22 febbraio 2009

Politici...(pernacchia)... andate a casa

toto

Lo
slogan, già usato per la crisi Argentina, riecheggia ora nelle piazze
di mezzo mondo. Perché al crollo provocato dal libero mercato i governi
oppongono le stesse ricette colpendo i più deboli. Saranno spazzati
via a breve ? Un augurio o una speranza?


La
folla che in Islanda ha sbattuto pentole e tegami, fino a provocare la
caduta del governo contestato, mi ha fatto tornare alla mente lo slogan
in voga nei circoli anticapitalistici nel 2002: 'Voi siete l'Enron. Noi
siamo l'Argentina'. Il messaggio era molto semplice: voi, politici e
amministratori delegati riuniti in qualche summit economico, siete come
quei dirigenti sconsiderati e truffaldini della Enron (e naturalmente
non conoscevamo che la punta dell'iceberg). Noi, ovvero la plebaglia lì
fuori, siamo come il popolo argentino che, nel bel mezzo di una crisi
economica spaventosamente simile alla nostra, scese in piazza sbattendo
pentole e tegami.

Gridando 'Que se vayan todos' (devono andare
via tutti) costrinsero alle dimissioni quattro presidenti, uno dopo
l'altro, in tre settimane. La rivolta in Argentina nel 2001-2002 è
stata unica perché non mirava a un particolare partito politico o alla
corruzione in generale. L'obiettivo era il modello economico dominante.
È stata infatti la prima rivolta nazionale contro il moderno
capitalismo deregolamentato. È servito un po' di tempo, ma dall'Islanda
alla Lettonia, dalla Corea del Sud alla Grecia, alla fine anche per il
resto del mondo è arrivato il momento del 'Que se vayan todos'.

Le
stoiche matriarche islandesi che battevano le loro pentole, con i figli
che saccheggiavano il frigo in cerca di proiettili (va bene le uova, ma
lo yogurt?) richiamano alla mente le tattiche divenute famose a Buenos
Aires. Ma anche la rabbia collettiva verso chi deteneva il potere,
portando alla rovina un Paese un tempo florido pensando di poterla fare
franca.

Gudrun Jonsdottir, una trentaseienne impiegata
islandese, ha sintetizzato così: "Ne ho abbastanza di tutto quanto. Non
ho fiducia nel governo, non ho fiducia nelle banche, non ho fiducia nei
partiti politici e neanche nel Fondo monetario internazionale. Avevamo
un Paese forte e loro lo hanno rovinato". Ecco un altro richiamo alla
situazione argentina: a Reykjavik i manifestanti ovviamente non si
accontentano di un volto nuovo posto al vertice (anche se il neo primo
ministro è una donna omosessuale). Vogliono aiuti per la popolazione,
non solo per le banche, indagini sulle responsabilità del collasso e
una profonda riforma elettorale.

Richieste simili le sentiamo
in questi giorni anche in Lettonia, dove l'economia ha subito una
contrazione più forte che negli altri paesi europei e dove il governo
vacilla pericolosamente. Per diverse settimane le proteste hanno messo
in subbuglio la capitale, e il 13 gennaio si sono verificati anche
tafferugli e lanci di pietre. Come in Islanda, anche i lettoni sono
sconcertati di fronte al rifiuto dei governanti di assumersi le
responsabilità del disastro. Alla domanda dell'emittente televisiva
Bloomberg su quali fossero le cause della crisi, il ministro
dell'Economia lettone ha risposto: "Nulla di particolare".

I
problemi della Lettonia invece sono davvero 'particolari'. Le stesse
politiche che nel 2006 avevano consentito alla 'Tigre del Baltico' di
crescere del 12 per cento, sono anche la causa della violenta
contrazione di quest'anno, che secondo le previsioni dovrebbe arrivare
al 10 per cento. Quando il denaro è liberato da qualsiasi vincolo,
defluisce con la stessa rapidità con cui affluisce, considerando anche
che una buona quantità finisce nelle tasche dei politici. (Non è una
coincidenza che molti dei casi disperati di oggi siano i 'miracoli' di
ieri: Irlanda, Estonia, Islanda e Lettonia).

Ma c'è qualche
altra cosa di 'argentino' nell'aria. Nel 2001 in Argentina i leader
risposero alla crisi con un pacchetto all'insegna dell'austerity,
sollecitato dal Fondo monetario internazionale: 9 miliardi di dollari
furono tagliati alla spesa pubblica, in particolare alla sanità e
all'istruzione. Questo si è dimostrato un errore fatale. I sindacati
organizzarono uno sciopero generale, gli insegnanti portarono le loro
classi nelle piazze e le rivolte sembrarono non aver fine.

Il
medesimo rifiuto popolare a sopportare il peso maggiore della crisi
accomuna le proteste attuali. In Lettonia, gran parte della rabbia dei
cittadini è provocata dalle misure di austerity prese dal governo -
licenziamenti in massa, servizi assistenziali ridotti, stipendi dei
dipendenti pubblici diminuiti - e tutto per poter accedere al prestito
d'emergenza del Fmi (no, non è cambiato nulla). In Grecia i tafferugli
di dicembre sono seguiti all'uccisione da parte della polizia di un
ragazzo quindicenne.

Ma quello che li ha alimentati, anche
quando gli studenti hanno ceduto il comando agli agricoltori, è stata
la diffusa rabbia per la risposta del governo alla crisi: le banche
hanno ottenuto un finanziamento di 36 miliardi di dollari, mentre i
lavoratori si sono visti tagliare le pensioni e gli agricoltori non
hanno ricevuto quasi nulla. Malgrado i grandi inconvenienti causati dai
blocchi stradali posti dai manifestanti, il 78 per cento dei greci ha
dichiarato che le loro richieste erano giustificate. In modo simile, in
Francia il recente sciopero generale, provocato in parte dai piani del
presidente Sarkozy per ridurre drasticamente il numero degli
insegnanti, ha ottenuto l'approvazione del 70 per cento della
popolazione.

È probabile che il principale filo conduttore di
questa violenta reazione a livello mondiale sia il rigetto per la
logica della 'terapia dello shock' - espressione coniata dal politico
polacco Leszek Bacerowicz, per descrivere come nel corso di una crisi i
governanti possano accantonare le leggi e andare dritti verso 'riforme'
economiche impopolari. Questo espediente è diventato obsoleto, come ha
recentemente scoperto il governo della Corea del Sud. A dicembre il
partito al potere ha cercato di servirsi della crisi per far approvare
a tutti i costi un contrastato accordo di libero scambio con gli Stati
Uniti. Interpretando in maniera estrema la politica 'delle porte
chiuse', i legislatori si sono rinserrati nell'aula per votare in
privato, barricando la porta con tavolini, sedie e divani.

I
parlamentari dell'opposizione non sono rimasti a guardare, e servendosi
di mazze e persino di una sega elettrica, hanno fatto irruzione,
occupando il Parlamento per 12 giorni. Il voto è stato rimandato per
consentire un dibattito più prolungato. Una vittoria sulla 'terapia
dello shock'. Qui in Canada la politica è decisamente meno da filmato
suYouTube, ma è stata comunque sorprendentemente movimentata. In
ottobre il partito conservatore ha vinto le elezioni nazionali con un
programma poco ambizioso.

Sei settimane dopo, il nostro primo
ministro 'tory' ha scoperto l'ideologo che è in lui, presentando una
legge finanziaria che privava i dipendenti statali del diritto allo
sciopero, eliminava i fondi pubblici ai partiti e non conteneva alcun
incentivo allo sviluppo economico. I partiti dell'opposizione in
risposta hanno formato una coalizione storica, che non ha potuto
prendere il potere solo a causa dell'improvvisa sospensione del
Parlamento. I conservatori si sono da poco ripresentati con un piano
modificato, in cui sono spariti i provvedimenti preferiti della destra
e sono apparsi numerosi incentivi all'economia.

Il concetto è
chiaro: i governi che reagiscono alla crisi provocata dall'ideologia
del libero mercato insistendo sullo stesso programma contestato,
avranno vita breve. Come gridavano gli studenti italiani in piazza
durante i cortei dello scorso autunno: 'Non pagheremo noi la vostra
crisi'.

di Naomi Klein

21 febbraio 2009

rimborsielettoraliey0

«Ah, se facessimo le riforme insieme!», dicevano di qua. «Ah, se facessimo le riforme insieme!», dicevano di là. Detto fatto, la destra e la sinistra un punto d'accordo al Senato l'hanno trovato: la donazione dei rimborsi elettorali anche ai partitini che alle Europee non arriveranno alla soglia del 4%.
Basterà che arrivino alla metà: il 2%. Crepi l'avarizia. Quando l'ha saputo, il democratico Gianclaudio Bressa è caduto dalle nuvole: «Trasecolo. Ma come è possibile?»
Era stato lui, due settimane fa, a mettersi di traverso a Montecitorio all'emendamento del tesoriere diessino Ugo Sposetti che puntava a distribuire soldi anche alle forze politiche che dovessero superare appena appena l'1%: «E mica l'avevo fatto di mia iniziativa. Avevo chiesto a Sposetti di lasciar perdere a nome del partito. Ed ero convinto che il partito...» In due settimane è cambiato tutto. Addio Sardegna, addio Soru, addio Veltroni. E se proprio era ormai impossibile ribaltare la scelta già votata e concordata con il Pdl per inserire lo sbarramento alle Europee al 4%, almeno un segnale alla sinistra rifondarola, verde, comunista e socialista per riaprire il dialogo i democratici hanno deciso di darlo. E cosa c'è di meglio di un contentino in denaro? Così ieri mattina, a palazzo Madama, quell'emendamento giudicato «inammissibile» dalla conferenza dei capigruppo di Montecitorio, è rispuntato con le firme di due senatori democratrici (della sinistra) Vincenzo Vita e Paolo Nerozzi. E visto che anche il PdL voleva svelenire i rapporti con la Destra di Francesco Storace, il voto è stato trionfale. Avete presente gli insulti che volano ogni giorno dall'una all'altra parte degli schieramenti? Bene, stavolta tutti d'amore e d'accordo: 254 votanti, due astenuti (i radicali Marco Perduca e Donatella Poretti: l'astensione a Palazzo Madama equivale a una bocciatura) e nessun contrario. Manco uno.
Per carità, se dovesse essere tutto confermato alla Camera (ammesso che la soglia dei soldi non sia abbassata ancora...) andrà comunque meglio che alle Europee del 2004. Cinque anni fa non solo l'Ulivo prese di rimborsi elettorali sette volte più di quanto aveva dichiarato d'avere speso, i comunisti di Diliberto dodici e Rifondazione tredici. Ma la Fiamma Tricolore moltiplicò l'investimento per quasi 82 volte e il Partito dei pensionati addirittura per 180. Aveva investito in manifesti, comizi, spot, viaggi e volantini 16.435 euro e si ritrovò benedetto da un acquazzone di quasi tre milioni. Pari a 7 euro e 95 cent per ogni voto avuto.
Male che vada, queste perversioni dovrebbero stavolta essere evitate. L'anomalia italiana, però, resterà. E se cambierà (in parte) la distribuzione del pubblico denaro, non cambierà la somma complessiva da spartire. Somma che, rispetto agli altri paesi europei (non parliamo degli Stati Uniti dove ci sono finanziamenti solo per le «presidenziali», pari nel 2004 a neanche mezzo euro ad americano) è enormemente superiore. Basti dire che, secondo un dossier della Camera, le elezioni europee del 2004 sono costate di rimborsi ai partiti 42 centesimi a ogni francese, 86 a ogni italiano. Più, naturalmente, tutti gli altri soldi distribuiti dalla leggina votata nel luglio 2002 da una larghissima maggioranza trasversale e pubblicata dalla Gazzetta Ufficiale tre giorni più tardi. Tre giorni: record planetario di velocità legislativa.
Riassumiamo? Le pubbliche casse danno ogni anno ai partiti 50 milioni di rimborsi elettorali per le Regionali (anche quando non ci sono), più altri 50 per le Europee (anche quando non ci sono), più altri 50 per le Politiche alla Camera e più altri 50 per le Politiche al Senato, anche quando non ci sono. Non bastasse, un'ulteriore leggina del 2006 ha consentito come è noto la doppia razione di rimborsi per le «politiche » (cento milioni l'anno) per il 2008, 2009, 2010 e 2001 come se la vecchia legislatura non fosse mai naufragata.
Insomma, con tutto il rispetto per le difficoltà economiche dei piccoli partiti che vorrebbero legittimamente continuare a sventolare la loro bandierina, quella di ieri al Senato è una decisione assai lontana dalle scelte di altri paesi. I quali, per scoraggiare l'assalto di troppi partitini non solo non distribuiscono soldi a pioggia ma talora chiedono a chi presenta una lista alle elezioni addirittura un deposito cauzionale che perderà se non arriva a una certa soglia. Che a Malta arriva a uno stratosferico 10%.
Eppure, chi immagina che gli italiani resteranno perplessi si sbaglia: tutti, certamente no. A parte gli elettori di questo o quel partitino finanziariamente nei guai, hanno buoni motivi per esultare, ad esempio, i dipendenti della Camera. Il «ritocco» del finanziamento pubblico ai partiti rende meno vistose infatti altre due notizie date ieri dall'Ansa. La prima è che i 28 autisti e i 30 banconisti circa della buvette di Montecitorio si sono visti riconoscere dall'ufficio di presidenza (nel quadro di un riordino che dovrebbe portare entro il 2016 a una riduzione del personale) una cosa che aspettavano dal 1981: la promozione dal primo («operaio tecnico») al secondo livello («collaboratore tecnico») col risultato che, diventando graduati, peseranno sulla Camera per circa 700 mila euro in più l'anno.
E andranno a riposo con pensioni pari, in certi casi, a quelle di un docente universitario. Ma la notizia più stupefacente è la seconda: visto che al Senato non hanno mantenuto l'impegno di adottare per i dipendenti la «riforma Dini» (accettata solo per i neo-assunti), l'adeguamento concordato nella scorsa legislatura è stato cancellato: anche le pensioni di commessi, autisti, barbieri, segretari e dattilografi di Montecitorio assunti dopo il 2001 continueranno ad essere calcolate (quattordici anni dopo la svolta!) col vecchio sistema retributivo e non con quello contributivo usato per tutti gli altri italiani. E meno male che promettevano un taglio ai privilegi...


di Gian Antonio Stella

La nave dei folli

nave dei folli

Esiste vita intelligente a Washington, DC? Neanche un briciolo.
L’economia statunitense sta implodendo ed Obama si lascia traghettare verso il pantano dell’Afghanistan dal suo governo di neocon e agenti israeliani, evenienza che probabilmente causerà uno scontro con la Russia e forse anche con la Cina. La quale, non bisogna scordarlo, è il maggiore creditore degli Stati Uniti.

Le cifre dei libri paga di gennaio rivelano circa 20mila licenziamenti al giorno. In dicembre, la situazione era anche più nera del previsto (dai 524mila licenziamenti preventivati ai 577mila reali). Questa correzione fa arrivare l’ammontare di posti di lavoro perduti in due mesi a 1.175.000. Se si continua così, i 3 milioni di nuovi impieghi promessi da Obama saranno controbilanciati e cancellati dai licenziamenti di massa.

Secondo John Williams (esperto di statistica e curatore di
Shadowstats.com), queste titaniche cifre sono una sottostima della reale proporzione della crisi. Williams fa notare che gli errori di valutazione, intrinsechi nei fattori di correzione stagionali, hanno fatto sparire 118mila licenziamenti dai resoconti di gennaio: la cifra reale per quel mese raggiungerebbe i 716mila posti di lavoro perduti.
Ma le ricerche basate sui libri paga contano il numero di posti di lavoro, non il numero delle persone occupate. Queste due cifre non sono equivalenti, perché alcuni cittadini potrebbero avere più di un lavoro.

Al contrario, l’Household Survey (NdT: un enorme resoconto sulle condizioni economiche della nazione, condotto dall’equivalente americano del nostro ISTAT) conta il numero degli impiegati effettivi. Mostra che 832mila persone hanno perso il proprio lavoro a gennaio e 806mila a dicembre, per un totale di 1.638.000.
Il tasso di disoccupazione sciorinato dai media statunitensi è, quindi, un falso plateale. Williams spiega che negli anni dell’amministrazione Clinton, la categoria dei lavoratori "scoraggiati" (coloro che neanche cercavano più un lavoro) è stata ridefinita, in modo da entrare nelle statistiche solo quando lo "scoraggiamento" aveva una durata inferiore ad un anno. Questa limitazione temporale ha spazzato via dai documenti ufficiali la maggior parte di questi disoccupati senza speranza. Riaggregando questo segmento della popolazione alle statistiche attuali, ci rendiamo conto che la disoccupazione effettiva, a gennaio, ha raggiunto il 18%, con un aumento dello 0,5% rispetto al mese precedente.

savejobs-1In altre parole, se rimuoviamo dai dati ufficiali le manipolazioni di un governo che ci mente ogni volta che apre la bocca, constateremo che il livello di disoccupazione statunitense è sufficiente per dichiarare la nostra economia in stato di depressione.
E non potrebbe essere altrimenti, data l’enorme mole di posti di lavoro che è stata trasferita all’estero. Un governo è impossibilitato a creare nuovi posti di lavoro, se le sue aziende spostano all’estero gli impianti di produzione per i beni ed i servizi destinati al mercato interno. Spostando i processi produttivi all’estero, "cedono" ad altri stati delle fette del PIL nazionale. Il deficit nelle esportazioni che ne risulta ha, negli ultimi dieci anni, fatto crollare il PIL statunitense di 1,5 trilioni di dollari. Tradotto: un sacco di posti di lavoro.

Da anni parlo dei laureati costretti a fare la cameriera o il barista per sopravvivere. Man mano che una popolazione esponenzialmente indebitata continua a perdere posti di lavoro, sarà sempre meno incline a frequentare bar e ristoranti. E ciò significa che i laureati statunitensi non riusciranno a trovare nemmeno quei lavori che implicano il lavaggio di piatti o la preparazione di cocktail.
I legislatori hanno ignorato il fatto che, nel ventunesimo secolo, la domanda dei consumatori è stata principalmente alimentata dall’aumento dell’indebitamento, e non degli introiti. Questo fatto basilare ci mostra come sia inutile tentare di stimolare l’economia con vagonate di dollari dirette ai banchieri (per convincerli a prestare più denaro, s’intende). I consumatori americani non sono più nella condizione di chiedere prestiti.

Se sommiamo il crollo del valore dei loro principali asset (vale a dire le loro case), la distruzione di metà dei loro fondi pensionistici e la minaccia di un futuro di disoccupazione, ci rendiamo conto che gli americani non possono e non vogliono spendere.
Quindi, che senso ha offrire un ‘bailout’ a gruppi come la General Motors e la Citibank, che fanno il possibile per trasferire all’estero il maggior numero di operazioni?

È vero che gran parte delle infrastrutture statunitensi sono in pessime condizioni e hanno un gran bisogno di ristrutturazione, ma i lavori in questo settore non producono beni e servizi che possano essere esportati. L’impegno massiccio nel settore delle infrastrutture non cambia di una virgola il mostruoso deficit d’esportazione statunitense, il cui finanziamento inizia a rappresentare un grosso problema. Ancor di più, i posti di lavoro nel settore delle infrastrutture durano esattamente quanto la realizzazione delle stesse.
Nella migliore delle ipotesi, lo "stimolo" all’economia propugnato da Obama non farà altro che ridurre temporaneamente la disoccupazione, sempre che la maggior parte dei nuovi posti di lavoro nel campo dell’edilizia non siano occupati da messicani.
A meno che le corporation statunitensi non siano costrette ad impiegare manodopera locale per produrre beni e servizi indirizzati ai mercati domestici, l’economia USA non ha futuro. Nessun membro dello staff di Obama è abbastanza intelligente da rendersene conto. Quindi, l’economia continuerà ad implodere.

Come se questa catastrofe in incubazione non bastasse, Obama si è fatto addirittura turlupinare dai suoi consiglieri neocon e militari. Ha deciso di espandere l’impegno bellico in Afghanistan, una vasta regione montagnosa. Il presidente intende sfruttare la riduzione delle truppe in Iraq per raddoppiare quelle presenti in Afghanistan. Nonostante questo, i 60mila soldati previsti non sarebbero comunque sufficienti. Dopotutto, sono meno della metà di quelli coinvolti nella fallimentare occupazione dell’Iraq. L’esercito ha preventivato che ci vorrebbero come minimo 600mila soldati per portare a termine la missione.

Per far fuori il regime di Bush, gli iraniani hanno dovuto tenere per le briglie i loro alleati sciiti, convincendoli ad usare le elezioni per guadagnarsi il potere ed usarlo per espellere gli americani. Ed è per questo motivo che, in Iraq, le truppe statunitensi hanno dovuto fronteggiare "solamente" l’insurrezione della minoranza sunnita. Ciononostante, gli occupanti sono riusciti a vincere (si fa per dire) non sul piano militare, ma a suon di banconote, sganciando dollari su dollari per convincere i rivoltosi a non combattere. L’accordo di ritiro delle truppe è stato dettato dagli sciiti. Non è quello che Bush avrebbe voluto.
Ci si aspetterebbe che l’esperienza della "passeggiata" in Iraq avrebbe reso gli Stati Uniti più cauti. Ed invece no, perché si sono gettati con maggior vigore nel tentativo di occupare l’Afghanistan, un’impresa che richiede inoltre la conquista di aree del Pakistan.



Per gli USA è stata dura mantenere 150mila soldati in Iraq. Obama necessita un altro mezzo milione di soldati per pacificare l’Afghanistan, da aggiungere a quelli già stanziati. Dove intende andare a pescarli?

Una risposta è l’imponente disoccupazione USA in rapido aumento. Gli americani metteranno la firma per andare ad uccidere all’estero piuttosto che restare senza casa e a stomaco vuoto in patria.

Ma questa è solo una mezza soluzione. Da dove attingere il denaro per sostenere sul campo un esercito di 650mila unità, di oltre quattro volte superiore al contingente USA in Iraq, una guerra che ci è costata tre trilioni di dollari di spese vive e sta già generando costi futuri? Questo denaro avrebbe dovuto sommarsi ai tre trilioni di dollari del deficit di bilancio, prodotto dal salvataggio del settore finanziario operato da Bush, dal pacchetto stimolo di Obama e dall’economia in rapido declino. Quando i sistemi economici entrano in crisi - come sta accadendo negli USA - il gettito fiscale collassa. Milioni di americani disoccupati non pagano i contributi della previdenza sociale, le polizze per l’assicurazione sanitaria e le imposte sul reddito. Le attività commerciali e le aziende che chiudono non versano le imposte statali e le imposte federali. I consumatori senza denaro o privi di accesso al credito non sborsano le imposte sulle vendite.

Gli Idioti di Washington, perché di idioti si tratta, non hanno pensato per un attimo a come finanziare il deficit di bilancio dell’anno contabile 2009, pari a circa due-tre trilioni di dollari. Il tasso di risparmio virtualmente inesistente non lo può finanziare. Il saldo attivo della bilancia commerciale dei nostri partner quali Cina, Giappone ed Arabia Saudita non lo può finanziare.
Pertanto, il governo USA dispone di due sole possibilità per far fronte al suo disavanzo. La prima, è costituita da un ulteriore crollo del mercato borsistico, che condurrebbe gli investitori sopravvissuti e le loro risorse residue ai buoni del Tesoro “sicuri”. L’altra sarebbe la monetizzazione del debito del Tesoro da parte della Federal Reserve.

La monetizzazione del debito implicherebbe l’acquisto da parte della Federal Reserve dei buoni del Tesoro qualora nessuno intendesse acquistarli o fosse in grado di farlo. Ciò avverrebbe tramite la creazione di depositi bancari per conto del Tesoro.

In altri termini, la Federal Reserve “stamperebbe denaro” con il quale acquistare i buoni del Tesoro.
Nel momento in cui si verificasse una tale evenienza, il dollaro USA cesserebbe di essere la valuta di riserva.
Inoltre la Cina, il Giappone e l’Arabia Saudita, paesi che detengono ingenti quote del debito del Tesoro statunitense, nonché altri asset in dollari USA, li venderebbero subito, nella speranza di salvarsi prima degli altri.

Il dollaro americano perderebbe ogni valore, al pari di una valuta da repubblica delle banane.
Gli Stati Uniti non sarebbero in grado di pagare le proprie importazioni, un problema questo particolarmente grave per un paese che dipende dalle importazioni per l’energia, i manufatti e i prodotti high-tech.

