31 marzo 2010

Elezioni e finanza

1. Farò solo qualche battuta sulle ultime elezioni regionali (per poi parlar d’altro) che sembrano aver rafforzato il governo di Centro-Destra, sebbene con l’ingombro della Lega divenuta un soggetto politico sempre più pesante all’interno della coalizione guidata da Berlusconi.
L’ultima tornata elettorale può essere ben definita quella del “pisello”, a sinistra come a destra. A sinistra, viene in evidenza quello floscio e un po’ sibilante (inteso come difetto di pronuncia) di Vendola che si riconferma governatore della Puglia nonostante la tempesta giudiziaria abbattutasi sulla sanità della regione adriatica e in barba al tiro “mancino” giocatogli da D’Alema, il quale avrebbe preferito vedere Nichi a capo dell’arcigay ma non del suo feudo. A destra prevale il pisello inturgidito e agitato come un bastone nell’aria padana (e ora anche oltre) della Lega che conquista le grandi regioni del Nord dove, ha già detto, metterà in pratica quel federalismo economico e sociale i cui strumenti di attuazione sono stati ampiamente forniti dal Governo.
Certo, controllando il Veneto e il Piemonte, facendo valere tutta la sua forza in Lombardia, il partito di Bossi alzerà la voce, e di molto, in Conferenza Stato-Regioni dando maggiore concretezza a quella parte del suo programma orientata alla devoluzione territoriale che da Roma hanno sempre mal digerito e, a volte, ostacolato.
Quanto alla valutazione sui singoli partiti, il PDL perde qualche consenso pagando così le brutte figure di Roma e le liti interne tra Berlusconi e Fini; il PD sembra reggere nonostante il suo anonimo segretario “intortellinato” dai capibastone delle varie correnti che lo tengono in pugno; purtroppo si conferma e si rafforza l’IDV del torbido spione Di Pietro; il Grillo parlante col suo movimento di esaltati a 5 stelle ottiene una insperata affermazione e ci fa il favore di togliere il Piemonte al Centro-Sinistra; per finire, facciamo le ennesime esequie della sinistra estrema divenuta ormai lo spettro di sé stessa (non quello del comunismo che faceva rabbrividire l’Europa) senza le lacrime di nessuno, nemmeno le nostre.
Per chiudere, il dato sull’astensione che cresce ma mai abbastanza per screditare definitivamente una classe politica che da nord a sud, da sinistra a destra, da un estremo all’altro sta portando il Paese alla rovina per incompetenza e assenza di una prospettiva storica degna di tale nome. Questa, in una epitome certamente non esaustiva, la situazione italiana dopo la chiusura delle urne.

