese soffre di arretratezza tecnologica e infrastrutturale, di inefficienza e dispendiosità della macchina amministrativa, di lentezza e corruzione di quella giudiziaria, di costi elevati di una politica e di una burocrazia ampiamente parassitarie, per non parlare dell’influenza istituzionale della criminalità organizzata e, ovviamente, della insostenibile pressione fiscale. 
Il male di fondo, che toglie i mezzi anche per affrontare gli altri mali, e da cui direttamente dipendono insolvenze, fallimenti, licenziamenti, crollo di speranza, investimenti e consumi, è però un altro, ossia la carenza di mezzi monetari, il costo eccessivo (rispetto ai paesi competitori) del denaro, le difficoltà ad ottenere credito.

Una carenza crescente, sempre crescente, che, attraverso la deflazione, rende sempre più oneroso, difficile o impossibile, il pagamento degli interessi e dei debiti. E delle imposte. E dei contributi. Non dimenticate che la Corte dei Conti ha rilevato che molti enti pubblici sono morosi di parecchi miliardi di versamenti contributivi all’Inpdap-Inps. Corre voce, forse gonfiata, che questa mina esploderà presto. 

Immaginiamo una pozza in cui l’acqua stia calando lentamente progressivamente. I pesci rossi, gialli e verdi boccheggiano. Perché cala l’acqua nella pozza? In parte evapora, in parte defluisce seguendo rigagnoli, in parte – la parte maggiore – si raccoglie in una cavità nascosta sotto il fondo dello stagno. 

I pesci non hanno più lo strumento della creazione di liquido e non possono usarlo per compensare l’acqua che se ne va. Hanno ancora lo strumento fiscale, con cui possono distribuire l’acqua diversamente tra pesci rossi, gialli, verdi – ossia, tra settore pubblico e privato, tra nord e sud – ma non possono trattenerla né rabboccarla. Anzi, le misure fiscali tendono a far aumentare la fuga dei liquidi e scoraggiano gli investimenti stranieri. La gente comune non ha ben chiaro che i soldi che lo Stato prende con imposte e con la lotta all’evasione sono soldi che semplicemente si spostano all’interno della pozza, ma non aumentano la quantità di liquidi disponibile, quindi non alzano il livello dell’acqua nella pozza, ma semmai accelerano il suo deflusso. 

L’acqua che evapora sono quei capitali – miliardi di Euro – che si spostano all’estero e vengono investiti in modi tali da sottrarsi al fisco nazionale (vedi scandalo Offshore-Leaks: 32.000 miliardi di dollari scoperti sinora, ovviamente in ambito globale). L’acqua che defluisce nei rigagnoli sono i liquidi che vanno all’estero come pagamenti di interessi e capitali (disavanzo commerciale), come rimesse degli immigrati (pensiamo particolarmente ai cinesi), come trasferimenti netti a favore di UE, MES, etc. 

Su queste perdite di liquidi si può intervenire, ma solo marginalmente e non certo risolutivamente, anche perché per attrarre liquidità dall’estero mediante saldi attivi della bilancia commerciale, turismo e investimenti, dovremmo svalutare rispetto ai partners, ma questa opzione è preclusa dall’Euro, dalla cessione del controllo sui cambi. Il calo del livello dell’acqua continuerà inevitabilmente e mortalmente. Possiamo ritardare il calo, guadagnare qualche mese, ma non fermarlo, non cambiare l’esito, e l’esito è che i pesci moriranno uno dopo l’altro, sempre più velocemente. Lo stanno già facendo. 

Diversamente dai pesci della pozza USA e della pozza del Sol Levante, noi non possiamo creare acqua per ristabilire il livello vitale, poiché anche questo potere l’abbiamo trasferito alla BCE, la quale, per statuto, non può fare interventi di questo tipo, che invece fanno la Fed con Obama e la BoJ con Shinzo Abe. La BCE e altri istituti internazionali ed esteri intervengono abbassando i tassi e dando denaro fresco alle banche e al settore finanziario, però questa liquidità non arriva, sostanzialmente alla pozza, ai pesci, all’economia reale – rimane dei circuiti finanziari, in impieghi che non pagano tasse nel Paese, perché le banche usano quei soldi non per prestiti all’economia reale, ma per chiudere buchi di bilancio (contenzioso sommerso) e per investimenti speculativi, più redditizi e sicuri in un’epoca di depressione con outlook sfavorevole. Anche i tassi rimangono alti e handicappanti nella competizione internazionale. 

In conclusione, le possibilità di intervento sono scarse, marginali e nessuna è idonea a risanare la situazione e a rilanciare l’economia. Il dibattito attuale è quindi improduttivo. 