I consiglieri keynesiani di Obama hanno appreso con solerzia la lezione di Milton Friedman per il quale la Grande Depressione fu causata dalla Federal Reserve che permise una contrazione dell’offerta di valuta e di credito. Nel corso della Grande Depressione i debiti virtuosi furono azzerati dalla contrazione monetaria. Oggi i crediti inesigibili sono protetti dall’espansione della moneta e del credito ed il Tesoro USA sta mettendo a repentaglio la propria solvibilità e lo status di valuta di riserva del dollaro con aste trimestrali di ingenti quantità di bond all’apparenza interminabili.

Nel frattempo i russi, straripanti di energia e di risorse minerali e privi di debiti, hanno appreso di non potersi fidare del governo USA. La Russia ha osservato i tentativi dei successori di Reagan di trasformare le ex-repubbliche dell’Unione Sovietica in stati marionetta in mano agli americani ed alle loro basi militari. Gli USA stanno cercando di accerchiare la Russia con missili che neutralizzino il deterrente strategico russo.

Putin ha guadagnato terreno nei confronti del “compagno lupo” [1].
Grazie alle manovre del presidente del Kirghizistan è riuscito a sfrattare dall’ex-repubblica sovietica la base militare statunitense, di vitale importanza per gli approvvigionamenti ai soldati di stanza in Afghanistan.

Per bloccare l’ingerenza americana nella sua sfera di influenza, il governo russo ha creato un’organizzazione per il trattato di sicurezza collettiva comprendente Russia, Armenia, Bielorussia, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan. L’Uzbekistan partecipa in modo parziale.
In buona sostanza, la Russia ha organizzato l’Asia Centrale contro la penetrazione americana.

A chi deve rispondere il Presidente Obama? Stephen J. Sniegoski, che scrive sulla versione inglese del settimanale svizzero Zeit-Fragen, riferisce che le figure chiave della cospirazione neocon – Richard Perle, Max Boot, David Brooks e Mona Charen – sarebbero in estasi per le nomine effettuate da Obama. Non vedono alcuna differenza tra Obama e Bush/Cheney.
Non soltanto i consiglieri di Obama lo stanno conducendo verso una guerra allargata in Afghanistan ma la potente lobby filoisraeliana starebbe spingendo Obama verso una guerra con l’Iran.
L’irrealtà nella quale il governo USA sta operando è da non credersi. Un governo in bancarotta che non può pagare i propri conti senza stampare nuova moneta si sta buttando a capofitto nelle guerre contro Afghanistan, Pakistan ed Iran. Secondo il Center for Strategic and Budgetary Analysis, il costo che i contribuenti americani devono sostenere per mandare un solo soldato a combattere in Iraq ammonta a 775.000 dollari l’anno.
Il mondo non ha mai visto una sconsideratezza così totale. Le invasioni della Russia da parte di Napoleone e di Hitler sono stati atti razionali se paragonate alla stupidità irragionevole del governo americano.
La guerra di Obama in Afghanistan è come il tè del Cappellaio Matto. Dopo sette anni di conflitto, non esiste ancora una missione ben definita o un obiettivo finale per il contingente USA in Afghanistan. Interpellato sulla missione, un ufficiale militare americano
ha detto a NBC News: «Francamente, non ne abbiamo una.» La NBC riferisce che «ci stanno lavorando».
Durante il suo discorso del 5 febbraio ai Democratici della Camera, il presidente Obama ha ammesso che il governo USA non conosce il motivo della missione in Afghanistan e che, per evitare «che la missione proceda a tentoni, senza parametri chiari», gli Stati Uniti «hanno bisogno di una missione chiara».
Cosa ne direste di essere mandati in una guerra il cui scopo è sconosciuto a tutti, ivi compreso al comandante in capo che vi ha spedito a uccidere o ad essere uccisi? Che ne pensate, cari contribuenti, del fatto di sostenere ingenti costi per inviare soldati in una missione non definita mentre l’economia va a rotoli?

Paul Craig Roberts

Le banche europee e i vigili del fuoco

sfondo
Questa prospettiva dalla City di Londra è interessante, data la devastazione che impregna i loro stesso panorama circostante. Gli Anglo-Americani sembrano aver lanciato il guanto di sfida, cosa farà ora, Monsieur Trichet ?

Il sistema bancario europeo è certamente un casino, e se mai ci fosse una circostanza che giustificasse il perseguire la "opzione svedese" del nazionalizzare le banche, questa la è.

Una frase [ dell'articolo che segue ] attrae particolarmente l'attenzione:

"Ci stiamo avvicinando al punto nel quale il Fondo Monetario Internazionale potrebbe dover stampare denaro per il mondo, ricorrendo ad arcani poteri per emettere Special Drawing Rights."


[ SDR o Diritti Speciali di Prelievo, è un particolare tipo di valuta, unità di misura del FMI, costituita da un paniere di valute rispetto alle quali si calcola un comun denominatore; gli SDR sono detti anche 'paper gold', cioè oro di carta, in quanto strutturati al fine di rimpiazzare l'oro nelle transazioni internazionali, ndt ]

Problema => Reazione => Soluzione

Sembrano esserci sempre degli arcani poteri pronti a risolvere delle crisi 'inaspettate'.

[ Leggiamo ora l'articolo del Telegraph ]

UK Telegraph
Il Fallimento nel salvare l'Est europeo porterà al crollo mondiale
Di Ambrose Evans-Pritchard
11:17PM GMT 14 Febbraio 2009

Se maneggiata malamente dalle istituzioni governative mondiali, questa crisi è grande abbastanza da frantumare il debole sistema bancario dell'Europa Occidentale e farci passare al secondo round del nostro Crepuscolo degli Dei finanziario.

Il ministro delle finanze austriaco, Josef Proll, la scorsa settimana si è prodotto in sforzi frenetici per mettere insieme 150 miliardi di euro di salvataggio per l'ex blocco sovietico. Lo ha potuto fare perchè le sue banche hanno prestato alla regione 230 miliardi di euro, corrispondenti al 70% del Prodotto Interno Lordo dell'Austria,

" [ Ne deriva che ] un tasso di insolvenza del 10% potrebbe portare al collasso il sistema finanziario austriaco, " riferisce il Der Standard di Vienna. Sfortunatamente, è proprio quanto sta per accadere.

L'EBRD ( European Banck for Reconstruction and Development ) ha detto che i cattivi debiti sono a livello del 10% e potrebbero salire fino al 20%. La stampa di Vienna ha detto che la Banca d'Austria, e l'Unicredit che la possiede, stanno per subire una "Stalingrado monetaria" nei paesi dell'Est.

La scorsa settimana, il Sig. Proll ha cercato di raccogliere il sostegno, dai ministri delle finanze dei paesi europei, al suo pacchetto di salvataggio. L'idea è stata soffocata dal tedesco Peer Steinbruck : non è un nostro problema, ha detto. Lo vedremo.

Stephen Jen, capo settore valute alla Morgan Stanley, riferisce che l'Europa dell'Est ha mutui per oltre 1,7 trilioni di dollari, soprattutto in obbligazioni in scadenza a breve. Devono riscattarne - o rifinanziarne - nell'anno per 400 miliardi, che equivale ad un terzo del Prodotto Interno Lordo dell'area. Buona fortuna, perchè i rubinetti del credito sono chiusi serrati.

Neppure la Russia potrà onorare facilmente il debito di 500 miliardi di dollari dei suoi oligarchi, perlomeno finchè il greggio rimane vicino ai 33$ al barile. L'investimento era tarato infatti sul greggio degli Urali a 95$ al barile, ed infatti la Russia, da agosto, ha 'sanguinato' il 36% delle sue riserve [ in divise ] estere per difendere il rublo.

"Questa è la più grossa speculazione della storia su una singola divisa, " ha detto il Sig. Jen.

In Polonia, il 60% dei mutui sono in Franchi Svizzeri e lo zlot si è appena dimezzato contro il franco. Ungheria, paesi balcanici, baltici e l'Ucraina stanno tutti vivendo una variante di questa stessa storia. Quale atto di follia collettiva - di mutuanti e mutuatari - coincide con la debacle dei subprime americani. Tuttavia, c'è una differenza sostanziale : le banche europee sono con l'acqua alla gola sui due fronti, le banche USA, no.

Quasi tutto il debito del blocco dell'Est è nelle mani dell'Europa dell'Ovest, soprattutto delle banche di Austria, Svezia, Grecia ed Italia e Belgio. Gli Europei detengono un sorprendente 74% dell'intero portafoglio - di 4.900 miliardi di dollari - di prestiti piazzati sui mercati emergenti.

Gli Europei sono cinque volte più esposti a quest'ultimo fallimento che non le banche americane o giapponesi, e - secondo i dati del Fondo Monetario Internazionale - hanno un reinvestimento superiore del 50%.

La Spagna c'è dentro fino al collo nell'America Latina, che si è unita in ritardo al crollo ( la produzione di auto in Messico è crollata del 51% in gennaio, ed il Brasile ha perso 650.000 posto di lavoro in un mese ), mentre Gran Bretagna e Svizzera ci sono dentro fino al collo in Asia.

Che la cosa richieda mesi, o solo settimane, il mondo sta per scoprire che il sistema finanziario europeo è affondato, e che non c'è nessuna Federal Reserve europea che sia già pronta ad agire quale ente erogatore di prestiti di ultima istanza capace di inondare i mercati di stimoli di emergenza.

In base ad un'analisi condotta secondo la "Regola Taylor" [ una moderna regola di politica monetaria proposta da John B. Taylor, che indica di quanto la Fed dovrebbe modificare il tasso di interesse in conseguenza dello scostamento del PIL reale dal PIL potenziale ecc..., ndt ], la Banca Centrale Europea, è già nella necessità di tagliare i tassi a zero per poi acquistare su larga scala obbligazioni e Titoli di Stato. Ma ciò è bloccato dalla geopolitica - un veto tedesco-olandese - a dal Trattato di Maastricht.

Basta divagare, è l'Est dell'Europa che proprio adesso sta esplodendo. Erik Berglof, economista capo dell'EBRD ( European Banck for Reconstruction and Development ), mi ha detto che la zona potrebbe aver bisogno di 400 miliardi di euro di aiuti per coprire i mutui e rianimare il sistema creditizio.

I governi europei stanno rendendo le cose ancora peggiori : alcuni stanno premendo sulle banche perchè si ritirino, svendendo le sussidiarie nell'Europa dell'Est. Atene ha ordinato alle banche greche di tirarsi fuori dai Balcani.

Le somme necessarie vanno al di là dei limiti del Fondo Monetario Internazionale, che ha già salvato Ungheria, Ucraina, Lettonia, Bielorussia, Islanda e Pakistan - ed ora tocca allaTurchia - e sta rapidamente esaurendo i 200 miliardi di dollari ( 155 miliardi di € ), della sua riserva.

"Ci stiamo avvicinando al punto nel quale il Fondo Monetario Internazionale potrebbe dover stampare denaro per il mondo, ricorrendo ad arcani poteri per emettere Special Drawing Rights."


I suoi 16 miliardi di salvataggio per l'Ucraina sono svaporati : il paese - che dopo il crollo del prezzo dell'acciaio deve fare i conti con una contrazione del PIL pari al 12% - sta precipitando verso la bancarotta, spiazzando Unicredit, Raffeisen ed ING.

Il Pakistan ha bisogno di altri 7,6 miliardi di dollari. Il governatore della banca centrale della Lettonia ha definito la propria economia "clinicamente morta" dopo che si è ridotta di un 10,5% nel quarto quadrimestre. Le proteste hanno coinvolto il tesoro e sconvolto il parlamento.

Lars Christensen, Danske Bank, ha detto : " Questa è molto peggiore della crisi nell'Est asiatico, del 1990."

"Nell'area, ci sono disastri in attesa di verificarsi, ma le istituzioni europee non hanno il minimo schema di intervento per fronteggiarle. Il giorno che decideranno di non aiutare un solo singolo paese di questi, sarà la miccia per una gigantesca crisi che si diffonderà come un contagio nell'Unione Europea."

L'Europa si trova già in guai ben peggiori di quelli che la BCE od i leaders europei si erano mai aspettati. La Germania ha patito una contrazione, nel quarto quadrimestre, pari ad un tasso annuo dell' 8,4%.

Se la Deutsche Bank ha ragione, prima della fine di questo anno, l'economia si sarà ridotta di un altro 9%; questo è quel tipo di livello che alimenta le rivolte popolari.

Le implicazioni sono ovvie : Berlino non ha intenzione di salvare Irlanda Spagna Grecia e Portogallo mentre il collasso delle loro bolle creditizie porterà ad un aumento di insolvenze, nè ha intenzione di salvare l'Italia con l'accettare piani per "obbligazioni dell'Unione Europea" se mai i mercati del debito dovessero essere spaventati dalla traiettoria missilistica del debito pubblico italiano ( che potrebbe schizzare l'anno prossimo al 1112% del PIL, dopo una recente revisione al rialzo dal 101% - grossa variazione ), nè avrà intenzione di salvare l'Austria dal suo avventurismo asburgico.

Così stiamo lì a guardare ed aspettare mentre le fiamme degli incendi letali si avvicinano. Se una scintilla salta al di là della linea dell'eurozona, in pochi giorni ci sarà una crisi sistemica mondiale.

I vigili del fuoco, sono pronti?
by Jesse's Café Américain

La via dei soldi

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Di fronte alla crisi economica in atto il cittadino comune, italiano ed europeo, è preso da un senso di smarrimento. Ma esso non riguarda soltanto la consapevolezza che il misero stipendio ricevuto a fine mese è inadeguato a sostenere un livello appena decente di vita. E non è nemmeno e soltanto la paura del futuro che appare sempre più incerto per sé e per i propri figli e che soprattutto è un futuro sul quale nessuno di noi ha la capacità di incidere. Il vero smarrimento, che in breve finisce per trasformarsi in una rabbia cieca, è per esempio leggere sui giornali che la Banca centrale europea, o organismi consimili come la Banca Mondiale e il Fondo monetario internazionale, chiedono ai governi di impedire aumenti di stipendi e salari oltre un certo livello per impedire l’innescarsi di dinamiche inflazionistiche, e poi nella pagina accanto leggere che il governo, nel caso specifico quello italiano, ha deciso di finanziare con qualche miliardo di euro un’azienda decotta come la Fiat e il mondo bancario messo in ginocchio dalle proprie speculazioni. Lo stesso governo, è bene dirlo, che appena pochi mesi prima, per la parte che gli compete, aveva spiegato che non c’erano in cassa soldi sufficienti per concedere, come facevano i re, aumenti di stipendio agli statali. Insomma, le banche come il Marchese del Grillo (io sò io..) e i cittadini e i lavoratori come gli altri poveri mortali (..e voi non siete un..). Una realtà per se stessa ben evidente ma che il governo non aveva mai così bene esplicitato.
Sono infatti le banche a comandare e a mandare avanti il sistema, i capitali devono pur potersi muovere liberamente all’interno del territorio dell’Unione, per quanto riguarda invece la forza lavoro, che cosa volete che sia? Anche il lavoro e i lavoratori sono merce che si può spostare a proprio piacimento. E se qualcuno non è d’accordo può anche uscire volontariamente dal meccanismo, tanto i sostituti nazionali ed esteri si potranno trovare tranquillamente.
Mal pagati o sottopagati cosa conta? Cosa contano i lavoratori davanti ai pescecane dell’Alta Finanza che dopo aver speculato massicciamente ora pretendono pure di ricevere sodi dallo Stato, cioè soldi nostri, e che nonostante questo riescono pure a restare al proprio posto? Ma adesso anche i lavoratori prendono atto della realtà che li circonda. Chi si informa bene, ricorda che gli azionisti e proprietari di quei giornali che difendono il sistema bancario e colpevolizzano le pretese “eccessive” di chi lavora, sono anche proprietari di aziende che quei giornali decantavano come sane e sulle cui azioni bisognava investire.
E sono anche azionisti delle banche che finanziano tali aziende e di cui possiedono azioni. Insomma il sistema economico che mette sotto accusa la rabbia sacrosanta di chi lavora, è lo stesso che, attraverso gli incroci azionari, si chiude costantemente a riccio in difesa dei propri interessi e dei propri privilegi e che riesce a pompare risorse da quello Stato, da quel governo e da quei partiti, della maggioranza e dell’opposizione, ai quali è strettamente legato. La crisi scoppiata in America, il centro della speculazione mondiale, si è potuta diffondere anche in Europa, nei termini in cui è avvenuto, perché i sistemi economici delle due sponde dell’Atlantico sono profondamente legati. Ma c’è dell’altro. La crisi ha avuto effetti devastanti in Europa e ha visto l’adozione di misure che alla fine beneficeranno gli speculatori, perché la politica, europea e italiana, ha rinunciato a svolgere il suo ruolo.
Che non deve essere quello di limitarsi ad essere l’amministratore delegato “ufficiale e legale” degli interessi dell’economia e della finanza, con la politica “marxianamente” considerata come sovrastruttura degli interessi dei magnati privati, ma deve invece arrivare a definire quali sono le priorità che uno Stato deve perseguire. Un governo deve fare scelte nell’interesse di tutti, nell’interesse nazionale, tutelando le categorie più deboli dall’arroganza dei più forti e dei più potenti. Un governo non deve insomma limitarsi a dettare delle regole generali e poi restare lì a guardare che esse siano rispettate dagli attori in campo. Un governo deve dare una impronta precisa alla propria azione in campo economico e non cercare di differenziarsi da un altro per banalità irrilevanti come potrebbero essere la posizione sull’aborto o sul matrimonio dei gay. Le soluzioni date in America e in Europa alla crisi finanziaria, hanno ulteriormente evidenziato che è in atto un vergognoso trasferimento di ricchezza finanziaria, che farà presto a trasformarsi in reale, da parte di chi ha e aveva già poco a chi, invece di suo, aveva molto e che continua ad avere abbastanza o troppo anche dopo aver sperperato buona parte della sua ricchezza in operazioni speculative tese ad arricchirsi ulteriormente. Il fatto nuovo, rispetto al passato, è che questo meccanismo si sta evidenziando come macroscopico agli occhi di chi è costretto ogni giorno a tirare la cinghia o si trova ormai da tempo in uno stato di autentica povertà. I potenti del mondo quindi farebbero bene a tenere “marxianamente” presente che in tal modo si è provocata una povertà di massa e al tempo stesso si è innescata una miscela pronta ad esplodere e a spazzare via con moti e rivolte di piazza un intero sistema globale basato sull’arbitrio di pochi.
di Andrea Angelini

Lo spreco di denaro è il segno distintivo della crisi attuale

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I politici criticano le gratifiche distribuite dalle grandi banche ai loro dirigenti. La stampa segue a ruota, ma i bonus sono solo la punta dell'iceberg. Lo spreco di denaro è il segno distintivo della crisi attuale. E lo stato è responsabile quanto le banche.

La commissione che controlla il Tarp, il piano di salvataggio delle banche di Henry Paulson e Ben Bernanke varato lo scorso autunno, ha scoperto che il contribuente statunitense ha pagato troppo per l'acquisto dei titoli spazzatura presenti nel portafoglio delle banche. Su 254 miliardi di dollari elargiti fino a oggi, lo stato ha ricevuto beni pari a 176 miliardi.

Resta quindi un buco da 78 miliardi, che corrisponde a cinquanta volte l'ammontare dei bonus distribuiti ai manager dal 2000. Se si considera che il Tarp fornisce denaro contante e il 50 per cento dei bonus è costituito da titoli spazzatura, la proporzione sale.

Eppure la notizia dello spreco di denaro pubblico passa inosservata, perché si parla solo della decisione di Barack Obama di limitare gli stipendi dei manager a mezzo milione di dollari all'anno. Con questa misura il contribuente impiegherà 150 anni per recuperare i 78 miliardi persi negli ultimi tre mesi. Forse ci stiamo muovendo nella direzione sbagliata?
di Loretta Napoleoni

La "depressione" più grande








Nel 2009 stiamo per assistere al peggiore collasso economico di sempre, la "Depressione piu' Grande", dice Gerald Celente, previsore di tendenze Americano. Egli crede che la faccenda sara' molto violente negli USA, con una possibile rivolta fiscale.

RT: La fragile economia USA si e' incontrata con salvataggi bancari e piani di stimolo. Quindi cosa dobbiamo aspettarci nel 2009 ? Nel rispondere a questa domanda e' qui con me Gerald Celente, fondatore e direttore dell'istituto di ricerca di tendenze. (che pubblica Trend Journal, NdT). Grazie per essere qui con me.

Gerald Celente: Piacere mio.

Nella foto: Gerard Celente

RT: Come definirebbe la tendenza economica che le i ha previsto per il 2009 ?

GC: Stiamo per assistere ad un collasso economico che il mondo non ha mai visto prima. E non solo negli USA, sara' globale. Alla fine del 2008 abbiamo osservato le vendite Natalizie: abbigliamento femminile giu' del 23%, mobili e apparecchiature elettroniche giu' del 27%, beni di lusso giu' del 35%. Questi sono collassi da Era Depressionaria. Abbiamo assistito a numerose bancarotte, tipo quelle delle catene "Circuit City" e " Linens and Things" Una bancarotta dopo l'altra. Abbiamo visto negozi chiudere. Starbucks, Home D&D power e via discorrendo.
La domanda che sorge riguarda chi si prendera' lo spazio reso disponibile dei negozi falliti ? Chi lo affittera' ? La risposta e' - nessuno. Se diamo un'occhiata al collasso finanziario del 2008, ci ricordiamo della cricca della Merryl Linch nascondersi sotto il letto, ed i ragazzi della Lehman andare in bancarotta. Avete visto aziende di titoli, di intermediazione e banche andare a pancia all'aria. Chi affittera' tutto lo spazio commerciale disponibile che prima queste aziende occupavano ? La risposta e' - nessuno. Il collasso del mercato immobiliare commerciale nel 2009 fara' sembrare quello del mercato residenziale uno scherzo.

RT: Lei usa la Grande Depressione come un'analogia, una comparazione. Durante la Grande Depressione la disoccupazione era al 25%. Ora questo numero e' aumentato di oltre il 7,2. E' un numero destinato a salire ?

GC: Dobbiamo guardare i numeri reali. Ci sono due tipi di statistiche ghe il governo usa. Quando misurano la disoccupazione, non considerano la gente che non cerca piu' lavoro perche' ormai scoraggiata, non essendo riuscita a trovare un impiego dopo averlo cercato a lungo. Ed inoltre non includono i lavoratori part time. Se aggiungiamo anche queste cifre, il numero sale al 13,7% E sono numeri governativi. E' questo e' solo l'inizio. E ricordiamo che gli eventi correnti formano le tendenze future.
Cosa abbiamo visto ? Abbiamo visto in un solo giorno 61,000 posti di lavoro evaporare. Stiamo per assistere a numeri da Grande Depressione. Perche', come menzionato, con il collasso del mercato immobiliare commerciale, ed con il ridimensionamento di Starbucks e Macy, significa che siamo sull'orlo del precipizio. Dobbiamo considerare non solo le persone che non lavorano piu' in queste aziende, ma che dire di tutto l'indotto ? Pubblicita', artigiani. Anche queste aziende cominceranno a licenziare. Stiamo per assistere a numeri da Grande Depressione. Ed in questo contesto ci sono i presupposti che sia anche peggio.

RT: Cosa dobbiamo aspettarci per la societa', la vita di tutti i giorni, i rapporti interpersonali, crimine ?

GC: Quando dico che sta per essere peggio della Grande Depressione, usiamo il termine La piu' Grande Depressione. Oltretutto, usare i modelli e le soluzioni del 1930 per tirare fuori dai guai gli USA e' veramente stupido. Allora durante la Depressione, molta gente non possedeva case. Non c'erano i mutui immobiliari. E sempre allora la gente non aveva carte di credito. I consumatori non avevano debiti per 14 trilioni di dollari. A quei tempi avevamo una base manifatturiera che ha contribuito a portare il mondo fuori della Grande Depressione dopo la Seconda Guerra Mondiale. Ora tutto questo non c'e' piu'.
La gente ora e' al limite. E' sotto stress. Gli USA sono la nazione piu' depressa al mondo oggi. Usano piu' antidepressivi che qualsiasi altro popolo, senza contare gli altri innumerevoli farmaci che usano. Stiamo per assistere ad un aumento dei livelli di crimini che potranno rivaleggiare con quelli del terzo mondo. Benvenuti a Mexico City. Stiamo per assistere a rapimenti in questo paese, come spesso avviene in altre nazioni sottosviluppate. Sta per diventare un America molto violenta.

RT: Non sta esagerando ?

G.C.: Non sto esagerando. I fatti sono tutti li' . Ho un detto: quando la gente perde tutto e non ha niente da perdere, perde ogni inibizione. Sta per esserci un'altra rivoluzione in questo paese.