2. Vorrei invece tornare sulla faccenda delle Assicurazioni Generali, in particolar modo sulla nomina del suo nuovo Presidente, rispetto alla quale ci siamo esposti per primi cercando di spiegare quali programmi ci fossero dietro la partita a scacchi dei poteri marci, in lotta per l’individuazione del successore di Bernheim sul Leone alato. Mentre i giornali di regime - questi fogliacci che sono lo specchio del mercimonio delle idee scadute nel fango e nella merda di un paese inabissatosi culturalmente - relegavano la notizia in fondo al loro baratro disinformativo, noi abbiamo cercato di leggere tra le righe e di dare un’interpretazione meno di banale di quello che stava accadendo.
Con le poche informazioni a nostra disposizione, compulsando gli articoli dei vari “esperti” come Giannini, Pons, Panerai, Porro (il migliore tra quelli citati, dipendente non di un padrone, per il quale muovere a comando la propria penna come il resto della compagnia, ma della sua stessa ideologia liberista che gli impedisce di andare oltre il velo economicistico delle cose) abbiamo detto la nostra e alla fine crediamo di non esserci allontanati molto dalla verità.
Certezze che vengono confermate dal sito Dagospia (l’articolo è riprodotto alla fine di questo pezzo) il quale, vivendo della scoperta dei sotterfugi e delle trame che accompagnano quasi sempre le ammucchiate orgiastiche del potere, giochi finanziari inclusi, ne ha fornito una versione meno obnubilata dalla patinatura servile di cui si fregia e ci sfregia l’informazione cammellata nazionale. Un solo mestiere contende al giornalismo la palma di lavoro più sporco e nauseabondo del mondo: il meretricio. Forse a quest'ultimo possiamo riconoscere delle attenuati sociali che al primo, per i danni che causa alla collettività, non dobbiamo nemmeno minimamente sollevare. Ecco cosa scriveva Balzac nel suo magnifico romanzo “Le illusioni perdute” sul verminaio di lacchè senza morale e senza pudore che affolla la carta stampata: “Il giornalismo, invece di essere un sacerdozio, è divenuto uno strumento per i partiti; da strumento si è fatto commercio; e, come tutti i commerci, è senza fede né legge. Ogni giornale è una bottega ove si vendono al pubblico parole del colore ch'egli richiede. Se esistesse un giornale dei gobbi, esso proverebbe dal mattino alla sera la bellezza, la bontà, la necessità dei gobbi. Un giornale non è più fatto per illuminare, bensì per blandire le opinioni. Così, tutti i giornali saranno, in un dato spazio di tempo, vili, ipocriti, infami, bugiardi, assassini; uccideranno le idee, i sistemi, gli uomini, e perciò stesso saranno fiorenti. Essi avranno i vantaggi di tutti gli esseri ragionevoli: il male sarà fatto senza che alcuno ne sia colpevole...Napoleone ha dato la ragione di questo fenomeno morale o immorale, come più vi piaccia, con una frase sublime che gli hanno dettato i suoi studi sulla Convenzione: i delitti collettivi non impegnano nessuno.” Per chi vuol capire che razza di luridume sia la professione giornalistica si rivolga all’intero lavoro del letterato francese, non per niente Engels diceva di aver imparato di più dal reazionario Balzac che da tutti gli economisti messi insieme.
Con la nomina di Geronzi alla guida della compagnia triestina qualcosa dunque cambia nel panorama economico nazionale, in virtù di uno sbilanciamento dei precedenti assetti di potere che iniziano a scricchiolare e a far emergere degli equilibri meno sfavorevoli a Silvio Berlusconi.
Il Cavaliere e Letta hanno indubbiamente interpretato una parte in questa scalata geronziana benché le loro dichiarazioni pubbliche non siano mai scivolate verso alcuna partigianeria definita. La blindatura di Rcs quotidiani con l’entrata nel cda in prima persona di Giovanni Bazoli, Luca Cordero di Montezemolo, Diego Della Valle, Cesare Geronzi, Piergaetano Marchetti, Antonello Perricone, Giampiero Pesenti e Marco Tronchetti Provera, ci dice però che i poteri putridi si preparano a darsele di santa ragione perché con l’aria che tira nell’agone politico, con la crisi economica che avanza, qualcuno ci rimetterà le penne.

3. Per concludere vorrei segnalare una intervista pubblicata dall’Unità al filosofo Slavoj Žižek che parla ancora di sinistra e di comunismo, nonché della possibilità per gli antisistemici di poter uscire dalla pesante crisi d’identità nella quale sono sprofondati. Žižek propone alla sinistra di essere conservatrice e moralista al fine togliere terreno ai suoi avversari e attaccarli in casa propria, sui temi dove questi irrobustiscono il loro consenso. L’intellettuale sloveno, ultimamente resosi compartecipe di appelli a favore dell’onda verde iraniana, più che conservatore sta divenendo un vero e proprio reazionario filo statunitense. Inoltre, di fogna moralistica, anticamera della corruzione, nella sinistra italiana ne troverà in abbondanza con la conseguenza che i sedicenti progressisti e riformisti del Bel Paese sono i peggiori servi della superpotenza Usa e della sua affermazione in Europa.
In realtà, avremmo bisogno di inventare un’altra morale, di ripercorrere la nostra storia e le nostre differenti identità politiche per costruire ben altro soggetto politico appoggiato ad un solido blocco sociale capace di fare strame di tutta la vecchia merda di destra e di sinistra. Ma questo per Žižek, evidentemente, non è abbastanza intellettualoide e non serve a sfondare nel panorama editoriale.
Qui finisce il nostro requiem per Žižek e per quelli come lui.

LO STRANO ASSE CORRIERE-REPUBBLICA
"Accordo su Generali: Geronzi verso la presidenza. Pagliaro a Mediobanca". Il Corriere delle banche richiama la notizia in prima pagina con un francobollino, poi però la fionda a pagina 50 perché trattasi di roba squisitamente tecnico-finanziaria, priva di qualunque ricaduta politica e di potere.

