28 febbraio 2011

Un film già visto! La Libia come l'Iran...


http://blog.panorama.it/foto/files/2011/02/gheddafi-22-large.jpg


A scorrere oggi le immagini delle televisioni, a leggere i giornali compresi quelli di "sinistra" si rivede lo stesso film dei dittatori cattivissimi che opprimono i loro popoli e si dedicano a sadici spargimenti di sangue. Questo film l'abbiamo visto prima e durante la prima guerra dell'Irak (Desert Storm), della guerra per il Kossovo e per la disintegrazione della Jugoslavia, della seconda guerra contro l'Irak alla ricerca di armi di distruzione di massa che non si trovarono mai, della guerra contro l'Afghanistan alla ricerca di Bin Laden e dei terroristi che avrebbero fatto crollare le Torri gemelle, delle manifestazioni in Iran contro Ahmadinjed. C'è una novità importante: alla batteria massmediatica occidentale si sono unite le due emittenti televisive arabe AlJazeera e Al Arabia che hanno assunto il monopolio della informazione di quanto avviene da quelle parti tutto rigorosamente nello interesse dei plurimiliardari feudatari dell'Arabia Saudita e della nuova borghesia "liberista" che in tutto il Nord Africa e nella penisola arabica vorrebbe fare affari con gli occidentali, arricchirsi e che è sempre più insofferente per le quote di reddito che in Iran ed in Libia sono assorbite dal welfare, dai salari e dagli investimenti sociali.
Altre informazioni non possiamo averne. Abbiamo già visto nel 2003 le cannonate del carro armato americano contro le finestre del decimo piano dell'Hotel Palestine Ginevra abitato da giornalisti. Abbiamo visto il terrore sul viso di Giuliana Sgrena ferita e salvata dalla morte dall'eroico Calipari. Ad oggi 400 giornalisti sono stati uccisi nelle zone di guerra. I pochi che riescono a seguire il fronte o lavorano nelle zone occupate debbono essere autorizzati dai Comandi Militari USA ed i loro servizi vengono rigorosamente censurati.-
Tutto quello che abbiamo saputo o che sappiamo delle zone "calde" del pianeta dove gli americani portano la loro "pace" assieme a pacchetti di "diritti umani" viene filtrato dai servizi di informazione. I servizi ammettono soltanto giornalismo "embedded", militante anzi....militarizzato.
Oggi la Stampa di Torino portava a grandissimi titoli questa dichiarazione di Gheddafi: "Chi non è con me deve morire!" frase smentita ieri sera da un giornalista di rai new24 attribuendola ad un errore di traduzione. In effetti Gheddafi ha detto: " Se il popolo non mi vuole, merito di morire!. Nonostante la correzione la frase manomessa è stata riportata da tutta la stampa italiana e credo mondiale e l'intervento di correzione è stato ignorato. Montagna di menzogne si sommano a montagne di menzogne. Alcune di queste sono anche grossolane e ridicole come quella delle fosse comuni che non erano altro che immagini vecchie di un anno del cimitero di Tripoli. Ma la scienza della disinformazione non bada a queste quisquilie. Anche se la notizie è falsa in modo strepitoso viene messa in circolo lo stesso sulla base di un principio di sedimentazione di un linguaggio, di una cultura dell'avvenimento che qui sarebbe troppo lungo discutere. Insomma anche se falsa si incide nella memoria del pubblico.
La rivolta popolare o meglio il golpe contro il despota Gheddavi, è mossa dalle stesse forze che si agitano contro Ahmadinjed e ne reclamano la morte; è la borghesia che vorrebbe fare affari con l'Occidente, arricchirsi e che non sopporta il monopolio statale
sul petrolio e sul metano e vorrebbe che i proventi non fossero tutti investiti in sanità, pensioni, opere pubbliche, salari, scuola...La Libia ha dato sicurezza e benessere a tutti i suoi abitanti e per quaranta anni ha assorbito per quasi la metà della sua popolazione immigrati dai paesi poveri dell'africa. Anche centinaia di migliaia di egiziani lavorano in Libia. E' stato ricordato che il reddito procapite è il più alto dell'Africa, la vita media è di 77 anni pari a tre volte quella africana ed il livello di scolarizzazione assai alto.
Alla insofferenza della borghesia che vorrebbe arricchirsi subito bisogna sommare un dato
regionale e tribale. La Libia è l'unione di tre regioni. La Cirenaica, la Tripolitania ed il Fezzan. La Cirenaica è luogo in cui era radicata la monarchia e non ha mai accettato del tutto di essere governata da Tripoli. Sul risentimento dei cirenaici e sulle pretese della borghesia si è costruito il blocco di forze, sostenuto dagli USA, che forse sta per abbattere Gheddafi.
Purtroppo il regime non ha tenuto conto che 42 anni sono tanti, tantissimi e che il potere si corrompe ed invecchia. Lo stesso Gheddafi è molto invecchiato. Fa impressione vedere che il secondo uomo della Libia è uno dei figli di Gheddafi e che non si vede non emerge un gruppo dirigente che pure c'è stato se ha fatto moderna e forte la Nazione. Oggi il regime non ha una classe dirigente in grado di proporsi e di cimentarsi con il futuro. Questo pesa, pesa l'idea di Gheddafi di sentirsi eterno ed insostituibile se non con qualcuno del suo stesso sangue. Ma i suoi oppositori sono una pure e semplice riedizione del colonialismo e dei suoi ascari che Gheddafi scacciò con la rivoluzione indolore di quaranta anni fa. La libia peggiorerebbe se passasse dalla gestione arcaica del potere di Gheddafi a quella del principe ereditario di re idris e dei petrolieri e generali USA che gli stanno dietro.
Può darsi che diventi un protettorato USA come l'Irak.

di Pietro Ancona

27 febbraio 2011

Il Re dei cachi come Re sciaboletta


Gli italiani, proprio come gli imbecilli, non si smentiscono mai: a loro modo, quindi, sono coerenti. Meno di due anni fa, abbiamo firmato con mano ferma dell’attuale capo di Governo, Silvio Berlusconi, un trattato di amicizia con la Libia. Tale era la forza di questo vincolante accordo che è stato consentito a Gheddafi di venire a far visita per due volte a Roma, accettando i suoi sputi in faccia all’Italia e agli italiani. Peggio: riservandogli gli onori che il nostro premier ha inteso suggellare con un fervido baciamano.

Sono passati pochi mesi e l’inossidabile patto d’acciaio Roma-Tripoli va in frantumi. Leggiamo le dichiarazioni di Silvio Berlusconi pronunciate oggi: «Se tutti siamo d’accordo possiamo mettere fine al bagno di sangue e sostenere il popolo libico. Gli sviluppi della situazione del Nord Africa sono molto incerti perché quei popoli potrebbero avvicinarsi alla democrazia ma potremmo anche trovarci di fronte a centri pericolosi di integralismo islamico. C’è il rischio di un’emergenza umanitaria con decine di migliaia di persone da soccorrere». Se tutti siamo d’accordo? Tutti, chi? Ha forse chiesto l’accordo di “tutti” quando ha firmato il patto d’acciaio con l’amico Gheddafi?

E l’accordo di amicizia fra Italia e Libia? Lui, Re Silvio, non ne fa parola, ma ci pensa l’autorevolissimo Ministro della difesa Ignazio La Russa a liquidarlo: «Di fatto il trattato Italia-Libia non c’è già più, è inoperante, è sospeso. Per esempio gli uomini della Guardia di Finanza, che erano sulle motovedette per fare da controllo a quello che facevano i libici, sono nella nostra ambasciata. Consideriamo probabile che siano moltissimi gli extracomunitari che possano via Libia arrivare in Italia, molto più di quanto avveniva prima del trattato».

Ora, noi non siamo e non siamo mai stati forsennati sostenitori del governo libico del Colonnello Gheddafi. Anche se, a dirvela tutta, quel regime non ci sembrava tra i più infami apparsi sotto la volta celeste della storia. Certo, non ci strapperemo i capelli per la sua deposizione. Ma come giustificare l’inopinato voltafaccia che il nostro Governo, per voce e decisione dei suoi massimi esponenti, sta compiendo?

Non vi sembra qualcosa di già visto nelle pagine più nere della nostra storia? Quelle, per esempio che, di fronte «alla forze soverchianti del nemico», spingevano un re ed imperatore a liquidare l’alleato tedesco, siglare un accordo di pace con gli ex nemici e ad invertire la direzione del fronte nel corso della Seconda guerra mondiale?

Il Re dei Cachi si comporta come il Re Sciaboletta, insomma… Del resto la statura, anche quella fisica, è più o meno la stessa. L’Italia non cambia. La sua vocazione al tradimento resta intatta: fedele nei secoli.


di Miro Renzaglia

26 febbraio 2011

Egitto: i movimenti sociali, la CIA e il Mossad

I limiti dei movimenti sociali.
I movimenti sociali di massa che hanno obbligato Mubarak a ritirarsi rivelano nello stesso tempo la forza e la debolezza dei sollevamenti spontanei.
Da una parte, i movimenti sociali hanno dimostrato la propria capacità di mobilitare centinaia di migliaia di persone, forse milioni, per una lotta vincente che è culminata con la caduta del dittatore che i partiti di opposizione e le personalità preesistenti non hanno voluto o potuto far cadere.
D'altra parte, a causa della leadership politica nazionale, i movimenti non sono stati capaci di prendere il potere politico e trasformare in realtà le loro richieste. Ciò ha permesso alle alte cariche militari di Mubarak di prendere il potere e definire il post mubarakismo, garantendo la continuità e la subordinazione dell'Egitto agli Stati Uniti, la protezione della ricchezza illecita del clan Mubarak (70 miliardi di dollari), il mantenimento delle numerose imprese di propretà dell'élite militare e la protezione dei ceti alti.

I milioni di persone mobilitate dai movimenti sociali per far cadere la dittatura sono state praticamente escluse dalla giunta militare, autoproclamatasi “rivoluzionaria”, al momento di definire le istituzioni e la politica, per non parlare delle riforme socioeconomiche necessarie ai bisogni basilari della popolazione (il 40% della popolazione vive con meno di due dollari al giorno e la disoccupazione giovanile supera il 30%). L'Egitto, come nel caso dei movimenti sociali e studenteschi popolari contro le dittature di Corea del Sud, Taiwan, Filippine e Indonesia, dimostra che la mancanza di un'organizzazione politica in ambito statale permette a personaggi neoliberali e conservatori “d'opposizione” di rimpiazzare il regime. Tali personaggi, stabiliscono un regime elettorale che continua a servire gli interessi imperialisti e difende l'apparato statale esistente. In alcuni casi, vengono sostituiti i vecchi complici capitalisti per altri di nuovo conio. Non è casuale che i media lodino la natura “spontanea” della lotta (e non la domanda socioeconomica) e presentino sotto una luce favorevole il ruolo dei militari (senza tenere conto dei 30 anni nei quali sono stati il baluardo della dittatura). La massa è lodata per il suo “eroismo” e i giovani per il loro “idealismo”, ma in nessun caso li si riconosce come attori politici centrali nel nuovo regime. Una volta caduta la dittatura, i militari e l'opposizione elettorale “hanno celebrato” il successo della rivoluzione e si sono mossi rapidamente per smobilitare e smantellare il movimento spontaneo, al fine di dare spazio alle negoziazioni fra politici liberali, Washington e l'élite militare al potere.

Mentre la Casa Bianca può tollerare o persino fomentare movimenti sociali che conducano alla caduta (“sacrificio”) delle dittature, essa ha tutto l'interesse a preservare lo Stato. Nel caso dell'Egitto, il principale alleato strategico dell'imperialismo degli Stati Uniti non è Mubarak, è l'esercito, con il quale Washington è stata in costante collaborazione prima, durante e dopo la caduta di Mubarak, assicurandosi che la “transizione” alla democrazia (sic) garantisca la permanente subordinazione dell'Egitto agli interessi e alla politica per il Medio Oriente degli Stati Uniti e di Israele.


La ribellione del popolo; le sconfitte della CIA e del Mossad

La rivolta araba dimostra, ancora una volta, le varie falle strategiche in istituzioni come i servizi segreti, le forze speciali e le intelligence degli Stati Uniti, così come nell'apparato israeliano, nessuno dei quali è stato capace di prevedere, non diciamo di intervenire, per evitare la vincente mobilitazione e influire nella politica dei governi e governanti che erano in pericolo.
L'immagine che proiettavano la maggior parte di scrittori, accademici e giornalisti dell'imbattibilità del Mossad israeliano e dell'onnipotente CIA è stata sottoposta a dura prova, con il suo fallimento nel riconoscere la portata, la profondità e l'intensità del movimento di milioni di persone che ha sconfitto la dittatura di Mubarak. Il Mossad, orgoglio e allegria dei produttori di Hollywood, presentato come un “modello di efficienza” dai suoi ben organizzati compagni sionisti, non è stato capace di intercettare il crescere di un movimento di massa in un paese vicino. Il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, si è mostrato sorpreso (e costernato) per la precaria situazione di Mubarak e il collasso dei suoi clienti arabi più vicini, proprio a causa di errori dell'intelligence del Mossad. Ugualmente, Washington, con i suoi 27 organismi di intelligence oltre al Pentagono, è stata colta di sopresa dalle massicce rivolte popolari e dai movimenti emergenti, malgrado le sue centinaia di migliaia di agenti pagati migliaia di milioni di dollari.

Varie osservazioni teoriche si impongono. S'è dimostrato che l'idea di alcuni governanti forzatamente repressivi, che ricevono migliaia di milioni di dollari di aiuti militari dagli Stati Uniti e possono contare con all'incirca un milione di poliziotti, militari e paramilitari per garantire l'egemonia imperiale, non è infallibile. La supposizione che mantenere vincoli a larga scala e per lungo tempo con tali governanti dittatoriali salvaguardi gli interessi USA è stata smentita.
L'arroganza di Israele e la sua presunzione di superiorità in materia di organizzazione strategia e politica rispetto agli “arabi”, è stata seriamente danneggiata. Lo Stato d'Israele, i suoi esperti, gli agenti segreti e gli accademici delle migliori università statunitensi, rimangono ciechi di fronte alle realtà emergenti, ignoranti circa la profondità dello scontento e impotenti ad evitare l'opposizione di massa ai propri clienti più importanti. I propagandisti di Israele negli Stati Uniti, che non resistono a qualsivoglia opportunità per mettere in luce la “brillantezza” delle forze di sicurezza d'Israele, sia che si tratti di assassinare un leader arabo in Libano o a Dubai o che si tratti di bombardare un'istallazione militare in Siria, sono rimasti temporaneamente senza parole.

La caduta di Mubarak e il possibile insediamento di un governo indipendente e democratico significherebbe che Israele potrebbe perdere il suo principale alleato poliziesco. Un'opinione pubblica democratica non coopererebbe con Israele per il mantenimento dell'embargo a Gaza, né condannerebbe i palestinesi a morire di fame per piegare la loro volontà di resistere. Israele non potrà contare su un governo democratico per spalleggiare le violente occupazioni di terre in Cisgiordania e il suo regime fantoccio palestinese. Se ci sarà un'Egitto democratico, gli Stati Uniti non potranno più contarci per spalleggiare i loro intrighi in Libano, le loro guerre in Irak e Afganistan o le sanzioni contro l'Iran. D'altra parte, il sollevamento dell'Egitto è servito d'esempio ad altri movimenti popolari contrari ad altre dittature clienti degli Usa. In Giordania, Yemen e Arabia Saudita. Per tutte queste ragioni, Washington ha appoggiato il golpe militare con il fine di dare forma ad una transizione politica in accordo con i propri gusti e interessi imperiali.

L'indebolimento del principale pilastro del potere imperiale degli USA e del potere coloniale di Israele in Nord Africa e in Medio Oriente pongono in evidenza il ruolo essenziale dei regimi collaboratori dell'Impero. Il carattere dittatoriale di questi regimi è il risultato diretto del ruolo che svolgono in difesa degli interessi imperiali. E i grandi pacchetti di aiuti militari che corrompono e arricchiscono le élite dominanti sono la ricompensa per la sua buona disposizione a collaborare con gli Stati imperialisti e coloniali. Data l'importanza strategica della dittatura egiziana, come spiegare il fallimento delle agenzie di intelligence degli USA e Israele nell'anticipare le rivolte?

Tanto la CIA quanto il Mossad, hanno collaborato strettamente con i servizi segreti dell'Egitto e da essi hanno tratto le loro informazioni, secondo le quali tutto sembrava sotto controllo. I partiti dell'opposizione sono deboli, decimati dalle infiltrazioni e dalla repressione, i suoi militanti languiscono nelle prigioni e soffrono di fatali “attacchi al cuore” a causa di severe “tecniche di interrogatorio”, affermavano. Le elezioni sono state manipolate per eleggere i clienti degli USA e Israele, in modo che non ci fossero sorprese democratiche nell'orizzonte immediato o a medio termine.
I servizi segreti egiziani sono istruiti e finanziati da agenti israeliani e statunitensi, ed hanno una naturale tendenza a compiacere la volontà dei loro padroni. Erano tanto obbedienti a produrre informazioni che compiacessero i loro mentori, che ignoravano qualsivoglia informazione di un crescente malessere popolare o la agitazione in Internet. La CIA e il Mossad erano tanto incrostati nel vasto apparato di sicurezza di Mubarak che sono stati incapaci di ottenere qualsiasi informazione sui movimenti indipendenti dell'opposizione elettorale tradizionale che controllavano.

Quando i movimenti di massa extraparlamentari sono scoppiati, il Mossad e la CIA hanno continuato a confidare nell'apparato statale di Mubarak per mantenere il controllo attraverso la tipica operazione della carota e il bastone: fare concessioni simboliche transitorie e riversare nelle strade l'esercito, la polizia e gli squadroni della morte. Mano a mano che il movimento cresceva da dozzine di migliaia a centinaia di migliaia a milioni di persone, il Mossad e i principali congressisti statunitensi sostenitori di Israele chiedevano a Mubarak di “sopportare”. La CIA si è limitata a presentare alla Casa Bianca il profilo politico di funzionari militari affidabili e di personaggi politici flessibili, “di transizione”, disposti a seguire i passi di Mubarak. Una volta ancora, la CIA e il Mossad hanno dimostrato la loro dipendenza dall'apparato statale egiziano per ottenere informazioni su ciò che poteva rappresentare un'alternativa possibile pro statunitense e israeliana, omettendo le più elementari esigenze del popolo. Il tentativo di cooptare la vecchia guardia elettoralista dei Fratelli Musulmani attraverso negoziazioni con il vicepresidente generale Omar Suleiman è fallita, in parte perché i Fratelli Musulmani non avevano il controllo del movimento e in parte perché Israele e i loro seguitori statunitensi si sono opposti. D'altra parte, l'ala giovanile dei Fratelli ha fatto pressioni affinché l'organizzazione si ritirasse dalle trattative.

Le lacune in materia di intelligence hanno complicato gli sforzi di Washington e Tel Aviv per sacrificare il regime dittatoriale e salvare lo Stato: né la CIA né il Mossad avevano vincoli con nessuno dei leader emergenti. Gli israeliani non sono riusciti a trovare nessun “volto nuovo” che avesse consenso popolare e fosse disposto a svolgere il poco decoroso ruolo di collaboratore dell'oppressione coloniale. La CIA era totalmente coinvolta nell'uso dei servizi segreti egiziani per torturare sospettati di terrorismo (…) e nella vigilanza dei paesi arabi vicini. Come risultato, sia Washington che Israele hanno cercato e promosso il golpe militare al fine di anticipare una maggiore radicalizzazione della situazione.

In ultima analisi, l'insuccesso della CIA e del Mossad di prevedere e prevenire il sorgere del movimento democratico popolare, mette in rilievo la precarietà della base del potere imperiale e coloniale. Alla lunga, non sono le armi, le migliaia di milioni di dollari, i servizi segreti, né le camere della tortura ciò che decide la storia. Le rivoluzioni democratiche avvengono quando la maggior parte di un popolo si solleva e dice “basta”, occupa le strade, paralizza l'economia, smantella lo Stato autoritario ed esige libertà e istituzioni democratiche senza tutela imperiale o sottomissione coloniale.

di James Petras


Traduzione di Marina Minicuci

25 febbraio 2011

Stregati da Berlusconi

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Può darsi che la stagione di Berlusconi sia al tramonto, e che lo sia inesorabilmente. Immagino che, mese più mese meno, si tornerà a votare ad aprile dell’anno prossimo. In quel momento la cosiddetta curva di Schmitt, che descrive il ciclo del consenso al governo entro la legislatura, non sarà più al suo minimo com’è oggi: in genere il terz’anno è l’anno peggiore per il governo in carica, e il migliore per l’opposizione, mentre nell’ultima parte della legislatura la popolarità del governo tende a risalire, e l’opposizione perde colpi (per questo Berlusconi sta cercando di non farci votare subito). E può benissimo essere che, a quel punto (nel 2012), la risalita della curva del consenso non basti a riportare Berlusconi al governo. In tal caso, a meno di un cambio di leadership nel centro-destra (Tremonti?), dovremmo prepararci a una vittoria elettorale del centro-sinistra.

Ma è realistico questo scenario?
Difficile dirlo, ma esiste anche uno scenario alternativo: il governo prova a fare qualcosina, ovvero modeste dosi di arrosto in mezzo a cospicui segnali di fumo; l’opinione pubblica si stufa di sentir parlare sempre e solo delle ragazze del premier; i processi vanno avanti a singhiozzo, senza lasciar emergere alcuna verità definitiva. Dopodiché si va a votare, il centro-destra ripropone Berlusconi, le opposizioni sono confuse e divise, e non riescono a trovare un leader accettato da tutti. Le urne, per un soffio, consegnano la Camera al centro-destra e il Senato alle opposizioni. Il polo di centro, o terzo polo, si divide, con una parte che sta con la sinistra e un’altra che appoggia il centro-destra. Si forma un nuovo governo di centro-destra, si ricomincia a parlare di giustizia, intercettazioni e Costituzione. L’opposizione di sinistra si indigna, il governo governicchia, e la commedia si ripete. Stesso film, stessi attori, solo un po’ più vecchi e prevedibili di prima.

Perché parlo dello scenario alternativo?
Perché, a mio parere, il ceto politico che guida le cinque opposizioni (Pd, Sel, Udc, Idv, Fli) lo sta preparando accuratamente. Può darsi che non ci riescano a riportare Berlusconi al governo, ma certo stanno facendo il massimo per ottenere il risultato. Non mi riferisco qui al fatto che mantenere in vita cinque (!) opposizioni distinte è già una follia. O al fatto che non darsi un capo è autolesionismo puro. Ciò che mi colpisce è quella che Mario Calabresi, qualche giorno fa su questo giornale, ha descritto come l’incapacità di «archiviare» Berlusconi. Una capacità che Barack Obama seppe mostrare nei confronti di Bush prima ancora di diventare presidente, e di cui i nostri leader - specialmente quelli di sinistra - appaiono del tutto sprovvisti.