RT: Quando questa rivoluzione che lei ha previsto nel suo Trend Journal accadra', e cosa la scatenera' ?

G.C.: Stiamo per assistere ad una rivolta fiscale. La gente e' ad uno stipendio dal perdere ogni cosa. Assisteremo a ulteriori fallimenti e gente licenziata. La gente e' al limite massimo. E cosa fanno nello Stato di New York ? Propongono 130 nuove tasse, aumentano le tasse sul venduto. Sta per esserci una rivolta fiscale in questo paese, prima sulle tasse di proprieta', poi sulle tasse scolastiche. Questo e' cio' che stiamo per assistere.

RT: Crede che la gente non speri che Obama fara' la differenza? GC: La gente e' piena di speranza, ma sono anche disperati e pieni di paura. Quindi si attaccano ad ogni cosa. Ma guardiamo i fatti. L'uomo del cambiamento. Chi ha portato con se a Washington ? Come si suol dire, riconosci la gente dalla proprie azioni. Guardiamo il suo segretario al tesoro., Timothy Geithner, a Robert Rubin dell'amministrazione Clinton, l'ex presidente della Federal Reserve di New York. Cambiamento ? E che dire di Larry Summers, l'ex segretario al tesoro di Clinton ? Ho un po' di esperienza e dico che non mi ricordo di un presidente eletto che porti nell'amministrazione, piu' o meno le stesse persone del gruppo di sicurezza nazionale di un'amministrazione precedente.

RT: Ma non crede che Obama una qualche differenza potra' farla ?

G.C.: Riconosci la gente dalla proprie azioni ! Se prendo in squadra un battitore che spara la palla fuori campo ad ogni colpo, e voglio che giochi nei campionati mondiali, non crede che provera' a colpire oltre la rete ? Hanno preso Larry Summers, Timothy Geithner. Guardi la squadra, Guardi chi sono. Sono artisti del colpo vincente. Ognuno di loro. E la cosa che sanno fare meglio e' quella di non sporcarsi le unghie delle mani.

RT: C'era una frase nel suo rapporto nel "Trend Journal" che ha veramente attirato la mia attenzione. Lei ha scritto " Nel 11/9 coloro che hanno dato ascolto alle autorita', sono crollati insieme alle torri". Quindi quello che vuol dire agli Americani e' di non dare ascolto alle autorita' che affermano che il programma di stimolo economico migliorera' la situazione ? E' questa l'analogia ?

G.C.: Guardi le mie labbra. Nessuna nuova tassa, Non ho fatto sesso con quella donna, Monica Lewinski. Ho fumato ma non inalavo. Saddam Hussein ha armi di distruzione di massa e legami con Al-Qaeda. Perche' qualcuno dovrebbe credere a questa gente ?

RT: Quindi cosa gli Americani dovrebbero fare se non possono avere fiducia nei loro politici ?

G.C.: Personalmente io compro oro, E ho suggerito l'opzione oro fino dal 2001. Abbiamo toccato il fondo ed ora (l'oro) dovrebbe risalire fino a 275 (dollari oncia, NdT).
Numero due, non spendere un centesimo che non sia strettamente necessario.

RT: Quali saranno i mestieri che potranno avere delle opportunita' quest'anno?

G.C.: Qualsiasi cosa che abbia a che fare con la salute. Qualsiasi. Sara' un'industria in ascesa. E fortunatamente molta gente sara' disposta a spendere molto denaro in quel settore in quanto grossa parte della spesa sara' rappresentata dalle cure per gli anziani. Ed un altro settore interessante sara' quello relativo all'efficienza ed al risparmio energetico, qualsiasi cosa di provata efficacia tecnologica in grado di risparmiare denaro e di farne fare.

RT: E che mi dice sulla geopolitica, a quali tendenze assisteremo nelle relazioni tra USA e resto del mondo ?

G.C.: Bene, il resto del mondo e' molto speranzoso, usando la parola "speranza" con l'amministrazione Obama. Tuttavia, dobbiamo prima vedere cosa accadra', ma fino ad ora e mi ripeto, riconosci la gente dalla proprie azioni. Obama, all'inizio della campagna, aveva l'intenzione di ritirarsi dall'Iraq. Non appena diventato presidente stava per cominciare a portare i soldati a casa. Ora questi non lasceranno l'Iraq per 16 mesi e gli ultimi rapporti dicono che incrementeranno le truppo di 40.000 unita'. Sta anche parlando di attacchi preventivi in Pakistan. Quindi non sembra proprio che ci possa essere un ammorbidimento delle relazioni geopolitiche.
Uno dei fattori ai quali stiamo guardando con attenzione, e oltretutto nel momento peggiore nel quale potrebbe accadere, e' cio' che succede nel Medio Oriente, nella guerra tra Israele e Gaza Da cio' che sta emergendo dai rapporti analizzati, esiste la possibilita' che Israele attacchi l'Iran. Se cio' accadesse questo comincerebbe la Terza Guerra Mondiale. Se la guerra attuale si diffonde oltre Gaza, infiammera' tutto il Medio Oriente. Cio' potra' causare una crisi del petrolio analoga a quella del 1973, che fu il seguito della guerra Arabo Israeliana. Questa e' la nostra maggiore preoccupazione. Stiamo anche assistendo e ci chiediamo se Obama continuera' nell'installazione del cosiddetto scudo difensivo missilistico in Polonia ed nella Repubblica Ceca, e se continueranno a fare pressione sulla Georgia. Se cio' continuasse, stiamo per assistere al riaccendersi della Guerra Fredda.

RT: Lei e' un anticipatore di tendenze fino dal 1980, da piu' di due decadi. Come raccoglie e elabora le sue informazioni e perche' crede di essere cosi accurato il piu' delle volte ?

G.C.: Gli eventi correnti formano le tendenze . Potete vedere cio' che sta accadendo. Un grande studioso ha detto "Nel momento attuale cammina gia' il domani". Quindi noi diciamo che gli eventi attuali formano la tendenza futura. Ma quando la gente guarda alle tendenze, lo fa con un approccio personale, colorandolo con la propria ideologia, le proprie credenze. E' cio' che vogliono, sperano e desiderano.
Io sono un ateo politico. Guardo alle cose come realmente sono, non nel modo in cui vorrei fossero. Non le coloro né provo a cambiarne l'essenza per la mia ideologia. Inoltre una delle cose che facciamo differentemente qui al Trend Research Institute e' nel guardare su base globale in oltre 300 differenti categorie. Analizziamo l'economia, la politica, i cambiamenti familiari, la geopolitica. E facciamo collegamenti tra le diverse discipline continuamente.

RT: Come puo' l'America uscire dalla situazione ?

G.C.: Tutto quello che dovete fare e' guardare indietro al 1990 quando l'America e' entrata in recessione. Avevamo una disoccupazione al 7,2 nel 1993. Cio' che ha tirato fuori gli USA dalla recessione del 1990 e' stato qualcosa chiamata " rivoluzione Internet" che aveva con se una capacita' produttiva. Prodotti furono inventati, disegnati, prodotti, commercializzati e serviti. Quindi bisogna chiedere nuovi lavori, energie alternative, Qualunque cosa che possa fare avanzare gli USA nel 21 secolo in maniera intelligente. Questo e' dove le opportunita' di lavoro presumibilmente saranno.


di Gerald Celente

Ma com'è questa crisi?

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L’aria che si respira, durante la riunione sindacale della CGIL, è pesante. Non si parla solo della frattura sindacale con CISL ed UIL, dei contratti di carta straccia, di leggi e leggine, le quali piovono sulla scuola come coriandoli in uno scenario che, di Carnevale, non ha nulla.
C’è il segretario provinciale, che tratteggia la situazione e sciorina dati: la cassa integrazione è triplicata in breve tempo, ed anche coloro i quali sono privi di qualsiasi protezione sociale aumentano, compresi i precari della scuola che rimarranno a spasso. Un camposanto.
Anche le frecciate sul piccolo ministro della Funzione Pubblica rimangono sullo sfondo, poiché la domanda che aleggia nell’aria – inespressa ma presente sui volti – è la stessa: dove andremo a finire?

I dati sul reale impatto della crisi economica si susseguono e s’accavallano: ciascuno cita una cifra più alta di quella del giorno prima, mentre il governo ha scelto la strada d’urlare più forte per tacitare i brusii. Se non basta proclamare urbi et orbi che esiste il traffico d’organi, si monta subito una bella disfida di Barletta su Eluana. Domani? Speriamo che il solito rumeno ne combini qualcuna, altrimenti siamo spiazzati. Ci salverà il Grande Fratello, ma è un’ancora di salvezza poco affidabile.


L’impressione che si ricava da questa crisi finanziaria è quella di una spada di Damocle sospesa, che non si sa con precisione quanto incombe e quando calerà con fragore.
Si scomodano, allora, i precedenti storici e, ovviamente, la crisi del ’29 la fa da padrone. Sarà sufficiente?
Gli aggettivi si sprecano: “epocale”, “imprevedibili effetti”, “catastrofica”…ma…le ragioni?
Certo, quelle più evidenti sono state chiarite: la creazione di ricchezza fasulla, di una montagna di carta straccia timbrata come moneta o certificato di credito, poi rivenduto, ecc. Perché è stato permesso? Qui, la cosa si complica, perché esiste un legame fra le guerre degli ultimi decenni e la cosiddetta “crisi finanziaria”.

Per capire le ragioni profonde ed importantissime di questa crisi – di questa punta dell’iceberg – potremmo partire all’incirca dall’anno di Grazia 1500, quando Cabral sbarca sulle coste del Mozambico e fonda le prime colonie portoghesi. Ho scritto “potremmo”, poiché le colonie oltre il Capo furono solo il seguito di quelle create ad Occidente del Capo di Buona Speranza, già nel XV secolo. Qual era la ragione di tanto ardire? Giungere alle isole delle spezie per mare, senza dover sottostare alle esose richieste dei mercanti arabi.
Quei piccoli borghi medievali fortificati sulle coste dell’Africa, rappresentarono un crinale della Storia: prima, Oriente ed Occidente erano appena consci della presenza, l’uno, dell’altro. Pochi anni dopo, iniziavano a confrontarsi.
Fino a quel momento, la Cina godeva d’alcuni primati tecnologici, soprattutto nella costruzione d’altiforni e nella chimica: la polvere da sparo fu una loro invenzione, anche se non ci sono prove storiche così certe.
In pochi anni, però, il primato passò all’Occidente: perché? Poiché era Cristiano.

Superiorità religiosa? No, più prosaicamente, una questione metallurgica: i Cristiani fabbricano campane, gli orientali i gong.
Se “allungate” un gong potrete ottenere al massimo un catino, mentre se “snellite” una campana otterrete un cannone: i primi fabbricanti di cannoni, già nel XIV secolo, erano tutti ex fonditori di campane.
Anche i cinesi usarono la polvere da sparo per la propulsione di lancio, ma utilizzarono i bambù come recipienti e – si comprende facilmente – un cilindro di ferro, più capiente e robusto di uno di bambù, lancerà più lontano un proiettile più pesante.
Ecco la "chiave”, una prima risposta per capire come mai l’Oriente diventò “territorio di caccia” per gli occidentali e non il contrario.
Le cronache riportano una lunga sequenza di “accordi commerciali” e “protettorati”, nati e cresciuti all’ombra di un vascello o di una cannoniera ancorati di fronte alle coste altrui.

I secoli seguenti vedono l’affermazione dapprima commerciale, poi decisamente coloniale, dell’Occidente: le Compagnie delle Indie ed i viceré nelle colonie sono carte dell’identico mazzo.
Ancora nell’800, le cannoniere americane di Perry (1854) “aprirono” le porte del Giappone, mentre quelle francesi servirono identica “portata” (con la battaglia navale di Fu-Chan, nel 1884) alla Cina.
La prima metà del ‘900 non muta lo scenario, mentre la seconda inizia con qualche sussulto: nel 1953, per convincere il riottoso Primo Ministro iraniano Mossadeq ad accettare le “generose” offerte delle compagnie petrolifere occidentali (il 6% agli iraniani, il 94% alla BP & soci), Eisenhower invia un emissario “speciale” – il generale Norman Schwarzkopf sr, ricordate questo nome? – il quale riesce, con un colpo di stato abilmente diretto da Washington, a cancellare ogni anelito d’equità nella ripartizione delle risorse iraniane.
Nel 1948 nasce Israele, il quale – oltre ad una serie di ragioni ben note relative al sionismo – ha il compito di “sentinella” per il Canale di Suez e per gli sviluppi del sistema d’approvvigionamento petrolifero, in questo coadiuvato dalla famiglia regnante degli Al Saud.
Il sistema neocoloniale ancora tiene: le piccole caravelle di Cabral continuano a segnare il tempo ed a riproporre la prassi dell’appropriazione, spesso truffaldina, delle risorse altrui. Ma i giorni passano.

La lunga guerra in Vietnam rivela, per la prima volta, che gli USA non sono invincibili, ma non è questo il “giro di boa”. Lentamente, l’Oriente si risveglia: in Occidente si ride, alla comparsa sulle bancarelle dei mercati rionali, delle bamboline in legno e pezza “made in China”. Ma guarda ‘sti cinesi…riusciranno a farle così bene perché hanno le mani piccole…
Nel 1991, un altro Norman Schwarzkoft (jr, il figlio del precedente “inviato” in Iran, buon sangue non mente) guida la “Felicissima Armada” che convince Saddam Hussein a “mollare” il Kuwait, e tutto sembra continuare come sempre: se alzi la testa, l’Occidente – unito – spara ad alzo zero.
Verrebbe da dire “e arriva l’11 Settembre”, ed invece non lo affermiamo proprio, perché c’entra poco o nulla.
Arrivano, invece, computer dalla Cina e software house dall’India: poi, tutto precipita. Dal Brasile all’Iran, dalla Malesia alla Russia, il “non-Occidente” si mette a fabbricare ed a commercializzare di tutto: elettronica, energia, meccanica, chimica…
Le caravelle di Cabral s’arenano e, con esse, cinque secoli di predominio mercantile e militare sul Pianeta.
La risposta?
Secondo copione, partono le cannoniere, ma ottengono ben poco: per comprendere in qual basso stato siano giunte le armi occidentali, basti pensare che, pochi giorni or sono, a Kabul hanno dato l’assalto al palazzo presidenziale. Karzai s’è salvato per miracolo, mentre l’Iraq è oramai un affare chiuso: un fallimento che attende solo l’Ufficiale Giudiziario.
La forza dell’Occidente, per questi cinque secoli, è stata sorretta da due aspetti: denaro e cannoni. I quali, se manca il denaro, servono a poco. E allora? Se non possiamo più stampare vagoni di carta moneta a ufo…creiamo ricchezza finanziaria fasulla!
Nel volgere di mezzo secolo, gli USA sono passati dal controllare il 50% del commercio mondiale al 20%, oggi forse ancora meno, e l’Europa non ha certo colmato quei vuoti.
Li stanno colmando legioni di uomini d’affari cinesi, indiani, brasiliani…che vendono di tutto, di tutto di più. Vendono perché fabbricano, fabbricano perché progettano, progettano perché studiano: noi, siamo ridotti a creare truffe.
Domandiamoci, allora, la natura di questa crisi partendo da tre ipotesi di “scuola” marxista:

1) Una crisi ciclica del capitalismo.
2) La crisi terminale del capitalismo.
3) Una crisi d’assestamento verso nuovi equilibri internazionali.

Abbiamo distinto le ipotesi 1 e 3, anche se presentano molti punti in comune, sulla base delle cause: endogene, ossia crisi di ristrutturazione degli apparati produttivi nel primo caso (modello anni ’70 del ‘900, ad esempio, oppure le grandi trasformazioni della seconda metà dell’Ottocento, ecc) e cause geopolitiche nel terzo, pur rendendoci conto che esistono parecchi aspetti interdipendenti fra i due fenomeni.

Un secondo aspetto, da approfondire, concerne l’analisi “tecnica” degli eventi, ossia le evoluzioni parallele dei fenomeni in atto, se confrontate con altri sconquassi economici del passato.
La crisi del 1929 ben si presta perché è vicina a noi – gli “attori” portano, a volte, quasi gli stessi nomi, gli Stati coinvolti pure, ecc – e, soprattutto, poiché consente d’analizzare gli eventi utilizzando i parametri dell’economia contemporanea.
Ci sono, ovviamente, delle differenze: ad esempio, all’epoca era ancora in vigore l’ancoraggio all’oro di parecchie monete, ma non è questo il fatto saliente.
Una crisi, se analizzata partendo dagli effetti puramente economici (parametri, ecc), può condurre a parallelismi che non hanno ragion d’essere poiché, come avviene per la diagnosi di una malattia, effetti simili od addirittura perfettamente sovrapponibili possono derivare da cause molto diverse. E’ questo il caso.

La crisi del 1929 non fu minimamente catalizzata da eventi esterni all’Occidente: nessuno, all’epoca, era in grado d’impensierire il commercio internazionale gestito dalle potenze dell’epoca. Tutti i Paesi, oggi emergenti, erano colonizzati od asserviti oppure, come l’URSS, alle prese con infiniti guai interni. Grandi Paesi come la Cina od il Brasile, nel commercio mondiale, valevano pressoché zero.
La crisi del 1929 rivelò i rischi di un capitalismo lasciato galoppare senza freni – le “bolle finanziarie” spadroneggiarono anche allora – ma era il contesto economico reale (la cosiddetta “Main Street”), ossia la potenzialità di ricchezza, la possibilità d’espansione economica ad essere diversa rispetto all’oggi.
Per questa ragione, ebbero successo le politiche keynesiane: la “Tennessee Valley” fu possibile perché lo Stato (per nulla indebitato) varò il deficit spending per incentivare l’agricoltura ed i trasporti negli stati del Sud.
Oggi, un ipotetico “piano” per “Silicon Valley” sarebbe improponibile perché Silicon Valley, nel nostro tempo, è in Cina, India, Malesia…
Queste premesse, ci portano a concludere che l’attuale crisi del capitalismo non è una crisi “terminale”, proprio perché – da qualche parte – esistono aree che possono ricevere nuova industrializzazione, incrementare i consumi, ecc.
Sull’altro versante, un simile spostamento di ricchezza, produzione, conoscenza, ricerca…non può “transitare” senza scossoni epocali: perdere cinque secoli di predominio, è un trauma equivalente alla caduta di un impero dell’antichità.

La fiaba, raccontata in tutte le salse, della produzione “diversificata” e globalizzata e, dall’altra, di una finanza accentrata in poche mani occidentali, sta svanendo come neve al sole.
L’opulenza della piazza finanziaria di Londra si consuma nell’evidenza dei licenziamenti, nelle banche salvate dalla mano pubblica, ossia in una partita di giro che vede caricare sulle spalle dei cittadini le perdite del sistema finanziario. Un partita di giro truccata, poiché a soffrire dei disastri finanziari è prevalentemente la parte più ricca della popolazione, mentre a subirne gli effetti saranno – con l’estinguersi dello stato sociale – i settori meno abbienti.
Mentre metà del Pianeta s’interroga su dilemmi di natura espansiva – finanziari, tecnologici, ambientali, ma sempre espansivi, poiché ci sono secoli di domanda interna da colmare – l’altra metà non trova risposte, perché quelle risposte esigerebbero proprio la presa di coscienza di un mondo non più “eurocentrico” oppure “amerocentrico”.
Al più, dopo i fallimenti della politica unilaterale di Bush, si torna a parlare di “multipolarismo”, ma il diritto di veto al Consiglio di Sicurezza dell’ONU rimane solidamente ancorato nelle mani di cinque attori, tre dei quali sono potenze un tempo coloniali o neocoloniali: si stenta a comprendere che un “G20”, oggi, deve prender forma su piani d’assoluta parità.
Ancor più drammatico, è capire quale potrà essere il futuro di vecchie ed azzimate signore – un tempo padrone del pianeta – che oggi si ritrovano con le pezze al sedere. Premere sull’acceleratore dell’innovazione tecnologica?

Non si può certo rifiutare lo sforzo per la conoscenza, ma aspettarci grandi frutti da queste politiche è incerto, giacché bisogna fare i conti con la novità: non siamo più in testa, stiamo inseguendo.
Anche nel nuovo comparto energetico – l’unico che, forse, consente all’Occidente il vantaggio di un’incollatura – dobbiamo considerare che le potenzialità dell’Oriente – ricerca, finanza, produzione – crescono con numeri a due cifre, non con i nostri asfittici “0,…%”. Se i cinesi si mettessero a costruire pannelli solari, c’è da giurarci che in breve tempo li costruirebbero migliori ed a minor costo rispetto ai nostri.
L’unica sfida che l’Occidente dovrebbe accettare non è nella corsa economica o tecnologica: la presa di coscienza della propria condizione di “poveri in divenire”, dovrebbe accelerare il dibattito sulla distribuzione della ricchezza, sul valore stesso di “ricchezza”, sulla necessità d’essere “ricchi”.
In fin dei conti, restiamo Paesi “ricchi”: non ci mancano certo i beni primari e la protezione sociale, e siamo in grado d’avere anche un po’ di superfluo; ciò che non ci potremo più permettere, è di vivere credendoci nababbi hollywoodiani.

Roma fu invincibile e padrona assoluta per secoli: eppure Roma lasciò poco, mucchi di macerie che oggi chiamiamo “ruderi”. Atene non dominò quasi nulla, però i suoi fondamenti sono, ancora oggi, le basi della nostra conoscenza.
Diventa allora essenziale riportare il dibattito sui valori fondanti del nostro vivere: aspetti giuridici ed economici, difesa e rivalutazione dei grandi principi costituenti da un lato, serrato dibattito per riportare alla collettività le leve dell’economia.
Recentemente, un uomo politico italiano (poco importa chi è, la pensano quasi tutti così) ha dichiarato “di non essere attratto dalla decrescita”: “decrescita” non potrà più essere un vago concetto sul quale decidere “quoto” o “non quoto”, poiché ai cinesi frega assai di cosa “quotiamo”. E, se lasceremo fare al “mercato”, non otterremo mai risposte perché il “mercato” non prende in considerazione aspetti culturali: valuta l’incremento, o il decremento, e su quella base decide.
La decrescita, invece, non può fare a meno di una profonda rivisitazione – su basi culturali – del nostro vivere: solo dopo si potrà decidere se costruire autostrade od incrementare la ferrovia, se passare ad un sistema di produzione/consumo d’energia su piccola scala, se intervenire sull’obsolescenza dei beni, ecc.
La politica, insomma, senza valori culturali di riferimento, si riduce ad un mero esercizio di calcolo: di soldi, di voti, di favori.

Voglio portare un esempio che può sembrare provocatorio, e che non lo è per niente.
L’Italia è un Paese fortunato, fortunatissimo. Non abbiamo quasi petrolio, ed abbiamo industrie che anche altri hanno, spesso più solide delle nostre.
La Francia ha Versailles, la Spagna il Prado, la Russia l’Hermitage, la Germania i castelli del Reno…ma nessuno ha la reggia di Caserta, gli Uffizi, Venezia irripetibile, Roma mozzafiato, antichità greche, rinascimentali…anche il più sperduto borgo ha qualcosa che all’estero si sognano. Viviamo in un grande museo a cielo aperto.
E’ mai possibile che dobbiamo perdere terreno nei confronti d’altri Paesi europei proprio sul turismo?!? Ogni anno che passa, quando si fanno i conti sulla stagione turistica, è un fazzoletto di lacrime in più rispetto a quello precedente.
Eppure, gli studi sul turismo evidenziano che l’unico settore che “tiene” è quello dell’arte, soprattutto per i milioni di “nuovi ricchi” orientali. Non potremo mai fare concorrenza alle spiagge tropicali, mettiamocelo in testa: non riusciamo nemmeno a reggere il confronto con Spagna e Croazia.
Osserviamo, allora, l’importanza che l’Italia assegna al suo patrimonio artistico – il suo petrolio! – dai nomi dei ministri chiamati ad amministrarlo. Buio pesto, che più pesto non si può.
Dai palesi incompetenti – Bondi, Urbani – a quelli in altre faccende affaccendati, Veltroni e Rutelli: non uno che abbia fatto qualcosa, che abbia varato consistenti investimenti per la manutenzione e per il restauro d’altri, enormi patrimoni ancora sotterra o nei sotterranei dei musei.
Questi patrimoni, domani – se affiancati da una politica d’investimenti nei settori di supporto (alberghiero, ricettivo, ecc) – si potrebbero trasformare in milioni di posti di lavoro per tutti quegli italiani che non possono fare concorrenza ai cinesi nel produrre magliette e computer.
Perché non viene attuato nulla? Un caso? No, troppo semplice.