A babbo morto, Daniele Manca scopre finalmente l'arte del retroscena (tanto i manovratori hanno già manovrato) e critica: "i nostri bizantinismi che un investitore internazionale non capirebbe"; "un percorso simile al totonomine della politica", "un metodo davvero singolare per la definizione dell'assetto di comando della prima compagnia assicurativa e tra le prime tre in Europa". Tutto bene, tutto giusto. Ma a Manca manca il coraggio di estendere le sue osservazioni al metodo che ha portato Pagliaro alla presidenza di Mediobanca. Molto diverso da quello che issato Geronzi sul Leone?
Giovanni Bazoli e Cesare Geronzi Antoine Bernheim Generali con Cesare Geronzi Mediobanca

Su Repubblica, giornale partecipato dalle Generali e da Unicredit, il vicedirettore Massimo Giannini mastica amaro: "Dal Leone al Gattopardo, così si Blinda la Galassia del Nord". Una lunga articolessa per ribadire che lo sbarco di Gero-vital Geronzi al posto del ragazzino Bernheim "è legato ai guai giudiziari del banchiere a all'intreccio con la politica" e che quindi siamo di fronte a uno scenario di inaudito allarme sociale.

Ok, anche i curatori di questa modesta rassegna sono più o meno d'accordo, ma allora perché affannarsi per le restanti tre colonne a spiegare agli incolpevoli lettori di Ri-pubblica che tanto la presidenza delle Generali è priva di delegehe operative e, insomma, Cesaron deì Cesaroni va a Trieste a svernare e fare un cazzo? (p.15). Che, forse l'ingegner Debenedettoni c'è rimasto un po' male?

Il Giornale di Feltrusconi, che in Mediobanca conta parecchio attraverso Doris e Marina B., e può contare su un ambasciatore di eccezione come Tarak Ben Ammar, si affida a Nicola Porro ("Così Trieste diventa capitale della finanza"). Pezzo intelligente e senza tesi precostituite, che pone l'accento sulla questione chiave: con Geronzi, le Generali diventeranno più autonome da Mediobanca? "Nel tempo si capirà quanto il diffuso azionariato delle Generali si sarà coagulato in mani amiche. Del nuovo presidente", osserva Porro Seduto.

Sulla stessa linea l'interpretazione di Francesco Pallacorda, sulla Stampa (p.27): "Così cambia il Leone con Cesare in sella". "Con 400 miliardi di attivi il ruolo della compagnia può diventare più incisivo. Ma Piazzetta Cuccia vuole mantenere il controllo sulla partecipata".

Smaccata invece la festa di Panerai-ahi-ahi! su Milano Finanza: parte ricordando che da ragazzo Cesare Geronzi manifestò per Trieste libera e va avanti sul filo della liberazione delle Generali da Mediobanca. Poi mette le mani avanti: "i due amministratori delegati hanno bisogno di un consistente supporto e anche i manager di Mediobanca sono d'accordo che al futuro presidente Geronzi siano assegnate, nella tradizione di un potere esecutivo anche del numero uno della compagnia, le deleghe su finanza e partecipazioni".

Cioè, se ha ragione l'Innominabile, due cosette da niente. E nel dubbio il suo lettore non avesse capito da che parte si deve stare, una chiusa patriottica: questa presidenza piena di poteri sarebbe "un presidio da cui garantire l'indipendenza di Generali-Trieste sarà assai più facile".

Gode anche il Sole 24 Ore, che affida a Guido Gentili (p.1) un commento compassato ma felice: "Roma-Trieste passando per il mondo". L'ex direttore salmonato spiega che la doppia presidenza Pagliaro-Geronzi è una "soluzione di sistema" e non dimentica di indicare chi sono i grandi vecchi di questo "sistema" che "alla fine ha tenuto più di altri di fronte alla crisi": Giovanni Bazoli e Cesare Geronzi.

Alla fine, per trovare due giornali che non abbiano interesse alcuno su questa partita, visto il loro azionariato "puro", bisogna prendere il Cetriolo Quotidiano e il Secolo XIX.
Il quotidiano diretto da Antonio Padellaro, tutto distratto da Santoro & Friends, sottovaluta pericolosamente la notizia ficcandola a pagina 11 e titolandola così: "E' fatta: Geronzi al vertice delle Generali" (p.11). Nel suo pezzo, dopo uno degli attacchi più farraginosi della storia del giornalismo, Alessandro Faieta azzecca però un punto fondamentale: "il nodo non è più lo sbarco o meno di Geronzi a Trieste, ma chi guiderò il patto di sindacato di Mediobanca".
berlusconi silvio debenedetti carlo imago