Rimane l’acqua nascosta nella caverna sotto il fondo dello stagno. E la falla attraverso cui quell’acqua è finita nella caverna. E’ una falla causata da principi contabili errati, cioè non corrispondenti alla realtà economica, in materia monetaria e creditizia. Il concetto è estremamente semplice – così semplice, da risultare sfuggente, ma è oggettivo e verificabile. Si tratta di riuscire a riflettere sull’ovvio. Se si chiude la falla, migliorano drasticamente i bilanci delle banche commerciali, sia come conto economico, sia come stato patrimoniale; inoltre la erogazione dei crediti diventa molto più leggera patrimonialmente. Do per scontato che tutti sia noto che il sistema bancario opera attraverso un moltiplicatore, che gli consente di prestare un multiplo della raccolta – le banche non sono soltanto intermediari del credito, non si limitano a prestare la raccolta applicando una forbice sui tassi, ma creano liquidità – ecco perché il credit crunch è anche un liquidity crunch. 

La falla consiste nel mancato rilevamento contabile, in conto di ricavo della banca, di una realtà economica oggettiva e fondamentale, ossia dell’acquisizione di potere d’acquisto (valore) da parte dei mezzi monetari – denaro primario e denaro creditizio, come assegni circolari, bonifici, lettere di credito, saldi attivi di conti correnti. I mezzi monetari non hanno un valore intrinseco non essendo fatti di metalli pregiati, né sono convertibili in metalli pregiati. Il loro valore, cioè il potere d’acquisto, non è prodotto dalla banca, ovviamente, la quale non produce beni reali; esso deriva dalla loro accettazione da parte del mercato, dal fatto che il mercato è disponibile a dare beni o servizi reali in cambio di essi, sebbene essi non siano beni reali. Essi quindi, nel momento in cui la banca li emette sotto forma di erogazione di credito o di acquisto diretto di titoli finanziari, assorbono o ricevono dall’esterno il valore, il potere di acquisto, e cessano di essere meri pezzi di carta o impulsi elettronici per divenire moneta. La banca preleva dal mercato, dalla generalità dei soggetti, un potere d’acquisto che essa non crea, e lo presta a un soggetto determinato, percependo da questo soggetto un interesse. 

Orbene, questa trasformazione, questa acquisizione di valore, è un fatto economico reale, esattamente un ricavo della banca che emette la moneta primaria o quella creditizia. Un ricavo che, con i principi contabili vigenti, non viene contabilizzato. Conseguentemente abbiamo che la banca, quando eroga 100, dovrebbe, nel conto economico, registrare, a scalare: 

ricavo da acquisizione di potere d’acquisto: + 100

costo da erogazione di potere d’acquisto: – 100

ricavo da acquisizione di credito: + 100

SALDO OPERAZIONE: + 100

Sotto gli attuali principi contabili, la prima registrazione non avviene, quindi il ricavo di 100 “sparisce” nella caverna sotterranea, non viene tassato, non si traduce in attivo patrimoniale, in possibilità di credito. Le sorti di questi ricavi non contabilizzati dovrebbero essere indagati. Probabilmente prendono la via di paradisi fiscali, dove riaffiorano, carsicamente, e sono impiegabili in operazioni speculative o in vantaggiosi investimenti reali.

Con questo concludo, ritenendo di aver perlomeno indicato in linee generali dove bisogna metter mano, se non si vuole sprofondare domani o fra una settimana nel buco nero dell’indebitamento. E di aver anche dimostrato la sostanziale impotenza, o il valore meramente dilatorio, delle altre opzioni sul tavolo. 

Un’ultima osservazione: nel mondo l’aggregato del debito soggetto a interesse è di almeno 2 milioni di miliardi di Dollari, e l’aggregato degli interessi da pagare sicuramente supera i 100.000 miliardi, mentre il prodotto lordo globale arriva a 74.000 miliardi. Il servizio del debito esistente viene quindi pagato contraendo nuovo debito. Il mondo è un grande schema Ponzi, e non vedo altre vie che la riforma contabile suddetta, per prevenire che lo schema Ponzi scoppi in un global meltdown.