La ricchezza che si creerebbe, mettendo finalmente a frutto il nostro patrimonio artistico, sarebbe diffusa sul territorio, ne godrebbero milioni di “signori nessuno”, giovani senza lavoro, gente di mezza età che lo perde. In altre parole: noi. E’ lo stesso, perverso meccanismo che mette bastoni fra le ruote alla produzione energetica diffusa.
Ancora una volta, l’ostacolo è di natura culturale: la ricchezza diffusa (anche modesta) genera cittadini, quella dispensata dall’alto per non cadere in miseria, produce sudditi.
E, non sia mai, che ciò comporti una perdita di potere da parte di quel milione d’italiani che vive di politica, di mala politica, d’affari legati alla politica, poiché entrerebbe in contraddizione con il primo, vero articolo della nostra Costituzione:

Art. 1 bis: L’Italia è una repubblica oligarchica, fondata sul conflitto d’interesse e sul potere delle Caste.

Perciò, partendo da questo semplice esempio, possiamo capire ciò che c’attende per la cosiddetta “crisi economica” – che di strettamente economico ha ben poco – poiché l’economia (“governo della casa”) non è un dogma e tutti dovremmo parteciparvi. Non è accettabile dover sottostare ad imposizioni dettate da personaggi che fanno parte dello stesso mondo che fabbrica ricchezza fasulla! Perché un signore in doppiopetto di un’agenzia di rating – spesso collusa con le banche truffaldine – può decidere il futuro dei miei figli?
Per imbonirci, i politici nostrani usano strategie diversificate: si nasconde la testa sotto la sabbia (centro destra), oppure si vagheggiano astrusi parallelismi con la (per ora, tutta da verificare) politica di Obama (centro sinistra). In definitiva, ci raccontano solo un mare di frottole.
Nel primo caso, servono potenti anestetici (c’è il traffico d’organi! Eluana! Grande Fratello forever!) per tentare d’addormentare la popolazione sempre più stanca ed avvilita, mentre nel secondo si mesta nel torbido, perché è facile promettere una politica d’innovazione, soprattutto energetica, senza affrontare il nodo della gestione. A che servono, auto elettriche “targate” ENEL od ENI? A cambiare cappio, per strozzarci in un altro modo?

Non perdiamo altro tempo per analizzare, per spaccare il capello in quattro e conoscere finalmente il nome di colui che stampava carta straccia, e nemmeno se può essere più affidabile del suo socio: domani, potrebbero semplicemente scambiarsi la scrivania. Il passaggio storico è di quelli da far rizzare i capelli – questo è da tenere in primo piano! – e non sono stati i trucchi di quattro banchieri a generare il disastro: c’era già prima.
Ciò che la Storia c’insegna, è che questi enormi mutamenti richiedono la nostra attiva partecipazione: nuove idee, nuovi stili, nuovi obiettivi.
Ci arriveremo? Senza dubbio, ma la Storia ci racconta anche qual è il discrimine, il crinale che separa l’accettazione supina dalla fattiva elaborazione: milioni di morti.
di Carlo Bertani

Palestina:due stati due Popoli? Una illusione

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Chi ha letto l’articolo di Gheddafi, il 21 gennaio sul New York Times, avrà ragionevolmente visto in esso una provocazione, e un’insultante confutazione dello Stato ebraico. Purtroppo le cose non stanno così, anche se l’insulto resta: quel che ha detto il Presidente libico - non ha più senso parlare di due Stati, israeliano e palestinese, in pace l’uno accanto all’altro - è una convinzione più diffusa di quel che si creda. La sostengono non solo fazioni palestinesi importanti, ma un certo numero di ebrei dentro e fuori Israele. Gheddafi dice a voce alta quel che molti pensano, anche senza desiderarlo. C’è da chiedersi se la destra israeliana che ha vinto alle urne (quella di Netanyahu e di Avigdor Lieberman, capo di Israel Beitenu, ovvero «Israele casa nostra») non abbia pensieri analoghi: che non confessa ma che impregnano i suoi piani d’azione.

La formula «due Stati-due popoli», che continua a esser sbandierata in Israele, a Washington, in Europa, non ha più radici vere nella realtà. È diventata una vana parola, che dà buona coscienza ma non suscita azioni. È come un treno che tutti immaginano in attesa alla stazione, e invece è già passato. Se in Israele si è affermata una destra ostile a negoziati con l’insieme dei partiti palestinesi, che non intende cedere territori e anzi accresce le colonie, significa che l’occupazione non è considerata quello che è: la più grande, l’autentica minaccia strategica per l’esistenza di Israele. In queste condizioni parlare di due Stati è ipocrisia.

Il piano implica la fine dell’occupazione e rari sono i politici israeliani che l’ammettono e ne traggono conseguenze.

È il motivo per cui alcuni auspicano che sia Netanyahu a guidare Israele. Lo ha scritto Gideon Levy su Haaretz, già prima del voto: la sua speranza è che finalmente si cominci a dire il vero, e Netanyahu può farlo. Che s’abbandonino espressioni eufemistiche come processo di pace o due Stati-due popoli. Con Netanyahu le cose diverrebbero più chiare, il dislivello tra verbo e azione meno nebbioso. Il capo del Likud è d’accordo con Lieberman: non vuole ridurre le colonie, e anzi difende il loro «aumento naturale». Non parla di Stato palestinese ma di Pace Economica (basta riempire le pance dei palestinesi per moderarli). L’idea non è nuova: la sostenne il ministro della Difesa Moshe Dayan dopo la guerra del ’67, e negli Anni 70 la riprese il laburista Peres. La prima intifada nell’87 la stritolò, rivelando a chi non voleva vedere che i sogni palestinesi non erano economici. Il fatto che sia oggi riproposta è qualcosa su cui vale la pena meditare, perché rivela un malessere israeliano tuttora irrisolto e pernicioso.

Il malessere è certo acuito da chiusure aggressive di arabi e palestinesi, come scrive lo scrittore Yehoshua (La Stampa, 14-2). Ma in buona parte è interno, è frutto dell’incapacità israeliana di rispondere alla domanda: cosa vogliamo essere? che Stato abbiamo in mente, di fatto? Uno Stato ebraico, democratico, e che al contempo mantenga il controllo su zone dove i palestinesi sono in maggioranza? Qui nascono i mali, spiegati bene dallo storico Gershom Gorenberg (The Accidental Empire, New York 2006): le tre aspirazioni sono in realtà incompatibili fra loro. Non è possibile che lo Stato resti al tempo stesso ebraico e democratico, se l’occupazione permane: gli ebrei sono minoritari nei territori, e lo saranno (forse già lo sono) nell’insieme geografico che amministrano. Estesa alla Cisgiordania, la democrazia israeliana non è più ebraica. Oppure rimane ebraica, ma smette d’esser democrazia. Di questo converrà cominciare a discutere: in Israele, in America, in Europa e nella diaspora, non contentandosi d’additare spauracchi come Gheddafi. Gorenberg invita la diaspora a condannare l’occupazione. L’indeterminatezza sulla forma-Stato è tipica degli imperi instabili e minaccia gli ebrei dentro Israele e fuori.

Il piano due Stati-due popoli è il solo orizzonte augurabile. Ma quel che è accaduto in 41 anni ha forgiato una realtà che lo rende impraticabile: tale d’altronde era lo scopo, esplicito, di chi favorì l’Impero Accidentale (da Sharon a Peres). Basta guardare la carta geografica per constatarlo: la Cisgiordania è coperta da una miriade di colonie, sparse come polvere, inconciliabili con ogni continuità territoriale palestinese. E non esistono solo colonie, abitate da uomini armati che infrangono il monopolio della violenza legale. Ovunque, nella Westbank, ci sono strade riservate solo a israeliani o percorribili dai palestinesi a condizioni capestro.

Le ultime cifre sul numero dei coloni, fornite da un rapporto per il ministero della Difesa, sono le seguenti: in Cisgiordania 290.000 in 120 insediamenti, più decine di avamposti militari. Sulle alture del Golan 16.000 in 32 insediamenti. Nelle aree annesse di Gerusalemme Est 180.000. Gaza fu evacuata da Sharon nel 2005 (9000 israeliani in 21 insediamenti) ma senza che la colonizzazione in Cisgiordania diminuisse. Anzi, aumentò: le organizzazioni non governative testimoniano come ogni mossa israeliana, diplomatica o bellica, s’accompagni a un aumento di colonie e avamposti. Questi ultimi sono chiamati illegali, ma ogni insediamento lo è. Ogni insediamento nasce dal groviglio mentale seguito alla guerra del ’67: groviglio che ha frantumato il concetto di confini e di Stato. Gideon Levy su Haaretz ricorda come il duello Begin-Peres nell’81 fosse una gara fra chi garantiva più colonie. I coloni pesano enormemente sui governi israeliani. Il laburista Barak aumentava le colonie, mentre sotto la guida di Clinton negoziava con Arafat. Lo stesso Barak, poco prima del voto del 10 febbraio, ha promesso al Consiglio dei coloni (Consiglio Yesha) di non smantellare l’avamposto Migron, nonostante le intese del 2001 con Washington. I coloni di Migron comunque potranno spostarsi nell’insediamento Adam presso Gerusalemme: altra colonia che doveva esser smantellata.

L’occupazione dunque continua, anche se i governi israeliani evitano la parola annessione. Evitandola tengono tuttavia in piedi il groviglio mentale, a proposito di nazione e confini. Se parlassero di annessione, dovrebbero infatti riconoscere che la natura dello Stato muta sostanzialmente, e che Israele è a un bivio. Se vuol preservare l’ebraicità diventa Stato di apartheid. Se vuol restare democratico, dovrà ammettere che i palestinesi son titolari di diritti coerenti con i numeri.

Secondo Gorenberg, è la colonizzazione successiva alla guerra dei Sei Giorni che ha distrutto l’idea di Stato nata nel ’48: «Il processo di consolidamento, necessario a un nuovo Stato, fu sconvolto. Una generazione che aveva costruito lo Stato cominciò senza volerlo a togliere pietre essenziali alla sua struttura»: le colonie ravvivarono l’anarchia pionieristica della conquista, lo spirito messianico dell’organizzazione Gush Emunim contaminò i laici e in particolare gli immigranti della diaspora russa stile Lieberman, infastiditi dai vincoli della vita locale. Lo stesso spirito spinge la destra a sospettare gli arabi d’Israele (20 per cento della popolazione): arabi cui Lieberman vuole imporre doveri di lealtà anche bellica allo Stato ebraico, in cambio del diritto di cittadinanza.

Chi rispetta i fatti, dovrà dire quel che vuole. Se vuole la sopravvivenza della nazione nata nel ’48, non potrà non definire la propria idea di Stato e agire di conseguenza. Non potrà non vedere che verrà il giorno (sta già venendo) in cui i palestinesi chiederanno che la situazione resti quella che è (una Grande Israele) ma che diventi democratica: facendo corrispondere a ogni uomo un voto, come nella legge della democrazia. Quel giorno gli ebrei saranno una minoranza: lo Stato non sarà più ebraico. Nascondere a se stessi questa realtà non serve a evitarla. Serve a renderla più vicina e minacciosa.
di Barbara Spinelli

15 febbraio 2009

Il mito del lavoro che non c'è



Negli ultimi 10 anni si e’ diffuso un mito, che e’ quello del lavoro che non c’e’ piu’. Questo mito nasce per nascondere il fallimento dell’ideologia riformista, quella che e’ nata per ideare i paesi occidentali come paesi ove non ci sarebbe piu’ stato lavoro (perche’ delocalizzato) e ci saremmo limitati a gestire la complessita’, fornendo servizi avanzati. Begli slogan, che nascondono un fallimento.

Perche’ e’ nato questo paravento? E’ nato questo paravento perche’ un grande paese che stampava soldi a tutto andare (gli USA) ha dovuto chiedersi in che modo evitare un’inflazione mostruosa. E la maniera migliore e’ stata “teniamo i soldi che stampiamo fuori dal paese”.

Sia chiara una cosa: non e’ ne’ convincente ne’ cosi’ scontato che le delocalizzazioni siano economicamente vantaggiose. Tantevvero che oggi moltissime aziende stanno facendo marcia indietro. Ma non perche’, come amiamo illuderci, manchi qualita’ nel prodotto. E’ che per costruire processori dove prima c’era la savana dobbiamo prima portarci la corrente. Poi dobbiamo portarci le strade. Indi l’industria del vuoto spinto. Eccetera eccetera eccetera: un’infrastruttura sofisticata puo’ vivere solo all’interno di un sistema sofisticato.

Se quindi vogliamo prendere la Cina da uno stato comunista-medioevale e portarla ad essere la fabbrica del mondo, non dobbiamo solo finanziare la fabbrica di chip. Dobbiamo anche mettere su una centrale elettrica di potenza adeguata e di continuita’ garantita. E le scuole. E le strade. E tutto quanto.

Si e’ calcolato che il calo di investimenti dagli USA verso la Cina, l’ India sia stato pari, per via del credit crunch, ad un triliardo di dollari/anno per il biennio 2009-2010. Ora, proviamo a rifletterci: anche calcolando un solo triliardo di dollari l’anno, stiamo parlando del 7.1% del PIL americano. Che e’ una cifra enorme. Qual’e’ il guaio?

Se consideriamo che il volume della bilancia commerciale attiva dei cinesi e’ di circa 250 miliardi di dollari annui, rimane da chiedersi che fine abbiano fatto quei giganteschi fiumi di soldi. E la risposta e’, ovviamente, che sono serviti a costruire l’infrastruttura.

In definitiva, quindi, l’affare cina ci ha reso qualcosa come 250 miliardi di dollari di merci l’anno(1), ma ha richiesto investimenti esteri in R&D fino ad un triliardo di dollari annui. Magari per la singola azienda l’affare e’ stato conveniente, ma siamo certi che come sistema ci abbiamo guadagnato?

La risposta e’ , quasi sicuramente, NO. A quanto dicono queste agenzie governative , abbiamo buttato in R&D fino a 1400 miliardi di dollari in un anno, e il disavanzo commerciale, cioe’ le merci che sono uscite -al netto- da questa immensa fabbrica hanno un valore massimo che e’ arrivato ai 360 miliardi.
Investimenti in R&D in Cina (fonte http://www.fdi.gov.cn) Investimenti in R&D in Cina (fonte http://www.fdi.gov.cn)

In un’ottica puramente liberista, questo non poteva succedere: il bene combinato di tutte le singole aziende che ci hanno guadagnato in Cina doveva corrispondere ad un risultato positivo globale. Cosa che non e’ stata: nel 2007, le merci che abbiamo fatto produrre la’ sono state, in totale , un plusvalore di 360 miliardi.(2)

Quindi ci abbiamo rimesso. Se supponiamo che la ricchezza si conservi e non si distrugga, chi ci ha guadagnato? Beh, ci hanno guadagnato quei 500 milioni di cinesi che hanno visto il loro stile di vita crescere. Lavoro migliore, piu’ igiene, tecnologia, eccetera. Bello.

Bello, ma bisogna chiedersi se industrializzare la cina per usarne i prodotti sia stato un affare (e abbiamo detto di no) e se queste perdite abbiano avuto degli effetti. L’occidente (facciamo un miliardo di persone tra Ue ed USA) ha creato 500 milioni di nuovi redditi in Cina. Dobbiamo chiederci: se quel lavoro fosse rimasto qui, e se quegli investimenti in R&D fossero rimasti qui, quanto ci avremmo guadagnato in termini di occupazione?

Questo e’ il problema, e per comprendere le risposte basta rileggere vecchi articoli economici. Negli anni ‘70 e negli anni ‘80 si stimava che la furibonda crescita tecnologica avrebbe prodotto sempre piu’ lavoro, come in effetti e’ stato. Se consideriamo che un tasso di disoccupazione medio nell’eurozona significa qualcosa come 7 milioni di disoccupati in totale, e che negli USA (prima della crisi) stavamo sui 17 milioni, beh, in quei 500 milioni di redditi che abbiamo prodotti in cina ci stavamo larghi.

Del resto, tutti gli economisti del pre-globalizzazione avevano calcolato questo fenomeno, ed erano preoccupati del fatto che fosse possibile supportare una simile crescita tecnologica sul piano del mercato del lavoro. Gli economisti dell’epoca chiaramente fornivano due risposte: automazione di processo ed emigrazione. Ancora si parlava poco di outsourcing, perche’ si pensava (giustamente) che costruire una fabbrica di chip nella giungla richiedesse spese accessorie enormi, per rendere possibile l’infrastruttura necessaria.

Perche’ si e’ commesso uno svarione simile, e specialmente uno svarione cosi’ costoso? Perche’ si sono spesi triliardi per attrezzare una jungla a produrre chip, se poi ci servivano chip per un terzo di quella cifra?

La risposta sta nel gigantesco disavanzo commerciale americano: perche’ spostare enormemente la produzione all’estero era l’unica strategia di breve e medio termine che potesse tenere in piedi il valore del dollaro dopo le continue stampe di moneta post-kennediane.

Cosi’ si e’ inventata l’ideologia della globalizzazione, spacciandola per inevitabile: e’ verissimo che i commerci tra nazioni siano destinati a crescere col progresso. Non e’ detto, pero’ , che la maniera migliore di farlo sia di impedire ai singoli governi di gestire il traffico di frontiera.
Così com’e’ la globalizzazione e’ frutto di una visione ideologica, non perche’ il mercato libero sia “la legge del piu’ forte”(3), ma perche’ si sapeva fin dall’inizio che per trasformare alcuni paesi nelle “fabbriche del mondo” si sarebbe dovuto investire moltissimo, e il rischio di non rivedere gli investimenti sarebbe stato altissimo: se adesso si affermera’ una strategia protezionista o nazionalista per via del debit crunch, siamo proprio certi che rivedremo indietro tutti quei soldi?

Ecco il motivo di un’ideologia. Lo scopo essenziale di ogni ideologia e’ quello di costruire una serie di risposte prefabbricate che servano come tappo per fermare le domande prima che nascano o che diventino pericolose. Cosi’, quando in Europa e USA qualcuno ha cominciato a notare che il lavoro calava, la risposta e’ stata “in futuro ci sara’ sempre meno lavoro (come se scomparisse anziche’ venire spostato) e i nuovi giovani dovranno gestire la complessita’”. La stessa ideologia rispondeva che ovviamente ci avremmo guadagnato perche’ il mercato INTERNO cinese poi avrebbe comprato le nostre merci.

Ebbene, non solo la Cina non ha comprato le nostre merci (altrimenti non avrebbe un simile disavanzo commerciale) ma non abbiamo piu’ queste complessita’ da gestire: le complessita’ da gestire oggi si trovano in cina, perche’ “complessita’” indicava la complessita’ della produzione, e questa e’ scomparsa.

Certo, rimaneva da gestire la complessita’ di questa scellerata operazione, cosa nella quale si sono specializzati paesi come l’ Inghilterra: ma al di fuori di questo, la generazione di europei nata per “gestire la complessita’” si trova in un’europa ove il70% dei lavori disponibili NON implica complessita’. Perche’ la PMI non e’ complessa. Perche’ non lo e’ l’azienda che ha delocalizzato. Perche’ la complessita’ e’ figlia del lavoro, ed il lavoro se n’e’ andato.

Che cosa rispondono gli ideologi a queste cifre? Come mi sanno giustificare frasi quali “e’ conveniente che la Cina cresca perche’ il mercato interno cinese e’ una grande opportunita’”, di fronte ad un disavanzo commerciale verso l’estero di 360 miliardi di dollari? Dove sono queste opportunita’, se per vendere 10 dobbiamo comprare 13,6?

E specialmente, se per arrivare a vendere 10 dobbiamo prima investire 14?

La realta’ che emerge dai numeri di queste economie e’ che per quanto riguarda la globalizzazione si sono raccontate tante balle. Il disavanzo commerciale dei paesi in via di sviluppo significa, senza ombra di dubbio, che non e’ affatto vero che si tratti di grandi opportunita’ per le nostre imprese.

A questo punto il liberista dice “si’, ma spesso quelle imprese sono occidentali”. Il che, secondo lui, chiude la questione. Il che non e’ vero, perche’ in ultima analisi gli investimenti in R&D sono 3 volte il disavanzo commerciale, il che significa che se anche il 100% delle imprese cinesi che esportano fosse occidentale, siamo ancora a debito, eccome.

E quindi i conti non tornano, punto e basta. La crescita dei paesi emergenti, finanziata dall’occidente, non e’ stata un buon affare. E’ vero che LA’ si sono creati milioni di posti di lavoro. Ma e’ vero che per fare questo si sono distolti dei flussi enormi di capitale, che non sono rientrati e che probabilmente non rientreranno MAI, e che per via di questo crollo di investimenti in loco le condizioni dei lavoratori occidentali sono letteralmente crollate, con la sola eccezione di quelli che gestiscono la complessita’ ed i servizi DI QUESTA SCELLERATA OPERAZIONE.

Sarebbe ora di andare da questi signori che ripetono che la Cina sia una grande opportunita’, e chiedere loro conto delle cifre in ballo. Chiedere loro come sia possibile affermare che le nostre industrie ci guadagnino per via del mercato interno cinese se la cina ESPORTA piu’ di quanto importi. Chiedere loro quale conto economico sia in attivo se , anche ammettendo che la Cina sia la grande fabbrica del mondo, gli investimenti in R&D superano di tre volte le merci che escono da questa fabbrica.

Chiedere conto delle cifre, laddove le ideologie ci danno solo slogan.

Perche’ quando si e’ inventata la palla del lavoro che “calava inevitabilmente” in occidente, per tener buoni quelli che si lamentavano, si stava solo mettendo una pezza al fatto che si stava usando la Cina non come fabbrica, ma come pozzo di smaltimento per dollari in eccesso. Solo che cosi’ facendo si e’ preparato un disastro. E specialmente, lo si e’ giustificato dicendo “non possiamo continuare a crescere cosi’”, arrivando a dire che se il lavoro calava era perche’ il mondo “non puo’ crescere sempre esponenzialmente”, quando in Cina venivano creati 500 milioni di posti di lavoro.

Cosi’ tutte queste ideologie del fumo fritto sono state create per mettere una toppa, per sviare dall’evidenza: forse il mondo non puo’ crescere sempre, nessuno lo mette in dubbio, ma ADESSO sta crescendo, solo che noi siamo tagliati fuori. Ed e’ questo che l’ideologia del “non possiamo crescere sempre” vuole nascondere: allora chiediamo: e perche’ loro si’? Perche’ loro ADESSO crescono?

Tante ideologie, specialmente quelle che confondono le conseguenze del problema con la soluzione del problema (decrescita, risparmio, eccetera(4) ), sono nate a scopo consolatorio, mediante un meccanismo intellettuale che produce il grande sbaglio (”adattarsi alle conseguenze nefaste del problema e’ una soluzione al problema e non una conseguenza“) , iniziano a spacciarla come soluzione. Dire che se manca energia bisogna consumarne meno e’ come dire alle donne: beh, in caso di stupro prendilo dentro. Il che e’ ovvio, visto che non hai scelta. Se manca energia ne consumi di meno per forza.

Cosi’, se manca crescita, ci dicono, e’ meglio convertirsi alla decrescita. Il che e’ ovvio: non ho bisogno di un genio per capire che senza crescita siamo in decrescita. Ma non e’ neanche una scelta: la decrescita e’ semplicemente una conseguenza del problema della difficolta’ a crescere: non puo’ essere una soluzione perche’ e’ una semplice conseguenza del problema. Crescere meno= decrescere. Se uno dice “siamo in crisi” non puoi rispondere “allora decresciamo”: lo stai gia’ facendo, era gia’ implicito nel problema.

Cosi’ come si e’ risposto ai milioni di lavoratori che hanno perso il posto perche’ si e’ deciso di fare questo investimento folle sulla Cina: “non potevamo continuare col consumismo”. Strano, perche’ consumiamo ancora di piu’, visto che i cinesi producono per loro ED esportano anche. Stiamo continuando eccome!

Dunque?

Dunque e’ tutta una leggenda. Magari non si puo’ crescere per sempre (dipende da COME si cresce, imho) ma adesso si sta crescendo, e nessuno di questi genialoni della decrescita ci spiega come mai questo destino “inevitabile” stia toccando noi e non altri. Eccetera.

Ecco, la storia che mancano posti di lavoro perche’ “non si puo’ crescere sempre” era una palla. Qualcuno e’ cresciuto e ci ha fatto 500 milioni di nuovi posti di lavoro. Con capitali costruiti qui. E nessuno sa ancora fornire un bilancio positivo.

Il lavoro c’era. Lo abbiamo spostato. E sarebbe ora di chiederne conto. Senza farsi seghe sul destino cinico e baro della decrescita mondiale inevitabile (che tocca solo noi).