Anche il giornale genovese, diretto da Umberto La Rocca, non degna la notizia di alcun richiamo in prima, ma pubblica un retroscena dell'ex cetriolista Francesco Bonazzi (p. 15) il cui succo è: i francesi non si sono fidati di Geronzone, e per dargli il via libera formale su Generali volevano essere sicuri di avere in cambio una soluzione negoziata sulla successione in Mediobanca.
G. Petrosillo

30 marzo 2010

Ci hanno convinti a non votare


Non possono esistere dubbi sul fatto che il dato più emblematico uscito (o sarebbe meglio dire mai entrato) dalle urne di queste elezioni regionali di marzo 2010 sia costituito dai quasi 3 milioni e mezzo in più di cittadini che non si sono recati a votare, portando il “partito” dell’astensione a sfiorare il 37%, diventando di fatto il maggiore partito del Paese. Un incremento nell’ordine dell’8%, con punte fra il 14%, il 12% e il 10% in Puglia, Lazio e Toscana, che qualifica il partito del non voto come l’unico reale vincitore di questa tornata elettorale.

Una vittoria, quella del non voto, determinata da una campagna elettorale sincopata, nevrotica al limite del parossismo, giocata esclusivamente intorno allo screditamento dell’avversario, totalmente priva di qualsiasi abbozzo di programma credibile.
Una campagna elettorale nel corso della quale i problemi reali del paese, che si chiamano crisi occupazionale, disastro economico, crollo del potere di acquisto delle famiglie, inquinamento del territorio, sono stati lasciati a margine da parte delle due coalizioni impegnate a contendersi il governo delle regioni.
Una campagna elettorale imperniata sulla violenza verbale dispensata a piene mani, vissuta fra litigi ed animosità al limite dello scontro fisico, sempre incentrati su differenze artificiali e prive di fondamento, utilizzati per nascondere l’assoluta mancanza di differenze reali fra i due poli che si contendono il governo regionale.

Un italiano su tre ha dunque preferito non recarsi a votare nonostante (o forse anche a causa) la quantità industriale di materiale pubblicitario che ha riempito le buche delle lettere, l’ossessiva tempesta delle telefonate a domicilio, la massa dei manifesti ad abbruttire i muri delle città, la marea di “santini” con faccioni sorridenti e cravatte multicolori. Tutto materiale che a dispetto degli sforzi esperiti dagli esperti del marketing è apparso intriso di un vuoto cosmico, tanto era infarcito di slogan demagogici che sarebbero parsi artificiosi anche agli occhi di un bambino di 5 anni e miravano unicamente a fare leva sulla tanto stantia quanto ormai sempre più improponibile scelta di campo fra destra e sinistra.

Anche in Italia, come nella maggior parte dei paesi occidentali, la distanza fra i partiti politici ed i cittadini continua perciò a farsi sempre più siderale, dimostrando in maniera inequivocabile l’inadeguatezza di un sistema come quello della democrazia rappresentativa, soprattutto qualora gestito in termini di bipolarismo. Anche il clima da “guerra civile” creato nell’occasione e gli “epici” inviti a scelte di campo presentate come decisive, non sembrano avere sortito l’effetto voluto.
I cittadini stanno continuando ad allontanarsi ed i partiti politici parlano ogni giorno di più un linguaggio alieno a chi vive e soffre nel paese reale, un linguaggio autoreferenziale che ben presto rischierà di trasformarsi in una lingua morta.
Per quanto riguarda i risultati elettorali non sono mancate le sorprese e neppure gli elementi che meritano di diventare oggetto di riflessione.

Il centrosinistra, nonostante l’operato del governo Berlusconi non sia stato fin qui entusiasmante, ha nuovamente subito una sconfitta cocente. Se la perdita di regioni come la Calabria, la Campania ed il Lazio può trovare la spiegazione all’interno degli scandali di varia natura che hanno caratterizzato le amministrazioni esistenti, ben più grave appare la debacle in Piemonte. Dove Mercedes Bresso si è vista costretta a cedere il passo a Cota, nonostante fosse riuscita ad incamerare nella propria coalizione tanto l’UDC di Casini quanto la Federazione della sinistra radicale. E’ indicativo il fatto che l’unica regione “a rischio” nella quale il centrosinistra ottiene un risultato positivo sia proprio quella Puglia dove Nichi Vendola ha difeso con i denti la propria candidatura, imponendo una lista più “di sinistra” rispetto al listone in alleanza con l’UDC che era stato imposto da D’Alema

Le liste 5 stelle di Beppe Grillo hanno ottenuto nel complesso risultati di tutto rilievo, fra i quali spiccano Giovanni Favia in Emilia Romagna che ha ottenuto il 7% e Davide Bono in Piemonte arrivato a superare il 4%, a dimostrazione del fatto che esiste senza dubbio ampio spazio di manovra per chi intenda costruire delle alternative ai partiti politici tradizionali.