I leader della sinistra, e segnatamente quelli del Pd, il maggior partito di opposizione, non solo appaiono ossessionati da Berlusconi, per cui raramente riescono a parlar di qualcosa senza tirarlo in ballo, ma appaiono afflitti da una vera e propria malattia politica, contratta fin da piccoli, ossia da quando militavano (la maggior parte di essi) nel partito comunista. Questa malattia si chiama «primato della cornice», e consiste in questo: di fronte a un provvedimento, a un’ipotesi, a una legge, non si è capaci di giudicarla in sé, valutandone (laicamente!) i pro e i contro, ma la si giudica in base alla cornice in cui si colloca, cioè - essenzialmente - in base a chi è al governo in quel momento. Succedeva negli Anni 60 e 70 per cose come la costruzione di autostrade, lo Statuto dei lavoratori, la tv a colori. Succedeva in anni più recenti per la guerra in Iraq e il ponte sullo stretto. E risuccede oggi tutti i giorni, su problemi che meriterebbero di essere discussi e affrontati con tutt’altra libertà mentale.

E’ così che può accadere che Pd e Italia dei valori, pur favorevoli al federalismo, decidano di bloccarlo perché è un’occasione per indebolire Berlusconi. Pronti a discutere di tutto, purché venga rimosso Berlusconi. E indisponibili a tutto finché rimane al suo posto. Perché quel che conta non è se una legge è buona o cattiva, ma a quale parte politica giova in quel momento.

Lo stesso era accaduto qualche mese fa per la riforma universitaria, sistematicamente usata per dimostrazioni di forza, senza alcun riguardo per i contenuti, fino al paradosso del voto contrario sull’articolo 18 del disegno di legge: un articolo voluto dal senatore del Pd Ignazio Marino, votato dal Pd stesso al Senato, ma bocciato dal medesimo Pd alla Camera, al solo scopo di mettere in difficoltà il governo. Un episodio che lo stesso senatore Marino, in un intervista, ebbe a commentare così: «Ciò che è accaduto (il voto contrario del Pd) lascia una macchia perché dimostra che in Parlamento si prescinde spesso dai contenuti di ciò che si vota. Sarebbe meglio che in Parlamento si votasse più spesso ciò che si ritiene giusto e non ciò che si pensa sia conveniente».

Lo stesso accade per i rapporti fra giustizia e politica: se qualcuno osa porre il problema dell’immunità parlamentare, di nuovo il «primato della cornice» scatta implacabile, come un riflesso pavloviano. Prima di qualsiasi valutazione di merito, conta il fatto che «sarebbe l’ultima risorsa cui il premier vorrebbe far ricorso per sottrarsi ai suoi giudici» (così Anna Finocchiaro nell’intervista rilasciata martedì a «La Stampa»). Certo, si ammette, se ne può anche parlare, ma non ora. Di certi temi «si potrebbe discutere» ma solo «in una situazione normale», e «s’intende, dopo aver parlato di molto altro».

Eccoli lì, i riflessi condizionati. Se una legge può giovare al nostro avversario (federalismo), noi diventiamo contrari a prescindere: è il primato della cornice. Se un tema ci imbarazza (immunità parlamentare), allora «sono ben altre le priorità»: è l’arma del benaltrismo. Ma così si conferma soltanto quanto la sinistra e il suo gruppo dirigente siano lontani dal modello Obama, che di fronte alla richiesta dei suoi stessi simpatizzanti di punire Bush per le sue malefatte, rispondeva: io non voglio punire Bush, io voglio archiviarlo.

Stregati da Berlusconi, incapaci di non rinnovare quotidianamente, e più di una volta al giorno, il rito dell’indignazione, incapaci di pensare i problemi dell’Italia senza l’ossessivo riferimento al destino del premier, i dirigenti della sinistra non si avvedono che così noi cittadini possiamo, al più, convincerci della loro dirittura morale, ma non riusciamo a persuaderci della cosa più importante sul piano politico: e cioè che un vasto schieramento di forze, guidato da un leader riconosciuto, ha una propria idea del futuro dell’Italia, un’idea chiara, un’idea positiva, e come tale un’idea che prescinde da Berlusconi, da Ruby e da tutte le altre. Un’idea che non guarda all’Egitto, o alla Libia, dove è la furia popolare, con il suo corredo di violenza e di sangue, a far cadere i dittatori. Ma guarda all’America, dove i cattivi governanti vengono rimossi e sostituiti in libere elezioni. E dove Obama non sognava di punire Bush, ma soltanto di voltare pagina: di iniziare una nuova era, di costruire un’altra America.

di Luca Ricolfi

24 febbraio 2011

Nel precipizio



Le notizie che arrivano sono di vera e propria guerra contro civili in rivolta, quindi di massacro. Quel che Gheddafi aveva sempre promesso, che mai avrebbe rivoltato le armi contro il suo popolo, anche questa è una promessa non mantenuta. È tempo che se ne vada, è tempo che si intravveda oltre il bagno di sangue una soluzione di mediazione che, come in Egitto e Tunisia, non può non cominciare che con l'uscita di scena di Muammar Gheddafi al potere assoluto da quarantuno anni.

È tempo che l'Occidente scopra nel nuovo processo di democratizzazione avviato con le rivolte di massa in Medio Oriente non il pericolo dell'integralismo islamico, ma una risorsa per pensare diversamente quel mondo e insieme le nostre società blindate. Ora che finalmente anche le Nazioni unite alzano la voce, chi ha amato quel popolo e quel paese non può tacere.

Come fa il governo italiano che si nasconde dietro le dichiarazioni, dell'ultimo momento, di un'Unione europea più preoccupata dei suoi affari che delle società e di quei popoli. Dunque, dobbiamo dire la verità per fermare il sangue che scorre a Tripoli, a Bengasi e in tutto la Libia. Innanzitutto dobbiamo fare quello che non abbiamo fatto con il Trattato Italia-Libia del 2008.

Lo sapevamo benissimo che Gheddafi era un dittatore, che in Libia non c'è rispetto per i diritti umani. E quindi quando abbiamo firmato come Italia quel trattato, abbiamo voluto ratificare solo un accordo di carattere economico, commerciale, capace di fermare la disperazione dell'immigrazione africana in nuovi campi di concentramento. Ma non politico. Abbiamo fatto un errore gravissimo. Un errore che ci stiamo trascinando ancora oggi perché i nostri responsabili al governo non hanno il coraggio di affrontare la situazione e dire adesso basta a chiedere a chiare lettere: «Hai guidato per 41 anni questo paese, hai fatto del tuo meglio, adesso lascia il posto ad altri». Questa dovrebbe essere la richiesta precisa. Ma i fatti che si affollano mentre scriviamo, ci dicono che il precipizio purtroppo c'è già. Perché in un certo senso Gheddafi sta pagando due errori fondamentali della sua politica. Ha dimenticato che una parte decisiva della Libia, la Cirenaica, è ancora pervasa del mito della Senussia e di Omar el Mukhtar - quello impiccato dagli italiani. E i dimostranti inneggiano a el Mukhtar. Fatto ancora più grave, Gheddafi ha invece sempre minimizzato l'importanza delle tribù del Gebel, della «montagna», che sono a 50 km da Tripoli. Gli Orfella, gli Zintan, i Roseban, queste grandi tribù della montagna che sono le stesse che hanno messo nei pasticci gli italiani nel 1911.

Gheddafi ha sempre minimizzato l'importanza di queste componenti numerose - gli Orfella sono 90mila persone - nella lotta di liberazione e nella ricostruzione della nuova Libia. Così è covato per decenni un sordo risentimento che ora li vede associati, se non alla guida dei rivoltosi con i quali, in queste ore, stanno marciando verso Tripoli. Insomma è l'intera storia della Libia che si «riavvolge» e contraddice il regime del Colonnello. Se solo pensiamo a pochi mesi fa, quando Berlusconi e Gheddafi presenziavano in una caserna romana dei carabinieri ad un caravanserraglio, con giostre di cavalieri. Viene la domanda oggettiva: ma come ha fatto a non accorgersi che tutto il mondo che aveva costruito era in crisi drammatica? Lui che aspirava a presentarsi come il leader dell'intero continente africano, non aveva nemmeno la sensazione dei limiti del suo governo e della tragedia che si consumava nella sua patria. Eppure Gheddafi non è stato solo un fantoccio, come Ben Ali e Hosni Mubarak.

Quando fu protagonista del colpo di stato nel '69 aveva davanti a sé un paese pieno di piccole organizzazioni, clanico, e lui ha contribuito a farne una nazione. In un anno ha cacciato le basi militari americane e inglesi, ha espulso i 20mila italiani che costituivano ancora un retaggio del colonialismo. Insomma ha cercato di fare della Libia una nazione. E per molti anni la Libia è stata considerata una nazione. Era solo una presunzione, ora lo sappiamo. Era una presunzione ridurre ad un solo uomo quel progetto che doveva appartenere davvero a tutto il popolo - non solo ai «comitati del popolo» voluti dal regime. Qui ha fallito.

Quando si è autorappresentato come l'unico responsabile dell'abbattimento del colonialismo e del fronteggiamento dell'imperialismo. Riducendo ad una persona le istituzioni libiche, la storia di quel paese, le aspirazioni diffuse. Quando è venuto in Italia aveva sulla divisa la foto dell'eroe anti-italiano Omar el Mukhtar. Ma era solo una provocazione soggettiva, come a dire «Io non dimentico». Ma il fatto di avere sottovalutato l'importanza di tutte le tribù della montagna, cioè della società politica che ha prodotto la nascita della Libia, è stato l'errore più grave. Perché sono le componenti fondamentali che avevano fatto la resistenza, la liberazione e poi avevano fatto crescere il paese.

La situazione adesso, purtroppo, è oltre. Io penso con dolore che ormai tutti gli appelli sono troppo in ritardo. Il fatto stesso che le tribù della montagna scendano a Tripoli per liberarla, mi dà la misura della svolta nel precipizio.
Il gruppo degli anziani, dei saggi, ha detto che bisogna abbattere Gheddafi. Esattamente con queste parole: «Invitiamo alla lotta contro chi non sa governare», hanno dichiarato gli anziani degli Orfella; mentre i vicini capi degli Zentan chiedevano «ai giovani di combattere e ai militari di disertare e di portare l'inferno a Gheddafi». È questa la novità della crisi libica. La rivolta storica della generazione degli anziani della generazione, dei veterani. Una conferma che viene anche dal Cairo, dove il rappresentate libico nella Lega araba Abdel Moneim al-Honi si è dimesso per unirsi ai rivoltosi. È una notizia importantissima, perché è uno dei famosi «11 ufficiali» che hanno fatto la rivolta nel '69 con Gheddafi. E insieme, della generazione dei giovani e giovanissimi. Quei giovanissimi che hanno fatto la rivolta per motivi di disperazione sociale, con una altissima disoccupazione al 30%. Un dato che svela la favola della buona redistribuzione delle ricchezze energetiche libiche. E le chiacchiere di un «socialismo popolarista» rimasto sulla carta del «Libro Verde» del Colonnello.

La summa del suo pensiero che gli è servito per minimizzare l'apporto politico degli altri protagonisti della rivoluzione. Incontrandolo in una intervista del 1986, lui ammise che il «Libro Verde» era fallito e che la Libia era ancora «nera» non verde. Ora è anche rossa del sangue del suo popolo che lui ha versato. Per l'ultima volta.
di Angelo Del Boca

23 febbraio 2011

L’informazione pubblica sta scivolando nella deriva della democrazia totalitaria

L’informazione pubblica in Italia, specialmente quella radiotelevisiva, sta scivolando ormai da tempo lungo una deriva che la vede ridotta al ruolo di mero strumento propagandistico di una democrazia totalitaria.
In un sistema liberale, basato sul consenso dei cittadini-elettori, essenziale, per il potere, è il modo in cui essi vengono informati degli eventi: chi controlla l’informazione è in grado di esercitare un fortissimo condizionamento anche sulla formazione delle loro opinioni e, di conseguenza, sulle loro scelte politiche.
L’Italia rappresenta un caso fortemente anomalo di sistema liberale, perché in esso il capo del governo e del maggiore partito politico è anche il proprietario di una larga fetta del sistema dell’informazione e al tempo stesso, nell’esercizio del suo ruolo istituzionale, è in condizioni di esercitare una forte pressione anche sul sistema della televisione di Stato.
Da diversi anni, ormai, assistiamo con tristezza allo spegnersi dell’autentico spirito della libera informazione, basato sul rispetto delle voci critiche e sulla pluralità dei commenti, nonché sulla correttezza e sulla imparzialità della divulgazione dei fatti e su una ragionevole valutazione della loro rispettiva importanza: per cui, ad esempio, la notizia di quanto sta accadendo in Egitto in questi giorni dovrebbe venire prima di qualche fatto, pur drammatico, della cronaca nera di casa nostra, o, a maggior ragione, della pubblicità, camuffata da notizia del telegiornale, della fabbricazione dell’ultimo modello di automobile.
In un Paese ove la stampa è sempre stata condizionata da interessi finanziari e industriali, per non parlare delle televisioni commerciali, la doverosa distinzione tra i fatti e le opinioni è sempre stata pericolosamente ambigua e sfumata; ma, da alcuni anni a questa parte, anche le ultime apparenze di rispetto della verità sono state abbandonate e il sistema della informazione pubblica è caduto in basso, come non era mai accaduto prima.
Il risultato è che, per sapere cosa stia succedendo veramente in Italia, come pure nel resto del mondo, bisogna ormai affidarsi ai mezzi d’informazione stranieri; come avviene nelle dittature “classiche”, infatti, i nostri mass-media sono diventati largamente inattendibili, ammaestrati dalla prepotenza del potere politico e asserviti sempre più agli interessi finanziari e industriali, la cui pressione si è fatta ormai insostenibile per ogni voce libera e fuori dal coro.
I migliori, ormai, se ne vanno o stanno seriamente pensando di andarsene; sembra impossibile rimanere nella pubblica informazione e, al tempo stesso, conservare un minimo di dignità e di stima per se stessi, non parliamo poi di tutelare gli interessi del pubblico.
Restano i servi, gli adulatori, gli uomini e le donne per tutte le stagioni; restano, con profitto, gli avidi, gli ambiziosi e gli amorali; restano, ma con difficoltà sempre più grandi, addirittura con un senso di intima ripugnanza, quanti vogliono rimanere fedeli a un’idea alta di ciò che dovrebbe essere la pubblica informazione in un Paese realmente libero.
Verrebbe quasi da dire, parafrasando Robespierre davanti al colpo di Stato del 9 Termidoro: «I briganti trionfano; la Repubblica è perduta.»
Una lezione di dignità e di fermezza è venuta, il 21 maggio del 2010, dalla giornalista Maria Luisa Busi, conduttrice del TG1 - ossia della maggiore testata televisiva della Rai - che, con una lettera aperta al direttore Augusto Minzolini, spiegava le ragioni delle proprie dimissioni.
Vale la pena di riportarne i passi salienti:

« Amo questo giornale, dove lavoro da 21 anni. Perché è un grande giornale. E' stato il giornale di Vespa, Frajese, Longhi, Morrione, Fava, Giuntella. Il giornale delle culture diverse, delle idee diverse. Le conteneva tutte, era questa la sua ricchezza. Era il loro giornale, il nostro giornale. Anche dei colleghi che hai rimosso dai loro incarichi e di molti altri qui dentro che sono stati emarginati. Questo è il giornale che ha sempre parlato a tutto il Paese. Il giornale degli italiani. Il giornale che ha dato voce a tutte le voci. Non è mai stato il giornale di una voce sola. Oggi l'informazione del Tg1 è un'informazione parziale e di parte. Dov'è il Paese reale? Dove sono le donne della vita reale? Quelle che devono aspettare mesi per una mammografia, se non possono pagarla? Quelle coi salari peggiori d'Europa, quelle che fanno fatica ogni giorno ad andare avanti perché negli asili nido non c'è posto per tutti i nostri figli? Devono farsi levare il sangue e morire per avere l'onore di un nostro titolo. E dove sono le donne e gli uomini che hanno perso il lavoro? Un milione di persone, dietro alle quali ci sono le loro famiglie. Dove sono i giovani, per la prima volta con un futuro peggiore dei padri? E i quarantenni ancora precari, a 800 euro al mese, che non possono comprare neanche un divano, figuriamoci mettere al mondo un figlio? E dove sono i cassintegrati dell'Alitalia? Che fine hanno fatto? E le centinaia di aziende che chiudono e gli imprenditori del nord est che si tolgono la vita perché falliti? Dov'è questa Italia che abbiamo il dovere di raccontare? Quell'Italia esiste. Ma il tg1 l'ha eliminata. Anche io compro la carta igienica per mia figlia che frequenta la prima elementare in una scuola pubblica. Ma la sera, nel Tg1 delle 20, diamo spazio solo ai ministri Gelmini e Brunetta che presentano il nuovo grande progetto per la digitalizzazione della scuola, compreso di lavagna interattiva multimediale".
"L'Italia che vive una drammatica crisi sociale è finita nel binario morto della nostra indifferenza. Schiacciata tra un'informazione di parte - un editoriale sulla giustizia, uno contro i pentiti di mafia, un altro sull'inchiesta di Trani nel quale hai affermato di non essere indagato, smentito dai fatti il giorno dopo - e l'infotainment quotidiano: da quante volte occorre lavarsi le mani ogni giorno, alla caccia al coccodrillo nel lago, alle mutande antiscippo. Una scelta editoriale con la quale stiamo arricchendo le sceneggiature dei programmi di satira e impoverendo la nostra reputazione di primo giornale del servizio pubblico della più importante azienda culturale del Paese. Oltre che i cittadini, ne fanno le spese tanti bravi colleghi che potrebbero dedicarsi con maggiore soddisfazione a ben altre inchieste di più alto profilo e interesse generale".»

Vale la pena, inoltre, di ricordare che un fatto di altro genere, ma non meno grave, si è verificato il 28 settembre 2010, a Napoli, quando la giornalista di Sky tg24, Alessandra Del Mondo, mentre si avvicinava con il microfono al ministro del’Interno, Maroni, in visita a quella città, per rivolgergli una domanda, è stata sollevata di peso e brutalmente stretta da una guardia della scorta, subendo uno schiacciamento toracico e un principio di asfissia, che l’hanno costretta a presentarsi al pronto soccorso.
Il fatto, che sarebbe stato inconcepibile in Paesi come la Germania, la Francia o la Gran Bretagna, anche se non ha avuto, fortunatamente, conseguenze serie per l’interessata, la dice lunga sulla barriera, anche fisica, che ormai separa i signori del Palazzo dalla gente comune e sulla loro sempre più manifesta antipatia per il mondo del giornalismo e della pubblica informazione, a meno che esso si presenti nelle vesti di supino trasmettitore di notizie edulcorate, manipolate, imbellettate e, soprattutto, debitamente censurate.
Chi non ricorda come l’attuale capo del governo, proprietario di una buona metà dei mezzi d’informazione di questo Paese, e in grado di influenzare attivamente l’altra metà, si sia continuamente lamentato delle “bugie” che, a suo dire, stampa e televisione raccontano su di lui, solo perché, di tanto in tanto, osano parlare anche in termini critici delle sue azioni pubbliche e private; e di come egli abbia spinto la propria impudenza fino ad invitare gli Italiani a non comperare più i giornali?
Qualcuno riesce ad immaginarsi Obama, Sarkozy o la signora Merkel che rivolgono senza arrossire un tale, stupefacente appello ai propri concittadini?
La casta si è asserragliata nella propria cittadella e, pur se sbandiera ad ogni pie’ sospinto l’esito favorevole degli ultimi sondaggi e la legittimazione popolare ricevuta nell’ultima tornata elettorale, di fatto si chiude a riccio nella difesa dei propri privilegi e si adopera affinché l’immagine che della realtà forniscono i mezzi d’informazione sia conforme al proprio disegno egemonico e supinamente acquiescente alla propria feroce volontà di autoconservazione.
Questa non è più democrazia, ma una parodia della democrazia; peggio ancora: l’estrema e più sfacciata prostituzione demagogica della democrazia; una democrazia che, ormai, in poco o nulla si differenzia dalla più ottusa da quelle dittature che esercitano un controllo esplicito e diretto sui mezzi d’informazione, censurandoli a man salva e piegandoli ai propri obiettivi propagandistici, senza ombra di esitazione o d’imbarazzo.
Appunto, una democrazia totalitaria, che considera alla stregua di un attentato ogni voce di dissenso; ogni critica, anche la più legittima e fondata, come un tentativo di eversione dell’ordine costituito, cioè dell’ordine “democratico”.
Ora, la domanda che sorge spontanea è la seguente: come è potuto accadere che tutto ciò si verificasse, nel nostro Paese, sotto i nostri occhi, senza che noi reagissimo per tempo, perfino senza che ci rendessimo conto di quanto si stava preparando?
Vi erano delle debolezze strutturali, non solo nel nostro sistema politico e sociale, ma anche nella nostra cultura e nel nostro stesso carattere nazionale; delle debolezze che puntualmente vengono al pettine, nella storia italiana, ogni volta che il distacco fra la casta ed il popolo oltrepassa ogni limite tollerabile.
Caporetto, per esempio, il grande “sciopero militare”, è il frutto del modo in cui il Paese fu trascinato in guerra, per calcoli tutto sommato meschini, da una classe dirigente irresponsabile, contro i sentimenti di gran parte della nazione; mentre l’8 settembre 1943, la data forse più vergognosa di tutta la nostra storia recente, è stata il risultato di un antico vizio del carattere nazionale: quello di voler saltare sempre, magari all’ultimo momento, sul carro del vincitore di turno, rifiutando l’assunzione di una seria responsabilità collettiva.
Anche la situazione odierna dell’informazione pubblica ricorda per metà una Caporetto e per metà un otto settembre: come la prima, esprime lo scollamento indecente fra il potere e la gente comune; come il secondo, tradisce la mediocre furberia del tirare a campare, del barcamenarsi fra mille espedienti, nonché la mancanza di dignità davanti alla resa dei conti.
Come potremo uscire da tanto avvilimento, come potremo tornare ad essere un Paese serio e fiero di se stesso? Un Paese dove l’informazione sia al servizio dei cittadini e non dei poteri forti, tutta impegnata a spegnere l’ultimo barlume di spirito critico e a scatenare, a comando, l’ennesima offensiva a base di calunnie contro questo o quel personaggio scomodo, prona agli ordini che vengono dall’alto, mentre le autentiche infamie dei signori del Palazzo vengono scusate e giustificate in infiniti modi?
Una cosa è certa: non basterà un cambio del premier, non basterà un cambio del governo; e nemmeno, se pure vi sarà, un cambio della maggioranza politica.
Non è vero che la sinistra è il Bene e che la destra è il Male: la cialtroneria è un vizio diffuso in tutta la nostra classe politica.
È vero, semmai, che la destra, negli ultimi vent’anni, è stata incantata e sedotta da un avventuriero senza scrupoli, che ha imposto al Paese, nei più alti livelli istituzionali, una accolita di personaggi semplicemente indecorosi, di una arroganza pari soltanto alla loro smaccata mancanza di senso dello Stato e di sollecitudine per il bene comune.
No: per avere una informazione pubblica degna di questo nome, sarà necessaria una profonda riforma morale e, al tempo stesso, una legislazione severa, che interdica la concentrazione dei mezzi d’informazione nelle mani di un singolo individuo o di un singolo gruppo finanziario e che tracci una linea chiara, rigorosa, invalicabile, fra il potere economico, il potere politico e quello dell’informazione stessa.
Ma nessuna legislazione potrà metterci al riparo dai nostri vizi, dalle nostre vigliaccherie, dalle nostre piccole furberie, se noi, come popolo, non decideremo di ritrovare la stima di noi stessi.

di di Francesco Lamendola

22 febbraio 2011

I guasti del denaro, ultimo totem

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Il libro di Vittorino Andreoli, Il denaro in testa (Rizzoli), fa ripensare al peso di questo fattore, nefasto ma sempre mutevole. Tutta la storia dell’uomo narra le violenze fatte e le angherie subite, nel nome dei suoi grandi totem: il denaro e le religioni. Dio e Mammona hanno sempre trovato nel potere i loro modi di sontuosa convivenza; nel reciproco interesse. Alla fine, Andreoli elenca i bisogni veri dell’uomo: la sicurezza, l’amore, la continuità della vita attraverso i figli, la serenità e la gioia (più necessarie della libertà, scrive, e viene in mente l’arringa a Gesù del Grande Inquisitore) e così via.«Per nessuno di questi bisogni serve il denaro, semmai aiuta a soddisfarli meglio».