Uriel

22 febbraio 2009

Politici...(pernacchia)... andate a casa

toto

Lo
slogan, già usato per la crisi Argentina, riecheggia ora nelle piazze
di mezzo mondo. Perché al crollo provocato dal libero mercato i governi
oppongono le stesse ricette colpendo i più deboli. Saranno spazzati
via a breve ? Un augurio o una speranza?


La
folla che in Islanda ha sbattuto pentole e tegami, fino a provocare la
caduta del governo contestato, mi ha fatto tornare alla mente lo slogan
in voga nei circoli anticapitalistici nel 2002: 'Voi siete l'Enron. Noi
siamo l'Argentina'. Il messaggio era molto semplice: voi, politici e
amministratori delegati riuniti in qualche summit economico, siete come
quei dirigenti sconsiderati e truffaldini della Enron (e naturalmente
non conoscevamo che la punta dell'iceberg). Noi, ovvero la plebaglia lì
fuori, siamo come il popolo argentino che, nel bel mezzo di una crisi
economica spaventosamente simile alla nostra, scese in piazza sbattendo
pentole e tegami.

Gridando 'Que se vayan todos' (devono andare
via tutti) costrinsero alle dimissioni quattro presidenti, uno dopo
l'altro, in tre settimane. La rivolta in Argentina nel 2001-2002 è
stata unica perché non mirava a un particolare partito politico o alla
corruzione in generale. L'obiettivo era il modello economico dominante.
È stata infatti la prima rivolta nazionale contro il moderno
capitalismo deregolamentato. È servito un po' di tempo, ma dall'Islanda
alla Lettonia, dalla Corea del Sud alla Grecia, alla fine anche per il
resto del mondo è arrivato il momento del 'Que se vayan todos'.

Le
stoiche matriarche islandesi che battevano le loro pentole, con i figli
che saccheggiavano il frigo in cerca di proiettili (va bene le uova, ma
lo yogurt?) richiamano alla mente le tattiche divenute famose a Buenos
Aires. Ma anche la rabbia collettiva verso chi deteneva il potere,
portando alla rovina un Paese un tempo florido pensando di poterla fare
franca.

Gudrun Jonsdottir, una trentaseienne impiegata
islandese, ha sintetizzato così: "Ne ho abbastanza di tutto quanto. Non
ho fiducia nel governo, non ho fiducia nelle banche, non ho fiducia nei
partiti politici e neanche nel Fondo monetario internazionale. Avevamo
un Paese forte e loro lo hanno rovinato". Ecco un altro richiamo alla
situazione argentina: a Reykjavik i manifestanti ovviamente non si
accontentano di un volto nuovo posto al vertice (anche se il neo primo
ministro è una donna omosessuale). Vogliono aiuti per la popolazione,
non solo per le banche, indagini sulle responsabilità del collasso e
una profonda riforma elettorale.

Richieste simili le sentiamo
in questi giorni anche in Lettonia, dove l'economia ha subito una
contrazione più forte che negli altri paesi europei e dove il governo
vacilla pericolosamente. Per diverse settimane le proteste hanno messo
in subbuglio la capitale, e il 13 gennaio si sono verificati anche
tafferugli e lanci di pietre. Come in Islanda, anche i lettoni sono
sconcertati di fronte al rifiuto dei governanti di assumersi le
responsabilità del disastro. Alla domanda dell'emittente televisiva
Bloomberg su quali fossero le cause della crisi, il ministro
dell'Economia lettone ha risposto: "Nulla di particolare".

I
problemi della Lettonia invece sono davvero 'particolari'. Le stesse
politiche che nel 2006 avevano consentito alla 'Tigre del Baltico' di
crescere del 12 per cento, sono anche la causa della violenta
contrazione di quest'anno, che secondo le previsioni dovrebbe arrivare
al 10 per cento. Quando il denaro è liberato da qualsiasi vincolo,
defluisce con la stessa rapidità con cui affluisce, considerando anche
che una buona quantità finisce nelle tasche dei politici. (Non è una
coincidenza che molti dei casi disperati di oggi siano i 'miracoli' di
ieri: Irlanda, Estonia, Islanda e Lettonia).

Ma c'è qualche
altra cosa di 'argentino' nell'aria. Nel 2001 in Argentina i leader
risposero alla crisi con un pacchetto all'insegna dell'austerity,
sollecitato dal Fondo monetario internazionale: 9 miliardi di dollari
furono tagliati alla spesa pubblica, in particolare alla sanità e
all'istruzione. Questo si è dimostrato un errore fatale. I sindacati
organizzarono uno sciopero generale, gli insegnanti portarono le loro
classi nelle piazze e le rivolte sembrarono non aver fine.

Il
medesimo rifiuto popolare a sopportare il peso maggiore della crisi
accomuna le proteste attuali. In Lettonia, gran parte della rabbia dei
cittadini è provocata dalle misure di austerity prese dal governo -
licenziamenti in massa, servizi assistenziali ridotti, stipendi dei
dipendenti pubblici diminuiti - e tutto per poter accedere al prestito
d'emergenza del Fmi (no, non è cambiato nulla). In Grecia i tafferugli
di dicembre sono seguiti all'uccisione da parte della polizia di un
ragazzo quindicenne.

Ma quello che li ha alimentati, anche
quando gli studenti hanno ceduto il comando agli agricoltori, è stata
la diffusa rabbia per la risposta del governo alla crisi: le banche
hanno ottenuto un finanziamento di 36 miliardi di dollari, mentre i
lavoratori si sono visti tagliare le pensioni e gli agricoltori non
hanno ricevuto quasi nulla. Malgrado i grandi inconvenienti causati dai
blocchi stradali posti dai manifestanti, il 78 per cento dei greci ha
dichiarato che le loro richieste erano giustificate. In modo simile, in
Francia il recente sciopero generale, provocato in parte dai piani del
presidente Sarkozy per ridurre drasticamente il numero degli
insegnanti, ha ottenuto l'approvazione del 70 per cento della
popolazione.

È probabile che il principale filo conduttore di
questa violenta reazione a livello mondiale sia il rigetto per la
logica della 'terapia dello shock' - espressione coniata dal politico
polacco Leszek Bacerowicz, per descrivere come nel corso di una crisi i
governanti possano accantonare le leggi e andare dritti verso 'riforme'
economiche impopolari. Questo espediente è diventato obsoleto, come ha
recentemente scoperto il governo della Corea del Sud. A dicembre il
partito al potere ha cercato di servirsi della crisi per far approvare
a tutti i costi un contrastato accordo di libero scambio con gli Stati
Uniti. Interpretando in maniera estrema la politica 'delle porte
chiuse', i legislatori si sono rinserrati nell'aula per votare in
privato, barricando la porta con tavolini, sedie e divani.

I
parlamentari dell'opposizione non sono rimasti a guardare, e servendosi
di mazze e persino di una sega elettrica, hanno fatto irruzione,
occupando il Parlamento per 12 giorni. Il voto è stato rimandato per
consentire un dibattito più prolungato. Una vittoria sulla 'terapia
dello shock'. Qui in Canada la politica è decisamente meno da filmato
suYouTube, ma è stata comunque sorprendentemente movimentata. In
ottobre il partito conservatore ha vinto le elezioni nazionali con un
programma poco ambizioso.

Sei settimane dopo, il nostro primo
ministro 'tory' ha scoperto l'ideologo che è in lui, presentando una
legge finanziaria che privava i dipendenti statali del diritto allo
sciopero, eliminava i fondi pubblici ai partiti e non conteneva alcun
incentivo allo sviluppo economico. I partiti dell'opposizione in
risposta hanno formato una coalizione storica, che non ha potuto
prendere il potere solo a causa dell'improvvisa sospensione del
Parlamento. I conservatori si sono da poco ripresentati con un piano
modificato, in cui sono spariti i provvedimenti preferiti della destra
e sono apparsi numerosi incentivi all'economia.

Il concetto è
chiaro: i governi che reagiscono alla crisi provocata dall'ideologia
del libero mercato insistendo sullo stesso programma contestato,
avranno vita breve. Come gridavano gli studenti italiani in piazza
durante i cortei dello scorso autunno: 'Non pagheremo noi la vostra
crisi'.

di Naomi Klein

21 febbraio 2009

rimborsielettoraliey0

«Ah, se facessimo le riforme insieme!», dicevano di qua. «Ah, se facessimo le riforme insieme!», dicevano di là. Detto fatto, la destra e la sinistra un punto d'accordo al Senato l'hanno trovato: la donazione dei rimborsi elettorali anche ai partitini che alle Europee non arriveranno alla soglia del 4%.
Basterà che arrivino alla metà: il 2%. Crepi l'avarizia. Quando l'ha saputo, il democratico Gianclaudio Bressa è caduto dalle nuvole: «Trasecolo. Ma come è possibile?»
Era stato lui, due settimane fa, a mettersi di traverso a Montecitorio all'emendamento del tesoriere diessino Ugo Sposetti che puntava a distribuire soldi anche alle forze politiche che dovessero superare appena appena l'1%: «E mica l'avevo fatto di mia iniziativa. Avevo chiesto a Sposetti di lasciar perdere a nome del partito. Ed ero convinto che il partito...» In due settimane è cambiato tutto. Addio Sardegna, addio Soru, addio Veltroni. E se proprio era ormai impossibile ribaltare la scelta già votata e concordata con il Pdl per inserire lo sbarramento alle Europee al 4%, almeno un segnale alla sinistra rifondarola, verde, comunista e socialista per riaprire il dialogo i democratici hanno deciso di darlo. E cosa c'è di meglio di un contentino in denaro? Così ieri mattina, a palazzo Madama, quell'emendamento giudicato «inammissibile» dalla conferenza dei capigruppo di Montecitorio, è rispuntato con le firme di due senatori democratrici (della sinistra) Vincenzo Vita e Paolo Nerozzi. E visto che anche il PdL voleva svelenire i rapporti con la Destra di Francesco Storace, il voto è stato trionfale. Avete presente gli insulti che volano ogni giorno dall'una all'altra parte degli schieramenti? Bene, stavolta tutti d'amore e d'accordo: 254 votanti, due astenuti (i radicali Marco Perduca e Donatella Poretti: l'astensione a Palazzo Madama equivale a una bocciatura) e nessun contrario. Manco uno.
Per carità, se dovesse essere tutto confermato alla Camera (ammesso che la soglia dei soldi non sia abbassata ancora...) andrà comunque meglio che alle Europee del 2004. Cinque anni fa non solo l'Ulivo prese di rimborsi elettorali sette volte più di quanto aveva dichiarato d'avere speso, i comunisti di Diliberto dodici e Rifondazione tredici. Ma la Fiamma Tricolore moltiplicò l'investimento per quasi 82 volte e il Partito dei pensionati addirittura per 180. Aveva investito in manifesti, comizi, spot, viaggi e volantini 16.435 euro e si ritrovò benedetto da un acquazzone di quasi tre milioni. Pari a 7 euro e 95 cent per ogni voto avuto.
Male che vada, queste perversioni dovrebbero stavolta essere evitate. L'anomalia italiana, però, resterà. E se cambierà (in parte) la distribuzione del pubblico denaro, non cambierà la somma complessiva da spartire. Somma che, rispetto agli altri paesi europei (non parliamo degli Stati Uniti dove ci sono finanziamenti solo per le «presidenziali», pari nel 2004 a neanche mezzo euro ad americano) è enormemente superiore. Basti dire che, secondo un dossier della Camera, le elezioni europee del 2004 sono costate di rimborsi ai partiti 42 centesimi a ogni francese, 86 a ogni italiano. Più, naturalmente, tutti gli altri soldi distribuiti dalla leggina votata nel luglio 2002 da una larghissima maggioranza trasversale e pubblicata dalla Gazzetta Ufficiale tre giorni più tardi. Tre giorni: record planetario di velocità legislativa.
Riassumiamo? Le pubbliche casse danno ogni anno ai partiti 50 milioni di rimborsi elettorali per le Regionali (anche quando non ci sono), più altri 50 per le Europee (anche quando non ci sono), più altri 50 per le Politiche alla Camera e più altri 50 per le Politiche al Senato, anche quando non ci sono. Non bastasse, un'ulteriore leggina del 2006 ha consentito come è noto la doppia razione di rimborsi per le «politiche » (cento milioni l'anno) per il 2008, 2009, 2010 e 2001 come se la vecchia legislatura non fosse mai naufragata.
Insomma, con tutto il rispetto per le difficoltà economiche dei piccoli partiti che vorrebbero legittimamente continuare a sventolare la loro bandierina, quella di ieri al Senato è una decisione assai lontana dalle scelte di altri paesi. I quali, per scoraggiare l'assalto di troppi partitini non solo non distribuiscono soldi a pioggia ma talora chiedono a chi presenta una lista alle elezioni addirittura un deposito cauzionale che perderà se non arriva a una certa soglia. Che a Malta arriva a uno stratosferico 10%.
Eppure, chi immagina che gli italiani resteranno perplessi si sbaglia: tutti, certamente no. A parte gli elettori di questo o quel partitino finanziariamente nei guai, hanno buoni motivi per esultare, ad esempio, i dipendenti della Camera. Il «ritocco» del finanziamento pubblico ai partiti rende meno vistose infatti altre due notizie date ieri dall'Ansa. La prima è che i 28 autisti e i 30 banconisti circa della buvette di Montecitorio si sono visti riconoscere dall'ufficio di presidenza (nel quadro di un riordino che dovrebbe portare entro il 2016 a una riduzione del personale) una cosa che aspettavano dal 1981: la promozione dal primo («operaio tecnico») al secondo livello («collaboratore tecnico») col risultato che, diventando graduati, peseranno sulla Camera per circa 700 mila euro in più l'anno.
E andranno a riposo con pensioni pari, in certi casi, a quelle di un docente universitario. Ma la notizia più stupefacente è la seconda: visto che al Senato non hanno mantenuto l'impegno di adottare per i dipendenti la «riforma Dini» (accettata solo per i neo-assunti), l'adeguamento concordato nella scorsa legislatura è stato cancellato: anche le pensioni di commessi, autisti, barbieri, segretari e dattilografi di Montecitorio assunti dopo il 2001 continueranno ad essere calcolate (quattordici anni dopo la svolta!) col vecchio sistema retributivo e non con quello contributivo usato per tutti gli altri italiani. E meno male che promettevano un taglio ai privilegi...


di Gian Antonio Stella

La nave dei folli

nave dei folli

Esiste vita intelligente a Washington, DC? Neanche un briciolo.
L’economia statunitense sta implodendo ed Obama si lascia traghettare verso il pantano dell’Afghanistan dal suo governo di neocon e agenti israeliani, evenienza che probabilmente causerà uno scontro con la Russia e forse anche con la Cina. La quale, non bisogna scordarlo, è il maggiore creditore degli Stati Uniti.

Le cifre dei libri paga di gennaio rivelano circa 20mila licenziamenti al giorno. In dicembre, la situazione era anche più nera del previsto (dai 524mila licenziamenti preventivati ai 577mila reali). Questa correzione fa arrivare l’ammontare di posti di lavoro perduti in due mesi a 1.175.000. Se si continua così, i 3 milioni di nuovi impieghi promessi da Obama saranno controbilanciati e cancellati dai licenziamenti di massa.

Secondo John Williams (esperto di statistica e curatore di
Shadowstats.com), queste titaniche cifre sono una sottostima della reale proporzione della crisi. Williams fa notare che gli errori di valutazione, intrinsechi nei fattori di correzione stagionali, hanno fatto sparire 118mila licenziamenti dai resoconti di gennaio: la cifra reale per quel mese raggiungerebbe i 716mila posti di lavoro perduti.
Ma le ricerche basate sui libri paga contano il numero di posti di lavoro, non il numero delle persone occupate. Queste due cifre non sono equivalenti, perché alcuni cittadini potrebbero avere più di un lavoro.

Al contrario, l’Household Survey (NdT: un enorme resoconto sulle condizioni economiche della nazione, condotto dall’equivalente americano del nostro ISTAT) conta il numero degli impiegati effettivi. Mostra che 832mila persone hanno perso il proprio lavoro a gennaio e 806mila a dicembre, per un totale di 1.638.000.
Il tasso di disoccupazione sciorinato dai media statunitensi è, quindi, un falso plateale. Williams spiega che negli anni dell’amministrazione Clinton, la categoria dei lavoratori "scoraggiati" (coloro che neanche cercavano più un lavoro) è stata ridefinita, in modo da entrare nelle statistiche solo quando lo "scoraggiamento" aveva una durata inferiore ad un anno. Questa limitazione temporale ha spazzato via dai documenti ufficiali la maggior parte di questi disoccupati senza speranza. Riaggregando questo segmento della popolazione alle statistiche attuali, ci rendiamo conto che la disoccupazione effettiva, a gennaio, ha raggiunto il 18%, con un aumento dello 0,5% rispetto al mese precedente.

savejobs-1In altre parole, se rimuoviamo dai dati ufficiali le manipolazioni di un governo che ci mente ogni volta che apre la bocca, constateremo che il livello di disoccupazione statunitense è sufficiente per dichiarare la nostra economia in stato di depressione.
E non potrebbe essere altrimenti, data l’enorme mole di posti di lavoro che è stata trasferita all’estero. Un governo è impossibilitato a creare nuovi posti di lavoro, se le sue aziende spostano all’estero gli impianti di produzione per i beni ed i servizi destinati al mercato interno. Spostando i processi produttivi all’estero, "cedono" ad altri stati delle fette del PIL nazionale. Il deficit nelle esportazioni che ne risulta ha, negli ultimi dieci anni, fatto crollare il PIL statunitense di 1,5 trilioni di dollari. Tradotto: un sacco di posti di lavoro.

Da anni parlo dei laureati costretti a fare la cameriera o il barista per sopravvivere. Man mano che una popolazione esponenzialmente indebitata continua a perdere posti di lavoro, sarà sempre meno incline a frequentare bar e ristoranti. E ciò significa che i laureati statunitensi non riusciranno a trovare nemmeno quei lavori che implicano il lavaggio di piatti o la preparazione di cocktail.
I legislatori hanno ignorato il fatto che, nel ventunesimo secolo, la domanda dei consumatori è stata principalmente alimentata dall’aumento dell’indebitamento, e non degli introiti. Questo fatto basilare ci mostra come sia inutile tentare di stimolare l’economia con vagonate di dollari dirette ai banchieri (per convincerli a prestare più denaro, s’intende). I consumatori americani non sono più nella condizione di chiedere prestiti.

Se sommiamo il crollo del valore dei loro principali asset (vale a dire le loro case), la distruzione di metà dei loro fondi pensionistici e la minaccia di un futuro di disoccupazione, ci rendiamo conto che gli americani non possono e non vogliono spendere.
Quindi, che senso ha offrire un ‘bailout’ a gruppi come la General Motors e la Citibank, che fanno il possibile per trasferire all’estero il maggior numero di operazioni?

È vero che gran parte delle infrastrutture statunitensi sono in pessime condizioni e hanno un gran bisogno di ristrutturazione, ma i lavori in questo settore non producono beni e servizi che possano essere esportati. L’impegno massiccio nel settore delle infrastrutture non cambia di una virgola il mostruoso deficit d’esportazione statunitense, il cui finanziamento inizia a rappresentare un grosso problema. Ancor di più, i posti di lavoro nel settore delle infrastrutture durano esattamente quanto la realizzazione delle stesse.
Nella migliore delle ipotesi, lo "stimolo" all’economia propugnato da Obama non farà altro che ridurre temporaneamente la disoccupazione, sempre che la maggior parte dei nuovi posti di lavoro nel campo dell’edilizia non siano occupati da messicani.
A meno che le corporation statunitensi non siano costrette ad impiegare manodopera locale per produrre beni e servizi indirizzati ai mercati domestici, l’economia USA non ha futuro. Nessun membro dello staff di Obama è abbastanza intelligente da rendersene conto. Quindi, l’economia continuerà ad implodere.

Come se questa catastrofe in incubazione non bastasse, Obama si è fatto addirittura turlupinare dai suoi consiglieri neocon e militari. Ha deciso di espandere l’impegno bellico in Afghanistan, una vasta regione montagnosa. Il presidente intende sfruttare la riduzione delle truppe in Iraq per raddoppiare quelle presenti in Afghanistan. Nonostante questo, i 60mila soldati previsti non sarebbero comunque sufficienti. Dopotutto, sono meno della metà di quelli coinvolti nella fallimentare occupazione dell’Iraq. L’esercito ha preventivato che ci vorrebbero come minimo 600mila soldati per portare a termine la missione.

Per far fuori il regime di Bush, gli iraniani hanno dovuto tenere per le briglie i loro alleati sciiti, convincendoli ad usare le elezioni per guadagnarsi il potere ed usarlo per espellere gli americani. Ed è per questo motivo che, in Iraq, le truppe statunitensi hanno dovuto fronteggiare "solamente" l’insurrezione della minoranza sunnita. Ciononostante, gli occupanti sono riusciti a vincere (si fa per dire) non sul piano militare, ma a suon di banconote, sganciando dollari su dollari per convincere i rivoltosi a non combattere. L’accordo di ritiro delle truppe è stato dettato dagli sciiti. Non è quello che Bush avrebbe voluto.
Ci si aspetterebbe che l’esperienza della "passeggiata" in Iraq avrebbe reso gli Stati Uniti più cauti. Ed invece no, perché si sono gettati con maggior vigore nel tentativo di occupare l’Afghanistan, un’impresa che richiede inoltre la conquista di aree del Pakistan.



Per gli USA è stata dura mantenere 150mila soldati in Iraq. Obama necessita un altro mezzo milione di soldati per pacificare l’Afghanistan, da aggiungere a quelli già stanziati. Dove intende andare a pescarli?

Una risposta è l’imponente disoccupazione USA in rapido aumento. Gli americani metteranno la firma per andare ad uccidere all’estero piuttosto che restare senza casa e a stomaco vuoto in patria.

Ma questa è solo una mezza soluzione. Da dove attingere il denaro per sostenere sul campo un esercito di 650mila unità, di oltre quattro volte superiore al contingente USA in Iraq, una guerra che ci è costata tre trilioni di dollari di spese vive e sta già generando costi futuri? Questo denaro avrebbe dovuto sommarsi ai tre trilioni di dollari del deficit di bilancio, prodotto dal salvataggio del settore finanziario operato da Bush, dal pacchetto stimolo di Obama e dall’economia in rapido declino. Quando i sistemi economici entrano in crisi - come sta accadendo negli USA - il gettito fiscale collassa. Milioni di americani disoccupati non pagano i contributi della previdenza sociale, le polizze per l’assicurazione sanitaria e le imposte sul reddito. Le attività commerciali e le aziende che chiudono non versano le imposte statali e le imposte federali. I consumatori senza denaro o privi di accesso al credito non sborsano le imposte sulle vendite.

Gli Idioti di Washington, perché di idioti si tratta, non hanno pensato per un attimo a come finanziare il deficit di bilancio dell’anno contabile 2009, pari a circa due-tre trilioni di dollari. Il tasso di risparmio virtualmente inesistente non lo può finanziare. Il saldo attivo della bilancia commerciale dei nostri partner quali Cina, Giappone ed Arabia Saudita non lo può finanziare.
Pertanto, il governo USA dispone di due sole possibilità per far fronte al suo disavanzo. La prima, è costituita da un ulteriore crollo del mercato borsistico, che condurrebbe gli investitori sopravvissuti e le loro risorse residue ai buoni del Tesoro “sicuri”. L’altra sarebbe la monetizzazione del debito del Tesoro da parte della Federal Reserve.

La monetizzazione del debito implicherebbe l’acquisto da parte della Federal Reserve dei buoni del Tesoro qualora nessuno intendesse acquistarli o fosse in grado di farlo. Ciò avverrebbe tramite la creazione di depositi bancari per conto del Tesoro.

In altri termini, la Federal Reserve “stamperebbe denaro” con il quale acquistare i buoni del Tesoro.
Nel momento in cui si verificasse una tale evenienza, il dollaro USA cesserebbe di essere la valuta di riserva.
Inoltre la Cina, il Giappone e l’Arabia Saudita, paesi che detengono ingenti quote del debito del Tesoro statunitense, nonché altri asset in dollari USA, li venderebbero subito, nella speranza di salvarsi prima degli altri.

Il dollaro americano perderebbe ogni valore, al pari di una valuta da repubblica delle banane.
Gli Stati Uniti non sarebbero in grado di pagare le proprie importazioni, un problema questo particolarmente grave per un paese che dipende dalle importazioni per l’energia, i manufatti e i prodotti high-tech.