L’inesorabile continua discesa del centrosinistra, laddove questo non riesce a proporsi come concreto elemento di alternativa, ma semplicemente come una fotocopia sbiadita di Berlusconi, unitamente al buon risultato delle liste che fanno riferimento a Beppe Grillo e al grande incremento dell’astensione, stanno a dimostrare in maniera inequivocabile tanto il “bisogno” di alternative concrete da parte dell’elettorato, quanto la palese incapacità di esprimere le stesse espresse dal sistema dei partiti.
Proprio questo bisogno di alternative concrete, pensiamo possa considerarsi la vera novità di questa tornata elettorale. Una novità destinata naturalmente ad essere sottaciuta, tanto dal sistema dei partiti ormai incancrenito nella spartizione del potere, quanto dai media mainstream che di quel potere rappresentano uno degli elementi cardine.
M. Cedolin

Ci hanno convinti a non votare


Non possono esistere dubbi sul fatto che il dato più emblematico uscito (o sarebbe meglio dire mai entrato) dalle urne di queste elezioni regionali di marzo 2010 sia costituito dai quasi 3 milioni e mezzo in più di cittadini che non si sono recati a votare, portando il “partito” dell’astensione a sfiorare il 37%, diventando di fatto il maggiore partito del Paese. Un incremento nell’ordine dell’8%, con punte fra il 14%, il 12% e il 10% in Puglia, Lazio e Toscana, che qualifica il partito del non voto come l’unico reale vincitore di questa tornata elettorale.

Una vittoria, quella del non voto, determinata da una campagna elettorale sincopata, nevrotica al limite del parossismo, giocata esclusivamente intorno allo screditamento dell’avversario, totalmente priva di qualsiasi abbozzo di programma credibile.
Una campagna elettorale nel corso della quale i problemi reali del paese, che si chiamano crisi occupazionale, disastro economico, crollo del potere di acquisto delle famiglie, inquinamento del territorio, sono stati lasciati a margine da parte delle due coalizioni impegnate a contendersi il governo delle regioni.
Una campagna elettorale imperniata sulla violenza verbale dispensata a piene mani, vissuta fra litigi ed animosità al limite dello scontro fisico, sempre incentrati su differenze artificiali e prive di fondamento, utilizzati per nascondere l’assoluta mancanza di differenze reali fra i due poli che si contendono il governo regionale.

Un italiano su tre ha dunque preferito non recarsi a votare nonostante (o forse anche a causa) la quantità industriale di materiale pubblicitario che ha riempito le buche delle lettere, l’ossessiva tempesta delle telefonate a domicilio, la massa dei manifesti ad abbruttire i muri delle città, la marea di “santini” con faccioni sorridenti e cravatte multicolori. Tutto materiale che a dispetto degli sforzi esperiti dagli esperti del marketing è apparso intriso di un vuoto cosmico, tanto era infarcito di slogan demagogici che sarebbero parsi artificiosi anche agli occhi di un bambino di 5 anni e miravano unicamente a fare leva sulla tanto stantia quanto ormai sempre più improponibile scelta di campo fra destra e sinistra.

Anche in Italia, come nella maggior parte dei paesi occidentali, la distanza fra i partiti politici ed i cittadini continua perciò a farsi sempre più siderale, dimostrando in maniera inequivocabile l’inadeguatezza di un sistema come quello della democrazia rappresentativa, soprattutto qualora gestito in termini di bipolarismo. Anche il clima da “guerra civile” creato nell’occasione e gli “epici” inviti a scelte di campo presentate come decisive, non sembrano avere sortito l’effetto voluto.
I cittadini stanno continuando ad allontanarsi ed i partiti politici parlano ogni giorno di più un linguaggio alieno a chi vive e soffre nel paese reale, un linguaggio autoreferenziale che ben presto rischierà di trasformarsi in una lingua morta.
Per quanto riguarda i risultati elettorali non sono mancate le sorprese e neppure gli elementi che meritano di diventare oggetto di riflessione.