È questo, però, il problema. Certo, le società moderne sono tanto disossate da far dire a Margaret Thatcher (che ci ha messo del suo): «La società non esiste». Non credo però che, neanche in quell’era dorata che ci pare il nostro Rinascimento, si vivesse come in un’orchestra nella quale, «se tutti sono adeguatamente coordinati e danno il loro contributo all’insieme, la vita può diventare l’esecuzione della Nona sinfonia di Beethoven».

Da tempo, certo, il denaro deborda ben oltre i limiti propri di una convivenza ordinata. Da quando la società anonima ha circoscritto le responsabilità degli investitori, sono partite innovazioni che hanno rivoluzionato la vita; la ricchezza mobiliare fa a meno della terra, onde l’aristocrazia traeva potere e ricchezza. Ciò aumenta il numero dei ricchi, quindi la paura di diventare poveri; è chi sta male a sperare di stare meglio. I guadagni sono celati, le perdite lamentate in pubblico.

La finanza ha messo il turbo ai guadagni privati e alle perdite che le crisi finanziarie addossano al contribuente; se si può anticipare l’incasso anche di anni lontani, la tentazione di vendersi il vitello in pancia alla vacca mina il futuro. Ma il passato, aureo o no, non tornerà. Fra il 1950 e la metà degli anni Settanta gli eccessi del denaro non erano così visibili e dannosi. Le disuguaglianze erano minori.

Le paghe dei megamanager avevano un rapporto con il loro lavoro, erano cinquanta volte quelle dei loro dipendenti, non cinquecento o mille; la deontologia professionale reggeva. Ciò costava nell’immediato, ma la reputazione era fonte di guadagni futuri; gli auditor non certificavano bilanci falsi per tenersi il cliente, le banche - settore sonnolento - non concedevano mutui farlocchi da rifilare a sprovveduti, vogliosi di strappare un lacerto di carne. La fine dello spauracchio comunista allentò le difese del capitalismo, mostrandone il volto peggiore; gli incassi immediati contarono più della reputazione.

I giudizi di Andreoli su finanzieri e imprenditori paiono a volte troppo tranchant; se (quasi tutti) sono mossi dalla maledetta fame di denaro, accostarli ai criminali è un po’ forte. E magari non è il mondo a essere mutato, ma la maggior esperienza di vita a mettere a nudo la realtà. Poco praticabili sono poi alcune sue ricette: sarebbe sì desiderabile che la psicologia dettasse all’economia la «giusta distribuzione dei compiti e dei mezzi... tenendo conto delle differenze, degli impegni e delle necessità di ognuno».

I tanti tentativi in tal senso della politica, tuttavia, pur ispirati alle migliori intenzioni, dicono che l’economia di mercato è il peggior allocatore delle risorse, a parte gli altri sistemi: come quella democrazia che con lei si è sviluppata, ma che dai suoi eccessi è messa a rischio. Ignoriamo gli esiti di una grave crisi che di quelle disuguaglianze s’è nutrita e deve ancora dispiegare le sue conseguenze economiche, sociali e politiche; la difesa, coltello fra i denti, della ricchezza impaurita ci darà forse brutte sorprese.

La direzione presa dal sistema negli ultimi trent’anni - più economia di business che di mercato - può farci tornare al punto di partenza; con la democrazia che conserva le forme ma trasmuta in aristocrazia, non della terra ma del denaro. Se per essere eletti servono troppi soldi, vince il più ricco o chi meglio si vende ai vested interest; con l’aiuto, troppo ignorato, di una tv che ha prima unito l’Italia, poi sfibrato gli italiani.

Le parole di Andreoli evocano nel lettore la sapienza laica - per cui è sventurato l’uomo che non dona e muore ricco - e religiosa: dalla «preghiera semplice» di Francesco - «È dando che si riceve» - al Vangelo: «Eppure vi dico che nemmeno Salomone in tutto il suo splendore fu mai vestito come i gigli del campo». Se hai bisogno di aiuto, si dice, chiedilo a un povero, lui ti aiuterà.

La ricchezza ci chiude, invece di aprirci al dono; fortunato chi per la cruna dell’ago sfugge a questa morsa. La povertà oggi diviene peccato, dice l’autore; peggio, il governo la considera spesso reato. Chi nasce povero ha più probabilità di restarlo oggi che nello scorso secolo breve.La meta dell’uguaglianza dei punti di partenza, topos della democrazia liberale, che è morta con la tassa di successione, va risuscitata; deve però cessare l’atomizzazione dei saperi, deprecata dall’autore, per cui gli intellettuali più non leggono i libri di economia. Le colpe sono equamente ripartite, ma ricordiamolo: Adam Smith insegnava filosofia morale, non econometrica.
di Salvatore Bragantini

21 febbraio 2011

Il fascino discreto della corruzione

In un momento della nostra storia politica, in cui corrotti e corruttori escono allo scoperto sempre più esplicitamente, forse bisognerebbe interrogarsi sul senso della corruzione. Così come sarebbe venuto il momento di porre seriamente la questione, proprio quando, di fronte a questi episodi sempre più rilevanti, i paladini della pulizia morale si ergono a bastioni contro la cancrena dilagante.

Di fronte all’ambigua contrapposizione che vede da un lato i corrotti, emissari di ogni male e dall’altro i puri, i “catari” dell’incorruttibilità, senza pregiudizi, ci si dovrebbe interrogare a partire da una domanda che può apparire provocatoria e che suona così: “E se la corruzione fosse il motore del mondo”?

A porci questa domanda, in apparenza bizzarra, è Gaspard Koenig che ha scritto Il fascino discreto della corruzione edito da Bompiani.

Il punto di partenza del saggio pone immediatamente una delle questioni che, se non si vogliono fare affermazioni consolatorie, è sotto gli occhi di tutti. La corruzione “è un fenomeno più difficile da individuare di quanto si pensi. È dappertutto e non è da nessuna parte. La si condanna da lontano, la si incoraggia da vicino”.

La prima cosa da fare è rendersi conto che la corruzione non è solo quella evidente delle tangenti, delle bustarelle, della concussione, della sottrazione di fondi pubblici, dell’abuso di potere. La corruzione è fatta anche, e soprattutto, di nepotismo, di favoritismo. E il passaggio tra le sue varie forme è impercettibile. Spesso comincia e si fonda su un semplice atto di cortesia che si rende a un amico.

La prima parte del libro è riservata a definire la sua onnipresenza. Affermare che la corruzione è universale sembra quasi banale. Non esiste epoca storica che ne sia esente, tanto che si potrebbe affermare che accompagna l’umanità fin dai suoi albori.

L’insieme degli esempi descritti porta, in buona sostanza, ad affermare che la corruzione è un sistema diffuso di scambio che permette a tutti quelli che ne fanno parte di crescere e di far crescere l’intera società.

Esistono due diverse forme di corruzione. La prima è quella di tipo africano, dove il despota di turno, preleva ricchezze al suo paese e la deposita in qualche banca compiacente estera, di fatto depauperando le risorse nazionali al solo fine dell’arricchimento personale. Ne esiste una seconda incarnata, in uno degli esempi, da Mitterand, ma prima di lui vengono presi in esame altre personalità storiche tra cui Talleyrand, che invece è tutta concentrata sul reinvestimento per la società tutta. Certo il corrotto e la sua cricca ne beneficiano in prima persona, ma ad avvantggiarsene sono poi un po’ tutti quelli che sono inseriti nel sistema.

Il problema è solo di dimensioni e di quanto larga sia la cerchia della corruzione. Se, per assurdo, tutti sono inseriti nel sistema, che è corrotto, in qualche modo ne approfittano per i loro affari.

S’innesca in questo modo un meccanismo che porta alla crescita di tutta la società che parte dall’azione benefica dei corrotti che creano un volano che arricchisce tutti.

Se ne deducono due principi: “i corrotti (di questa seconda specie) sono delle persone rispettabili” e la seconda più scioccante della prima: “le persone rispettabili sono corrotte”, tanto da poter dire che la rispettabilità abbia a che fare con la corruzione.

Chi ne fa le spese ovviamente sono coloro che, in misura diversa, si sono posti al di fuori del sistema: gli incorruttibili, i “puri”.

«Sono i santi e i folli, che si tengono a distanza dalla società. Sono i funzionari modello e i topi di biblioteca. In breve tutti coloro che, in un modo o nell’altro, rifiutano di essere connessi con chi gli sta intorno e cercano di isolarsi dalle influenze esterne… E che cos’è rifiutare il sistema, se non diventare un atomo, una cellula ermetica che sfugge alla rete gigantesca di relazioni del mondo sociale e biologico? Un sogno autistico…».

Ogni corrotto porta in sé quella prodigalità che significa saper spendere, saper dare.

In fin dei conti non si ricevono mai dei favori senza crearsi dei debiti; non si contraccambiano mai senza riconoscere un obbligo. Il dono, non ha niente di gratuito. S’iscrive sempre in un sistema di relazioni sociali.

La corruzione si pone al centro di queste relazioni sociali. Il confine tra “regalo” e “corruzione” è estremamente fluido, in quanto non si capisce mai bene qual è il limite a partire dal quale i regali diventano un “tentativo di corruzione”.

Spesso le società costruiscono delle vere e proprie graduatorie di valore per porre dei limiti a questo (si può ricevere un regalo ma che abbia valore inferiore ai 100 euro, ad esempio) e procedure per normare il flusso dei presenti natalizi. Ma il punto rimane. Non esiste ben delineata una linea di demarcazione.

Citando i concetti elaborati da Mauss, l’autore del saggio, definisce la corruzione “come un puro scambio di doni e contro doni” e in quelle società del “dono” appunto, potrebbe dirsi che è la corruzione a diventare la norma. Un individuo sociale ha solo tre obblighi: dare, rendere, ricevere.

L’individuo si trova inserito in una rete sociale complessa in cui è al tempo stesso donatore e ricevente: è un circolo in cui una volta entrati non si esce più.

Non è mai una questione di soldi ed anche nelle nostre società non è solo una questione di soldi, come è ben esemplificato nella prima scena del Padrino, in cui Amerigo Bonasera chiede aiuto a Don Vito offrendogli denaro per un omicidio e il Padrino gli risponde “Tu non mi offri la tua amicizia. Tu non pensi nemmeno a chiamarmi padrino”. Don Vito gli darà ascolto solo quando Amerigo Bonasera gli bacerà la mano promettendo di rendergli il favore “gratuitamente”, quando gli verrà richiesto.

Insomma la corruzione è presentata come un sistema di relazioni sociali all’interno del quale gli operosi agiscono nel mondo. Questo tema è il cuore della seconda parte del libro che parla non più della società ma dell’individuo. E il tema vero di tutto il saggio è qui rappresentato nella sua forma più dilatata e chiara che travalica il senso stretto della corruzione, cui siamo abituati a pensare.

È nella descrizione della personalità di Talleyrand che si raggiunge il culmine. Nel suo stile è condensato il significato più alto e condivisibile della corruzione.

Il suo carattere, ci racconta l’autore, è una miscela d’impassibilità, sveltezza e moderazione. Tre pregi che svelano il senso più profondo della corruzione intesa come motore del mondo. L’impassibilità che permette di moltiplicare le morali, servendo tutti i regimi, facendo del corrotto il crogiolo delle opinioni altrui e prendendo il posto dell’immoralità. La sveltezza che non permette al corrotto di scommettere sul lungo termine, perché i rapporti di forza, che definiscono la sua posizione, si evolvono. E non gli permette neanche di agire troppo in fretta: il miglior offerente non è necessariamente il più affidabile. Deve quindi scegliere un tempo intermedio che è il fluire del momento opportuno. Deve sposare dunque la costante contemporaneità. La moderazione che fa del corrotto, comprato da tutti, un ossessionato dall’equilibrio. Qui sta tutto il senso della corruzione. Qui è svelato il segreto del perché ognuno di noi, almeno un po’, può definirsi corrotto e corruttore.

È necessaria l’impassibilità, lo scegliere indifferenti il cavallo su cui puntare per arrivare al proprio obiettivo. È necessaria la sveltezza, intesa come l’agire hic et nunc, nel presente, inserendosi nel fluire del tempo. È necessaria la moderazione, per capire come muoversi tatticamente cercando il compromesso per veder realizzato il proprio disegno strategico.

Alla fine ogni azione del nostro vivere è corruzione. E Talleyrand rappresenta, nella sua descrizione di corrotto, il volto di ognuno di noi, immerso nel suo tempo.

Contrapposto a lui ritroviamo il puro, l’incorrotto che, per non essere oggetto della corruzione, decide un’inanità che lo porta all’inazione, al non volersi mai sporcare le mani, al porsi al di fuori del proprio tempo, guardando avanti o indietro non importa, impigrendosi in attesa di un mondo di incorrotti che non verrà.

Non verrà perché la corruzione alligna in ogni forma di potere anche la più piccola e un regno futuribile di “catari” nascerà anch’esso segnato dalla corruzione.

Talleyrand è il contemporaneo, che agisce nel suo tempo, che è attivo e in movimento. Negli atti che compie si sporca le mani.

È il pragmatico d’azione che si contrappone all’idealista immoto. È l’attuale mobile che si contrappone all’inattuale immobile.

Con un altro esempio potremmo sperimentare la corruzione in ogni nostra espressione. Parlare, esprimere un pensiero è mutilazione del pensiero stesso, è corruzione del rarefatto mondo che ci portiamo dentro. Il pensiero, chiuso nella nostra testa è solipsista ed incorrotto, vive in un altro tempo che non è il flusso del momento. Esprimerlo significa insozzarlo con un atto che lo corrompe. È corruzione. Una corruzione vivificante, perché ci permette di interagire con gli altri e di porci come entità agenti e fattive.

Sbaglia chi crede di potersi sottrarsi a questa situazione, confinandosi nell’immobilismo incorrotto della sua purezza. Conservarsi per tutta la vita, intatti, non contaminati, è solo atteggiamento consolatorio.

Quello che abbiamo preservato in vita ci verrà tolto in punto di morte.

Questa è la magnifica terza parte che conclude il saggio. La nostra purezza non ci impedirà di essere violati.

La corruzione della carne si prenderà, con la putrefazione, un corpo che non avremo messo mai a disposizione della vita. Ci strapperanno, non c’è scampo, quella verginità cui non abbiamo mai voluto rinunciare.

Restituiremo ai vermi e alla corruzione un corpo intatto, mai usato, incorrotto, subito preda dello sfacelo.

E questa verginità che nulla ha a che fare con la vita trova anche corrispondenze nella sfera sessuale.

L’autore termina il suo saggio con una serie di coincidenze, neanche tanto strane.

È curioso, ci dice, che l’amatore che si spende con le sue amanti, corrompendole e corrompendosi, sia chiamato viveur, colui che vive.

E la prostituta che ammalia i suoi clienti, corrompendosi e corrompendoli, è appellata come mondana, la donna di mondo, che vive nel mondo o alternativamente come una donna che “fa la vita”, colei che vive.

Così, aldilà delle condanne moralistiche, bisogna confrontarsi con la corruzione e riconoscere che è il motore del mondo.

È lo scotto che dobbiamo pagare, giocandoci la nostra integrità inane, alla vita.

È l’azione. È la corruzione.

È l’unico motore degradante che ci permette alla fine di vivere e, come dice il poeta, per sbaragliare tutto ciò che non era vita e non scoprire, in punto di morte, che non eravamo vissuti.

di Mario Grossi

19 febbraio 2011

Italia atlantica

Dalla cooperazione militare con “Israele” alla missione anti-pirateria nell’Oceano Indiano: fenomenologia aggiornata di una sudditanza rigorosamente bipartisan

Venerdì 10 Dicembre si è conclusa l’esercitazione Vega 2010 che ha visto la partecipazione di assetti italiani, israeliani e della NATO. La seconda fase, caratterizzata da missioni di tipo “air to round” ha visto impegnati
i cacciabombardieri Tornado ECR di Piacenza e IDS (“interdiction strike”) del 6° stormo di Ghedi. In Israele le missioni dei velivoli italiani consistevano nell’eliminare od eludere con i Tornado ECR lo sbarramento difensivo costituito dalle difese contraeree e dai caccia in volo e permettere ai Tornado IDS di arrivare sull’obbiettivo con lo sgancio di armamento di precisione.
Ovda è una località a nord di Eilat, a 40 miglia dal confine con l’Egitto. Alla periferia della città, in pieno deserto, c’è un aerostazione per uso passeggeri e, decentrate, infrastrutture, rifugi corazzati, radar e piste di volo da dove decollano e atterrano cacciabombardieri con la stella di Davide F-15 e F-16.
Cosa ci facevano i (nostri) Tornado Panavia con le insegne della NATO in “Israele” a meno di due mesi dalla defenestrazione di Mubarak?
Si esercitavano alla guerra “preventiva” contro il Paese delle Piramidi.
C’è in vigore un memorandum di intesa tra la Repubblica Italiana e lo Stato sionista in materia di cooperazione militare firmato a Parigi dal Ministro della Difesa Martino e dal Generale Shaoul Mofaz il 16 Giugno 2003, rinnovato nel 2008. In forza di questo trattato non sono previste missioni dell’Aereonautica Militare Italiana in “Israele”. Il documento parla chiaro.
L’intesa tra i contraenti in uno dei dieci articoli contempla altresì l’inserimento di clausole segrete. Facile capire che ce ne devono essere state.
Perchè fu scelta la capitale transalpina per firmare quel patto?
Per marcare la differenza con la politica “araba” del Presidente Chirac, eletto per due mandati consecutivi alla guida della Francia, dal Maggio 1995 al Maggio 2007. Chirac farà curare il leader dell’ANP Arafat all’Ospedale Militare di Percy e gli farà tributare, alla morte, nel Novembre del 2004, solenni funerali militari.
I governi del Bel Paese, all’opposto, hanno sempre avuto un debole per la “sicurezza” di “Israele”, strafregandosene della Palestina. Che non sia quella di Abu Mazen e di Erekat tirata fuori da Al-Jazeera.
Non dimentichiamoci di un particolare di per sè ampiamente significativo. Sia gli esecutivi Berlusconi che Prodi hanno sempre avuto Ministri degli Esteri e della Difesa o molto, ma molto vicini, a “Gerusalemme” o adeguatamente solidali.
La collocazione geografica dell’”air base” di Ovda e la data scelta congiuntamente da La Russa e Barak sono state intenzionali in previsione di un “cambio della guardia” in Egitto?
La risposta è sì.
Non è affatto vero, come si è sostenuto, che la rivolta partita da piazza Tahir abbia colto di sorpresa l’intera l’Amministrazione USA, la NATO e l’Europa.
Chi crede che le manifestazioni popolari siano state la spinta decisiva del “change” nella Terra del Nilo è semplicemente fuori strada. E’ da tempo che il seme di un “golpe” cova nel ventre dell’Egitto.
La frattura generazionale nelle strutture centrali e perferiche delle forze armate egiziane mandava da tempo segnali preoccupanti per l’Occidente.
Il Maresciallo Tantawi, liquidando Mubarak ed il suo intero apparato di potere, prendendo le redini del “nuovo Egitto” ha semplicemente evitato, almeno per ora, la totale emarginazione delle gerarchie militari di alto grado che hanno assecondato per oltre 30 anni la politica della “vacca che ride”.
Una politica, è bene ricordarlo, che ha trasformato Esercito, Marina, Aviazione e Difesa Aerea in strumenti da parata militare.
Abbiamo sfogliato l’Almanacco dell’Egitto pagina per pagina. Ne siamo rimasti sinceramente sorpresi, amareggiati. Il Paese del Nilo come forza combattente non esiste più al di là dei numeri e delle dotazioni.
Niente che possa davvero impensierire al momento e per i prossimi 10 anni “Israele”, ammesso che si trovi un solido ancoraggio con attori internazionali nel settore degli armamenti come Russia e Cina ed i finanziamenti necessari per attuare una completa ristrutturzione militare e, ancor prima, le risorse necessarie per dare avvio nel Paese ad un nuovo indirizzo economico e sociale. Uscire da decine di anni di “dipendenza” dall’Occidente è un affare da far tremare i polsi. I meccanismi del dialogo euromediterraneo, i prestiti del FMI, di USA ed Europa, la dipendenza dal turismo occidentale, le monoculture, le massiccie importazioni di granaglie hanno fatto il resto.
A livello di “comunità internazionale” si farà di tutto per mantenere l’Egitto in stato di costante precarietà economica senza farlo precipitare nel caos.
Torniano a Eilat.
Per la “missione” ad Ovda, La Russa ha lavorato da sguattero di USA e NATO per mandare oltre il canale di Suez precisi segnali finalizzati al rispetto ed alla continuità degli accordi di pace firmati nel ’76 da Begin e Sadat ed al mantenimento della “sicurezza” per Gerusalemme.
Non era mai successo che l’A.M.I., come rappresentante della NATO, partecipasse ad un azione simulata di guerra nello spazio aereo di “Israele” intenzionalmente diretta ad intimidire, a minacciare, un Paese del Medio
Oriente.
L’uso di vettori per la guerra elettronica (ECR) e da attacco al suolo (IDS), decollati da una base dell’aviazione ad un tiro di sputo dalla linea C del Sinai egiziano, non può non assumere un preciso significato politico e militare nei rapporti che, prevedibilmente, intercorreranno tra Roma ed il Cairo dopo l’uscita di cena di Mubarak e più estesamente tra l’Italia ed i Paesi dell’intera area.
Il decollo dei Tornado da una striscia di terra che va dal Golfo di ‘Aqaba al Mediterraneo, e segna per 260 km il confine tra i due Stati, non potrà non essere interpretato da ampi settori di opinione pubblica e dalle organizzazioni politiche egiziane che escono da protagoniste dalla rivolta del 25 Gennaio come un gesto ostile.
A tempi medio-lunghi ne potrebbero risentire pesantemente anche i rapporti commerciali tra le due sponde del Mediterraneo. L’intera costa mediterranea del Paese del Nilo potrebbe trasformarsi, come effetto indesiderato, in punti di raccolta e di imbarco per l’esodo sempre più massiccio che dal Maghreb all’Africa Subsahariana si riversa ormai da anni sulle coste della Repubblica delle Banane.
“Israele” non ha mai restituito all’Egitto dal ’67, nonostante gli accordi di pace perfezionati nel ’78, prima del ritiro di “Gerusalemme” dal resto della penisola araba nell”82, la fascia D del Sinai.
In questo corridoio l’I.D.F. mantiene pattuglie di perlustrazione, blindate, per un totale di 400 militari.
Osserviamo nel fratempo come tv e giornali nel Bel Paese si stiano dando un gran daffare in questi giorni per addolcire la liquidazione coatta di Mubarak, di Suleyman e dell’intero governo del “rais”, cavalcando la barzelletta della caduta di un nuovo muro di Berlino. Il nesso appare più che forzato, incredibilmente ridicolo.
Ma così è se… vi pare.
Sono arrivati al punto di mandare sui telegiornali delle vecchie riprese del maresciallo Tantawi a colloquio con Barak quando comandava il sarcofago ambulante del Cairo per mettere al sicuro, in cassaforte, la continuità, anche in un prossimo futuro, degli “accordi” di Camp David.