I consiglieri keynesiani di Obama hanno appreso con solerzia la lezione di Milton Friedman per il quale la Grande Depressione fu causata dalla Federal Reserve che permise una contrazione dell’offerta di valuta e di credito. Nel corso della Grande Depressione i debiti virtuosi furono azzerati dalla contrazione monetaria. Oggi i crediti inesigibili sono protetti dall’espansione della moneta e del credito ed il Tesoro USA sta mettendo a repentaglio la propria solvibilità e lo status di valuta di riserva del dollaro con aste trimestrali di ingenti quantità di bond all’apparenza interminabili.

Nel frattempo i russi, straripanti di energia e di risorse minerali e privi di debiti, hanno appreso di non potersi fidare del governo USA. La Russia ha osservato i tentativi dei successori di Reagan di trasformare le ex-repubbliche dell’Unione Sovietica in stati marionetta in mano agli americani ed alle loro basi militari. Gli USA stanno cercando di accerchiare la Russia con missili che neutralizzino il deterrente strategico russo.

Putin ha guadagnato terreno nei confronti del “compagno lupo” [1].
Grazie alle manovre del presidente del Kirghizistan è riuscito a sfrattare dall’ex-repubblica sovietica la base militare statunitense, di vitale importanza per gli approvvigionamenti ai soldati di stanza in Afghanistan.

Per bloccare l’ingerenza americana nella sua sfera di influenza, il governo russo ha creato un’organizzazione per il trattato di sicurezza collettiva comprendente Russia, Armenia, Bielorussia, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan. L’Uzbekistan partecipa in modo parziale.
In buona sostanza, la Russia ha organizzato l’Asia Centrale contro la penetrazione americana.

A chi deve rispondere il Presidente Obama? Stephen J. Sniegoski, che scrive sulla versione inglese del settimanale svizzero Zeit-Fragen, riferisce che le figure chiave della cospirazione neocon – Richard Perle, Max Boot, David Brooks e Mona Charen – sarebbero in estasi per le nomine effettuate da Obama. Non vedono alcuna differenza tra Obama e Bush/Cheney.
Non soltanto i consiglieri di Obama lo stanno conducendo verso una guerra allargata in Afghanistan ma la potente lobby filoisraeliana starebbe spingendo Obama verso una guerra con l’Iran.
L’irrealtà nella quale il governo USA sta operando è da non credersi. Un governo in bancarotta che non può pagare i propri conti senza stampare nuova moneta si sta buttando a capofitto nelle guerre contro Afghanistan, Pakistan ed Iran. Secondo il Center for Strategic and Budgetary Analysis, il costo che i contribuenti americani devono sostenere per mandare un solo soldato a combattere in Iraq ammonta a 775.000 dollari l’anno.
Il mondo non ha mai visto una sconsideratezza così totale. Le invasioni della Russia da parte di Napoleone e di Hitler sono stati atti razionali se paragonate alla stupidità irragionevole del governo americano.
La guerra di Obama in Afghanistan è come il tè del Cappellaio Matto. Dopo sette anni di conflitto, non esiste ancora una missione ben definita o un obiettivo finale per il contingente USA in Afghanistan. Interpellato sulla missione, un ufficiale militare americano
ha detto a NBC News: «Francamente, non ne abbiamo una.» La NBC riferisce che «ci stanno lavorando».
Durante il suo discorso del 5 febbraio ai Democratici della Camera, il presidente Obama ha ammesso che il governo USA non conosce il motivo della missione in Afghanistan e che, per evitare «che la missione proceda a tentoni, senza parametri chiari», gli Stati Uniti «hanno bisogno di una missione chiara».
Cosa ne direste di essere mandati in una guerra il cui scopo è sconosciuto a tutti, ivi compreso al comandante in capo che vi ha spedito a uccidere o ad essere uccisi? Che ne pensate, cari contribuenti, del fatto di sostenere ingenti costi per inviare soldati in una missione non definita mentre l’economia va a rotoli?

Paul Craig Roberts

Le banche europee e i vigili del fuoco

sfondo
Questa prospettiva dalla City di Londra è interessante, data la devastazione che impregna i loro stesso panorama circostante. Gli Anglo-Americani sembrano aver lanciato il guanto di sfida, cosa farà ora, Monsieur Trichet ?

Il sistema bancario europeo è certamente un casino, e se mai ci fosse una circostanza che giustificasse il perseguire la "opzione svedese" del nazionalizzare le banche, questa la è.

Una frase [ dell'articolo che segue ] attrae particolarmente l'attenzione:

"Ci stiamo avvicinando al punto nel quale il Fondo Monetario Internazionale potrebbe dover stampare denaro per il mondo, ricorrendo ad arcani poteri per emettere Special Drawing Rights."


[ SDR o Diritti Speciali di Prelievo, è un particolare tipo di valuta, unità di misura del FMI, costituita da un paniere di valute rispetto alle quali si calcola un comun denominatore; gli SDR sono detti anche 'paper gold', cioè oro di carta, in quanto strutturati al fine di rimpiazzare l'oro nelle transazioni internazionali, ndt ]

Problema => Reazione => Soluzione

Sembrano esserci sempre degli arcani poteri pronti a risolvere delle crisi 'inaspettate'.

[ Leggiamo ora l'articolo del Telegraph ]

UK Telegraph
Il Fallimento nel salvare l'Est europeo porterà al crollo mondiale
Di Ambrose Evans-Pritchard
11:17PM GMT 14 Febbraio 2009

Se maneggiata malamente dalle istituzioni governative mondiali, questa crisi è grande abbastanza da frantumare il debole sistema bancario dell'Europa Occidentale e farci passare al secondo round del nostro Crepuscolo degli Dei finanziario.

Il ministro delle finanze austriaco, Josef Proll, la scorsa settimana si è prodotto in sforzi frenetici per mettere insieme 150 miliardi di euro di salvataggio per l'ex blocco sovietico. Lo ha potuto fare perchè le sue banche hanno prestato alla regione 230 miliardi di euro, corrispondenti al 70% del Prodotto Interno Lordo dell'Austria,

" [ Ne deriva che ] un tasso di insolvenza del 10% potrebbe portare al collasso il sistema finanziario austriaco, " riferisce il Der Standard di Vienna. Sfortunatamente, è proprio quanto sta per accadere.

L'EBRD ( European Banck for Reconstruction and Development ) ha detto che i cattivi debiti sono a livello del 10% e potrebbero salire fino al 20%. La stampa di Vienna ha detto che la Banca d'Austria, e l'Unicredit che la possiede, stanno per subire una "Stalingrado monetaria" nei paesi dell'Est.

La scorsa settimana, il Sig. Proll ha cercato di raccogliere il sostegno, dai ministri delle finanze dei paesi europei, al suo pacchetto di salvataggio. L'idea è stata soffocata dal tedesco Peer Steinbruck : non è un nostro problema, ha detto. Lo vedremo.

Stephen Jen, capo settore valute alla Morgan Stanley, riferisce che l'Europa dell'Est ha mutui per oltre 1,7 trilioni di dollari, soprattutto in obbligazioni in scadenza a breve. Devono riscattarne - o rifinanziarne - nell'anno per 400 miliardi, che equivale ad un terzo del Prodotto Interno Lordo dell'area. Buona fortuna, perchè i rubinetti del credito sono chiusi serrati.

Neppure la Russia potrà onorare facilmente il debito di 500 miliardi di dollari dei suoi oligarchi, perlomeno finchè il greggio rimane vicino ai 33$ al barile. L'investimento era tarato infatti sul greggio degli Urali a 95$ al barile, ed infatti la Russia, da agosto, ha 'sanguinato' il 36% delle sue riserve [ in divise ] estere per difendere il rublo.

"Questa è la più grossa speculazione della storia su una singola divisa, " ha detto il Sig. Jen.

In Polonia, il 60% dei mutui sono in Franchi Svizzeri e lo zlot si è appena dimezzato contro il franco. Ungheria, paesi balcanici, baltici e l'Ucraina stanno tutti vivendo una variante di questa stessa storia. Quale atto di follia collettiva - di mutuanti e mutuatari - coincide con la debacle dei subprime americani. Tuttavia, c'è una differenza sostanziale : le banche europee sono con l'acqua alla gola sui due fronti, le banche USA, no.

Quasi tutto il debito del blocco dell'Est è nelle mani dell'Europa dell'Ovest, soprattutto delle banche di Austria, Svezia, Grecia ed Italia e Belgio. Gli Europei detengono un sorprendente 74% dell'intero portafoglio - di 4.900 miliardi di dollari - di prestiti piazzati sui mercati emergenti.

Gli Europei sono cinque volte più esposti a quest'ultimo fallimento che non le banche americane o giapponesi, e - secondo i dati del Fondo Monetario Internazionale - hanno un reinvestimento superiore del 50%.

La Spagna c'è dentro fino al collo nell'America Latina, che si è unita in ritardo al crollo ( la produzione di auto in Messico è crollata del 51% in gennaio, ed il Brasile ha perso 650.000 posto di lavoro in un mese ), mentre Gran Bretagna e Svizzera ci sono dentro fino al collo in Asia.

Che la cosa richieda mesi, o solo settimane, il mondo sta per scoprire che il sistema finanziario europeo è affondato, e che non c'è nessuna Federal Reserve europea che sia già pronta ad agire quale ente erogatore di prestiti di ultima istanza capace di inondare i mercati di stimoli di emergenza.

In base ad un'analisi condotta secondo la "Regola Taylor" [ una moderna regola di politica monetaria proposta da John B. Taylor, che indica di quanto la Fed dovrebbe modificare il tasso di interesse in conseguenza dello scostamento del PIL reale dal PIL potenziale ecc..., ndt ], la Banca Centrale Europea, è già nella necessità di tagliare i tassi a zero per poi acquistare su larga scala obbligazioni e Titoli di Stato. Ma ciò è bloccato dalla geopolitica - un veto tedesco-olandese - a dal Trattato di Maastricht.

Basta divagare, è l'Est dell'Europa che proprio adesso sta esplodendo. Erik Berglof, economista capo dell'EBRD ( European Banck for Reconstruction and Development ), mi ha detto che la zona potrebbe aver bisogno di 400 miliardi di euro di aiuti per coprire i mutui e rianimare il sistema creditizio.

I governi europei stanno rendendo le cose ancora peggiori : alcuni stanno premendo sulle banche perchè si ritirino, svendendo le sussidiarie nell'Europa dell'Est. Atene ha ordinato alle banche greche di tirarsi fuori dai Balcani.

Le somme necessarie vanno al di là dei limiti del Fondo Monetario Internazionale, che ha già salvato Ungheria, Ucraina, Lettonia, Bielorussia, Islanda e Pakistan - ed ora tocca allaTurchia - e sta rapidamente esaurendo i 200 miliardi di dollari ( 155 miliardi di € ), della sua riserva.

"Ci stiamo avvicinando al punto nel quale il Fondo Monetario Internazionale potrebbe dover stampare denaro per il mondo, ricorrendo ad arcani poteri per emettere Special Drawing Rights."


I suoi 16 miliardi di salvataggio per l'Ucraina sono svaporati : il paese - che dopo il crollo del prezzo dell'acciaio deve fare i conti con una contrazione del PIL pari al 12% - sta precipitando verso la bancarotta, spiazzando Unicredit, Raffeisen ed ING.

Il Pakistan ha bisogno di altri 7,6 miliardi di dollari. Il governatore della banca centrale della Lettonia ha definito la propria economia "clinicamente morta" dopo che si è ridotta di un 10,5% nel quarto quadrimestre. Le proteste hanno coinvolto il tesoro e sconvolto il parlamento.

Lars Christensen, Danske Bank, ha detto : " Questa è molto peggiore della crisi nell'Est asiatico, del 1990."

"Nell'area, ci sono disastri in attesa di verificarsi, ma le istituzioni europee non hanno il minimo schema di intervento per fronteggiarle. Il giorno che decideranno di non aiutare un solo singolo paese di questi, sarà la miccia per una gigantesca crisi che si diffonderà come un contagio nell'Unione Europea."

L'Europa si trova già in guai ben peggiori di quelli che la BCE od i leaders europei si erano mai aspettati. La Germania ha patito una contrazione, nel quarto quadrimestre, pari ad un tasso annuo dell' 8,4%.

Se la Deutsche Bank ha ragione, prima della fine di questo anno, l'economia si sarà ridotta di un altro 9%; questo è quel tipo di livello che alimenta le rivolte popolari.

Le implicazioni sono ovvie : Berlino non ha intenzione di salvare Irlanda Spagna Grecia e Portogallo mentre il collasso delle loro bolle creditizie porterà ad un aumento di insolvenze, nè ha intenzione di salvare l'Italia con l'accettare piani per "obbligazioni dell'Unione Europea" se mai i mercati del debito dovessero essere spaventati dalla traiettoria missilistica del debito pubblico italiano ( che potrebbe schizzare l'anno prossimo al 1112% del PIL, dopo una recente revisione al rialzo dal 101% - grossa variazione ), nè avrà intenzione di salvare l'Austria dal suo avventurismo asburgico.

Così stiamo lì a guardare ed aspettare mentre le fiamme degli incendi letali si avvicinano. Se una scintilla salta al di là della linea dell'eurozona, in pochi giorni ci sarà una crisi sistemica mondiale.

I vigili del fuoco, sono pronti?
by Jesse's Café Américain

La via dei soldi

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Di fronte alla crisi economica in atto il cittadino comune, italiano ed europeo, è preso da un senso di smarrimento. Ma esso non riguarda soltanto la consapevolezza che il misero stipendio ricevuto a fine mese è inadeguato a sostenere un livello appena decente di vita. E non è nemmeno e soltanto la paura del futuro che appare sempre più incerto per sé e per i propri figli e che soprattutto è un futuro sul quale nessuno di noi ha la capacità di incidere. Il vero smarrimento, che in breve finisce per trasformarsi in una rabbia cieca, è per esempio leggere sui giornali che la Banca centrale europea, o organismi consimili come la Banca Mondiale e il Fondo monetario internazionale, chiedono ai governi di impedire aumenti di stipendi e salari oltre un certo livello per impedire l’innescarsi di dinamiche inflazionistiche, e poi nella pagina accanto leggere che il governo, nel caso specifico quello italiano, ha deciso di finanziare con qualche miliardo di euro un’azienda decotta come la Fiat e il mondo bancario messo in ginocchio dalle proprie speculazioni. Lo stesso governo, è bene dirlo, che appena pochi mesi prima, per la parte che gli compete, aveva spiegato che non c’erano in cassa soldi sufficienti per concedere, come facevano i re, aumenti di stipendio agli statali. Insomma, le banche come il Marchese del Grillo (io sò io..) e i cittadini e i lavoratori come gli altri poveri mortali (..e voi non siete un..). Una realtà per se stessa ben evidente ma che il governo non aveva mai così bene esplicitato.
Sono infatti le banche a comandare e a mandare avanti il sistema, i capitali devono pur potersi muovere liberamente all’interno del territorio dell’Unione, per quanto riguarda invece la forza lavoro, che cosa volete che sia? Anche il lavoro e i lavoratori sono merce che si può spostare a proprio piacimento. E se qualcuno non è d’accordo può anche uscire volontariamente dal meccanismo, tanto i sostituti nazionali ed esteri si potranno trovare tranquillamente.
Mal pagati o sottopagati cosa conta? Cosa contano i lavoratori davanti ai pescecane dell’Alta Finanza che dopo aver speculato massicciamente ora pretendono pure di ricevere sodi dallo Stato, cioè soldi nostri, e che nonostante questo riescono pure a restare al proprio posto? Ma adesso anche i lavoratori prendono atto della realtà che li circonda. Chi si informa bene, ricorda che gli azionisti e proprietari di quei giornali che difendono il sistema bancario e colpevolizzano le pretese “eccessive” di chi lavora, sono anche proprietari di aziende che quei giornali decantavano come sane e sulle cui azioni bisognava investire.
E sono anche azionisti delle banche che finanziano tali aziende e di cui possiedono azioni. Insomma il sistema economico che mette sotto accusa la rabbia sacrosanta di chi lavora, è lo stesso che, attraverso gli incroci azionari, si chiude costantemente a riccio in difesa dei propri interessi e dei propri privilegi e che riesce a pompare risorse da quello Stato, da quel governo e da quei partiti, della maggioranza e dell’opposizione, ai quali è strettamente legato. La crisi scoppiata in America, il centro della speculazione mondiale, si è potuta diffondere anche in Europa, nei termini in cui è avvenuto, perché i sistemi economici delle due sponde dell’Atlantico sono profondamente legati. Ma c’è dell’altro. La crisi ha avuto effetti devastanti in Europa e ha visto l’adozione di misure che alla fine beneficeranno gli speculatori, perché la politica, europea e italiana, ha rinunciato a svolgere il suo ruolo.
Che non deve essere quello di limitarsi ad essere l’amministratore delegato “ufficiale e legale” degli interessi dell’economia e della finanza, con la politica “marxianamente” considerata come sovrastruttura degli interessi dei magnati privati, ma deve invece arrivare a definire quali sono le priorità che uno Stato deve perseguire. Un governo deve fare scelte nell’interesse di tutti, nell’interesse nazionale, tutelando le categorie più deboli dall’arroganza dei più forti e dei più potenti. Un governo non deve insomma limitarsi a dettare delle regole generali e poi restare lì a guardare che esse siano rispettate dagli attori in campo. Un governo deve dare una impronta precisa alla propria azione in campo economico e non cercare di differenziarsi da un altro per banalità irrilevanti come potrebbero essere la posizione sull’aborto o sul matrimonio dei gay. Le soluzioni date in America e in Europa alla crisi finanziaria, hanno ulteriormente evidenziato che è in atto un vergognoso trasferimento di ricchezza finanziaria, che farà presto a trasformarsi in reale, da parte di chi ha e aveva già poco a chi, invece di suo, aveva molto e che continua ad avere abbastanza o troppo anche dopo aver sperperato buona parte della sua ricchezza in operazioni speculative tese ad arricchirsi ulteriormente. Il fatto nuovo, rispetto al passato, è che questo meccanismo si sta evidenziando come macroscopico agli occhi di chi è costretto ogni giorno a tirare la cinghia o si trova ormai da tempo in uno stato di autentica povertà. I potenti del mondo quindi farebbero bene a tenere “marxianamente” presente che in tal modo si è provocata una povertà di massa e al tempo stesso si è innescata una miscela pronta ad esplodere e a spazzare via con moti e rivolte di piazza un intero sistema globale basato sull’arbitrio di pochi.
di Andrea Angelini

Lo spreco di denaro è il segno distintivo della crisi attuale

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I politici criticano le gratifiche distribuite dalle grandi banche ai loro dirigenti. La stampa segue a ruota, ma i bonus sono solo la punta dell'iceberg. Lo spreco di denaro è il segno distintivo della crisi attuale. E lo stato è responsabile quanto le banche.

La commissione che controlla il Tarp, il piano di salvataggio delle banche di Henry Paulson e Ben Bernanke varato lo scorso autunno, ha scoperto che il contribuente statunitense ha pagato troppo per l'acquisto dei titoli spazzatura presenti nel portafoglio delle banche. Su 254 miliardi di dollari elargiti fino a oggi, lo stato ha ricevuto beni pari a 176 miliardi.

Resta quindi un buco da 78 miliardi, che corrisponde a cinquanta volte l'ammontare dei bonus distribuiti ai manager dal 2000. Se si considera che il Tarp fornisce denaro contante e il 50 per cento dei bonus è costituito da titoli spazzatura, la proporzione sale.

Eppure la notizia dello spreco di denaro pubblico passa inosservata, perché si parla solo della decisione di Barack Obama di limitare gli stipendi dei manager a mezzo milione di dollari all'anno. Con questa misura il contribuente impiegherà 150 anni per recuperare i 78 miliardi persi negli ultimi tre mesi. Forse ci stiamo muovendo nella direzione sbagliata?
di Loretta Napoleoni

La "depressione" più grande








Nel 2009 stiamo per assistere al peggiore collasso economico di sempre, la "Depressione piu' Grande", dice Gerald Celente, previsore di tendenze Americano. Egli crede che la faccenda sara' molto violente negli USA, con una possibile rivolta fiscale.

RT: La fragile economia USA si e' incontrata con salvataggi bancari e piani di stimolo. Quindi cosa dobbiamo aspettarci nel 2009 ? Nel rispondere a questa domanda e' qui con me Gerald Celente, fondatore e direttore dell'istituto di ricerca di tendenze. (che pubblica Trend Journal, NdT). Grazie per essere qui con me.

Gerald Celente: Piacere mio.

Nella foto: Gerard Celente

RT: Come definirebbe la tendenza economica che le i ha previsto per il 2009 ?

GC: Stiamo per assistere ad un collasso economico che il mondo non ha mai visto prima. E non solo negli USA, sara' globale. Alla fine del 2008 abbiamo osservato le vendite Natalizie: abbigliamento femminile giu' del 23%, mobili e apparecchiature elettroniche giu' del 27%, beni di lusso giu' del 35%. Questi sono collassi da Era Depressionaria. Abbiamo assistito a numerose bancarotte, tipo quelle delle catene "Circuit City" e " Linens and Things" Una bancarotta dopo l'altra. Abbiamo visto negozi chiudere. Starbucks, Home D&D power e via discorrendo.
La domanda che sorge riguarda chi si prendera' lo spazio reso disponibile dei negozi falliti ? Chi lo affittera' ? La risposta e' - nessuno. Se diamo un'occhiata al collasso finanziario del 2008, ci ricordiamo della cricca della Merryl Linch nascondersi sotto il letto, ed i ragazzi della Lehman andare in bancarotta. Avete visto aziende di titoli, di intermediazione e banche andare a pancia all'aria. Chi affittera' tutto lo spazio commerciale disponibile che prima queste aziende occupavano ? La risposta e' - nessuno. Il collasso del mercato immobiliare commerciale nel 2009 fara' sembrare quello del mercato residenziale uno scherzo.

RT: Lei usa la Grande Depressione come un'analogia, una comparazione. Durante la Grande Depressione la disoccupazione era al 25%. Ora questo numero e' aumentato di oltre il 7,2. E' un numero destinato a salire ?

GC: Dobbiamo guardare i numeri reali. Ci sono due tipi di statistiche ghe il governo usa. Quando misurano la disoccupazione, non considerano la gente che non cerca piu' lavoro perche' ormai scoraggiata, non essendo riuscita a trovare un impiego dopo averlo cercato a lungo. Ed inoltre non includono i lavoratori part time. Se aggiungiamo anche queste cifre, il numero sale al 13,7% E sono numeri governativi. E' questo e' solo l'inizio. E ricordiamo che gli eventi correnti formano le tendenze future.
Cosa abbiamo visto ? Abbiamo visto in un solo giorno 61,000 posti di lavoro evaporare. Stiamo per assistere a numeri da Grande Depressione. Perche', come menzionato, con il collasso del mercato immobiliare commerciale, ed con il ridimensionamento di Starbucks e Macy, significa che siamo sull'orlo del precipizio. Dobbiamo considerare non solo le persone che non lavorano piu' in queste aziende, ma che dire di tutto l'indotto ? Pubblicita', artigiani. Anche queste aziende cominceranno a licenziare. Stiamo per assistere a numeri da Grande Depressione. Ed in questo contesto ci sono i presupposti che sia anche peggio.

RT: Cosa dobbiamo aspettarci per la societa', la vita di tutti i giorni, i rapporti interpersonali, crimine ?

GC: Quando dico che sta per essere peggio della Grande Depressione, usiamo il termine La piu' Grande Depressione. Oltretutto, usare i modelli e le soluzioni del 1930 per tirare fuori dai guai gli USA e' veramente stupido. Allora durante la Depressione, molta gente non possedeva case. Non c'erano i mutui immobiliari. E sempre allora la gente non aveva carte di credito. I consumatori non avevano debiti per 14 trilioni di dollari. A quei tempi avevamo una base manifatturiera che ha contribuito a portare il mondo fuori della Grande Depressione dopo la Seconda Guerra Mondiale. Ora tutto questo non c'e' piu'.
La gente ora e' al limite. E' sotto stress. Gli USA sono la nazione piu' depressa al mondo oggi. Usano piu' antidepressivi che qualsiasi altro popolo, senza contare gli altri innumerevoli farmaci che usano. Stiamo per assistere ad un aumento dei livelli di crimini che potranno rivaleggiare con quelli del terzo mondo. Benvenuti a Mexico City. Stiamo per assistere a rapimenti in questo paese, come spesso avviene in altre nazioni sottosviluppate. Sta per diventare un America molto violenta.

RT: Non sta esagerando ?

G.C.: Non sto esagerando. I fatti sono tutti li' . Ho un detto: quando la gente perde tutto e non ha niente da perdere, perde ogni inibizione. Sta per esserci un'altra rivoluzione in questo paese.