di Marco Della Luna 

17 maggio 2013

L'allarme della CIA









Rapporto dell’Intelligence USA: per la prima volta dal XV secolo, grazie alla crisi del 2008, l’Occidente perde il predominio di fronte a Cina e BRICS. E mentre L’UE non terrà la sua coesione, crescono il popolo post-politico di “Facebookland” e “Twitterland” insieme allo strapotere dei magnati dell’informazione. Esaurite le risorse, nascono i “conflitti idrici”.
Ogni quattro anni, con l’inizio del nuovo mandato presidenziale negli Stati Uniti, il National Intelligence Council (NIC), Ufficio di analisi e di anticipazione geopolitica ed economica della Central Intelligence Agency (CIA), pubblica un rapporto che diventa automaticamente un riferimento per tutti i ministeri degli esteri del mondo. Anche se, ovviamente, si tratta di una visione molto particolare (quella di Washington), preparata da un’agenzia, la CIA, la cui missione principale è quella di difendere gli interessi degli Stati Uniti, il rapporto strategico del Nic presenta una indiscutibile utilità perché è il risultato di una messa in comune – rivista da tutte le agenzie di intelligence degli Stati Uniti – di studi elaborati da esperti indipendenti di molti altri paesi (Europa, Cina, India, Africa, America Latina, mondo arabo-musulmano, ecc.). 
Il documento confidenziale che il presidente Barack Obama ha trovato sulla sua scrivania, lo scorso 21 gennaio, quando ha preso possesso del suo secondo mandato, è stato appena pubblicato con il titolo “Global Trends 2030. Alternative Worlds”. Cosa ci dice? 
La constatazione principale è il declino dell’Occidente. Per la prima volta a partire dal XV secolo, i paesi occidentali stanno perdendo potere di fronte all’ascesa delle nuove potenze emergenti. Inizia la fase finale di cinque secoli di dominazione occidentale del mondo. Anche se gli Stati Uniti rimarranno una delle principali potenze planetarie, perderanno la loro egemonia economica a favore della Cina. E non eserciteranno più la loro «egemonia militare solitaria», come hanno fatto dalla fine della guerra fredda (1989). Andiamo verso un mondo multipolare nel quale nuovi attori (Cina, India, Brasile, Russia, Sud Africa) hanno la vocazione a costituire solidi poli regionali e a insidiare a Washington e ai suoi alleati (Giappone, Germania, Regno Unito, Francia) la supremazia internazionale. 


Un lungo declino fino al 2030

Per avere un’idea dell’importanza e della velocità del declassamento occidentale che si avvicina, basta segnalare queste cifre: la quota dei paesi occidentali nell’economia globale passerà dal 56% attuale al 25% nel 2030... Così, in meno di vent’anni, l’Occidente perderà più della metà del suo predominio economico... Una delle conseguenze di questo è che gli Usa e i loro alleati non avranno probabilmente più i mezzi finanziari per assumere il ruolo di gendarmi del mondo... In modo che questo cambiamento strutturale (aggiunto alla attuale crisi finanziaria ed economica) potrebbe realizzare ciò che non hanno ottenuto né l’Unione Sovietica né al-Qaeda: indebolire stabilmente l’Occidente. 
Secondo questo rapporto, in Europa la crisi durerà almeno un decennio, cioè fino al 2023... E, sempre secondo il documento della Cia, non è certo che l’Unione europea sarà in grado di mantenere la sua coesione. Nel frattempo, si conferma l’emergere della Cina come seconda economia mondiale, con la vocazione a diventare la prima. Allo stesso tempo, gli altri paesi del gruppo chiamato BRICS (Brasile, Russia, India e Sud Africa) si piazzano nella seconda fila competendo direttamente con gli antichi imperi dominanti del gruppo Jafru (Giappone, Germania, Francia, Regno unito: l’acronimo deriva dai nomi di questi paesi in spagnolo, ndt). 
In terza linea appaiono ora una serie di potenze intermedie, con demografie in aumento e con forti tassi di crescita economica, anch’esse chiamate a convertirsi in poli egemonici regionali, con la tendenza a trasformarsi in gruppo con una influenza mondiale, il Cinetv (Colombia, Indonesia, Nigeria, Etiopia, Turchia, Vietnam). Ma da qui al 2030, nel “Nuovo Sistema Internazionale”, alcune delle maggiori collettività del mondo non saranno più paesi ma comunità aggregate e vincolate tra loro attraverso Internet e le reti sociali. Per esempio, “Facebookland”: più di un miliardo di utenti... O “Twitterland”, più di 800 milioni... La loro influenza, nel gioco dei poteri della geopolitica mondiale, potrà rivelarsi decisiva. Le strutture di potere diventeranno liquide grazie all’accesso universale alla Rete e all’uso di nuovi software. 
A questo proposito, il rapporto della CIA annuncia la nascita di tensioni tra i cittadini e alcuni governi in un tipo di dinamiche che vari sociologi definiscono “post-politiche” o “post-democratiche”... Da una parte, la generalizzazione dell’accesso alla Rete e l’universalizzazione dell’uso delle nuove tecnologie permetteranno alla cittadinanza di conquistare alti livelli di libertà e di sfidare i suoi rappresentanti politici (come durante le primavere arabe o la crisi, in Spagna, degli indignados). Ma, allo stesso tempo, secondo gli autori del rapporto, questi stessi mezzi elettronici forniranno ai governi «una capacità senza precedenti di controllo sui propri cittadini». 
«La tecnologia – aggiungono gli analisti di Global Trends 2030 – continuerà ad essere il grande livellatore, e i futuri magnati di Internet, come potrebbe essere il caso di Google e di Facebook, possiedono intere montagne di dati, e gestiscono in tempo reale più informazione di qualunque governo». Per questo, la CIA raccomanda all’amministrazione Usa di far fronte a questa eventuale minaccia delle grandi aziende di Internet attivando lo Special Collection Service, un servizio di intelligence ultrasegreto - amministrato congiuntamente dalla NSA (National Security Agency) e dal SCE (Service Criptology Elements) delle forze armate – specializzato nell’intercettazione clandestina di informazioni di origine digitale. Il pericolo che un gruppo di imprese private controlli tutta questa massa di dati risiede, principalmente, nel fatto che questo potrebbe condizionare il comportamento a grande scala della popolazione mondiale e anche delle entità governative. Si teme anche che il terrorismo jihadista sia rimpiazzato da un cyberterrorismo ancora più pervasivo.