E ora un altro “mistero” che riguarda il solito on. Ignazio La Russa, tornato a corteggiare a Torino l’avvicinato dalla CIA Giuliano Ferrrara detto Cicciopotamo ed altre compagnie, passate e recenti, di egual prestigio al ritorno da un viaggio in Afghanistan. Dalla Terra delle Montagne… all’Oceano Indiano.
Mercoledì 19 Gennaio Daniele Mastrogiacomo, corrispondente de La Repubblicadal 1992, con abbondanti trascorsi al percolato, firma a pag. 16 del quotidiano di Ezio Mauro un articolo sul sequestro della petroliera italiana Savina Kaylyn nell’Oceano Indiano, a 880 miglia nautiche dalle coste somale.
La Savina Kaylyn, che ha una stazza di 105.000 tonnellate ed una lunghezza di 226 mt, proveniva dal porto di Bashayer in Sudan, dove aveva caricato greggio ed era diretta a Pasir Gudang in Malaysia. Il Sudan è nella lista nera di USA ed Unione Europea, la Malaysia né è fuori ma tenuta egualmente sotto tiro come Paese “amico” del presidente Bashir.
E’ una delle 40 navi della flotta napoletana dei Fratelli d’Amato. A bordo ci sono 22 uomini di equipaggio, 5 tra cui il comandante sono italiani, e 17 indiani.
Secondo un comunicato del Comando Eunavfor (missione Atalanta), la supertank Kaylyn, a quanto scrive Mastrogiacomo, sarebbe stata assaltata da una barca a vela di due metri che arrancava, durante la notte, in mezzo all’Oceano.
Una barchetta – scriverà – elude i radar ed è difficile vederla ad occhio nudo. Cinque pirati si sono avvicinati (continuiamo la riportare la sua narrazione) nascondendosi sotto la fiancata della nave e l’hanno abbordata.
Solo in quel momento è scattato l’allarme. La Savina ha iniziato ad accelerare ed a rallentare, a cambiare rotta con improvvise virate. L’equipaggio ha azionato gli idranti di bordo, ha cercato di investire con i getti d’acqua i tre uomini che si arrampicavano lungo la fiancata (resa viscida dalla salsedine sugli strati di vernice, alta in perpendicolare dagli 8 ai 10 mt anche a pieno carico…), gli altri due sparavano colpi di pistola all’indirizzo della nave.
Risparmiamo il resto del “pezzo”, è il caso di dirlo, ai Lettori per non offenderne l’intelligenza sulle modalità dell’abbordaggio e della “conquista” della plancia comando della Kaylyn.
Questa è ormai la qualità dell’”informazione” che circola sul quotidiano più letto nella Repubblica delle Banane. Azionista di riferimento un certo Carlo De Benedetti.
Mastrogiacomo senza vergognarsene nemmeno un po’ ridicolizza nei fatti il “sequestro”, riporta intenzionalmente la pagliaccesca versione – a suo dire – raccolta al Comando Eunavfor nel quadro dell’operazione Atalanta.
Una “missione” che costa alle tasche degli Italiani 25 milioni di euro all’anno dal Dicembre 2008 ed altri 10-12 agli armatori nazionali per allungare le rotte ed evitare “attacchi pirati”, più altre maxi elargizioni che vanno perennemente a buon fine e non lasciano tracce (sono in contanti) per il rilascio di ogni nave da trasporto, o rimorchiatore con pontoni, sequestrato.
Per conto di chi “scrive” Mastrogiacomo che sta più in alto del direttore e del padre-padrone de La Repubblica?
Cosa c’è dietro? Solo sfacciata, ributtante “disinformazione” per cloroformizzare, per annullare, la curiosità di chi legge?
Le navi madri dei “pirati” del Somaliland e del Puntland seguono una rotta di avvicinamento al “target” con comunicazione satellitare.
Un segnale che non può essere captato dai centri di ascolto appartenenti a “Stati canaglia” od a Paesi come Cina, Russia, Pakistan, India, basati su piattaforme navali.
Un rilevamento che fornisce in successione una rotta di avvicinamento, per poi lasciare alla nave madre la scoperta radar del target nelle ultime 20-50 miglia.
Per capire chi sia dietro a questa nuova pirateria basta e avanza conoscere il numero dei mercantili di proprietà USA sequestrati dai “nuovi corsari” con Rpg-7 ed AK-47, dotati, si fa per dire, di imbarcazioni il più delle volte di approntamento fluviale, senza carena, di 5-7 metri spinte da motori dai 25 ai 50 cv, mancanti di scalette di abbordaggio, ramponi lanciati da cariche esplosive e scorte di benzina, che intercettano, senza apparente difficoltà, il naviglio in transito lungo le coste che vanno dal Corno d’Africa all’Oceano Indiano a centinaia di km dalle coste dell’Africa e dell’Asia.
La risposta, a quanto ne sappiamo, è zero ad eccezione di un assalto ad una porta-contenitori liberata dall’intervento di un’unità da guerra della US Navy, finito con l’uccisione di tre sequestratori colpiti da tiratori scelti a bordo di un gommone da salvataggio.
Una storia che faceva acqua da tutte le parti.
Dal Dicembre 2008 nessuna altra unità a stelle e strisce risulta abbordata e sequestrata dai nuovi abbronzantissimi Capitan Uncino.
Operazioni che consentono tra l’altro accurate ispezioni ai carichi trasportati che possano risultare sospetti come materiali “dual-use” partenti da “Stati canaglia” e destinati ad altri Paesi inclusi nella lista di Paesi giudicati avversari o potenziali nemici dell’Occidente.
Ritorniamo alla Savina Kaylyn, dopo che l’Unità di Crisi del Ministero degli Esteri ha lanciato l’allarme, arrivato alla Farnesina dal telefono satellitare in dotazione ai “pirati” (sic).
L’allerta arriva al Ministero della Difesa. Parte la comunicazione alla fregata Zeffiro di intercettare la Kaylyn, la nave della Marina Militare è a due giorni d navigazione.
Dal quel momento in poi nessun altra notizia, nemmeno di agenzia, arriverà a conoscenza dell’opinione pubblica del Bel Paese. Il silenzio dal giorno 20 Gennaio ad oggi è inspiegabilmente totale.
Vuoi vedere che la Zeffiro si è arresa a 5 pirati dopo aver alzato sul pennone di dritta una bella bandiera bianca e ci faranno trovare a tempo scaduto la Savrina Kaylyn ancorata a 500-700 km da un villaggio di pescatori filibustieri del Puntland o del Somaliland? Ma davvero l’ex colonia italiana è divisa in tre pezzettoni?
E’ l’Onu e Ban Ki Moon che fanno stampare le nuove carte geografiche del Corno d’Africa? O chi altro?
Frattini e La Russa riescono davvero a calarsi le mutande anche davanti a qualche delinquente morto di fame o si vuole finanziare al “nero” i pirati?
Non apriamo bocca per fare fiato e non mettiamo punti interrogativi a casaccio.
Gli armatori italiani hanno richiesto da almeno due anni al Ministro della Difesa Ignazio La Russa, che i mercantili battenti la nostra bandiera abbiano a bordo un nucleo di Fucilieri del Battaglione S. Marco.
Ad avanzare la proposta alla Marina Militare è stato Stefano Messina, uno degli armatori più danneggiati dai sequestri in pieno Oceano. Sarebbero sufficienti, a suo giudizio, 5 marò per nave mercantile.
Il costo della scorta armata sarebbe stato a carico di Confitarma, l’associazione di categoria.
E’ a rischio – ha sostenuto più volte – anche incolumità del nostro personale navigante. L’Ammiraglio Fabio Caffio dello S.M della Marina Militare ha dato la sua approvazione.
La Russa ha risposto picche per un problema – sentite, sentite – di competenze e di “prestigio”. Quale?
“I militari non possono essere posti sotto il comando di un pur bravo capitano di lungo corso della marina mercantile”.
Vi viene voglia di ridere preso atto che il Ministro della Difesa manda il Genio Militare a togliere centinaia di tonnellate di spazzatura dalle strade di Napoli, svende immobili, fari, arsenali, privatizza le Forze Armate, licenzia, precarizza e blocca gli stipendi del personale dipendente? Non lo fate.
Il titolare di Palazzo Baracchini non vuole che si sappia in giro, da fonte attendibile, cosa succede davvero da Bab el-Mandeb al Golfo Persico e più in là in pieno Oceano Indiano, fino allo Stretto di Malacca.
In alternativa avrebbe proposto, senza andare poi a fondo della faccenduola, per liberarsi dal pressing di Messina, di affidare la sicurezza delle navi degli armatori italiani ad un agenzia di “contractors” a stelle e strisce. Non stiamo scherzando.
Mesi fa, un cacciatorpediniere dell’India ha fatto fuoco e colato a picco una “nave madre” lungo le coste del Kenia.
Appena 72 ore più tardi Mumbai è stata scossa da quel colossale attentato terroristico che ricorderete.
La Russia di “navi madri” ne ha affondate, per quanto ne sappiamo, una dozzina, con mitragliatrici singole da 14.7 mm e cannoni a canne ruotanti da 30 mm, pagando il prezzo della libertà di navigazione commerciale con l’intensificazione di attentati a Mosca e nel Caucaso.
Se si vuole, si può liquidare il tutto come coincidenze fortuite o fantasie che corrono a ruota libera.

di Giancarlo Chetoni

Superare la crisi



L'ultima lettera inviata da Berlusconi al Corriere della Sera per il rilancio dell'economia, conferma quanto da sempre pronosticato e sostenuto: «le cause ed il perdurare della crisi economica dipendono essenzialmente dalla violenta demonetizzazione del mercato, avvenuta in campo nazionale ed internazionale, determinata, realizzata e pilotata dall'apparato bancario-monetario, nell'indifferenza, ed in alcuni casi anche con la connivenza di alcune forze politiche.». Sempre di connivenza si tratta anche quando, nell'ambito dell'azione e della attività politica, è sufficiente essere a conoscenza delle tecniche perverse e delle malefatte messe in atto dalla congrega bancaria-monetaria, senza porre nulla in essere per bloccare questi sciagurati accadimenti. Dando per saputo e scontato come tutto ciò si sia potuto verificare e con quali dinamiche (ce ne siamo occupati a lungo anche nel recente passato), ciò che importa ora in maniera sempre più pressante, è come uscirne e come poter rilanciare l'economia e l'occupazione nazionale, in primis quella giovanile, prima del verificarsi d'intolleranze del tutto prevedibili.

L'asfittica circolazione monetaria sul mercato interno e la drastica riduzione delle linee creditizie hanno causato il crollo dei consumi, la sofferenza di centinaia di migliaia di piccole e medie imprese (85 % del sistema produttivo nazionale) causando in moltissimi casi il fallimento o la loro chiusura con la conseguente espulsione delle relative maestranze dal sistema produttivo. La contrazione di liquidità verificatasi sui mercati esteri ha penalizzato tutta l'attività manifatturiera nazionale finalizzata all'esportazione, provocando anche la drastica contrazione delle correnti turistiche estere. Allo status quo, pertanto, tutta l'economia è in grave sofferenza. Gran parte della liquidità interna era già stata razziata molti anni prima dello scoppio ufficiale dell'ultima crisi economica, dalle solite banche mediante il piazzamento dei bond farlocchi, subito dopo volatilizzati, di Cirio, Parmalat, Banca 121, Argentina, ecc. fatti sottoscrivere ai vari soggetti ed amministrazioni, pubbliche e private, utilizzando spesso espedienti e raggiri nei confronti degli ignari sottoscrittori.

Alle perverse attività bancarie si sono aggiunte anche quelle della politica, tenute a battesimo dal governo G. Amato (dott. Sottile) con il prelevamento forzoso su tutti i conti correnti e depositi dell'8 per mille e la serie delle patrimoniali, iniziate nel 1992, mediante le qualisono state sottratte ai cittadini ed all'intero mercato cifre ingenti, non più ritornate in circolazione sul territorio sotto la voce di spesa per servizi resi alla collettività (solo nel primo anno è stata prosciugata la bella cifra di 92 miliardi di lire). Di queste e di altre malefatte bancarie nei confronti del mercato se ne sta occupando per alcuni aspetti la magistratura ordinaria con esiti alquanto deludenti: il sistema bancario ha sempre brigato per varare commissioni con propri rappresentanti, per dirimere le vertenze dei propri clienti in via stragiudiziaria.

Anche nei casi giunti a sentenza, con condanna delle banche al ristoro dei danni, questi sono quasi sempre sottostimati ed i relativi pagamenti procrastinati nei tempi futuri. L'annunciato ed auspicato colpo di frusta da parte dell'Esecutivo, per far ripartire produzione, occupazione e consumi interni, mal si concilia con le pretese europee di ridurre il debito pubblico all'80%, in ottemperanza ai vincoli comunitari ed al trattato di Maastricht, mediante il reperimento sul mercato nazionale di ben 600 miliardi di Euro da versare drasticamente nelle casse dei banchieri, con conseguente pregiudizio al poter programmare, o solo immaginare, qualsiasi possibilità di ripresa economica nazionale. Il forte debito pubblico esistente ci impedisce d'indebitarci ulteriormente per ottenere le risorse necessarie per reinnescare i processi produttivi in tempi brevi e quindi il colpo di frusta enunciato ed auspicato resterà nel cassetto delle buone intenzioni. Quand'anche riuscissimo a poterci ulteriormente indebitare, finiremmo per incrementare ancor più la mastodontica esposizione pubblica con i conseguenti gravosissimi interessi passivi che stanno già sbarrando qualsiasi possibilità di rilancio reale.

Occorre convincersi definitivamente che senza nuove risorse è impensabile immaginare qualsiasi tipo di ripresa ed ancor meno realizzare gli annunciati schiocchi di frusta per far ritornare il cavallo a bere. Perciò diventa sempre più indispensabile approntare nuove risorse economiche-monetarie senza sottostare allo strangolamento da debito inventato ed imposto dalla cupola bancaria-monetaria. Fortunatamente disponiamo della capacità, della cultura e dell'esperienza per far fronte ed eliminare definitivamente queste procurate disfunzioni. E' solo necessario che i politici, diversamente da quanto preteso dai banchieri, (come se l'economia fosse loro prerogativa esclusiva) ritornino ad occuparsi della vera politica economia nazionale che non può essere disgiunta da quella monetaria, acquisendone le opportune conoscenze culturali, con il convincimento che la legittimità a svolgere l'azione politica deriva solo dal perseguimento del bene comune in favore dei cittadini e dei propri elettori. Occorre riacquisire autonomia di giudizio e capacità di discernere con la propria testa per non essere inconsapevolmente plagiati dai numerosi infiltrati a tutti i livelli al servizio dei banchieri e finanzieri. Ovviamente occorre disporre anche gli attributi necessari per poter bordeggiare "almeno inizialmente" contro vento, senza avventurarsi su rotte sconosciute e mai battute. Basta ripercorrere ed attuare ciò che è stato felicemente realizzato in oltre cento anni dai vari e diversi Governi che si sono succeduti.

Lo Stato deve ritornare a battere moneta in nome e per conto dei propri cittadini; acquisirne il signoraggio e quindi la moneta emessa a titolo originario ed impiegarla per rilanciare economia, occupazione e ricerca. Lo Stato italiano ha battuto moneta in prima persona e monetizzato il proprio territorio dal 1874 al 1975. Ciò ha consentito, subito dopo l'unità d'Italia di realizzare tutte le infrastrutture necessarie ad un nuovo stato, compreso i famosi palazzi e quartieri "umbertini", ancora esistenti, senza imporre tasse e senza indebitarsi. Successivamente utilizzando sempre la moneta emessa da parte dello Stato si sono costruite le opere dell'Italia moderna: strade, autostrade, ponti, ferrovie, porti, aeroporti, centrali elettriche, ospedali, sanatori, colonie, le grandi bonifiche, intere città, i grandi complessi industriali, gli Istituti Assistenziali, le scuole, le università, tutte contraddistinte dalle inconfondibili linee architettoniche ispirate dal Piacentini. Anche tutte queste opere furono realizzate senza aumentare le tasse ai cittadini e senza aumentare il debito pubblico che anzi, sino al 1940 era rimasto stabile al 20 % (tra i più bassi della storia d'Italia) per passare al 25% nel 1945 a guerre finita. Successivamente si continuò a battere moneta da parte dello Stato, gli introiti così incamerati hanno contribuito in maniera significativa alla ricostruzione del territorio nazionale devastato dall'invasione nemica (all'inizio degli anni 70 il debito pubblico era sceso al 20 %). Tutto ciò ad ulteriore conferma e dimostrazione che il debito pubblico è generato dall'emissione monetaria da parte delle banche d'emissione private.