RT: Quando questa rivoluzione che lei ha previsto nel suo Trend Journal accadra', e cosa la scatenera' ?

G.C.: Stiamo per assistere ad una rivolta fiscale. La gente e' ad uno stipendio dal perdere ogni cosa. Assisteremo a ulteriori fallimenti e gente licenziata. La gente e' al limite massimo. E cosa fanno nello Stato di New York ? Propongono 130 nuove tasse, aumentano le tasse sul venduto. Sta per esserci una rivolta fiscale in questo paese, prima sulle tasse di proprieta', poi sulle tasse scolastiche. Questo e' cio' che stiamo per assistere.

RT: Crede che la gente non speri che Obama fara' la differenza? GC: La gente e' piena di speranza, ma sono anche disperati e pieni di paura. Quindi si attaccano ad ogni cosa. Ma guardiamo i fatti. L'uomo del cambiamento. Chi ha portato con se a Washington ? Come si suol dire, riconosci la gente dalla proprie azioni. Guardiamo il suo segretario al tesoro., Timothy Geithner, a Robert Rubin dell'amministrazione Clinton, l'ex presidente della Federal Reserve di New York. Cambiamento ? E che dire di Larry Summers, l'ex segretario al tesoro di Clinton ? Ho un po' di esperienza e dico che non mi ricordo di un presidente eletto che porti nell'amministrazione, piu' o meno le stesse persone del gruppo di sicurezza nazionale di un'amministrazione precedente.

RT: Ma non crede che Obama una qualche differenza potra' farla ?

G.C.: Riconosci la gente dalla proprie azioni ! Se prendo in squadra un battitore che spara la palla fuori campo ad ogni colpo, e voglio che giochi nei campionati mondiali, non crede che provera' a colpire oltre la rete ? Hanno preso Larry Summers, Timothy Geithner. Guardi la squadra, Guardi chi sono. Sono artisti del colpo vincente. Ognuno di loro. E la cosa che sanno fare meglio e' quella di non sporcarsi le unghie delle mani.

RT: C'era una frase nel suo rapporto nel "Trend Journal" che ha veramente attirato la mia attenzione. Lei ha scritto " Nel 11/9 coloro che hanno dato ascolto alle autorita', sono crollati insieme alle torri". Quindi quello che vuol dire agli Americani e' di non dare ascolto alle autorita' che affermano che il programma di stimolo economico migliorera' la situazione ? E' questa l'analogia ?

G.C.: Guardi le mie labbra. Nessuna nuova tassa, Non ho fatto sesso con quella donna, Monica Lewinski. Ho fumato ma non inalavo. Saddam Hussein ha armi di distruzione di massa e legami con Al-Qaeda. Perche' qualcuno dovrebbe credere a questa gente ?

RT: Quindi cosa gli Americani dovrebbero fare se non possono avere fiducia nei loro politici ?

G.C.: Personalmente io compro oro, E ho suggerito l'opzione oro fino dal 2001. Abbiamo toccato il fondo ed ora (l'oro) dovrebbe risalire fino a 275 (dollari oncia, NdT).
Numero due, non spendere un centesimo che non sia strettamente necessario.

RT: Quali saranno i mestieri che potranno avere delle opportunita' quest'anno?

G.C.: Qualsiasi cosa che abbia a che fare con la salute. Qualsiasi. Sara' un'industria in ascesa. E fortunatamente molta gente sara' disposta a spendere molto denaro in quel settore in quanto grossa parte della spesa sara' rappresentata dalle cure per gli anziani. Ed un altro settore interessante sara' quello relativo all'efficienza ed al risparmio energetico, qualsiasi cosa di provata efficacia tecnologica in grado di risparmiare denaro e di farne fare.

RT: E che mi dice sulla geopolitica, a quali tendenze assisteremo nelle relazioni tra USA e resto del mondo ?

G.C.: Bene, il resto del mondo e' molto speranzoso, usando la parola "speranza" con l'amministrazione Obama. Tuttavia, dobbiamo prima vedere cosa accadra', ma fino ad ora e mi ripeto, riconosci la gente dalla proprie azioni. Obama, all'inizio della campagna, aveva l'intenzione di ritirarsi dall'Iraq. Non appena diventato presidente stava per cominciare a portare i soldati a casa. Ora questi non lasceranno l'Iraq per 16 mesi e gli ultimi rapporti dicono che incrementeranno le truppo di 40.000 unita'. Sta anche parlando di attacchi preventivi in Pakistan. Quindi non sembra proprio che ci possa essere un ammorbidimento delle relazioni geopolitiche.
Uno dei fattori ai quali stiamo guardando con attenzione, e oltretutto nel momento peggiore nel quale potrebbe accadere, e' cio' che succede nel Medio Oriente, nella guerra tra Israele e Gaza Da cio' che sta emergendo dai rapporti analizzati, esiste la possibilita' che Israele attacchi l'Iran. Se cio' accadesse questo comincerebbe la Terza Guerra Mondiale. Se la guerra attuale si diffonde oltre Gaza, infiammera' tutto il Medio Oriente. Cio' potra' causare una crisi del petrolio analoga a quella del 1973, che fu il seguito della guerra Arabo Israeliana. Questa e' la nostra maggiore preoccupazione. Stiamo anche assistendo e ci chiediamo se Obama continuera' nell'installazione del cosiddetto scudo difensivo missilistico in Polonia ed nella Repubblica Ceca, e se continueranno a fare pressione sulla Georgia. Se cio' continuasse, stiamo per assistere al riaccendersi della Guerra Fredda.

RT: Lei e' un anticipatore di tendenze fino dal 1980, da piu' di due decadi. Come raccoglie e elabora le sue informazioni e perche' crede di essere cosi accurato il piu' delle volte ?

G.C.: Gli eventi correnti formano le tendenze . Potete vedere cio' che sta accadendo. Un grande studioso ha detto "Nel momento attuale cammina gia' il domani". Quindi noi diciamo che gli eventi attuali formano la tendenza futura. Ma quando la gente guarda alle tendenze, lo fa con un approccio personale, colorandolo con la propria ideologia, le proprie credenze. E' cio' che vogliono, sperano e desiderano.
Io sono un ateo politico. Guardo alle cose come realmente sono, non nel modo in cui vorrei fossero. Non le coloro né provo a cambiarne l'essenza per la mia ideologia. Inoltre una delle cose che facciamo differentemente qui al Trend Research Institute e' nel guardare su base globale in oltre 300 differenti categorie. Analizziamo l'economia, la politica, i cambiamenti familiari, la geopolitica. E facciamo collegamenti tra le diverse discipline continuamente.

RT: Come puo' l'America uscire dalla situazione ?

G.C.: Tutto quello che dovete fare e' guardare indietro al 1990 quando l'America e' entrata in recessione. Avevamo una disoccupazione al 7,2 nel 1993. Cio' che ha tirato fuori gli USA dalla recessione del 1990 e' stato qualcosa chiamata " rivoluzione Internet" che aveva con se una capacita' produttiva. Prodotti furono inventati, disegnati, prodotti, commercializzati e serviti. Quindi bisogna chiedere nuovi lavori, energie alternative, Qualunque cosa che possa fare avanzare gli USA nel 21 secolo in maniera intelligente. Questo e' dove le opportunita' di lavoro presumibilmente saranno.


di Gerald Celente

Ma com'è questa crisi?

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L’aria che si respira, durante la riunione sindacale della CGIL, è pesante. Non si parla solo della frattura sindacale con CISL ed UIL, dei contratti di carta straccia, di leggi e leggine, le quali piovono sulla scuola come coriandoli in uno scenario che, di Carnevale, non ha nulla.
C’è il segretario provinciale, che tratteggia la situazione e sciorina dati: la cassa integrazione è triplicata in breve tempo, ed anche coloro i quali sono privi di qualsiasi protezione sociale aumentano, compresi i precari della scuola che rimarranno a spasso. Un camposanto.
Anche le frecciate sul piccolo ministro della Funzione Pubblica rimangono sullo sfondo, poiché la domanda che aleggia nell’aria – inespressa ma presente sui volti – è la stessa: dove andremo a finire?

I dati sul reale impatto della crisi economica si susseguono e s’accavallano: ciascuno cita una cifra più alta di quella del giorno prima, mentre il governo ha scelto la strada d’urlare più forte per tacitare i brusii. Se non basta proclamare urbi et orbi che esiste il traffico d’organi, si monta subito una bella disfida di Barletta su Eluana. Domani? Speriamo che il solito rumeno ne combini qualcuna, altrimenti siamo spiazzati. Ci salverà il Grande Fratello, ma è un’ancora di salvezza poco affidabile.


L’impressione che si ricava da questa crisi finanziaria è quella di una spada di Damocle sospesa, che non si sa con precisione quanto incombe e quando calerà con fragore.
Si scomodano, allora, i precedenti storici e, ovviamente, la crisi del ’29 la fa da padrone. Sarà sufficiente?
Gli aggettivi si sprecano: “epocale”, “imprevedibili effetti”, “catastrofica”…ma…le ragioni?
Certo, quelle più evidenti sono state chiarite: la creazione di ricchezza fasulla, di una montagna di carta straccia timbrata come moneta o certificato di credito, poi rivenduto, ecc. Perché è stato permesso? Qui, la cosa si complica, perché esiste un legame fra le guerre degli ultimi decenni e la cosiddetta “crisi finanziaria”.

Per capire le ragioni profonde ed importantissime di questa crisi – di questa punta dell’iceberg – potremmo partire all’incirca dall’anno di Grazia 1500, quando Cabral sbarca sulle coste del Mozambico e fonda le prime colonie portoghesi. Ho scritto “potremmo”, poiché le colonie oltre il Capo furono solo il seguito di quelle create ad Occidente del Capo di Buona Speranza, già nel XV secolo. Qual era la ragione di tanto ardire? Giungere alle isole delle spezie per mare, senza dover sottostare alle esose richieste dei mercanti arabi.
Quei piccoli borghi medievali fortificati sulle coste dell’Africa, rappresentarono un crinale della Storia: prima, Oriente ed Occidente erano appena consci della presenza, l’uno, dell’altro. Pochi anni dopo, iniziavano a confrontarsi.
Fino a quel momento, la Cina godeva d’alcuni primati tecnologici, soprattutto nella costruzione d’altiforni e nella chimica: la polvere da sparo fu una loro invenzione, anche se non ci sono prove storiche così certe.
In pochi anni, però, il primato passò all’Occidente: perché? Poiché era Cristiano.

Superiorità religiosa? No, più prosaicamente, una questione metallurgica: i Cristiani fabbricano campane, gli orientali i gong.
Se “allungate” un gong potrete ottenere al massimo un catino, mentre se “snellite” una campana otterrete un cannone: i primi fabbricanti di cannoni, già nel XIV secolo, erano tutti ex fonditori di campane.
Anche i cinesi usarono la polvere da sparo per la propulsione di lancio, ma utilizzarono i bambù come recipienti e – si comprende facilmente – un cilindro di ferro, più capiente e robusto di uno di bambù, lancerà più lontano un proiettile più pesante.
Ecco la "chiave”, una prima risposta per capire come mai l’Oriente diventò “territorio di caccia” per gli occidentali e non il contrario.
Le cronache riportano una lunga sequenza di “accordi commerciali” e “protettorati”, nati e cresciuti all’ombra di un vascello o di una cannoniera ancorati di fronte alle coste altrui.

I secoli seguenti vedono l’affermazione dapprima commerciale, poi decisamente coloniale, dell’Occidente: le Compagnie delle Indie ed i viceré nelle colonie sono carte dell’identico mazzo.
Ancora nell’800, le cannoniere americane di Perry (1854) “aprirono” le porte del Giappone, mentre quelle francesi servirono identica “portata” (con la battaglia navale di Fu-Chan, nel 1884) alla Cina.
La prima metà del ‘900 non muta lo scenario, mentre la seconda inizia con qualche sussulto: nel 1953, per convincere il riottoso Primo Ministro iraniano Mossadeq ad accettare le “generose” offerte delle compagnie petrolifere occidentali (il 6% agli iraniani, il 94% alla BP & soci), Eisenhower invia un emissario “speciale” – il generale Norman Schwarzkopf sr, ricordate questo nome? – il quale riesce, con un colpo di stato abilmente diretto da Washington, a cancellare ogni anelito d’equità nella ripartizione delle risorse iraniane.
Nel 1948 nasce Israele, il quale – oltre ad una serie di ragioni ben note relative al sionismo – ha il compito di “sentinella” per il Canale di Suez e per gli sviluppi del sistema d’approvvigionamento petrolifero, in questo coadiuvato dalla famiglia regnante degli Al Saud.
Il sistema neocoloniale ancora tiene: le piccole caravelle di Cabral continuano a segnare il tempo ed a riproporre la prassi dell’appropriazione, spesso truffaldina, delle risorse altrui. Ma i giorni passano.

La lunga guerra in Vietnam rivela, per la prima volta, che gli USA non sono invincibili, ma non è questo il “giro di boa”. Lentamente, l’Oriente si risveglia: in Occidente si ride, alla comparsa sulle bancarelle dei mercati rionali, delle bamboline in legno e pezza “made in China”. Ma guarda ‘sti cinesi…riusciranno a farle così bene perché hanno le mani piccole…
Nel 1991, un altro Norman Schwarzkoft (jr, il figlio del precedente “inviato” in Iran, buon sangue non mente) guida la “Felicissima Armada” che convince Saddam Hussein a “mollare” il Kuwait, e tutto sembra continuare come sempre: se alzi la testa, l’Occidente – unito – spara ad alzo zero.
Verrebbe da dire “e arriva l’11 Settembre”, ed invece non lo affermiamo proprio, perché c’entra poco o nulla.
Arrivano, invece, computer dalla Cina e software house dall’India: poi, tutto precipita. Dal Brasile all’Iran, dalla Malesia alla Russia, il “non-Occidente” si mette a fabbricare ed a commercializzare di tutto: elettronica, energia, meccanica, chimica…
Le caravelle di Cabral s’arenano e, con esse, cinque secoli di predominio mercantile e militare sul Pianeta.
La risposta?
Secondo copione, partono le cannoniere, ma ottengono ben poco: per comprendere in qual basso stato siano giunte le armi occidentali, basti pensare che, pochi giorni or sono, a Kabul hanno dato l’assalto al palazzo presidenziale. Karzai s’è salvato per miracolo, mentre l’Iraq è oramai un affare chiuso: un fallimento che attende solo l’Ufficiale Giudiziario.
La forza dell’Occidente, per questi cinque secoli, è stata sorretta da due aspetti: denaro e cannoni. I quali, se manca il denaro, servono a poco. E allora? Se non possiamo più stampare vagoni di carta moneta a ufo…creiamo ricchezza finanziaria fasulla!
Nel volgere di mezzo secolo, gli USA sono passati dal controllare il 50% del commercio mondiale al 20%, oggi forse ancora meno, e l’Europa non ha certo colmato quei vuoti.
Li stanno colmando legioni di uomini d’affari cinesi, indiani, brasiliani…che vendono di tutto, di tutto di più. Vendono perché fabbricano, fabbricano perché progettano, progettano perché studiano: noi, siamo ridotti a creare truffe.
Domandiamoci, allora, la natura di questa crisi partendo da tre ipotesi di “scuola” marxista:

1) Una crisi ciclica del capitalismo.
2) La crisi terminale del capitalismo.
3) Una crisi d’assestamento verso nuovi equilibri internazionali.

Abbiamo distinto le ipotesi 1 e 3, anche se presentano molti punti in comune, sulla base delle cause: endogene, ossia crisi di ristrutturazione degli apparati produttivi nel primo caso (modello anni ’70 del ‘900, ad esempio, oppure le grandi trasformazioni della seconda metà dell’Ottocento, ecc) e cause geopolitiche nel terzo, pur rendendoci conto che esistono parecchi aspetti interdipendenti fra i due fenomeni.

Un secondo aspetto, da approfondire, concerne l’analisi “tecnica” degli eventi, ossia le evoluzioni parallele dei fenomeni in atto, se confrontate con altri sconquassi economici del passato.
La crisi del 1929 ben si presta perché è vicina a noi – gli “attori” portano, a volte, quasi gli stessi nomi, gli Stati coinvolti pure, ecc – e, soprattutto, poiché consente d’analizzare gli eventi utilizzando i parametri dell’economia contemporanea.
Ci sono, ovviamente, delle differenze: ad esempio, all’epoca era ancora in vigore l’ancoraggio all’oro di parecchie monete, ma non è questo il fatto saliente.
Una crisi, se analizzata partendo dagli effetti puramente economici (parametri, ecc), può condurre a parallelismi che non hanno ragion d’essere poiché, come avviene per la diagnosi di una malattia, effetti simili od addirittura perfettamente sovrapponibili possono derivare da cause molto diverse. E’ questo il caso.

La crisi del 1929 non fu minimamente catalizzata da eventi esterni all’Occidente: nessuno, all’epoca, era in grado d’impensierire il commercio internazionale gestito dalle potenze dell’epoca. Tutti i Paesi, oggi emergenti, erano colonizzati od asserviti oppure, come l’URSS, alle prese con infiniti guai interni. Grandi Paesi come la Cina od il Brasile, nel commercio mondiale, valevano pressoché zero.
La crisi del 1929 rivelò i rischi di un capitalismo lasciato galoppare senza freni – le “bolle finanziarie” spadroneggiarono anche allora – ma era il contesto economico reale (la cosiddetta “Main Street”), ossia la potenzialità di ricchezza, la possibilità d’espansione economica ad essere diversa rispetto all’oggi.
Per questa ragione, ebbero successo le politiche keynesiane: la “Tennessee Valley” fu possibile perché lo Stato (per nulla indebitato) varò il deficit spending per incentivare l’agricoltura ed i trasporti negli stati del Sud.
Oggi, un ipotetico “piano” per “Silicon Valley” sarebbe improponibile perché Silicon Valley, nel nostro tempo, è in Cina, India, Malesia…
Queste premesse, ci portano a concludere che l’attuale crisi del capitalismo non è una crisi “terminale”, proprio perché – da qualche parte – esistono aree che possono ricevere nuova industrializzazione, incrementare i consumi, ecc.
Sull’altro versante, un simile spostamento di ricchezza, produzione, conoscenza, ricerca…non può “transitare” senza scossoni epocali: perdere cinque secoli di predominio, è un trauma equivalente alla caduta di un impero dell’antichità.

La fiaba, raccontata in tutte le salse, della produzione “diversificata” e globalizzata e, dall’altra, di una finanza accentrata in poche mani occidentali, sta svanendo come neve al sole.
L’opulenza della piazza finanziaria di Londra si consuma nell’evidenza dei licenziamenti, nelle banche salvate dalla mano pubblica, ossia in una partita di giro che vede caricare sulle spalle dei cittadini le perdite del sistema finanziario. Un partita di giro truccata, poiché a soffrire dei disastri finanziari è prevalentemente la parte più ricca della popolazione, mentre a subirne gli effetti saranno – con l’estinguersi dello stato sociale – i settori meno abbienti.
Mentre metà del Pianeta s’interroga su dilemmi di natura espansiva – finanziari, tecnologici, ambientali, ma sempre espansivi, poiché ci sono secoli di domanda interna da colmare – l’altra metà non trova risposte, perché quelle risposte esigerebbero proprio la presa di coscienza di un mondo non più “eurocentrico” oppure “amerocentrico”.
Al più, dopo i fallimenti della politica unilaterale di Bush, si torna a parlare di “multipolarismo”, ma il diritto di veto al Consiglio di Sicurezza dell’ONU rimane solidamente ancorato nelle mani di cinque attori, tre dei quali sono potenze un tempo coloniali o neocoloniali: si stenta a comprendere che un “G20”, oggi, deve prender forma su piani d’assoluta parità.
Ancor più drammatico, è capire quale potrà essere il futuro di vecchie ed azzimate signore – un tempo padrone del pianeta – che oggi si ritrovano con le pezze al sedere. Premere sull’acceleratore dell’innovazione tecnologica?

Non si può certo rifiutare lo sforzo per la conoscenza, ma aspettarci grandi frutti da queste politiche è incerto, giacché bisogna fare i conti con la novità: non siamo più in testa, stiamo inseguendo.
Anche nel nuovo comparto energetico – l’unico che, forse, consente all’Occidente il vantaggio di un’incollatura – dobbiamo considerare che le potenzialità dell’Oriente – ricerca, finanza, produzione – crescono con numeri a due cifre, non con i nostri asfittici “0,…%”. Se i cinesi si mettessero a costruire pannelli solari, c’è da giurarci che in breve tempo li costruirebbero migliori ed a minor costo rispetto ai nostri.
L’unica sfida che l’Occidente dovrebbe accettare non è nella corsa economica o tecnologica: la presa di coscienza della propria condizione di “poveri in divenire”, dovrebbe accelerare il dibattito sulla distribuzione della ricchezza, sul valore stesso di “ricchezza”, sulla necessità d’essere “ricchi”.
In fin dei conti, restiamo Paesi “ricchi”: non ci mancano certo i beni primari e la protezione sociale, e siamo in grado d’avere anche un po’ di superfluo; ciò che non ci potremo più permettere, è di vivere credendoci nababbi hollywoodiani.

Roma fu invincibile e padrona assoluta per secoli: eppure Roma lasciò poco, mucchi di macerie che oggi chiamiamo “ruderi”. Atene non dominò quasi nulla, però i suoi fondamenti sono, ancora oggi, le basi della nostra conoscenza.
Diventa allora essenziale riportare il dibattito sui valori fondanti del nostro vivere: aspetti giuridici ed economici, difesa e rivalutazione dei grandi principi costituenti da un lato, serrato dibattito per riportare alla collettività le leve dell’economia.
Recentemente, un uomo politico italiano (poco importa chi è, la pensano quasi tutti così) ha dichiarato “di non essere attratto dalla decrescita”: “decrescita” non potrà più essere un vago concetto sul quale decidere “quoto” o “non quoto”, poiché ai cinesi frega assai di cosa “quotiamo”. E, se lasceremo fare al “mercato”, non otterremo mai risposte perché il “mercato” non prende in considerazione aspetti culturali: valuta l’incremento, o il decremento, e su quella base decide.
La decrescita, invece, non può fare a meno di una profonda rivisitazione – su basi culturali – del nostro vivere: solo dopo si potrà decidere se costruire autostrade od incrementare la ferrovia, se passare ad un sistema di produzione/consumo d’energia su piccola scala, se intervenire sull’obsolescenza dei beni, ecc.
La politica, insomma, senza valori culturali di riferimento, si riduce ad un mero esercizio di calcolo: di soldi, di voti, di favori.

Voglio portare un esempio che può sembrare provocatorio, e che non lo è per niente.
L’Italia è un Paese fortunato, fortunatissimo. Non abbiamo quasi petrolio, ed abbiamo industrie che anche altri hanno, spesso più solide delle nostre.
La Francia ha Versailles, la Spagna il Prado, la Russia l’Hermitage, la Germania i castelli del Reno…ma nessuno ha la reggia di Caserta, gli Uffizi, Venezia irripetibile, Roma mozzafiato, antichità greche, rinascimentali…anche il più sperduto borgo ha qualcosa che all’estero si sognano. Viviamo in un grande museo a cielo aperto.
E’ mai possibile che dobbiamo perdere terreno nei confronti d’altri Paesi europei proprio sul turismo?!? Ogni anno che passa, quando si fanno i conti sulla stagione turistica, è un fazzoletto di lacrime in più rispetto a quello precedente.
Eppure, gli studi sul turismo evidenziano che l’unico settore che “tiene” è quello dell’arte, soprattutto per i milioni di “nuovi ricchi” orientali. Non potremo mai fare concorrenza alle spiagge tropicali, mettiamocelo in testa: non riusciamo nemmeno a reggere il confronto con Spagna e Croazia.
Osserviamo, allora, l’importanza che l’Italia assegna al suo patrimonio artistico – il suo petrolio! – dai nomi dei ministri chiamati ad amministrarlo. Buio pesto, che più pesto non si può.
Dai palesi incompetenti – Bondi, Urbani – a quelli in altre faccende affaccendati, Veltroni e Rutelli: non uno che abbia fatto qualcosa, che abbia varato consistenti investimenti per la manutenzione e per il restauro d’altri, enormi patrimoni ancora sotterra o nei sotterranei dei musei.
Questi patrimoni, domani – se affiancati da una politica d’investimenti nei settori di supporto (alberghiero, ricettivo, ecc) – si potrebbero trasformare in milioni di posti di lavoro per tutti quegli italiani che non possono fare concorrenza ai cinesi nel produrre magliette e computer.
Perché non viene attuato nulla? Un caso? No, troppo semplice.