Veloce addio dell’acqua dolce

La CIA prende tanto più sul serio questo nuovo tipo di minacce perché, alla fine, il declino degli Stati Uniti non è stato provocato da una causa esterna ma da una crisi interna: il crollo economico iniziato nel 2008. Il rapporto insiste sul fatto che la geopolitica di oggi deve interessarsi a nuovi fenomeni che non hanno necessariamente un carattere militare. Anche se le minacce militari non sono scomparse (si vedano le intimidazioni armate contro la Siria o il recente atteggiamento della Corea del Nord e il suo annuncio di un possibile uso dell’arma atomica), i pericoli principali che oggi corrono le nostre società sono di ordine non-militare: cambiamento climatico, conflitti economici, crimine organizzato, guerre digitali, esaurimento delle risorse naturali...
Su quest’ultimo aspetto, il rapporto indica che una delle risorse che si sta più velocemente esaurendo è l’acqua dolce. Nel 2030, il 60% della popolazione mondiale avrà problemi di rifornimento di acqua, ciò che darà luogo all’apparizione di “conflitti idrici”... In quanto alla fine degli idrocarburi, in cambio, la Cia si mostra molto più ottimista degli ecologisti. Grazie alle nuove tecniche di fracking (fratturazione idraulica), lo sfruttamento del petrolio e del gas di scisto sta raggiungendo livelli eccezionali. Già gli Stati Uniti sono autosufficienti per quanto riguarda il gas, e nel 2030 lo saranno per il petrolio, la qual cosa rende più bassi i suoi costi di produzione manifatturiera e suggerisce la rilocalizzazione delle industrie, Ma se gli USA – principali importatori attuali di idrocarburi – smettono di importare petrolio, è da prevedere che i prezzi precipiteranno. Quali saranno allora le conseguenze per gli attuali paesi esportatori?
Nel mondo verso il quale andiamo il 60% delle persone vivranno, per la prima volta nella storia dell’umanità, nelle città. E, in conseguenza della riduzione accelerata della povertà, le classi medie saranno dominanti e triplicheranno, passando da uno a tre miliardi di persone. Questo, che in sé è una rivoluzione colossale, comporterà come conseguenza, tra altri effetti, un cambiamento generale nei costumi dell’alimentazione e, in particolare, un aumento del consumo di carne a scala planetaria. Il che aggraverà la crisi ambientale. Perché si moltiplicherà l’allevamento di bovini, maiali e pollame, e questo presuppone un consumo di acqua (per produrre mangime, di fertilizzanti e di energia. Con conseguenze negative in termini di effetto serra e di riscaldamento globale...
Il rapporto della CIA annuncia anche che, nel 2030, gli abitanti del pianeta saranno 8,4 miliardi, ma l’aumento demografico cesserà in tutti i continenti meno che in Africa, con il conseguente invecchiamento della popolazione mondiale. In cambio, il legame tra l’essere umano e le protesi tecnologiche accelererà il suo sviluppo fino a nuove generazioni di robot e l’apparizione di “superuomini” capaci di prodezze fisiche e intellettuali inedite. 
Il futuro è scarsamente prevedibile. Non per questo bisogna smettere di immaginarne le prospettive. Preparandoci ad agire nelle diverse circostanze possibili, delle quali alla fine una sola si produrrà. Anche se abbiamo già avvertito che la Cia ha il suo proprio punto di vista soggettivo sull’evoluzione del mondo, condizionato dal filtro della difesa degli interessi statunitensi, il suo rapporto quadriennale non smette di essere uno strumento estremamente utile. La sua lettura ci aiuta e prendere coscienza delle rapide evoluzioni in corso e a riflettere sulla possibilità di ciascuno di noi di intervenire e a orientarne la direzione. Per costruire un futuro più giusto. 

di Ignacio Ramonet 

NOTE 

1. http://www.dni.gov/index.php/about/organization/national-intelligence-council-global-trends 
2. Atlante, nuove potenze emergenti, su Le Monde Diplomatique in spagnolo, Valencia, 2012.