All'inizio del Governo Berlusconi si cercò di fronteggiare questa situazione. Il Ministro Tremonti ebbe a sostenere la necessità di una moneta parallela, senza debito, per rilanciare l'economia e l'anemico mercato, iniziativa subito frustrata dal gruppo della destra economica annidata nel parlamento al servizio della funzione monetaria e finanziaria. Il ruolo di questi soggetti si è definitivamente appalesato quando Fini ha impedito di conferire ai prefetti i poteri necessari per sindacare il comportamento delle banche verso privati ed aziende e quando partendo con l'acqua è cominciata la campagna delle privatizzazioni, cedendo ai banchieri i beni dello Stato a fronte dei pseudi debiti creati con l'emissione monetaria. Come riporta il Corriere della Sera, non sussiste grande differenza sostanziale tra quanto sostiene il cattolico banchiere Bazoli d'istituire la tassa patrimoniale e l'establishment finanziario alternativo che chiede la vendita del patrimonio pubblico insieme alle liberalizzazioni dei servizi pubblici, entrambi, con l'obiettivo finale di chiudere il ciclo berlusconiano. Mentre la crisi economica trova difficili sbocchi, la cosa più raccapricciante di questo sciagurato periodo è il silenzio assordante della sinistra e di buona parte dei sindacati appiattiti sulle posizioni monetarie-finanziarie, ed a protezione dei manovratori, per sviare le attenzioni, si sono ridotti a guardare per il buco della serratura, suggellando la fine indecorosa dell'apparato a difesa della classe operaia, dei meno abbienti e degli oppressi. Coraggio Presidente Berlusconi, ormai non ha più nulla da perdere, è arrivato il momento di parlare chiaro, più di quello che le hanno fatto è impossibile immaginare altro, le quinte colonne sono uscite dalla maggioranza, il momento è oltremodo propizio per dimostrare che aldilà di tutte le chiacchiere e le diatribe dei vari gruppi ideologici, ormai decotti, di fatto sulla scena politica esistono due soli schieramenti: il primo che in ossequio al mandato ricevuto dai cittadini si adopera per il conseguimento del bene comune di tutta la popolazione, ed il secondo al servizio del sistema bancario-monetario e dell'alta finanza. Poiché queste due posizioni si stanno delineando con sempre maggiore precisione, è opportuno, quanto prima possibile, formare, informare e spiegare la vera occulta strategia in atto, dopo di che vediamo quante persone sono disponibili a scendere in piazza a difesa dei banchieri della BCE e per Maastricht. Riappropriamoci della nostra sovranità monetaria per bloccare le nefaste conseguenze delle crisi come quelle imposte a Islanda, Irlanda, Grecia, poiché dopo Portogallo e Spagna siamo i primi della lista. Recuperiamo la nostra autonomia politica e congiuntamente il ruolo riappacificante che ci compete nel bacino del Mediterraneo e nel mondo. Riuniamo rapidamente la miriade di gruppi, associazioni e comitati sorti a sostegno di queste posizioni. Sicuramente non mancheranno immediati appoggi e consensi da parte di tutti i cittadini e da parte degli Stati che, per convenzioni bilaterali stipulate tra loro, hanno stabilito di scambiarsi beni e risorse utilizzando la propria moneta nazionale; la nostra produzione è ricercata e complementare a moltissime di queste. All'immancabile starnazzare delle solite sacre vestali a difesa del sistema, assicuriamo la nostra presenza in qualsiasi pubblico dibattito.
di Savino Frigiola

28 febbraio 2011

Un film già visto! La Libia come l'Iran...


http://blog.panorama.it/foto/files/2011/02/gheddafi-22-large.jpg


A scorrere oggi le immagini delle televisioni, a leggere i giornali compresi quelli di "sinistra" si rivede lo stesso film dei dittatori cattivissimi che opprimono i loro popoli e si dedicano a sadici spargimenti di sangue. Questo film l'abbiamo visto prima e durante la prima guerra dell'Irak (Desert Storm), della guerra per il Kossovo e per la disintegrazione della Jugoslavia, della seconda guerra contro l'Irak alla ricerca di armi di distruzione di massa che non si trovarono mai, della guerra contro l'Afghanistan alla ricerca di Bin Laden e dei terroristi che avrebbero fatto crollare le Torri gemelle, delle manifestazioni in Iran contro Ahmadinjed. C'è una novità importante: alla batteria massmediatica occidentale si sono unite le due emittenti televisive arabe AlJazeera e Al Arabia che hanno assunto il monopolio della informazione di quanto avviene da quelle parti tutto rigorosamente nello interesse dei plurimiliardari feudatari dell'Arabia Saudita e della nuova borghesia "liberista" che in tutto il Nord Africa e nella penisola arabica vorrebbe fare affari con gli occidentali, arricchirsi e che è sempre più insofferente per le quote di reddito che in Iran ed in Libia sono assorbite dal welfare, dai salari e dagli investimenti sociali.
Altre informazioni non possiamo averne. Abbiamo già visto nel 2003 le cannonate del carro armato americano contro le finestre del decimo piano dell'Hotel Palestine Ginevra abitato da giornalisti. Abbiamo visto il terrore sul viso di Giuliana Sgrena ferita e salvata dalla morte dall'eroico Calipari. Ad oggi 400 giornalisti sono stati uccisi nelle zone di guerra. I pochi che riescono a seguire il fronte o lavorano nelle zone occupate debbono essere autorizzati dai Comandi Militari USA ed i loro servizi vengono rigorosamente censurati.-
Tutto quello che abbiamo saputo o che sappiamo delle zone "calde" del pianeta dove gli americani portano la loro "pace" assieme a pacchetti di "diritti umani" viene filtrato dai servizi di informazione. I servizi ammettono soltanto giornalismo "embedded", militante anzi....militarizzato.
Oggi la Stampa di Torino portava a grandissimi titoli questa dichiarazione di Gheddafi: "Chi non è con me deve morire!" frase smentita ieri sera da un giornalista di rai new24 attribuendola ad un errore di traduzione. In effetti Gheddafi ha detto: " Se il popolo non mi vuole, merito di morire!. Nonostante la correzione la frase manomessa è stata riportata da tutta la stampa italiana e credo mondiale e l'intervento di correzione è stato ignorato. Montagna di menzogne si sommano a montagne di menzogne. Alcune di queste sono anche grossolane e ridicole come quella delle fosse comuni che non erano altro che immagini vecchie di un anno del cimitero di Tripoli. Ma la scienza della disinformazione non bada a queste quisquilie. Anche se la notizie è falsa in modo strepitoso viene messa in circolo lo stesso sulla base di un principio di sedimentazione di un linguaggio, di una cultura dell'avvenimento che qui sarebbe troppo lungo discutere. Insomma anche se falsa si incide nella memoria del pubblico.
La rivolta popolare o meglio il golpe contro il despota Gheddavi, è mossa dalle stesse forze che si agitano contro Ahmadinjed e ne reclamano la morte; è la borghesia che vorrebbe fare affari con l'Occidente, arricchirsi e che non sopporta il monopolio statale
sul petrolio e sul metano e vorrebbe che i proventi non fossero tutti investiti in sanità, pensioni, opere pubbliche, salari, scuola...La Libia ha dato sicurezza e benessere a tutti i suoi abitanti e per quaranta anni ha assorbito per quasi la metà della sua popolazione immigrati dai paesi poveri dell'africa. Anche centinaia di migliaia di egiziani lavorano in Libia. E' stato ricordato che il reddito procapite è il più alto dell'Africa, la vita media è di 77 anni pari a tre volte quella africana ed il livello di scolarizzazione assai alto.
Alla insofferenza della borghesia che vorrebbe arricchirsi subito bisogna sommare un dato
regionale e tribale. La Libia è l'unione di tre regioni. La Cirenaica, la Tripolitania ed il Fezzan. La Cirenaica è luogo in cui era radicata la monarchia e non ha mai accettato del tutto di essere governata da Tripoli. Sul risentimento dei cirenaici e sulle pretese della borghesia si è costruito il blocco di forze, sostenuto dagli USA, che forse sta per abbattere Gheddafi.
Purtroppo il regime non ha tenuto conto che 42 anni sono tanti, tantissimi e che il potere si corrompe ed invecchia. Lo stesso Gheddafi è molto invecchiato. Fa impressione vedere che il secondo uomo della Libia è uno dei figli di Gheddafi e che non si vede non emerge un gruppo dirigente che pure c'è stato se ha fatto moderna e forte la Nazione. Oggi il regime non ha una classe dirigente in grado di proporsi e di cimentarsi con il futuro. Questo pesa, pesa l'idea di Gheddafi di sentirsi eterno ed insostituibile se non con qualcuno del suo stesso sangue. Ma i suoi oppositori sono una pure e semplice riedizione del colonialismo e dei suoi ascari che Gheddafi scacciò con la rivoluzione indolore di quaranta anni fa. La libia peggiorerebbe se passasse dalla gestione arcaica del potere di Gheddafi a quella del principe ereditario di re idris e dei petrolieri e generali USA che gli stanno dietro.
Può darsi che diventi un protettorato USA come l'Irak.

di Pietro Ancona

27 febbraio 2011

Il Re dei cachi come Re sciaboletta


Gli italiani, proprio come gli imbecilli, non si smentiscono mai: a loro modo, quindi, sono coerenti. Meno di due anni fa, abbiamo firmato con mano ferma dell’attuale capo di Governo, Silvio Berlusconi, un trattato di amicizia con la Libia. Tale era la forza di questo vincolante accordo che è stato consentito a Gheddafi di venire a far visita per due volte a Roma, accettando i suoi sputi in faccia all’Italia e agli italiani. Peggio: riservandogli gli onori che il nostro premier ha inteso suggellare con un fervido baciamano.

Sono passati pochi mesi e l’inossidabile patto d’acciaio Roma-Tripoli va in frantumi. Leggiamo le dichiarazioni di Silvio Berlusconi pronunciate oggi: «Se tutti siamo d’accordo possiamo mettere fine al bagno di sangue e sostenere il popolo libico. Gli sviluppi della situazione del Nord Africa sono molto incerti perché quei popoli potrebbero avvicinarsi alla democrazia ma potremmo anche trovarci di fronte a centri pericolosi di integralismo islamico. C’è il rischio di un’emergenza umanitaria con decine di migliaia di persone da soccorrere». Se tutti siamo d’accordo? Tutti, chi? Ha forse chiesto l’accordo di “tutti” quando ha firmato il patto d’acciaio con l’amico Gheddafi?

E l’accordo di amicizia fra Italia e Libia? Lui, Re Silvio, non ne fa parola, ma ci pensa l’autorevolissimo Ministro della difesa Ignazio La Russa a liquidarlo: «Di fatto il trattato Italia-Libia non c’è già più, è inoperante, è sospeso. Per esempio gli uomini della Guardia di Finanza, che erano sulle motovedette per fare da controllo a quello che facevano i libici, sono nella nostra ambasciata. Consideriamo probabile che siano moltissimi gli extracomunitari che possano via Libia arrivare in Italia, molto più di quanto avveniva prima del trattato».

Ora, noi non siamo e non siamo mai stati forsennati sostenitori del governo libico del Colonnello Gheddafi. Anche se, a dirvela tutta, quel regime non ci sembrava tra i più infami apparsi sotto la volta celeste della storia. Certo, non ci strapperemo i capelli per la sua deposizione. Ma come giustificare l’inopinato voltafaccia che il nostro Governo, per voce e decisione dei suoi massimi esponenti, sta compiendo?

Non vi sembra qualcosa di già visto nelle pagine più nere della nostra storia? Quelle, per esempio che, di fronte «alla forze soverchianti del nemico», spingevano un re ed imperatore a liquidare l’alleato tedesco, siglare un accordo di pace con gli ex nemici e ad invertire la direzione del fronte nel corso della Seconda guerra mondiale?

Il Re dei Cachi si comporta come il Re Sciaboletta, insomma… Del resto la statura, anche quella fisica, è più o meno la stessa. L’Italia non cambia. La sua vocazione al tradimento resta intatta: fedele nei secoli.


di Miro Renzaglia

26 febbraio 2011

Egitto: i movimenti sociali, la CIA e il Mossad

I limiti dei movimenti sociali.
I movimenti sociali di massa che hanno obbligato Mubarak a ritirarsi rivelano nello stesso tempo la forza e la debolezza dei sollevamenti spontanei.
Da una parte, i movimenti sociali hanno dimostrato la propria capacità di mobilitare centinaia di migliaia di persone, forse milioni, per una lotta vincente che è culminata con la caduta del dittatore che i partiti di opposizione e le personalità preesistenti non hanno voluto o potuto far cadere.
D'altra parte, a causa della leadership politica nazionale, i movimenti non sono stati capaci di prendere il potere politico e trasformare in realtà le loro richieste. Ciò ha permesso alle alte cariche militari di Mubarak di prendere il potere e definire il post mubarakismo, garantendo la continuità e la subordinazione dell'Egitto agli Stati Uniti, la protezione della ricchezza illecita del clan Mubarak (70 miliardi di dollari), il mantenimento delle numerose imprese di propretà dell'élite militare e la protezione dei ceti alti.

I milioni di persone mobilitate dai movimenti sociali per far cadere la dittatura sono state praticamente escluse dalla giunta militare, autoproclamatasi “rivoluzionaria”, al momento di definire le istituzioni e la politica, per non parlare delle riforme socioeconomiche necessarie ai bisogni basilari della popolazione (il 40% della popolazione vive con meno di due dollari al giorno e la disoccupazione giovanile supera il 30%). L'Egitto, come nel caso dei movimenti sociali e studenteschi popolari contro le dittature di Corea del Sud, Taiwan, Filippine e Indonesia, dimostra che la mancanza di un'organizzazione politica in ambito statale permette a personaggi neoliberali e conservatori “d'opposizione” di rimpiazzare il regime. Tali personaggi, stabiliscono un regime elettorale che continua a servire gli interessi imperialisti e difende l'apparato statale esistente. In alcuni casi, vengono sostituiti i vecchi complici capitalisti per altri di nuovo conio. Non è casuale che i media lodino la natura “spontanea” della lotta (e non la domanda socioeconomica) e presentino sotto una luce favorevole il ruolo dei militari (senza tenere conto dei 30 anni nei quali sono stati il baluardo della dittatura). La massa è lodata per il suo “eroismo” e i giovani per il loro “idealismo”, ma in nessun caso li si riconosce come attori politici centrali nel nuovo regime. Una volta caduta la dittatura, i militari e l'opposizione elettorale “hanno celebrato” il successo della rivoluzione e si sono mossi rapidamente per smobilitare e smantellare il movimento spontaneo, al fine di dare spazio alle negoziazioni fra politici liberali, Washington e l'élite militare al potere.

Mentre la Casa Bianca può tollerare o persino fomentare movimenti sociali che conducano alla caduta (“sacrificio”) delle dittature, essa ha tutto l'interesse a preservare lo Stato. Nel caso dell'Egitto, il principale alleato strategico dell'imperialismo degli Stati Uniti non è Mubarak, è l'esercito, con il quale Washington è stata in costante collaborazione prima, durante e dopo la caduta di Mubarak, assicurandosi che la “transizione” alla democrazia (sic) garantisca la permanente subordinazione dell'Egitto agli interessi e alla politica per il Medio Oriente degli Stati Uniti e di Israele.


La ribellione del popolo; le sconfitte della CIA e del Mossad

La rivolta araba dimostra, ancora una volta, le varie falle strategiche in istituzioni come i servizi segreti, le forze speciali e le intelligence degli Stati Uniti, così come nell'apparato israeliano, nessuno dei quali è stato capace di prevedere, non diciamo di intervenire, per evitare la vincente mobilitazione e influire nella politica dei governi e governanti che erano in pericolo.
L'immagine che proiettavano la maggior parte di scrittori, accademici e giornalisti dell'imbattibilità del Mossad israeliano e dell'onnipotente CIA è stata sottoposta a dura prova, con il suo fallimento nel riconoscere la portata, la profondità e l'intensità del movimento di milioni di persone che ha sconfitto la dittatura di Mubarak. Il Mossad, orgoglio e allegria dei produttori di Hollywood, presentato come un “modello di efficienza” dai suoi ben organizzati compagni sionisti, non è stato capace di intercettare il crescere di un movimento di massa in un paese vicino. Il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, si è mostrato sorpreso (e costernato) per la precaria situazione di Mubarak e il collasso dei suoi clienti arabi più vicini, proprio a causa di errori dell'intelligence del Mossad. Ugualmente, Washington, con i suoi 27 organismi di intelligence oltre al Pentagono, è stata colta di sopresa dalle massicce rivolte popolari e dai movimenti emergenti, malgrado le sue centinaia di migliaia di agenti pagati migliaia di milioni di dollari.

Varie osservazioni teoriche si impongono. S'è dimostrato che l'idea di alcuni governanti forzatamente repressivi, che ricevono migliaia di milioni di dollari di aiuti militari dagli Stati Uniti e possono contare con all'incirca un milione di poliziotti, militari e paramilitari per garantire l'egemonia imperiale, non è infallibile. La supposizione che mantenere vincoli a larga scala e per lungo tempo con tali governanti dittatoriali salvaguardi gli interessi USA è stata smentita.
L'arroganza di Israele e la sua presunzione di superiorità in materia di organizzazione strategia e politica rispetto agli “arabi”, è stata seriamente danneggiata. Lo Stato d'Israele, i suoi esperti, gli agenti segreti e gli accademici delle migliori università statunitensi, rimangono ciechi di fronte alle realtà emergenti, ignoranti circa la profondità dello scontento e impotenti ad evitare l'opposizione di massa ai propri clienti più importanti. I propagandisti di Israele negli Stati Uniti, che non resistono a qualsivoglia opportunità per mettere in luce la “brillantezza” delle forze di sicurezza d'Israele, sia che si tratti di assassinare un leader arabo in Libano o a Dubai o che si tratti di bombardare un'istallazione militare in Siria, sono rimasti temporaneamente senza parole.

La caduta di Mubarak e il possibile insediamento di un governo indipendente e democratico significherebbe che Israele potrebbe perdere il suo principale alleato poliziesco. Un'opinione pubblica democratica non coopererebbe con Israele per il mantenimento dell'embargo a Gaza, né condannerebbe i palestinesi a morire di fame per piegare la loro volontà di resistere. Israele non potrà contare su un governo democratico per spalleggiare le violente occupazioni di terre in Cisgiordania e il suo regime fantoccio palestinese. Se ci sarà un'Egitto democratico, gli Stati Uniti non potranno più contarci per spalleggiare i loro intrighi in Libano, le loro guerre in Irak e Afganistan o le sanzioni contro l'Iran. D'altra parte, il sollevamento dell'Egitto è servito d'esempio ad altri movimenti popolari contrari ad altre dittature clienti degli Usa. In Giordania, Yemen e Arabia Saudita. Per tutte queste ragioni, Washington ha appoggiato il golpe militare con il fine di dare forma ad una transizione politica in accordo con i propri gusti e interessi imperiali.

L'indebolimento del principale pilastro del potere imperiale degli USA e del potere coloniale di Israele in Nord Africa e in Medio Oriente pongono in evidenza il ruolo essenziale dei regimi collaboratori dell'Impero. Il carattere dittatoriale di questi regimi è il risultato diretto del ruolo che svolgono in difesa degli interessi imperiali. E i grandi pacchetti di aiuti militari che corrompono e arricchiscono le élite dominanti sono la ricompensa per la sua buona disposizione a collaborare con gli Stati imperialisti e coloniali. Data l'importanza strategica della dittatura egiziana, come spiegare il fallimento delle agenzie di intelligence degli USA e Israele nell'anticipare le rivolte?

Tanto la CIA quanto il Mossad, hanno collaborato strettamente con i servizi segreti dell'Egitto e da essi hanno tratto le loro informazioni, secondo le quali tutto sembrava sotto controllo. I partiti dell'opposizione sono deboli, decimati dalle infiltrazioni e dalla repressione, i suoi militanti languiscono nelle prigioni e soffrono di fatali “attacchi al cuore” a causa di severe “tecniche di interrogatorio”, affermavano. Le elezioni sono state manipolate per eleggere i clienti degli USA e Israele, in modo che non ci fossero sorprese democratiche nell'orizzonte immediato o a medio termine.
I servizi segreti egiziani sono istruiti e finanziati da agenti israeliani e statunitensi, ed hanno una naturale tendenza a compiacere la volontà dei loro padroni. Erano tanto obbedienti a produrre informazioni che compiacessero i loro mentori, che ignoravano qualsivoglia informazione di un crescente malessere popolare o la agitazione in Internet. La CIA e il Mossad erano tanto incrostati nel vasto apparato di sicurezza di Mubarak che sono stati incapaci di ottenere qualsiasi informazione sui movimenti indipendenti dell'opposizione elettorale tradizionale che controllavano.

Quando i movimenti di massa extraparlamentari sono scoppiati, il Mossad e la CIA hanno continuato a confidare nell'apparato statale di Mubarak per mantenere il controllo attraverso la tipica operazione della carota e il bastone: fare concessioni simboliche transitorie e riversare nelle strade l'esercito, la polizia e gli squadroni della morte. Mano a mano che il movimento cresceva da dozzine di migliaia a centinaia di migliaia a milioni di persone, il Mossad e i principali congressisti statunitensi sostenitori di Israele chiedevano a Mubarak di “sopportare”. La CIA si è limitata a presentare alla Casa Bianca il profilo politico di funzionari militari affidabili e di personaggi politici flessibili, “di transizione”, disposti a seguire i passi di Mubarak. Una volta ancora, la CIA e il Mossad hanno dimostrato la loro dipendenza dall'apparato statale egiziano per ottenere informazioni su ciò che poteva rappresentare un'alternativa possibile pro statunitense e israeliana, omettendo le più elementari esigenze del popolo. Il tentativo di cooptare la vecchia guardia elettoralista dei Fratelli Musulmani attraverso negoziazioni con il vicepresidente generale Omar Suleiman è fallita, in parte perché i Fratelli Musulmani non avevano il controllo del movimento e in parte perché Israele e i loro seguitori statunitensi si sono opposti. D'altra parte, l'ala giovanile dei Fratelli ha fatto pressioni affinché l'organizzazione si ritirasse dalle trattative.

Le lacune in materia di intelligence hanno complicato gli sforzi di Washington e Tel Aviv per sacrificare il regime dittatoriale e salvare lo Stato: né la CIA né il Mossad avevano vincoli con nessuno dei leader emergenti. Gli israeliani non sono riusciti a trovare nessun “volto nuovo” che avesse consenso popolare e fosse disposto a svolgere il poco decoroso ruolo di collaboratore dell'oppressione coloniale. La CIA era totalmente coinvolta nell'uso dei servizi segreti egiziani per torturare sospettati di terrorismo (…) e nella vigilanza dei paesi arabi vicini. Come risultato, sia Washington che Israele hanno cercato e promosso il golpe militare al fine di anticipare una maggiore radicalizzazione della situazione.

In ultima analisi, l'insuccesso della CIA e del Mossad di prevedere e prevenire il sorgere del movimento democratico popolare, mette in rilievo la precarietà della base del potere imperiale e coloniale. Alla lunga, non sono le armi, le migliaia di milioni di dollari, i servizi segreti, né le camere della tortura ciò che decide la storia. Le rivoluzioni democratiche avvengono quando la maggior parte di un popolo si solleva e dice “basta”, occupa le strade, paralizza l'economia, smantella lo Stato autoritario ed esige libertà e istituzioni democratiche senza tutela imperiale o sottomissione coloniale.

di James Petras


Traduzione di Marina Minicuci

25 febbraio 2011

Stregati da Berlusconi

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Può darsi che la stagione di Berlusconi sia al tramonto, e che lo sia inesorabilmente. Immagino che, mese più mese meno, si tornerà a votare ad aprile dell’anno prossimo. In quel momento la cosiddetta curva di Schmitt, che descrive il ciclo del consenso al governo entro la legislatura, non sarà più al suo minimo com’è oggi: in genere il terz’anno è l’anno peggiore per il governo in carica, e il migliore per l’opposizione, mentre nell’ultima parte della legislatura la popolarità del governo tende a risalire, e l’opposizione perde colpi (per questo Berlusconi sta cercando di non farci votare subito). E può benissimo essere che, a quel punto (nel 2012), la risalita della curva del consenso non basti a riportare Berlusconi al governo. In tal caso, a meno di un cambio di leadership nel centro-destra (Tremonti?), dovremmo prepararci a una vittoria elettorale del centro-sinistra.

Ma è realistico questo scenario?
Difficile dirlo, ma esiste anche uno scenario alternativo: il governo prova a fare qualcosina, ovvero modeste dosi di arrosto in mezzo a cospicui segnali di fumo; l’opinione pubblica si stufa di sentir parlare sempre e solo delle ragazze del premier; i processi vanno avanti a singhiozzo, senza lasciar emergere alcuna verità definitiva. Dopodiché si va a votare, il centro-destra ripropone Berlusconi, le opposizioni sono confuse e divise, e non riescono a trovare un leader accettato da tutti. Le urne, per un soffio, consegnano la Camera al centro-destra e il Senato alle opposizioni. Il polo di centro, o terzo polo, si divide, con una parte che sta con la sinistra e un’altra che appoggia il centro-destra. Si forma un nuovo governo di centro-destra, si ricomincia a parlare di giustizia, intercettazioni e Costituzione. L’opposizione di sinistra si indigna, il governo governicchia, e la commedia si ripete. Stesso film, stessi attori, solo un po’ più vecchi e prevedibili di prima.

Perché parlo dello scenario alternativo?
Perché, a mio parere, il ceto politico che guida le cinque opposizioni (Pd, Sel, Udc, Idv, Fli) lo sta preparando accuratamente. Può darsi che non ci riescano a riportare Berlusconi al governo, ma certo stanno facendo il massimo per ottenere il risultato. Non mi riferisco qui al fatto che mantenere in vita cinque (!) opposizioni distinte è già una follia. O al fatto che non darsi un capo è autolesionismo puro. Ciò che mi colpisce è quella che Mario Calabresi, qualche giorno fa su questo giornale, ha descritto come l’incapacità di «archiviare» Berlusconi. Una capacità che Barack Obama seppe mostrare nei confronti di Bush prima ancora di diventare presidente, e di cui i nostri leader - specialmente quelli di sinistra - appaiono del tutto sprovvisti.