La ricchezza che si creerebbe, mettendo finalmente a frutto il nostro patrimonio artistico, sarebbe diffusa sul territorio, ne godrebbero milioni di “signori nessuno”, giovani senza lavoro, gente di mezza età che lo perde. In altre parole: noi. E’ lo stesso, perverso meccanismo che mette bastoni fra le ruote alla produzione energetica diffusa.
Ancora una volta, l’ostacolo è di natura culturale: la ricchezza diffusa (anche modesta) genera cittadini, quella dispensata dall’alto per non cadere in miseria, produce sudditi.
E, non sia mai, che ciò comporti una perdita di potere da parte di quel milione d’italiani che vive di politica, di mala politica, d’affari legati alla politica, poiché entrerebbe in contraddizione con il primo, vero articolo della nostra Costituzione:

Art. 1 bis: L’Italia è una repubblica oligarchica, fondata sul conflitto d’interesse e sul potere delle Caste.

Perciò, partendo da questo semplice esempio, possiamo capire ciò che c’attende per la cosiddetta “crisi economica” – che di strettamente economico ha ben poco – poiché l’economia (“governo della casa”) non è un dogma e tutti dovremmo parteciparvi. Non è accettabile dover sottostare ad imposizioni dettate da personaggi che fanno parte dello stesso mondo che fabbrica ricchezza fasulla! Perché un signore in doppiopetto di un’agenzia di rating – spesso collusa con le banche truffaldine – può decidere il futuro dei miei figli?
Per imbonirci, i politici nostrani usano strategie diversificate: si nasconde la testa sotto la sabbia (centro destra), oppure si vagheggiano astrusi parallelismi con la (per ora, tutta da verificare) politica di Obama (centro sinistra). In definitiva, ci raccontano solo un mare di frottole.
Nel primo caso, servono potenti anestetici (c’è il traffico d’organi! Eluana! Grande Fratello forever!) per tentare d’addormentare la popolazione sempre più stanca ed avvilita, mentre nel secondo si mesta nel torbido, perché è facile promettere una politica d’innovazione, soprattutto energetica, senza affrontare il nodo della gestione. A che servono, auto elettriche “targate” ENEL od ENI? A cambiare cappio, per strozzarci in un altro modo?

Non perdiamo altro tempo per analizzare, per spaccare il capello in quattro e conoscere finalmente il nome di colui che stampava carta straccia, e nemmeno se può essere più affidabile del suo socio: domani, potrebbero semplicemente scambiarsi la scrivania. Il passaggio storico è di quelli da far rizzare i capelli – questo è da tenere in primo piano! – e non sono stati i trucchi di quattro banchieri a generare il disastro: c’era già prima.
Ciò che la Storia c’insegna, è che questi enormi mutamenti richiedono la nostra attiva partecipazione: nuove idee, nuovi stili, nuovi obiettivi.
Ci arriveremo? Senza dubbio, ma la Storia ci racconta anche qual è il discrimine, il crinale che separa l’accettazione supina dalla fattiva elaborazione: milioni di morti.
di Carlo Bertani

Palestina:due stati due Popoli? Una illusione

palestina_israele
Chi ha letto l’articolo di Gheddafi, il 21 gennaio sul New York Times, avrà ragionevolmente visto in esso una provocazione, e un’insultante confutazione dello Stato ebraico. Purtroppo le cose non stanno così, anche se l’insulto resta: quel che ha detto il Presidente libico - non ha più senso parlare di due Stati, israeliano e palestinese, in pace l’uno accanto all’altro - è una convinzione più diffusa di quel che si creda. La sostengono non solo fazioni palestinesi importanti, ma un certo numero di ebrei dentro e fuori Israele. Gheddafi dice a voce alta quel che molti pensano, anche senza desiderarlo. C’è da chiedersi se la destra israeliana che ha vinto alle urne (quella di Netanyahu e di Avigdor Lieberman, capo di Israel Beitenu, ovvero «Israele casa nostra») non abbia pensieri analoghi: che non confessa ma che impregnano i suoi piani d’azione.

La formula «due Stati-due popoli», che continua a esser sbandierata in Israele, a Washington, in Europa, non ha più radici vere nella realtà. È diventata una vana parola, che dà buona coscienza ma non suscita azioni. È come un treno che tutti immaginano in attesa alla stazione, e invece è già passato. Se in Israele si è affermata una destra ostile a negoziati con l’insieme dei partiti palestinesi, che non intende cedere territori e anzi accresce le colonie, significa che l’occupazione non è considerata quello che è: la più grande, l’autentica minaccia strategica per l’esistenza di Israele. In queste condizioni parlare di due Stati è ipocrisia.

Il piano implica la fine dell’occupazione e rari sono i politici israeliani che l’ammettono e ne traggono conseguenze.

È il motivo per cui alcuni auspicano che sia Netanyahu a guidare Israele. Lo ha scritto Gideon Levy su Haaretz, già prima del voto: la sua speranza è che finalmente si cominci a dire il vero, e Netanyahu può farlo. Che s’abbandonino espressioni eufemistiche come processo di pace o due Stati-due popoli. Con Netanyahu le cose diverrebbero più chiare, il dislivello tra verbo e azione meno nebbioso. Il capo del Likud è d’accordo con Lieberman: non vuole ridurre le colonie, e anzi difende il loro «aumento naturale». Non parla di Stato palestinese ma di Pace Economica (basta riempire le pance dei palestinesi per moderarli). L’idea non è nuova: la sostenne il ministro della Difesa Moshe Dayan dopo la guerra del ’67, e negli Anni 70 la riprese il laburista Peres. La prima intifada nell’87 la stritolò, rivelando a chi non voleva vedere che i sogni palestinesi non erano economici. Il fatto che sia oggi riproposta è qualcosa su cui vale la pena meditare, perché rivela un malessere israeliano tuttora irrisolto e pernicioso.

Il malessere è certo acuito da chiusure aggressive di arabi e palestinesi, come scrive lo scrittore Yehoshua (La Stampa, 14-2). Ma in buona parte è interno, è frutto dell’incapacità israeliana di rispondere alla domanda: cosa vogliamo essere? che Stato abbiamo in mente, di fatto? Uno Stato ebraico, democratico, e che al contempo mantenga il controllo su zone dove i palestinesi sono in maggioranza? Qui nascono i mali, spiegati bene dallo storico Gershom Gorenberg (The Accidental Empire, New York 2006): le tre aspirazioni sono in realtà incompatibili fra loro. Non è possibile che lo Stato resti al tempo stesso ebraico e democratico, se l’occupazione permane: gli ebrei sono minoritari nei territori, e lo saranno (forse già lo sono) nell’insieme geografico che amministrano. Estesa alla Cisgiordania, la democrazia israeliana non è più ebraica. Oppure rimane ebraica, ma smette d’esser democrazia. Di questo converrà cominciare a discutere: in Israele, in America, in Europa e nella diaspora, non contentandosi d’additare spauracchi come Gheddafi. Gorenberg invita la diaspora a condannare l’occupazione. L’indeterminatezza sulla forma-Stato è tipica degli imperi instabili e minaccia gli ebrei dentro Israele e fuori.

Il piano due Stati-due popoli è il solo orizzonte augurabile. Ma quel che è accaduto in 41 anni ha forgiato una realtà che lo rende impraticabile: tale d’altronde era lo scopo, esplicito, di chi favorì l’Impero Accidentale (da Sharon a Peres). Basta guardare la carta geografica per constatarlo: la Cisgiordania è coperta da una miriade di colonie, sparse come polvere, inconciliabili con ogni continuità territoriale palestinese. E non esistono solo colonie, abitate da uomini armati che infrangono il monopolio della violenza legale. Ovunque, nella Westbank, ci sono strade riservate solo a israeliani o percorribili dai palestinesi a condizioni capestro.

Le ultime cifre sul numero dei coloni, fornite da un rapporto per il ministero della Difesa, sono le seguenti: in Cisgiordania 290.000 in 120 insediamenti, più decine di avamposti militari. Sulle alture del Golan 16.000 in 32 insediamenti. Nelle aree annesse di Gerusalemme Est 180.000. Gaza fu evacuata da Sharon nel 2005 (9000 israeliani in 21 insediamenti) ma senza che la colonizzazione in Cisgiordania diminuisse. Anzi, aumentò: le organizzazioni non governative testimoniano come ogni mossa israeliana, diplomatica o bellica, s’accompagni a un aumento di colonie e avamposti. Questi ultimi sono chiamati illegali, ma ogni insediamento lo è. Ogni insediamento nasce dal groviglio mentale seguito alla guerra del ’67: groviglio che ha frantumato il concetto di confini e di Stato. Gideon Levy su Haaretz ricorda come il duello Begin-Peres nell’81 fosse una gara fra chi garantiva più colonie. I coloni pesano enormemente sui governi israeliani. Il laburista Barak aumentava le colonie, mentre sotto la guida di Clinton negoziava con Arafat. Lo stesso Barak, poco prima del voto del 10 febbraio, ha promesso al Consiglio dei coloni (Consiglio Yesha) di non smantellare l’avamposto Migron, nonostante le intese del 2001 con Washington. I coloni di Migron comunque potranno spostarsi nell’insediamento Adam presso Gerusalemme: altra colonia che doveva esser smantellata.

L’occupazione dunque continua, anche se i governi israeliani evitano la parola annessione. Evitandola tengono tuttavia in piedi il groviglio mentale, a proposito di nazione e confini. Se parlassero di annessione, dovrebbero infatti riconoscere che la natura dello Stato muta sostanzialmente, e che Israele è a un bivio. Se vuol preservare l’ebraicità diventa Stato di apartheid. Se vuol restare democratico, dovrà ammettere che i palestinesi son titolari di diritti coerenti con i numeri.

Secondo Gorenberg, è la colonizzazione successiva alla guerra dei Sei Giorni che ha distrutto l’idea di Stato nata nel ’48: «Il processo di consolidamento, necessario a un nuovo Stato, fu sconvolto. Una generazione che aveva costruito lo Stato cominciò senza volerlo a togliere pietre essenziali alla sua struttura»: le colonie ravvivarono l’anarchia pionieristica della conquista, lo spirito messianico dell’organizzazione Gush Emunim contaminò i laici e in particolare gli immigranti della diaspora russa stile Lieberman, infastiditi dai vincoli della vita locale. Lo stesso spirito spinge la destra a sospettare gli arabi d’Israele (20 per cento della popolazione): arabi cui Lieberman vuole imporre doveri di lealtà anche bellica allo Stato ebraico, in cambio del diritto di cittadinanza.

Chi rispetta i fatti, dovrà dire quel che vuole. Se vuole la sopravvivenza della nazione nata nel ’48, non potrà non definire la propria idea di Stato e agire di conseguenza. Non potrà non vedere che verrà il giorno (sta già venendo) in cui i palestinesi chiederanno che la situazione resti quella che è (una Grande Israele) ma che diventi democratica: facendo corrispondere a ogni uomo un voto, come nella legge della democrazia. Quel giorno gli ebrei saranno una minoranza: lo Stato non sarà più ebraico. Nascondere a se stessi questa realtà non serve a evitarla. Serve a renderla più vicina e minacciosa.
di Barbara Spinelli

15 febbraio 2009

Il mito del lavoro che non c'è



Negli ultimi 10 anni si e’ diffuso un mito, che e’ quello del lavoro che non c’e’ piu’. Questo mito nasce per nascondere il fallimento dell’ideologia riformista, quella che e’ nata per ideare i paesi occidentali come paesi ove non ci sarebbe piu’ stato lavoro (perche’ delocalizzato) e ci saremmo limitati a gestire la complessita’, fornendo servizi avanzati. Begli slogan, che nascondono un fallimento.

Perche’ e’ nato questo paravento? E’ nato questo paravento perche’ un grande paese che stampava soldi a tutto andare (gli USA) ha dovuto chiedersi in che modo evitare un’inflazione mostruosa. E la maniera migliore e’ stata “teniamo i soldi che stampiamo fuori dal paese”.

Sia chiara una cosa: non e’ ne’ convincente ne’ cosi’ scontato che le delocalizzazioni siano economicamente vantaggiose. Tantevvero che oggi moltissime aziende stanno facendo marcia indietro. Ma non perche’, come amiamo illuderci, manchi qualita’ nel prodotto. E’ che per costruire processori dove prima c’era la savana dobbiamo prima portarci la corrente. Poi dobbiamo portarci le strade. Indi l’industria del vuoto spinto. Eccetera eccetera eccetera: un’infrastruttura sofisticata puo’ vivere solo all’interno di un sistema sofisticato.

Se quindi vogliamo prendere la Cina da uno stato comunista-medioevale e portarla ad essere la fabbrica del mondo, non dobbiamo solo finanziare la fabbrica di chip. Dobbiamo anche mettere su una centrale elettrica di potenza adeguata e di continuita’ garantita. E le scuole. E le strade. E tutto quanto.

Si e’ calcolato che il calo di investimenti dagli USA verso la Cina, l’ India sia stato pari, per via del credit crunch, ad un triliardo di dollari/anno per il biennio 2009-2010. Ora, proviamo a rifletterci: anche calcolando un solo triliardo di dollari l’anno, stiamo parlando del 7.1% del PIL americano. Che e’ una cifra enorme. Qual’e’ il guaio?

Se consideriamo che il volume della bilancia commerciale attiva dei cinesi e’ di circa 250 miliardi di dollari annui, rimane da chiedersi che fine abbiano fatto quei giganteschi fiumi di soldi. E la risposta e’, ovviamente, che sono serviti a costruire l’infrastruttura.

In definitiva, quindi, l’affare cina ci ha reso qualcosa come 250 miliardi di dollari di merci l’anno(1), ma ha richiesto investimenti esteri in R&D fino ad un triliardo di dollari annui. Magari per la singola azienda l’affare e’ stato conveniente, ma siamo certi che come sistema ci abbiamo guadagnato?

La risposta e’ , quasi sicuramente, NO. A quanto dicono queste agenzie governative , abbiamo buttato in R&D fino a 1400 miliardi di dollari in un anno, e il disavanzo commerciale, cioe’ le merci che sono uscite -al netto- da questa immensa fabbrica hanno un valore massimo che e’ arrivato ai 360 miliardi.
Investimenti in R&D in Cina (fonte http://www.fdi.gov.cn) Investimenti in R&D in Cina (fonte http://www.fdi.gov.cn)

In un’ottica puramente liberista, questo non poteva succedere: il bene combinato di tutte le singole aziende che ci hanno guadagnato in Cina doveva corrispondere ad un risultato positivo globale. Cosa che non e’ stata: nel 2007, le merci che abbiamo fatto produrre la’ sono state, in totale , un plusvalore di 360 miliardi.(2)

Quindi ci abbiamo rimesso. Se supponiamo che la ricchezza si conservi e non si distrugga, chi ci ha guadagnato? Beh, ci hanno guadagnato quei 500 milioni di cinesi che hanno visto il loro stile di vita crescere. Lavoro migliore, piu’ igiene, tecnologia, eccetera. Bello.

Bello, ma bisogna chiedersi se industrializzare la cina per usarne i prodotti sia stato un affare (e abbiamo detto di no) e se queste perdite abbiano avuto degli effetti. L’occidente (facciamo un miliardo di persone tra Ue ed USA) ha creato 500 milioni di nuovi redditi in Cina. Dobbiamo chiederci: se quel lavoro fosse rimasto qui, e se quegli investimenti in R&D fossero rimasti qui, quanto ci avremmo guadagnato in termini di occupazione?

Questo e’ il problema, e per comprendere le risposte basta rileggere vecchi articoli economici. Negli anni ‘70 e negli anni ‘80 si stimava che la furibonda crescita tecnologica avrebbe prodotto sempre piu’ lavoro, come in effetti e’ stato. Se consideriamo che un tasso di disoccupazione medio nell’eurozona significa qualcosa come 7 milioni di disoccupati in totale, e che negli USA (prima della crisi) stavamo sui 17 milioni, beh, in quei 500 milioni di redditi che abbiamo prodotti in cina ci stavamo larghi.

Del resto, tutti gli economisti del pre-globalizzazione avevano calcolato questo fenomeno, ed erano preoccupati del fatto che fosse possibile supportare una simile crescita tecnologica sul piano del mercato del lavoro. Gli economisti dell’epoca chiaramente fornivano due risposte: automazione di processo ed emigrazione. Ancora si parlava poco di outsourcing, perche’ si pensava (giustamente) che costruire una fabbrica di chip nella giungla richiedesse spese accessorie enormi, per rendere possibile l’infrastruttura necessaria.

Perche’ si e’ commesso uno svarione simile, e specialmente uno svarione cosi’ costoso? Perche’ si sono spesi triliardi per attrezzare una jungla a produrre chip, se poi ci servivano chip per un terzo di quella cifra?

La risposta sta nel gigantesco disavanzo commerciale americano: perche’ spostare enormemente la produzione all’estero era l’unica strategia di breve e medio termine che potesse tenere in piedi il valore del dollaro dopo le continue stampe di moneta post-kennediane.

Cosi’ si e’ inventata l’ideologia della globalizzazione, spacciandola per inevitabile: e’ verissimo che i commerci tra nazioni siano destinati a crescere col progresso. Non e’ detto, pero’ , che la maniera migliore di farlo sia di impedire ai singoli governi di gestire il traffico di frontiera.
Così com’e’ la globalizzazione e’ frutto di una visione ideologica, non perche’ il mercato libero sia “la legge del piu’ forte”(3), ma perche’ si sapeva fin dall’inizio che per trasformare alcuni paesi nelle “fabbriche del mondo” si sarebbe dovuto investire moltissimo, e il rischio di non rivedere gli investimenti sarebbe stato altissimo: se adesso si affermera’ una strategia protezionista o nazionalista per via del debit crunch, siamo proprio certi che rivedremo indietro tutti quei soldi?

Ecco il motivo di un’ideologia. Lo scopo essenziale di ogni ideologia e’ quello di costruire una serie di risposte prefabbricate che servano come tappo per fermare le domande prima che nascano o che diventino pericolose. Cosi’, quando in Europa e USA qualcuno ha cominciato a notare che il lavoro calava, la risposta e’ stata “in futuro ci sara’ sempre meno lavoro (come se scomparisse anziche’ venire spostato) e i nuovi giovani dovranno gestire la complessita’”. La stessa ideologia rispondeva che ovviamente ci avremmo guadagnato perche’ il mercato INTERNO cinese poi avrebbe comprato le nostre merci.

Ebbene, non solo la Cina non ha comprato le nostre merci (altrimenti non avrebbe un simile disavanzo commerciale) ma non abbiamo piu’ queste complessita’ da gestire: le complessita’ da gestire oggi si trovano in cina, perche’ “complessita’” indicava la complessita’ della produzione, e questa e’ scomparsa.

Certo, rimaneva da gestire la complessita’ di questa scellerata operazione, cosa nella quale si sono specializzati paesi come l’ Inghilterra: ma al di fuori di questo, la generazione di europei nata per “gestire la complessita’” si trova in un’europa ove il70% dei lavori disponibili NON implica complessita’. Perche’ la PMI non e’ complessa. Perche’ non lo e’ l’azienda che ha delocalizzato. Perche’ la complessita’ e’ figlia del lavoro, ed il lavoro se n’e’ andato.

Che cosa rispondono gli ideologi a queste cifre? Come mi sanno giustificare frasi quali “e’ conveniente che la Cina cresca perche’ il mercato interno cinese e’ una grande opportunita’”, di fronte ad un disavanzo commerciale verso l’estero di 360 miliardi di dollari? Dove sono queste opportunita’, se per vendere 10 dobbiamo comprare 13,6?

E specialmente, se per arrivare a vendere 10 dobbiamo prima investire 14?

La realta’ che emerge dai numeri di queste economie e’ che per quanto riguarda la globalizzazione si sono raccontate tante balle. Il disavanzo commerciale dei paesi in via di sviluppo significa, senza ombra di dubbio, che non e’ affatto vero che si tratti di grandi opportunita’ per le nostre imprese.

A questo punto il liberista dice “si’, ma spesso quelle imprese sono occidentali”. Il che, secondo lui, chiude la questione. Il che non e’ vero, perche’ in ultima analisi gli investimenti in R&D sono 3 volte il disavanzo commerciale, il che significa che se anche il 100% delle imprese cinesi che esportano fosse occidentale, siamo ancora a debito, eccome.

E quindi i conti non tornano, punto e basta. La crescita dei paesi emergenti, finanziata dall’occidente, non e’ stata un buon affare. E’ vero che LA’ si sono creati milioni di posti di lavoro. Ma e’ vero che per fare questo si sono distolti dei flussi enormi di capitale, che non sono rientrati e che probabilmente non rientreranno MAI, e che per via di questo crollo di investimenti in loco le condizioni dei lavoratori occidentali sono letteralmente crollate, con la sola eccezione di quelli che gestiscono la complessita’ ed i servizi DI QUESTA SCELLERATA OPERAZIONE.

Sarebbe ora di andare da questi signori che ripetono che la Cina sia una grande opportunita’, e chiedere loro conto delle cifre in ballo. Chiedere loro come sia possibile affermare che le nostre industrie ci guadagnino per via del mercato interno cinese se la cina ESPORTA piu’ di quanto importi. Chiedere loro quale conto economico sia in attivo se , anche ammettendo che la Cina sia la grande fabbrica del mondo, gli investimenti in R&D superano di tre volte le merci che escono da questa fabbrica.

Chiedere conto delle cifre, laddove le ideologie ci danno solo slogan.

Perche’ quando si e’ inventata la palla del lavoro che “calava inevitabilmente” in occidente, per tener buoni quelli che si lamentavano, si stava solo mettendo una pezza al fatto che si stava usando la Cina non come fabbrica, ma come pozzo di smaltimento per dollari in eccesso. Solo che cosi’ facendo si e’ preparato un disastro. E specialmente, lo si e’ giustificato dicendo “non possiamo continuare a crescere cosi’”, arrivando a dire che se il lavoro calava era perche’ il mondo “non puo’ crescere sempre esponenzialmente”, quando in Cina venivano creati 500 milioni di posti di lavoro.

Cosi’ tutte queste ideologie del fumo fritto sono state create per mettere una toppa, per sviare dall’evidenza: forse il mondo non puo’ crescere sempre, nessuno lo mette in dubbio, ma ADESSO sta crescendo, solo che noi siamo tagliati fuori. Ed e’ questo che l’ideologia del “non possiamo crescere sempre” vuole nascondere: allora chiediamo: e perche’ loro si’? Perche’ loro ADESSO crescono?

Tante ideologie, specialmente quelle che confondono le conseguenze del problema con la soluzione del problema (decrescita, risparmio, eccetera(4) ), sono nate a scopo consolatorio, mediante un meccanismo intellettuale che produce il grande sbaglio (”adattarsi alle conseguenze nefaste del problema e’ una soluzione al problema e non una conseguenza“) , iniziano a spacciarla come soluzione. Dire che se manca energia bisogna consumarne meno e’ come dire alle donne: beh, in caso di stupro prendilo dentro. Il che e’ ovvio, visto che non hai scelta. Se manca energia ne consumi di meno per forza.

Cosi’, se manca crescita, ci dicono, e’ meglio convertirsi alla decrescita. Il che e’ ovvio: non ho bisogno di un genio per capire che senza crescita siamo in decrescita. Ma non e’ neanche una scelta: la decrescita e’ semplicemente una conseguenza del problema della difficolta’ a crescere: non puo’ essere una soluzione perche’ e’ una semplice conseguenza del problema. Crescere meno= decrescere. Se uno dice “siamo in crisi” non puoi rispondere “allora decresciamo”: lo stai gia’ facendo, era gia’ implicito nel problema.

Cosi’ come si e’ risposto ai milioni di lavoratori che hanno perso il posto perche’ si e’ deciso di fare questo investimento folle sulla Cina: “non potevamo continuare col consumismo”. Strano, perche’ consumiamo ancora di piu’, visto che i cinesi producono per loro ED esportano anche. Stiamo continuando eccome!

Dunque?

Dunque e’ tutta una leggenda. Magari non si puo’ crescere per sempre (dipende da COME si cresce, imho) ma adesso si sta crescendo, e nessuno di questi genialoni della decrescita ci spiega come mai questo destino “inevitabile” stia toccando noi e non altri. Eccetera.

Ecco, la storia che mancano posti di lavoro perche’ “non si puo’ crescere sempre” era una palla. Qualcuno e’ cresciuto e ci ha fatto 500 milioni di nuovi posti di lavoro. Con capitali costruiti qui. E nessuno sa ancora fornire un bilancio positivo.

Il lavoro c’era. Lo abbiamo spostato. E sarebbe ora di chiederne conto. Senza farsi seghe sul destino cinico e baro della decrescita mondiale inevitabile (che tocca solo noi).

Uriel