I leader della sinistra, e segnatamente quelli del Pd, il maggior partito di opposizione, non solo appaiono ossessionati da Berlusconi, per cui raramente riescono a parlar di qualcosa senza tirarlo in ballo, ma appaiono afflitti da una vera e propria malattia politica, contratta fin da piccoli, ossia da quando militavano (la maggior parte di essi) nel partito comunista. Questa malattia si chiama «primato della cornice», e consiste in questo: di fronte a un provvedimento, a un’ipotesi, a una legge, non si è capaci di giudicarla in sé, valutandone (laicamente!) i pro e i contro, ma la si giudica in base alla cornice in cui si colloca, cioè - essenzialmente - in base a chi è al governo in quel momento. Succedeva negli Anni 60 e 70 per cose come la costruzione di autostrade, lo Statuto dei lavoratori, la tv a colori. Succedeva in anni più recenti per la guerra in Iraq e il ponte sullo stretto. E risuccede oggi tutti i giorni, su problemi che meriterebbero di essere discussi e affrontati con tutt’altra libertà mentale.

E’ così che può accadere che Pd e Italia dei valori, pur favorevoli al federalismo, decidano di bloccarlo perché è un’occasione per indebolire Berlusconi. Pronti a discutere di tutto, purché venga rimosso Berlusconi. E indisponibili a tutto finché rimane al suo posto. Perché quel che conta non è se una legge è buona o cattiva, ma a quale parte politica giova in quel momento.

Lo stesso era accaduto qualche mese fa per la riforma universitaria, sistematicamente usata per dimostrazioni di forza, senza alcun riguardo per i contenuti, fino al paradosso del voto contrario sull’articolo 18 del disegno di legge: un articolo voluto dal senatore del Pd Ignazio Marino, votato dal Pd stesso al Senato, ma bocciato dal medesimo Pd alla Camera, al solo scopo di mettere in difficoltà il governo. Un episodio che lo stesso senatore Marino, in un intervista, ebbe a commentare così: «Ciò che è accaduto (il voto contrario del Pd) lascia una macchia perché dimostra che in Parlamento si prescinde spesso dai contenuti di ciò che si vota. Sarebbe meglio che in Parlamento si votasse più spesso ciò che si ritiene giusto e non ciò che si pensa sia conveniente».

Lo stesso accade per i rapporti fra giustizia e politica: se qualcuno osa porre il problema dell’immunità parlamentare, di nuovo il «primato della cornice» scatta implacabile, come un riflesso pavloviano. Prima di qualsiasi valutazione di merito, conta il fatto che «sarebbe l’ultima risorsa cui il premier vorrebbe far ricorso per sottrarsi ai suoi giudici» (così Anna Finocchiaro nell’intervista rilasciata martedì a «La Stampa»). Certo, si ammette, se ne può anche parlare, ma non ora. Di certi temi «si potrebbe discutere» ma solo «in una situazione normale», e «s’intende, dopo aver parlato di molto altro».

Eccoli lì, i riflessi condizionati. Se una legge può giovare al nostro avversario (federalismo), noi diventiamo contrari a prescindere: è il primato della cornice. Se un tema ci imbarazza (immunità parlamentare), allora «sono ben altre le priorità»: è l’arma del benaltrismo. Ma così si conferma soltanto quanto la sinistra e il suo gruppo dirigente siano lontani dal modello Obama, che di fronte alla richiesta dei suoi stessi simpatizzanti di punire Bush per le sue malefatte, rispondeva: io non voglio punire Bush, io voglio archiviarlo.

Stregati da Berlusconi, incapaci di non rinnovare quotidianamente, e più di una volta al giorno, il rito dell’indignazione, incapaci di pensare i problemi dell’Italia senza l’ossessivo riferimento al destino del premier, i dirigenti della sinistra non si avvedono che così noi cittadini possiamo, al più, convincerci della loro dirittura morale, ma non riusciamo a persuaderci della cosa più importante sul piano politico: e cioè che un vasto schieramento di forze, guidato da un leader riconosciuto, ha una propria idea del futuro dell’Italia, un’idea chiara, un’idea positiva, e come tale un’idea che prescinde da Berlusconi, da Ruby e da tutte le altre. Un’idea che non guarda all’Egitto, o alla Libia, dove è la furia popolare, con il suo corredo di violenza e di sangue, a far cadere i dittatori. Ma guarda all’America, dove i cattivi governanti vengono rimossi e sostituiti in libere elezioni. E dove Obama non sognava di punire Bush, ma soltanto di voltare pagina: di iniziare una nuova era, di costruire un’altra America.

di Luca Ricolfi

24 febbraio 2011

Nel precipizio



Le notizie che arrivano sono di vera e propria guerra contro civili in rivolta, quindi di massacro. Quel che Gheddafi aveva sempre promesso, che mai avrebbe rivoltato le armi contro il suo popolo, anche questa è una promessa non mantenuta. È tempo che se ne vada, è tempo che si intravveda oltre il bagno di sangue una soluzione di mediazione che, come in Egitto e Tunisia, non può non cominciare che con l'uscita di scena di Muammar Gheddafi al potere assoluto da quarantuno anni.

È tempo che l'Occidente scopra nel nuovo processo di democratizzazione avviato con le rivolte di massa in Medio Oriente non il pericolo dell'integralismo islamico, ma una risorsa per pensare diversamente quel mondo e insieme le nostre società blindate. Ora che finalmente anche le Nazioni unite alzano la voce, chi ha amato quel popolo e quel paese non può tacere.

Come fa il governo italiano che si nasconde dietro le dichiarazioni, dell'ultimo momento, di un'Unione europea più preoccupata dei suoi affari che delle società e di quei popoli. Dunque, dobbiamo dire la verità per fermare il sangue che scorre a Tripoli, a Bengasi e in tutto la Libia. Innanzitutto dobbiamo fare quello che non abbiamo fatto con il Trattato Italia-Libia del 2008.

Lo sapevamo benissimo che Gheddafi era un dittatore, che in Libia non c'è rispetto per i diritti umani. E quindi quando abbiamo firmato come Italia quel trattato, abbiamo voluto ratificare solo un accordo di carattere economico, commerciale, capace di fermare la disperazione dell'immigrazione africana in nuovi campi di concentramento. Ma non politico. Abbiamo fatto un errore gravissimo. Un errore che ci stiamo trascinando ancora oggi perché i nostri responsabili al governo non hanno il coraggio di affrontare la situazione e dire adesso basta a chiedere a chiare lettere: «Hai guidato per 41 anni questo paese, hai fatto del tuo meglio, adesso lascia il posto ad altri». Questa dovrebbe essere la richiesta precisa. Ma i fatti che si affollano mentre scriviamo, ci dicono che il precipizio purtroppo c'è già. Perché in un certo senso Gheddafi sta pagando due errori fondamentali della sua politica. Ha dimenticato che una parte decisiva della Libia, la Cirenaica, è ancora pervasa del mito della Senussia e di Omar el Mukhtar - quello impiccato dagli italiani. E i dimostranti inneggiano a el Mukhtar. Fatto ancora più grave, Gheddafi ha invece sempre minimizzato l'importanza delle tribù del Gebel, della «montagna», che sono a 50 km da Tripoli. Gli Orfella, gli Zintan, i Roseban, queste grandi tribù della montagna che sono le stesse che hanno messo nei pasticci gli italiani nel 1911.

Gheddafi ha sempre minimizzato l'importanza di queste componenti numerose - gli Orfella sono 90mila persone - nella lotta di liberazione e nella ricostruzione della nuova Libia. Così è covato per decenni un sordo risentimento che ora li vede associati, se non alla guida dei rivoltosi con i quali, in queste ore, stanno marciando verso Tripoli. Insomma è l'intera storia della Libia che si «riavvolge» e contraddice il regime del Colonnello. Se solo pensiamo a pochi mesi fa, quando Berlusconi e Gheddafi presenziavano in una caserna romana dei carabinieri ad un caravanserraglio, con giostre di cavalieri. Viene la domanda oggettiva: ma come ha fatto a non accorgersi che tutto il mondo che aveva costruito era in crisi drammatica? Lui che aspirava a presentarsi come il leader dell'intero continente africano, non aveva nemmeno la sensazione dei limiti del suo governo e della tragedia che si consumava nella sua patria. Eppure Gheddafi non è stato solo un fantoccio, come Ben Ali e Hosni Mubarak.

Quando fu protagonista del colpo di stato nel '69 aveva davanti a sé un paese pieno di piccole organizzazioni, clanico, e lui ha contribuito a farne una nazione. In un anno ha cacciato le basi militari americane e inglesi, ha espulso i 20mila italiani che costituivano ancora un retaggio del colonialismo. Insomma ha cercato di fare della Libia una nazione. E per molti anni la Libia è stata considerata una nazione. Era solo una presunzione, ora lo sappiamo. Era una presunzione ridurre ad un solo uomo quel progetto che doveva appartenere davvero a tutto il popolo - non solo ai «comitati del popolo» voluti dal regime. Qui ha fallito.

Quando si è autorappresentato come l'unico responsabile dell'abbattimento del colonialismo e del fronteggiamento dell'imperialismo. Riducendo ad una persona le istituzioni libiche, la storia di quel paese, le aspirazioni diffuse. Quando è venuto in Italia aveva sulla divisa la foto dell'eroe anti-italiano Omar el Mukhtar. Ma era solo una provocazione soggettiva, come a dire «Io non dimentico». Ma il fatto di avere sottovalutato l'importanza di tutte le tribù della montagna, cioè della società politica che ha prodotto la nascita della Libia, è stato l'errore più grave. Perché sono le componenti fondamentali che avevano fatto la resistenza, la liberazione e poi avevano fatto crescere il paese.

La situazione adesso, purtroppo, è oltre. Io penso con dolore che ormai tutti gli appelli sono troppo in ritardo. Il fatto stesso che le tribù della montagna scendano a Tripoli per liberarla, mi dà la misura della svolta nel precipizio.
Il gruppo degli anziani, dei saggi, ha detto che bisogna abbattere Gheddafi. Esattamente con queste parole: «Invitiamo alla lotta contro chi non sa governare», hanno dichiarato gli anziani degli Orfella; mentre i vicini capi degli Zentan chiedevano «ai giovani di combattere e ai militari di disertare e di portare l'inferno a Gheddafi». È questa la novità della crisi libica. La rivolta storica della generazione degli anziani della generazione, dei veterani. Una conferma che viene anche dal Cairo, dove il rappresentate libico nella Lega araba Abdel Moneim al-Honi si è dimesso per unirsi ai rivoltosi. È una notizia importantissima, perché è uno dei famosi «11 ufficiali» che hanno fatto la rivolta nel '69 con Gheddafi. E insieme, della generazione dei giovani e giovanissimi. Quei giovanissimi che hanno fatto la rivolta per motivi di disperazione sociale, con una altissima disoccupazione al 30%. Un dato che svela la favola della buona redistribuzione delle ricchezze energetiche libiche. E le chiacchiere di un «socialismo popolarista» rimasto sulla carta del «Libro Verde» del Colonnello.

La summa del suo pensiero che gli è servito per minimizzare l'apporto politico degli altri protagonisti della rivoluzione. Incontrandolo in una intervista del 1986, lui ammise che il «Libro Verde» era fallito e che la Libia era ancora «nera» non verde. Ora è anche rossa del sangue del suo popolo che lui ha versato. Per l'ultima volta.
di Angelo Del Boca

23 febbraio 2011

L’informazione pubblica sta scivolando nella deriva della democrazia totalitaria

L’informazione pubblica in Italia, specialmente quella radiotelevisiva, sta scivolando ormai da tempo lungo una deriva che la vede ridotta al ruolo di mero strumento propagandistico di una democrazia totalitaria.
In un sistema liberale, basato sul consenso dei cittadini-elettori, essenziale, per il potere, è il modo in cui essi vengono informati degli eventi: chi controlla l’informazione è in grado di esercitare un fortissimo condizionamento anche sulla formazione delle loro opinioni e, di conseguenza, sulle loro scelte politiche.
L’Italia rappresenta un caso fortemente anomalo di sistema liberale, perché in esso il capo del governo e del maggiore partito politico è anche il proprietario di una larga fetta del sistema dell’informazione e al tempo stesso, nell’esercizio del suo ruolo istituzionale, è in condizioni di esercitare una forte pressione anche sul sistema della televisione di Stato.
Da diversi anni, ormai, assistiamo con tristezza allo spegnersi dell’autentico spirito della libera informazione, basato sul rispetto delle voci critiche e sulla pluralità dei commenti, nonché sulla correttezza e sulla imparzialità della divulgazione dei fatti e su una ragionevole valutazione della loro rispettiva importanza: per cui, ad esempio, la notizia di quanto sta accadendo in Egitto in questi giorni dovrebbe venire prima di qualche fatto, pur drammatico, della cronaca nera di casa nostra, o, a maggior ragione, della pubblicità, camuffata da notizia del telegiornale, della fabbricazione dell’ultimo modello di automobile.
In un Paese ove la stampa è sempre stata condizionata da interessi finanziari e industriali, per non parlare delle televisioni commerciali, la doverosa distinzione tra i fatti e le opinioni è sempre stata pericolosamente ambigua e sfumata; ma, da alcuni anni a questa parte, anche le ultime apparenze di rispetto della verità sono state abbandonate e il sistema della informazione pubblica è caduto in basso, come non era mai accaduto prima.
Il risultato è che, per sapere cosa stia succedendo veramente in Italia, come pure nel resto del mondo, bisogna ormai affidarsi ai mezzi d’informazione stranieri; come avviene nelle dittature “classiche”, infatti, i nostri mass-media sono diventati largamente inattendibili, ammaestrati dalla prepotenza del potere politico e asserviti sempre più agli interessi finanziari e industriali, la cui pressione si è fatta ormai insostenibile per ogni voce libera e fuori dal coro.
I migliori, ormai, se ne vanno o stanno seriamente pensando di andarsene; sembra impossibile rimanere nella pubblica informazione e, al tempo stesso, conservare un minimo di dignità e di stima per se stessi, non parliamo poi di tutelare gli interessi del pubblico.
Restano i servi, gli adulatori, gli uomini e le donne per tutte le stagioni; restano, con profitto, gli avidi, gli ambiziosi e gli amorali; restano, ma con difficoltà sempre più grandi, addirittura con un senso di intima ripugnanza, quanti vogliono rimanere fedeli a un’idea alta di ciò che dovrebbe essere la pubblica informazione in un Paese realmente libero.
Verrebbe quasi da dire, parafrasando Robespierre davanti al colpo di Stato del 9 Termidoro: «I briganti trionfano; la Repubblica è perduta.»
Una lezione di dignità e di fermezza è venuta, il 21 maggio del 2010, dalla giornalista Maria Luisa Busi, conduttrice del TG1 - ossia della maggiore testata televisiva della Rai - che, con una lettera aperta al direttore Augusto Minzolini, spiegava le ragioni delle proprie dimissioni.
Vale la pena di riportarne i passi salienti:

« Amo questo giornale, dove lavoro da 21 anni. Perché è un grande giornale. E' stato il giornale di Vespa, Frajese, Longhi, Morrione, Fava, Giuntella. Il giornale delle culture diverse, delle idee diverse. Le conteneva tutte, era questa la sua ricchezza. Era il loro giornale, il nostro giornale. Anche dei colleghi che hai rimosso dai loro incarichi e di molti altri qui dentro che sono stati emarginati. Questo è il giornale che ha sempre parlato a tutto il Paese. Il giornale degli italiani. Il giornale che ha dato voce a tutte le voci. Non è mai stato il giornale di una voce sola. Oggi l'informazione del Tg1 è un'informazione parziale e di parte. Dov'è il Paese reale? Dove sono le donne della vita reale? Quelle che devono aspettare mesi per una mammografia, se non possono pagarla? Quelle coi salari peggiori d'Europa, quelle che fanno fatica ogni giorno ad andare avanti perché negli asili nido non c'è posto per tutti i nostri figli? Devono farsi levare il sangue e morire per avere l'onore di un nostro titolo. E dove sono le donne e gli uomini che hanno perso il lavoro? Un milione di persone, dietro alle quali ci sono le loro famiglie. Dove sono i giovani, per la prima volta con un futuro peggiore dei padri? E i quarantenni ancora precari, a 800 euro al mese, che non possono comprare neanche un divano, figuriamoci mettere al mondo un figlio? E dove sono i cassintegrati dell'Alitalia? Che fine hanno fatto? E le centinaia di aziende che chiudono e gli imprenditori del nord est che si tolgono la vita perché falliti? Dov'è questa Italia che abbiamo il dovere di raccontare? Quell'Italia esiste. Ma il tg1 l'ha eliminata. Anche io compro la carta igienica per mia figlia che frequenta la prima elementare in una scuola pubblica. Ma la sera, nel Tg1 delle 20, diamo spazio solo ai ministri Gelmini e Brunetta che presentano il nuovo grande progetto per la digitalizzazione della scuola, compreso di lavagna interattiva multimediale".
"L'Italia che vive una drammatica crisi sociale è finita nel binario morto della nostra indifferenza. Schiacciata tra un'informazione di parte - un editoriale sulla giustizia, uno contro i pentiti di mafia, un altro sull'inchiesta di Trani nel quale hai affermato di non essere indagato, smentito dai fatti il giorno dopo - e l'infotainment quotidiano: da quante volte occorre lavarsi le mani ogni giorno, alla caccia al coccodrillo nel lago, alle mutande antiscippo. Una scelta editoriale con la quale stiamo arricchendo le sceneggiature dei programmi di satira e impoverendo la nostra reputazione di primo giornale del servizio pubblico della più importante azienda culturale del Paese. Oltre che i cittadini, ne fanno le spese tanti bravi colleghi che potrebbero dedicarsi con maggiore soddisfazione a ben altre inchieste di più alto profilo e interesse generale".»

Vale la pena, inoltre, di ricordare che un fatto di altro genere, ma non meno grave, si è verificato il 28 settembre 2010, a Napoli, quando la giornalista di Sky tg24, Alessandra Del Mondo, mentre si avvicinava con il microfono al ministro del’Interno, Maroni, in visita a quella città, per rivolgergli una domanda, è stata sollevata di peso e brutalmente stretta da una guardia della scorta, subendo uno schiacciamento toracico e un principio di asfissia, che l’hanno costretta a presentarsi al pronto soccorso.
Il fatto, che sarebbe stato inconcepibile in Paesi come la Germania, la Francia o la Gran Bretagna, anche se non ha avuto, fortunatamente, conseguenze serie per l’interessata, la dice lunga sulla barriera, anche fisica, che ormai separa i signori del Palazzo dalla gente comune e sulla loro sempre più manifesta antipatia per il mondo del giornalismo e della pubblica informazione, a meno che esso si presenti nelle vesti di supino trasmettitore di notizie edulcorate, manipolate, imbellettate e, soprattutto, debitamente censurate.
Chi non ricorda come l’attuale capo del governo, proprietario di una buona metà dei mezzi d’informazione di questo Paese, e in grado di influenzare attivamente l’altra metà, si sia continuamente lamentato delle “bugie” che, a suo dire, stampa e televisione raccontano su di lui, solo perché, di tanto in tanto, osano parlare anche in termini critici delle sue azioni pubbliche e private; e di come egli abbia spinto la propria impudenza fino ad invitare gli Italiani a non comperare più i giornali?
Qualcuno riesce ad immaginarsi Obama, Sarkozy o la signora Merkel che rivolgono senza arrossire un tale, stupefacente appello ai propri concittadini?
La casta si è asserragliata nella propria cittadella e, pur se sbandiera ad ogni pie’ sospinto l’esito favorevole degli ultimi sondaggi e la legittimazione popolare ricevuta nell’ultima tornata elettorale, di fatto si chiude a riccio nella difesa dei propri privilegi e si adopera affinché l’immagine che della realtà forniscono i mezzi d’informazione sia conforme al proprio disegno egemonico e supinamente acquiescente alla propria feroce volontà di autoconservazione.
Questa non è più democrazia, ma una parodia della democrazia; peggio ancora: l’estrema e più sfacciata prostituzione demagogica della democrazia; una democrazia che, ormai, in poco o nulla si differenzia dalla più ottusa da quelle dittature che esercitano un controllo esplicito e diretto sui mezzi d’informazione, censurandoli a man salva e piegandoli ai propri obiettivi propagandistici, senza ombra di esitazione o d’imbarazzo.
Appunto, una democrazia totalitaria, che considera alla stregua di un attentato ogni voce di dissenso; ogni critica, anche la più legittima e fondata, come un tentativo di eversione dell’ordine costituito, cioè dell’ordine “democratico”.
Ora, la domanda che sorge spontanea è la seguente: come è potuto accadere che tutto ciò si verificasse, nel nostro Paese, sotto i nostri occhi, senza che noi reagissimo per tempo, perfino senza che ci rendessimo conto di quanto si stava preparando?
Vi erano delle debolezze strutturali, non solo nel nostro sistema politico e sociale, ma anche nella nostra cultura e nel nostro stesso carattere nazionale; delle debolezze che puntualmente vengono al pettine, nella storia italiana, ogni volta che il distacco fra la casta ed il popolo oltrepassa ogni limite tollerabile.
Caporetto, per esempio, il grande “sciopero militare”, è il frutto del modo in cui il Paese fu trascinato in guerra, per calcoli tutto sommato meschini, da una classe dirigente irresponsabile, contro i sentimenti di gran parte della nazione; mentre l’8 settembre 1943, la data forse più vergognosa di tutta la nostra storia recente, è stata il risultato di un antico vizio del carattere nazionale: quello di voler saltare sempre, magari all’ultimo momento, sul carro del vincitore di turno, rifiutando l’assunzione di una seria responsabilità collettiva.
Anche la situazione odierna dell’informazione pubblica ricorda per metà una Caporetto e per metà un otto settembre: come la prima, esprime lo scollamento indecente fra il potere e la gente comune; come il secondo, tradisce la mediocre furberia del tirare a campare, del barcamenarsi fra mille espedienti, nonché la mancanza di dignità davanti alla resa dei conti.
Come potremo uscire da tanto avvilimento, come potremo tornare ad essere un Paese serio e fiero di se stesso? Un Paese dove l’informazione sia al servizio dei cittadini e non dei poteri forti, tutta impegnata a spegnere l’ultimo barlume di spirito critico e a scatenare, a comando, l’ennesima offensiva a base di calunnie contro questo o quel personaggio scomodo, prona agli ordini che vengono dall’alto, mentre le autentiche infamie dei signori del Palazzo vengono scusate e giustificate in infiniti modi?
Una cosa è certa: non basterà un cambio del premier, non basterà un cambio del governo; e nemmeno, se pure vi sarà, un cambio della maggioranza politica.
Non è vero che la sinistra è il Bene e che la destra è il Male: la cialtroneria è un vizio diffuso in tutta la nostra classe politica.
È vero, semmai, che la destra, negli ultimi vent’anni, è stata incantata e sedotta da un avventuriero senza scrupoli, che ha imposto al Paese, nei più alti livelli istituzionali, una accolita di personaggi semplicemente indecorosi, di una arroganza pari soltanto alla loro smaccata mancanza di senso dello Stato e di sollecitudine per il bene comune.
No: per avere una informazione pubblica degna di questo nome, sarà necessaria una profonda riforma morale e, al tempo stesso, una legislazione severa, che interdica la concentrazione dei mezzi d’informazione nelle mani di un singolo individuo o di un singolo gruppo finanziario e che tracci una linea chiara, rigorosa, invalicabile, fra il potere economico, il potere politico e quello dell’informazione stessa.
Ma nessuna legislazione potrà metterci al riparo dai nostri vizi, dalle nostre vigliaccherie, dalle nostre piccole furberie, se noi, come popolo, non decideremo di ritrovare la stima di noi stessi.

di di Francesco Lamendola

22 febbraio 2011

I guasti del denaro, ultimo totem

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Il libro di Vittorino Andreoli, Il denaro in testa (Rizzoli), fa ripensare al peso di questo fattore, nefasto ma sempre mutevole. Tutta la storia dell’uomo narra le violenze fatte e le angherie subite, nel nome dei suoi grandi totem: il denaro e le religioni. Dio e Mammona hanno sempre trovato nel potere i loro modi di sontuosa convivenza; nel reciproco interesse. Alla fine, Andreoli elenca i bisogni veri dell’uomo: la sicurezza, l’amore, la continuità della vita attraverso i figli, la serenità e la gioia (più necessarie della libertà, scrive, e viene in mente l’arringa a Gesù del Grande Inquisitore) e così via.«Per nessuno di questi bisogni serve il denaro, semmai aiuta a soddisfarli meglio».

È questo, però, il problema. Certo, le società moderne sono tanto disossate da far dire a Margaret Thatcher (che ci ha messo del suo): «La società non esiste». Non credo però che, neanche in quell’era dorata che ci pare il nostro Rinascimento, si vivesse come in un’orchestra nella quale, «se tutti sono adeguatamente coordinati e danno il loro contributo all’insieme, la vita può diventare l’esecuzione della Nona sinfonia di Beethoven».

Da tempo, certo, il denaro deborda ben oltre i limiti propri di una convivenza ordinata. Da quando la società anonima ha circoscritto le responsabilità degli investitori, sono partite innovazioni che hanno rivoluzionato la vita; la ricchezza mobiliare fa a meno della terra, onde l’aristocrazia traeva potere e ricchezza. Ciò aumenta il numero dei ricchi, quindi la paura di diventare poveri; è chi sta male a sperare di stare meglio. I guadagni sono celati, le perdite lamentate in pubblico.

La finanza ha messo il turbo ai guadagni privati e alle perdite che le crisi finanziarie addossano al contribuente; se si può anticipare l’incasso anche di anni lontani, la tentazione di vendersi il vitello in pancia alla vacca mina il futuro. Ma il passato, aureo o no, non tornerà. Fra il 1950 e la metà degli anni Settanta gli eccessi del denaro non erano così visibili e dannosi. Le disuguaglianze erano minori.

Le paghe dei megamanager avevano un rapporto con il loro lavoro, erano cinquanta volte quelle dei loro dipendenti, non cinquecento o mille; la deontologia professionale reggeva. Ciò costava nell’immediato, ma la reputazione era fonte di guadagni futuri; gli auditor non certificavano bilanci falsi per tenersi il cliente, le banche - settore sonnolento - non concedevano mutui farlocchi da rifilare a sprovveduti, vogliosi di strappare un lacerto di carne. La fine dello spauracchio comunista allentò le difese del capitalismo, mostrandone il volto peggiore; gli incassi immediati contarono più della reputazione.

I giudizi di Andreoli su finanzieri e imprenditori paiono a volte troppo tranchant; se (quasi tutti) sono mossi dalla maledetta fame di denaro, accostarli ai criminali è un po’ forte. E magari non è il mondo a essere mutato, ma la maggior esperienza di vita a mettere a nudo la realtà. Poco praticabili sono poi alcune sue ricette: sarebbe sì desiderabile che la psicologia dettasse all’economia la «giusta distribuzione dei compiti e dei mezzi... tenendo conto delle differenze, degli impegni e delle necessità di ognuno».

I tanti tentativi in tal senso della politica, tuttavia, pur ispirati alle migliori intenzioni, dicono che l’economia di mercato è il peggior allocatore delle risorse, a parte gli altri sistemi: come quella democrazia che con lei si è sviluppata, ma che dai suoi eccessi è messa a rischio. Ignoriamo gli esiti di una grave crisi che di quelle disuguaglianze s’è nutrita e deve ancora dispiegare le sue conseguenze economiche, sociali e politiche; la difesa, coltello fra i denti, della ricchezza impaurita ci darà forse brutte sorprese.

La direzione presa dal sistema negli ultimi trent’anni - più economia di business che di mercato - può farci tornare al punto di partenza; con la democrazia che conserva le forme ma trasmuta in aristocrazia, non della terra ma del denaro. Se per essere eletti servono troppi soldi, vince il più ricco o chi meglio si vende ai vested interest; con l’aiuto, troppo ignorato, di una tv che ha prima unito l’Italia, poi sfibrato gli italiani.

Le parole di Andreoli evocano nel lettore la sapienza laica - per cui è sventurato l’uomo che non dona e muore ricco - e religiosa: dalla «preghiera semplice» di Francesco - «È dando che si riceve» - al Vangelo: «Eppure vi dico che nemmeno Salomone in tutto il suo splendore fu mai vestito come i gigli del campo». Se hai bisogno di aiuto, si dice, chiedilo a un povero, lui ti aiuterà.

La ricchezza ci chiude, invece di aprirci al dono; fortunato chi per la cruna dell’ago sfugge a questa morsa. La povertà oggi diviene peccato, dice l’autore; peggio, il governo la considera spesso reato. Chi nasce povero ha più probabilità di restarlo oggi che nello scorso secolo breve.La meta dell’uguaglianza dei punti di partenza, topos della democrazia liberale, che è morta con la tassa di successione, va risuscitata; deve però cessare l’atomizzazione dei saperi, deprecata dall’autore, per cui gli intellettuali più non leggono i libri di economia. Le colpe sono equamente ripartite, ma ricordiamolo: Adam Smith insegnava filosofia morale, non econometrica.
di Salvatore Bragantini

21 febbraio 2011

Il fascino discreto della corruzione

In un momento della nostra storia politica, in cui corrotti e corruttori escono allo scoperto sempre più esplicitamente, forse bisognerebbe interrogarsi sul senso della corruzione. Così come sarebbe venuto il momento di porre seriamente la questione, proprio quando, di fronte a questi episodi sempre più rilevanti, i paladini della pulizia morale si ergono a bastioni contro la cancrena dilagante.

Di fronte all’ambigua contrapposizione che vede da un lato i corrotti, emissari di ogni male e dall’altro i puri, i “catari” dell’incorruttibilità, senza pregiudizi, ci si dovrebbe interrogare a partire da una domanda che può apparire provocatoria e che suona così: “E se la corruzione fosse il motore del mondo”?

A porci questa domanda, in apparenza bizzarra, è Gaspard Koenig che ha scritto Il fascino discreto della corruzione edito da Bompiani.

Il punto di partenza del saggio pone immediatamente una delle questioni che, se non si vogliono fare affermazioni consolatorie, è sotto gli occhi di tutti. La corruzione “è un fenomeno più difficile da individuare di quanto si pensi. È dappertutto e non è da nessuna parte. La si condanna da lontano, la si incoraggia da vicino”.

La prima cosa da fare è rendersi conto che la corruzione non è solo quella evidente delle tangenti, delle bustarelle, della concussione, della sottrazione di fondi pubblici, dell’abuso di potere. La corruzione è fatta anche, e soprattutto, di nepotismo, di favoritismo. E il passaggio tra le sue varie forme è impercettibile. Spesso comincia e si fonda su un semplice atto di cortesia che si rende a un amico.

La prima parte del libro è riservata a definire la sua onnipresenza. Affermare che la corruzione è universale sembra quasi banale. Non esiste epoca storica che ne sia esente, tanto che si potrebbe affermare che accompagna l’umanità fin dai suoi albori.

L’insieme degli esempi descritti porta, in buona sostanza, ad affermare che la corruzione è un sistema diffuso di scambio che permette a tutti quelli che ne fanno parte di crescere e di far crescere l’intera società.

Esistono due diverse forme di corruzione. La prima è quella di tipo africano, dove il despota di turno, preleva ricchezze al suo paese e la deposita in qualche banca compiacente estera, di fatto depauperando le risorse nazionali al solo fine dell’arricchimento personale. Ne esiste una seconda incarnata, in uno degli esempi, da Mitterand, ma prima di lui vengono presi in esame altre personalità storiche tra cui Talleyrand, che invece è tutta concentrata sul reinvestimento per la società tutta. Certo il corrotto e la sua cricca ne beneficiano in prima persona, ma ad avvantggiarsene sono poi un po’ tutti quelli che sono inseriti nel sistema.

Il problema è solo di dimensioni e di quanto larga sia la cerchia della corruzione. Se, per assurdo, tutti sono inseriti nel sistema, che è corrotto, in qualche modo ne approfittano per i loro affari.

S’innesca in questo modo un meccanismo che porta alla crescita di tutta la società che parte dall’azione benefica dei corrotti che creano un volano che arricchisce tutti.

Se ne deducono due principi: “i corrotti (di questa seconda specie) sono delle persone rispettabili” e la seconda più scioccante della prima: “le persone rispettabili sono corrotte”, tanto da poter dire che la rispettabilità abbia a che fare con la corruzione.

Chi ne fa le spese ovviamente sono coloro che, in misura diversa, si sono posti al di fuori del sistema: gli incorruttibili, i “puri”.

«Sono i santi e i folli, che si tengono a distanza dalla società. Sono i funzionari modello e i topi di biblioteca. In breve tutti coloro che, in un modo o nell’altro, rifiutano di essere connessi con chi gli sta intorno e cercano di isolarsi dalle influenze esterne… E che cos’è rifiutare il sistema, se non diventare un atomo, una cellula ermetica che sfugge alla rete gigantesca di relazioni del mondo sociale e biologico? Un sogno autistico…».

Ogni corrotto porta in sé quella prodigalità che significa saper spendere, saper dare.

In fin dei conti non si ricevono mai dei favori senza crearsi dei debiti; non si contraccambiano mai senza riconoscere un obbligo. Il dono, non ha niente di gratuito. S’iscrive sempre in un sistema di relazioni sociali.

La corruzione si pone al centro di queste relazioni sociali. Il confine tra “regalo” e “corruzione” è estremamente fluido, in quanto non si capisce mai bene qual è il limite a partire dal quale i regali diventano un “tentativo di corruzione”.

Spesso le società costruiscono delle vere e proprie graduatorie di valore per porre dei limiti a questo (si può ricevere un regalo ma che abbia valore inferiore ai 100 euro, ad esempio) e procedure per normare il flusso dei presenti natalizi. Ma il punto rimane. Non esiste ben delineata una linea di demarcazione.

Citando i concetti elaborati da Mauss, l’autore del saggio, definisce la corruzione “come un puro scambio di doni e contro doni” e in quelle società del “dono” appunto, potrebbe dirsi che è la corruzione a diventare la norma. Un individuo sociale ha solo tre obblighi: dare, rendere, ricevere.

L’individuo si trova inserito in una rete sociale complessa in cui è al tempo stesso donatore e ricevente: è un circolo in cui una volta entrati non si esce più.

Non è mai una questione di soldi ed anche nelle nostre società non è solo una questione di soldi, come è ben esemplificato nella prima scena del Padrino, in cui Amerigo Bonasera chiede aiuto a Don Vito offrendogli denaro per un omicidio e il Padrino gli risponde “Tu non mi offri la tua amicizia. Tu non pensi nemmeno a chiamarmi padrino”. Don Vito gli darà ascolto solo quando Amerigo Bonasera gli bacerà la mano promettendo di rendergli il favore “gratuitamente”, quando gli verrà richiesto.

Insomma la corruzione è presentata come un sistema di relazioni sociali all’interno del quale gli operosi agiscono nel mondo. Questo tema è il cuore della seconda parte del libro che parla non più della società ma dell’individuo. E il tema vero di tutto il saggio è qui rappresentato nella sua forma più dilatata e chiara che travalica il senso stretto della corruzione, cui siamo abituati a pensare.

È nella descrizione della personalità di Talleyrand che si raggiunge il culmine. Nel suo stile è condensato il significato più alto e condivisibile della corruzione.

Il suo carattere, ci racconta l’autore, è una miscela d’impassibilità, sveltezza e moderazione. Tre pregi che svelano il senso più profondo della corruzione intesa come motore del mondo. L’impassibilità che permette di moltiplicare le morali, servendo tutti i regimi, facendo del corrotto il crogiolo delle opinioni altrui e prendendo il posto dell’immoralità. La sveltezza che non permette al corrotto di scommettere sul lungo termine, perché i rapporti di forza, che definiscono la sua posizione, si evolvono. E non gli permette neanche di agire troppo in fretta: il miglior offerente non è necessariamente il più affidabile. Deve quindi scegliere un tempo intermedio che è il fluire del momento opportuno. Deve sposare dunque la costante contemporaneità. La moderazione che fa del corrotto, comprato da tutti, un ossessionato dall’equilibrio. Qui sta tutto il senso della corruzione. Qui è svelato il segreto del perché ognuno di noi, almeno un po’, può definirsi corrotto e corruttore.

È necessaria l’impassibilità, lo scegliere indifferenti il cavallo su cui puntare per arrivare al proprio obiettivo. È necessaria la sveltezza, intesa come l’agire hic et nunc, nel presente, inserendosi nel fluire del tempo. È necessaria la moderazione, per capire come muoversi tatticamente cercando il compromesso per veder realizzato il proprio disegno strategico.

Alla fine ogni azione del nostro vivere è corruzione. E Talleyrand rappresenta, nella sua descrizione di corrotto, il volto di ognuno di noi, immerso nel suo tempo.

Contrapposto a lui ritroviamo il puro, l’incorrotto che, per non essere oggetto della corruzione, decide un’inanità che lo porta all’inazione, al non volersi mai sporcare le mani, al porsi al di fuori del proprio tempo, guardando avanti o indietro non importa, impigrendosi in attesa di un mondo di incorrotti che non verrà.

Non verrà perché la corruzione alligna in ogni forma di potere anche la più piccola e un regno futuribile di “catari” nascerà anch’esso segnato dalla corruzione.

Talleyrand è il contemporaneo, che agisce nel suo tempo, che è attivo e in movimento. Negli atti che compie si sporca le mani.

È il pragmatico d’azione che si contrappone all’idealista immoto. È l’attuale mobile che si contrappone all’inattuale immobile.

Con un altro esempio potremmo sperimentare la corruzione in ogni nostra espressione. Parlare, esprimere un pensiero è mutilazione del pensiero stesso, è corruzione del rarefatto mondo che ci portiamo dentro. Il pensiero, chiuso nella nostra testa è solipsista ed incorrotto, vive in un altro tempo che non è il flusso del momento. Esprimerlo significa insozzarlo con un atto che lo corrompe. È corruzione. Una corruzione vivificante, perché ci permette di interagire con gli altri e di porci come entità agenti e fattive.

Sbaglia chi crede di potersi sottrarsi a questa situazione, confinandosi nell’immobilismo incorrotto della sua purezza. Conservarsi per tutta la vita, intatti, non contaminati, è solo atteggiamento consolatorio.

Quello che abbiamo preservato in vita ci verrà tolto in punto di morte.

Questa è la magnifica terza parte che conclude il saggio. La nostra purezza non ci impedirà di essere violati.

La corruzione della carne si prenderà, con la putrefazione, un corpo che non avremo messo mai a disposizione della vita. Ci strapperanno, non c’è scampo, quella verginità cui non abbiamo mai voluto rinunciare.

Restituiremo ai vermi e alla corruzione un corpo intatto, mai usato, incorrotto, subito preda dello sfacelo.

E questa verginità che nulla ha a che fare con la vita trova anche corrispondenze nella sfera sessuale.

L’autore termina il suo saggio con una serie di coincidenze, neanche tanto strane.

È curioso, ci dice, che l’amatore che si spende con le sue amanti, corrompendole e corrompendosi, sia chiamato viveur, colui che vive.

E la prostituta che ammalia i suoi clienti, corrompendosi e corrompendoli, è appellata come mondana, la donna di mondo, che vive nel mondo o alternativamente come una donna che “fa la vita”, colei che vive.

Così, aldilà delle condanne moralistiche, bisogna confrontarsi con la corruzione e riconoscere che è il motore del mondo.

È lo scotto che dobbiamo pagare, giocandoci la nostra integrità inane, alla vita.

È l’azione. È la corruzione.

È l’unico motore degradante che ci permette alla fine di vivere e, come dice il poeta, per sbaragliare tutto ciò che non era vita e non scoprire, in punto di morte, che non eravamo vissuti.

di Mario Grossi

19 febbraio 2011

Italia atlantica

Dalla cooperazione militare con “Israele” alla missione anti-pirateria nell’Oceano Indiano: fenomenologia aggiornata di una sudditanza rigorosamente bipartisan

Venerdì 10 Dicembre si è conclusa l’esercitazione Vega 2010 che ha visto la partecipazione di assetti italiani, israeliani e della NATO. La seconda fase, caratterizzata da missioni di tipo “air to round” ha visto impegnati
i cacciabombardieri Tornado ECR di Piacenza e IDS (“interdiction strike”) del 6° stormo di Ghedi. In Israele le missioni dei velivoli italiani consistevano nell’eliminare od eludere con i Tornado ECR lo sbarramento difensivo costituito dalle difese contraeree e dai caccia in volo e permettere ai Tornado IDS di arrivare sull’obbiettivo con lo sgancio di armamento di precisione.
Ovda è una località a nord di Eilat, a 40 miglia dal confine con l’Egitto. Alla periferia della città, in pieno deserto, c’è un aerostazione per uso passeggeri e, decentrate, infrastrutture, rifugi corazzati, radar e piste di volo da dove decollano e atterrano cacciabombardieri con la stella di Davide F-15 e F-16.
Cosa ci facevano i (nostri) Tornado Panavia con le insegne della NATO in “Israele” a meno di due mesi dalla defenestrazione di Mubarak?
Si esercitavano alla guerra “preventiva” contro il Paese delle Piramidi.
C’è in vigore un memorandum di intesa tra la Repubblica Italiana e lo Stato sionista in materia di cooperazione militare firmato a Parigi dal Ministro della Difesa Martino e dal Generale Shaoul Mofaz il 16 Giugno 2003, rinnovato nel 2008. In forza di questo trattato non sono previste missioni dell’Aereonautica Militare Italiana in “Israele”. Il documento parla chiaro.
L’intesa tra i contraenti in uno dei dieci articoli contempla altresì l’inserimento di clausole segrete. Facile capire che ce ne devono essere state.
Perchè fu scelta la capitale transalpina per firmare quel patto?
Per marcare la differenza con la politica “araba” del Presidente Chirac, eletto per due mandati consecutivi alla guida della Francia, dal Maggio 1995 al Maggio 2007. Chirac farà curare il leader dell’ANP Arafat all’Ospedale Militare di Percy e gli farà tributare, alla morte, nel Novembre del 2004, solenni funerali militari.
I governi del Bel Paese, all’opposto, hanno sempre avuto un debole per la “sicurezza” di “Israele”, strafregandosene della Palestina. Che non sia quella di Abu Mazen e di Erekat tirata fuori da Al-Jazeera.
Non dimentichiamoci di un particolare di per sè ampiamente significativo. Sia gli esecutivi Berlusconi che Prodi hanno sempre avuto Ministri degli Esteri e della Difesa o molto, ma molto vicini, a “Gerusalemme” o adeguatamente solidali.
La collocazione geografica dell’”air base” di Ovda e la data scelta congiuntamente da La Russa e Barak sono state intenzionali in previsione di un “cambio della guardia” in Egitto?
La risposta è sì.
Non è affatto vero, come si è sostenuto, che la rivolta partita da piazza Tahir abbia colto di sorpresa l’intera l’Amministrazione USA, la NATO e l’Europa.
Chi crede che le manifestazioni popolari siano state la spinta decisiva del “change” nella Terra del Nilo è semplicemente fuori strada. E’ da tempo che il seme di un “golpe” cova nel ventre dell’Egitto.
La frattura generazionale nelle strutture centrali e perferiche delle forze armate egiziane mandava da tempo segnali preoccupanti per l’Occidente.
Il Maresciallo Tantawi, liquidando Mubarak ed il suo intero apparato di potere, prendendo le redini del “nuovo Egitto” ha semplicemente evitato, almeno per ora, la totale emarginazione delle gerarchie militari di alto grado che hanno assecondato per oltre 30 anni la politica della “vacca che ride”.
Una politica, è bene ricordarlo, che ha trasformato Esercito, Marina, Aviazione e Difesa Aerea in strumenti da parata militare.
Abbiamo sfogliato l’Almanacco dell’Egitto pagina per pagina. Ne siamo rimasti sinceramente sorpresi, amareggiati. Il Paese del Nilo come forza combattente non esiste più al di là dei numeri e delle dotazioni.
Niente che possa davvero impensierire al momento e per i prossimi 10 anni “Israele”, ammesso che si trovi un solido ancoraggio con attori internazionali nel settore degli armamenti come Russia e Cina ed i finanziamenti necessari per attuare una completa ristrutturzione militare e, ancor prima, le risorse necessarie per dare avvio nel Paese ad un nuovo indirizzo economico e sociale. Uscire da decine di anni di “dipendenza” dall’Occidente è un affare da far tremare i polsi. I meccanismi del dialogo euromediterraneo, i prestiti del FMI, di USA ed Europa, la dipendenza dal turismo occidentale, le monoculture, le massiccie importazioni di granaglie hanno fatto il resto.
A livello di “comunità internazionale” si farà di tutto per mantenere l’Egitto in stato di costante precarietà economica senza farlo precipitare nel caos.
Torniano a Eilat.
Per la “missione” ad Ovda, La Russa ha lavorato da sguattero di USA e NATO per mandare oltre il canale di Suez precisi segnali finalizzati al rispetto ed alla continuità degli accordi di pace firmati nel ’76 da Begin e Sadat ed al mantenimento della “sicurezza” per Gerusalemme.
Non era mai successo che l’A.M.I., come rappresentante della NATO, partecipasse ad un azione simulata di guerra nello spazio aereo di “Israele” intenzionalmente diretta ad intimidire, a minacciare, un Paese del Medio
Oriente.
L’uso di vettori per la guerra elettronica (ECR) e da attacco al suolo (IDS), decollati da una base dell’aviazione ad un tiro di sputo dalla linea C del Sinai egiziano, non può non assumere un preciso significato politico e militare nei rapporti che, prevedibilmente, intercorreranno tra Roma ed il Cairo dopo l’uscita di cena di Mubarak e più estesamente tra l’Italia ed i Paesi dell’intera area.
Il decollo dei Tornado da una striscia di terra che va dal Golfo di ‘Aqaba al Mediterraneo, e segna per 260 km il confine tra i due Stati, non potrà non essere interpretato da ampi settori di opinione pubblica e dalle organizzazioni politiche egiziane che escono da protagoniste dalla rivolta del 25 Gennaio come un gesto ostile.
A tempi medio-lunghi ne potrebbero risentire pesantemente anche i rapporti commerciali tra le due sponde del Mediterraneo. L’intera costa mediterranea del Paese del Nilo potrebbe trasformarsi, come effetto indesiderato, in punti di raccolta e di imbarco per l’esodo sempre più massiccio che dal Maghreb all’Africa Subsahariana si riversa ormai da anni sulle coste della Repubblica delle Banane.
“Israele” non ha mai restituito all’Egitto dal ’67, nonostante gli accordi di pace perfezionati nel ’78, prima del ritiro di “Gerusalemme” dal resto della penisola araba nell”82, la fascia D del Sinai.
In questo corridoio l’I.D.F. mantiene pattuglie di perlustrazione, blindate, per un totale di 400 militari.
Osserviamo nel fratempo come tv e giornali nel Bel Paese si stiano dando un gran daffare in questi giorni per addolcire la liquidazione coatta di Mubarak, di Suleyman e dell’intero governo del “rais”, cavalcando la barzelletta della caduta di un nuovo muro di Berlino. Il nesso appare più che forzato, incredibilmente ridicolo.
Ma così è se… vi pare.
Sono arrivati al punto di mandare sui telegiornali delle vecchie riprese del maresciallo Tantawi a colloquio con Barak quando comandava il sarcofago ambulante del Cairo per mettere al sicuro, in cassaforte, la continuità, anche in un prossimo futuro, degli “accordi” di Camp David.

E ora un altro “mistero” che riguarda il solito on. Ignazio La Russa, tornato a corteggiare a Torino l’avvicinato dalla CIA Giuliano Ferrrara detto Cicciopotamo ed altre compagnie, passate e recenti, di egual prestigio al ritorno da un viaggio in Afghanistan. Dalla Terra delle Montagne… all’Oceano Indiano.
Mercoledì 19 Gennaio Daniele Mastrogiacomo, corrispondente de La Repubblicadal 1992, con abbondanti trascorsi al percolato, firma a pag. 16 del quotidiano di Ezio Mauro un articolo sul sequestro della petroliera italiana Savina Kaylyn nell’Oceano Indiano, a 880 miglia nautiche dalle coste somale.
La Savina Kaylyn, che ha una stazza di 105.000 tonnellate ed una lunghezza di 226 mt, proveniva dal porto di Bashayer in Sudan, dove aveva caricato greggio ed era diretta a Pasir Gudang in Malaysia. Il Sudan è nella lista nera di USA ed Unione Europea, la Malaysia né è fuori ma tenuta egualmente sotto tiro come Paese “amico” del presidente Bashir.
E’ una delle 40 navi della flotta napoletana dei Fratelli d’Amato. A bordo ci sono 22 uomini di equipaggio, 5 tra cui il comandante sono italiani, e 17 indiani.
Secondo un comunicato del Comando Eunavfor (missione Atalanta), la supertank Kaylyn, a quanto scrive Mastrogiacomo, sarebbe stata assaltata da una barca a vela di due metri che arrancava, durante la notte, in mezzo all’Oceano.
Una barchetta – scriverà – elude i radar ed è difficile vederla ad occhio nudo. Cinque pirati si sono avvicinati (continuiamo la riportare la sua narrazione) nascondendosi sotto la fiancata della nave e l’hanno abbordata.
Solo in quel momento è scattato l’allarme. La Savina ha iniziato ad accelerare ed a rallentare, a cambiare rotta con improvvise virate. L’equipaggio ha azionato gli idranti di bordo, ha cercato di investire con i getti d’acqua i tre uomini che si arrampicavano lungo la fiancata (resa viscida dalla salsedine sugli strati di vernice, alta in perpendicolare dagli 8 ai 10 mt anche a pieno carico…), gli altri due sparavano colpi di pistola all’indirizzo della nave.
Risparmiamo il resto del “pezzo”, è il caso di dirlo, ai Lettori per non offenderne l’intelligenza sulle modalità dell’abbordaggio e della “conquista” della plancia comando della Kaylyn.
Questa è ormai la qualità dell’”informazione” che circola sul quotidiano più letto nella Repubblica delle Banane. Azionista di riferimento un certo Carlo De Benedetti.
Mastrogiacomo senza vergognarsene nemmeno un po’ ridicolizza nei fatti il “sequestro”, riporta intenzionalmente la pagliaccesca versione – a suo dire – raccolta al Comando Eunavfor nel quadro dell’operazione Atalanta.
Una “missione” che costa alle tasche degli Italiani 25 milioni di euro all’anno dal Dicembre 2008 ed altri 10-12 agli armatori nazionali per allungare le rotte ed evitare “attacchi pirati”, più altre maxi elargizioni che vanno perennemente a buon fine e non lasciano tracce (sono in contanti) per il rilascio di ogni nave da trasporto, o rimorchiatore con pontoni, sequestrato.
Per conto di chi “scrive” Mastrogiacomo che sta più in alto del direttore e del padre-padrone de La Repubblica?
Cosa c’è dietro? Solo sfacciata, ributtante “disinformazione” per cloroformizzare, per annullare, la curiosità di chi legge?
Le navi madri dei “pirati” del Somaliland e del Puntland seguono una rotta di avvicinamento al “target” con comunicazione satellitare.
Un segnale che non può essere captato dai centri di ascolto appartenenti a “Stati canaglia” od a Paesi come Cina, Russia, Pakistan, India, basati su piattaforme navali.
Un rilevamento che fornisce in successione una rotta di avvicinamento, per poi lasciare alla nave madre la scoperta radar del target nelle ultime 20-50 miglia.
Per capire chi sia dietro a questa nuova pirateria basta e avanza conoscere il numero dei mercantili di proprietà USA sequestrati dai “nuovi corsari” con Rpg-7 ed AK-47, dotati, si fa per dire, di imbarcazioni il più delle volte di approntamento fluviale, senza carena, di 5-7 metri spinte da motori dai 25 ai 50 cv, mancanti di scalette di abbordaggio, ramponi lanciati da cariche esplosive e scorte di benzina, che intercettano, senza apparente difficoltà, il naviglio in transito lungo le coste che vanno dal Corno d’Africa all’Oceano Indiano a centinaia di km dalle coste dell’Africa e dell’Asia.
La risposta, a quanto ne sappiamo, è zero ad eccezione di un assalto ad una porta-contenitori liberata dall’intervento di un’unità da guerra della US Navy, finito con l’uccisione di tre sequestratori colpiti da tiratori scelti a bordo di un gommone da salvataggio.
Una storia che faceva acqua da tutte le parti.
Dal Dicembre 2008 nessuna altra unità a stelle e strisce risulta abbordata e sequestrata dai nuovi abbronzantissimi Capitan Uncino.
Operazioni che consentono tra l’altro accurate ispezioni ai carichi trasportati che possano risultare sospetti come materiali “dual-use” partenti da “Stati canaglia” e destinati ad altri Paesi inclusi nella lista di Paesi giudicati avversari o potenziali nemici dell’Occidente.
Ritorniamo alla Savina Kaylyn, dopo che l’Unità di Crisi del Ministero degli Esteri ha lanciato l’allarme, arrivato alla Farnesina dal telefono satellitare in dotazione ai “pirati” (sic).
L’allerta arriva al Ministero della Difesa. Parte la comunicazione alla fregata Zeffiro di intercettare la Kaylyn, la nave della Marina Militare è a due giorni d navigazione.
Dal quel momento in poi nessun altra notizia, nemmeno di agenzia, arriverà a conoscenza dell’opinione pubblica del Bel Paese. Il silenzio dal giorno 20 Gennaio ad oggi è inspiegabilmente totale.
Vuoi vedere che la Zeffiro si è arresa a 5 pirati dopo aver alzato sul pennone di dritta una bella bandiera bianca e ci faranno trovare a tempo scaduto la Savrina Kaylyn ancorata a 500-700 km da un villaggio di pescatori filibustieri del Puntland o del Somaliland? Ma davvero l’ex colonia italiana è divisa in tre pezzettoni?
E’ l’Onu e Ban Ki Moon che fanno stampare le nuove carte geografiche del Corno d’Africa? O chi altro?
Frattini e La Russa riescono davvero a calarsi le mutande anche davanti a qualche delinquente morto di fame o si vuole finanziare al “nero” i pirati?
Non apriamo bocca per fare fiato e non mettiamo punti interrogativi a casaccio.
Gli armatori italiani hanno richiesto da almeno due anni al Ministro della Difesa Ignazio La Russa, che i mercantili battenti la nostra bandiera abbiano a bordo un nucleo di Fucilieri del Battaglione S. Marco.
Ad avanzare la proposta alla Marina Militare è stato Stefano Messina, uno degli armatori più danneggiati dai sequestri in pieno Oceano. Sarebbero sufficienti, a suo giudizio, 5 marò per nave mercantile.
Il costo della scorta armata sarebbe stato a carico di Confitarma, l’associazione di categoria.
E’ a rischio – ha sostenuto più volte – anche incolumità del nostro personale navigante. L’Ammiraglio Fabio Caffio dello S.M della Marina Militare ha dato la sua approvazione.
La Russa ha risposto picche per un problema – sentite, sentite – di competenze e di “prestigio”. Quale?
“I militari non possono essere posti sotto il comando di un pur bravo capitano di lungo corso della marina mercantile”.
Vi viene voglia di ridere preso atto che il Ministro della Difesa manda il Genio Militare a togliere centinaia di tonnellate di spazzatura dalle strade di Napoli, svende immobili, fari, arsenali, privatizza le Forze Armate, licenzia, precarizza e blocca gli stipendi del personale dipendente? Non lo fate.
Il titolare di Palazzo Baracchini non vuole che si sappia in giro, da fonte attendibile, cosa succede davvero da Bab el-Mandeb al Golfo Persico e più in là in pieno Oceano Indiano, fino allo Stretto di Malacca.
In alternativa avrebbe proposto, senza andare poi a fondo della faccenduola, per liberarsi dal pressing di Messina, di affidare la sicurezza delle navi degli armatori italiani ad un agenzia di “contractors” a stelle e strisce. Non stiamo scherzando.
Mesi fa, un cacciatorpediniere dell’India ha fatto fuoco e colato a picco una “nave madre” lungo le coste del Kenia.
Appena 72 ore più tardi Mumbai è stata scossa da quel colossale attentato terroristico che ricorderete.
La Russia di “navi madri” ne ha affondate, per quanto ne sappiamo, una dozzina, con mitragliatrici singole da 14.7 mm e cannoni a canne ruotanti da 30 mm, pagando il prezzo della libertà di navigazione commerciale con l’intensificazione di attentati a Mosca e nel Caucaso.
Se si vuole, si può liquidare il tutto come coincidenze fortuite o fantasie che corrono a ruota libera.

di Giancarlo Chetoni

Superare la crisi



L'ultima lettera inviata da Berlusconi al Corriere della Sera per il rilancio dell'economia, conferma quanto da sempre pronosticato e sostenuto: «le cause ed il perdurare della crisi economica dipendono essenzialmente dalla violenta demonetizzazione del mercato, avvenuta in campo nazionale ed internazionale, determinata, realizzata e pilotata dall'apparato bancario-monetario, nell'indifferenza, ed in alcuni casi anche con la connivenza di alcune forze politiche.». Sempre di connivenza si tratta anche quando, nell'ambito dell'azione e della attività politica, è sufficiente essere a conoscenza delle tecniche perverse e delle malefatte messe in atto dalla congrega bancaria-monetaria, senza porre nulla in essere per bloccare questi sciagurati accadimenti. Dando per saputo e scontato come tutto ciò si sia potuto verificare e con quali dinamiche (ce ne siamo occupati a lungo anche nel recente passato), ciò che importa ora in maniera sempre più pressante, è come uscirne e come poter rilanciare l'economia e l'occupazione nazionale, in primis quella giovanile, prima del verificarsi d'intolleranze del tutto prevedibili.

L'asfittica circolazione monetaria sul mercato interno e la drastica riduzione delle linee creditizie hanno causato il crollo dei consumi, la sofferenza di centinaia di migliaia di piccole e medie imprese (85 % del sistema produttivo nazionale) causando in moltissimi casi il fallimento o la loro chiusura con la conseguente espulsione delle relative maestranze dal sistema produttivo. La contrazione di liquidità verificatasi sui mercati esteri ha penalizzato tutta l'attività manifatturiera nazionale finalizzata all'esportazione, provocando anche la drastica contrazione delle correnti turistiche estere. Allo status quo, pertanto, tutta l'economia è in grave sofferenza. Gran parte della liquidità interna era già stata razziata molti anni prima dello scoppio ufficiale dell'ultima crisi economica, dalle solite banche mediante il piazzamento dei bond farlocchi, subito dopo volatilizzati, di Cirio, Parmalat, Banca 121, Argentina, ecc. fatti sottoscrivere ai vari soggetti ed amministrazioni, pubbliche e private, utilizzando spesso espedienti e raggiri nei confronti degli ignari sottoscrittori.

Alle perverse attività bancarie si sono aggiunte anche quelle della politica, tenute a battesimo dal governo G. Amato (dott. Sottile) con il prelevamento forzoso su tutti i conti correnti e depositi dell'8 per mille e la serie delle patrimoniali, iniziate nel 1992, mediante le qualisono state sottratte ai cittadini ed all'intero mercato cifre ingenti, non più ritornate in circolazione sul territorio sotto la voce di spesa per servizi resi alla collettività (solo nel primo anno è stata prosciugata la bella cifra di 92 miliardi di lire). Di queste e di altre malefatte bancarie nei confronti del mercato se ne sta occupando per alcuni aspetti la magistratura ordinaria con esiti alquanto deludenti: il sistema bancario ha sempre brigato per varare commissioni con propri rappresentanti, per dirimere le vertenze dei propri clienti in via stragiudiziaria.

Anche nei casi giunti a sentenza, con condanna delle banche al ristoro dei danni, questi sono quasi sempre sottostimati ed i relativi pagamenti procrastinati nei tempi futuri. L'annunciato ed auspicato colpo di frusta da parte dell'Esecutivo, per far ripartire produzione, occupazione e consumi interni, mal si concilia con le pretese europee di ridurre il debito pubblico all'80%, in ottemperanza ai vincoli comunitari ed al trattato di Maastricht, mediante il reperimento sul mercato nazionale di ben 600 miliardi di Euro da versare drasticamente nelle casse dei banchieri, con conseguente pregiudizio al poter programmare, o solo immaginare, qualsiasi possibilità di ripresa economica nazionale. Il forte debito pubblico esistente ci impedisce d'indebitarci ulteriormente per ottenere le risorse necessarie per reinnescare i processi produttivi in tempi brevi e quindi il colpo di frusta enunciato ed auspicato resterà nel cassetto delle buone intenzioni. Quand'anche riuscissimo a poterci ulteriormente indebitare, finiremmo per incrementare ancor più la mastodontica esposizione pubblica con i conseguenti gravosissimi interessi passivi che stanno già sbarrando qualsiasi possibilità di rilancio reale.

Occorre convincersi definitivamente che senza nuove risorse è impensabile immaginare qualsiasi tipo di ripresa ed ancor meno realizzare gli annunciati schiocchi di frusta per far ritornare il cavallo a bere. Perciò diventa sempre più indispensabile approntare nuove risorse economiche-monetarie senza sottostare allo strangolamento da debito inventato ed imposto dalla cupola bancaria-monetaria. Fortunatamente disponiamo della capacità, della cultura e dell'esperienza per far fronte ed eliminare definitivamente queste procurate disfunzioni. E' solo necessario che i politici, diversamente da quanto preteso dai banchieri, (come se l'economia fosse loro prerogativa esclusiva) ritornino ad occuparsi della vera politica economia nazionale che non può essere disgiunta da quella monetaria, acquisendone le opportune conoscenze culturali, con il convincimento che la legittimità a svolgere l'azione politica deriva solo dal perseguimento del bene comune in favore dei cittadini e dei propri elettori. Occorre riacquisire autonomia di giudizio e capacità di discernere con la propria testa per non essere inconsapevolmente plagiati dai numerosi infiltrati a tutti i livelli al servizio dei banchieri e finanzieri. Ovviamente occorre disporre anche gli attributi necessari per poter bordeggiare "almeno inizialmente" contro vento, senza avventurarsi su rotte sconosciute e mai battute. Basta ripercorrere ed attuare ciò che è stato felicemente realizzato in oltre cento anni dai vari e diversi Governi che si sono succeduti.

Lo Stato deve ritornare a battere moneta in nome e per conto dei propri cittadini; acquisirne il signoraggio e quindi la moneta emessa a titolo originario ed impiegarla per rilanciare economia, occupazione e ricerca. Lo Stato italiano ha battuto moneta in prima persona e monetizzato il proprio territorio dal 1874 al 1975. Ciò ha consentito, subito dopo l'unità d'Italia di realizzare tutte le infrastrutture necessarie ad un nuovo stato, compreso i famosi palazzi e quartieri "umbertini", ancora esistenti, senza imporre tasse e senza indebitarsi. Successivamente utilizzando sempre la moneta emessa da parte dello Stato si sono costruite le opere dell'Italia moderna: strade, autostrade, ponti, ferrovie, porti, aeroporti, centrali elettriche, ospedali, sanatori, colonie, le grandi bonifiche, intere città, i grandi complessi industriali, gli Istituti Assistenziali, le scuole, le università, tutte contraddistinte dalle inconfondibili linee architettoniche ispirate dal Piacentini. Anche tutte queste opere furono realizzate senza aumentare le tasse ai cittadini e senza aumentare il debito pubblico che anzi, sino al 1940 era rimasto stabile al 20 % (tra i più bassi della storia d'Italia) per passare al 25% nel 1945 a guerre finita. Successivamente si continuò a battere moneta da parte dello Stato, gli introiti così incamerati hanno contribuito in maniera significativa alla ricostruzione del territorio nazionale devastato dall'invasione nemica (all'inizio degli anni 70 il debito pubblico era sceso al 20 %). Tutto ciò ad ulteriore conferma e dimostrazione che il debito pubblico è generato dall'emissione monetaria da parte delle banche d'emissione private.

All'inizio del Governo Berlusconi si cercò di fronteggiare questa situazione. Il Ministro Tremonti ebbe a sostenere la necessità di una moneta parallela, senza debito, per rilanciare l'economia e l'anemico mercato, iniziativa subito frustrata dal gruppo della destra economica annidata nel parlamento al servizio della funzione monetaria e finanziaria. Il ruolo di questi soggetti si è definitivamente appalesato quando Fini ha impedito di conferire ai prefetti i poteri necessari per sindacare il comportamento delle banche verso privati ed aziende e quando partendo con l'acqua è cominciata la campagna delle privatizzazioni, cedendo ai banchieri i beni dello Stato a fronte dei pseudi debiti creati con l'emissione monetaria. Come riporta il Corriere della Sera, non sussiste grande differenza sostanziale tra quanto sostiene il cattolico banchiere Bazoli d'istituire la tassa patrimoniale e l'establishment finanziario alternativo che chiede la vendita del patrimonio pubblico insieme alle liberalizzazioni dei servizi pubblici, entrambi, con l'obiettivo finale di chiudere il ciclo berlusconiano. Mentre la crisi economica trova difficili sbocchi, la cosa più raccapricciante di questo sciagurato periodo è il silenzio assordante della sinistra e di buona parte dei sindacati appiattiti sulle posizioni monetarie-finanziarie, ed a protezione dei manovratori, per sviare le attenzioni, si sono ridotti a guardare per il buco della serratura, suggellando la fine indecorosa dell'apparato a difesa della classe operaia, dei meno abbienti e degli oppressi. Coraggio Presidente Berlusconi, ormai non ha più nulla da perdere, è arrivato il momento di parlare chiaro, più di quello che le hanno fatto è impossibile immaginare altro, le quinte colonne sono uscite dalla maggioranza, il momento è oltremodo propizio per dimostrare che aldilà di tutte le chiacchiere e le diatribe dei vari gruppi ideologici, ormai decotti, di fatto sulla scena politica esistono due soli schieramenti: il primo che in ossequio al mandato ricevuto dai cittadini si adopera per il conseguimento del bene comune di tutta la popolazione, ed il secondo al servizio del sistema bancario-monetario e dell'alta finanza. Poiché queste due posizioni si stanno delineando con sempre maggiore precisione, è opportuno, quanto prima possibile, formare, informare e spiegare la vera occulta strategia in atto, dopo di che vediamo quante persone sono disponibili a scendere in piazza a difesa dei banchieri della BCE e per Maastricht. Riappropriamoci della nostra sovranità monetaria per bloccare le nefaste conseguenze delle crisi come quelle imposte a Islanda, Irlanda, Grecia, poiché dopo Portogallo e Spagna siamo i primi della lista. Recuperiamo la nostra autonomia politica e congiuntamente il ruolo riappacificante che ci compete nel bacino del Mediterraneo e nel mondo. Riuniamo rapidamente la miriade di gruppi, associazioni e comitati sorti a sostegno di queste posizioni. Sicuramente non mancheranno immediati appoggi e consensi da parte di tutti i cittadini e da parte degli Stati che, per convenzioni bilaterali stipulate tra loro, hanno stabilito di scambiarsi beni e risorse utilizzando la propria moneta nazionale; la nostra produzione è ricercata e complementare a moltissime di queste. All'immancabile starnazzare delle solite sacre vestali a difesa del sistema, assicuriamo la nostra presenza in qualsiasi pubblico dibattito.
di Savino Frigiola