Il centrosinistra, nonostante l’operato del governo Berlusconi non sia stato fin qui entusiasmante, ha nuovamente subito una sconfitta cocente. Se la perdita di regioni come la Calabria, la Campania ed il Lazio può trovare la spiegazione all’interno degli scandali di varia natura che hanno caratterizzato le amministrazioni esistenti, ben più grave appare la debacle in Piemonte. Dove Mercedes Bresso si è vista costretta a cedere il passo a Cota, nonostante fosse riuscita ad incamerare nella propria coalizione tanto l’UDC di Casini quanto la Federazione della sinistra radicale. E’ indicativo il fatto che l’unica regione “a rischio” nella quale il centrosinistra ottiene un risultato positivo sia proprio quella Puglia dove Nichi Vendola ha difeso con i denti la propria candidatura, imponendo una lista più “di sinistra” rispetto al listone in alleanza con l’UDC che era stato imposto da D’Alema

Le liste 5 stelle di Beppe Grillo hanno ottenuto nel complesso risultati di tutto rilievo, fra i quali spiccano Giovanni Favia in Emilia Romagna che ha ottenuto il 7% e Davide Bono in Piemonte arrivato a superare il 4%, a dimostrazione del fatto che esiste senza dubbio ampio spazio di manovra per chi intenda costruire delle alternative ai partiti politici tradizionali.

L’inesorabile continua discesa del centrosinistra, laddove questo non riesce a proporsi come concreto elemento di alternativa, ma semplicemente come una fotocopia sbiadita di Berlusconi, unitamente al buon risultato delle liste che fanno riferimento a Beppe Grillo e al grande incremento dell’astensione, stanno a dimostrare in maniera inequivocabile tanto il “bisogno” di alternative concrete da parte dell’elettorato, quanto la palese incapacità di esprimere le stesse espresse dal sistema dei partiti.
Proprio questo bisogno di alternative concrete, pensiamo possa considerarsi la vera novità di questa tornata elettorale. Una novità destinata naturalmente ad essere sottaciuta, tanto dal sistema dei partiti ormai incancrenito nella spartizione del potere, quanto dai media mainstream che di quel potere rappresentano uno degli elementi cardine.
M. Cedolin

29 marzo 2010

Settemila comuni rinnovabili

Un ottimo esempio di buona amministrazione sul campo delle rinnovabili. L'Italia virtuosa cresce per merito delle amministrazioni locali. Il rapporto Comuni Rinnovabili di Legambiente fa luce sull'impiego di sole, vento, acqua, geotermia, biomasse...
Sono ben 6.993 i Comuni italiani dove è installato almeno un impianto di produzione energetica da fonti rinnovabili. Erano 5.580 lo scorso anno, 3.190 nel 2008. Le fonti pulite che fino a dieci anni fa interessavano, con il grande idroelettrico e la geotermia le aree più interne e comunque una porzione limitata del territorio italiano, oggi sono presenti nell’86% dei Comuni. E per quanto riguarda la diffusione, sono 6.801 i Comuni del solare, 297 quelli dell’eolico, 799 quelli del mini idroeletttrico e 181 quelli della geotermia. Le biomasse si trovano invece in 788 municipi dei quali 286 utilizzano biomasse di origine organica animale o vegetale.

Ecco, in sintesi, il quadro dell’Italia sostenibile, rilevato dal rapporto Comuni Rinnovabili 2010 di Legambiente, realizzato in collaborazione con GSE e Sorgenia.
Il rapporto parla di un salto impressionante che si è verificato in Italia nel numero degli impianti installati. Attraverso nuovi impianti solari, eolici, geotermici, idroelettrici, da biomasse già oggi sono centinaia i Comuni in Italia che producono più energia elettrica di quanta ne consumino. Grazie a questi impianti sono stati creati nuovi posti di lavoro, portati nuovi servizi e create nuove prospettive di ricerca applicata oltre, naturalmente, ad aver ottenuto un maggiore benessere e qualità della vita. Queste esperienze sono oggi la migliore dimostrazione del fatto che investire nelle rinnovabili è una scelta lungimirante e conveniente, che può innescare uno scenario virtuoso di innovazione e qualità nel territorio.
Nel 2009 la crescita delle fonti rinnovabili è stata fortissima (+13% di produzione), e dimostra quanto oggi queste tecnologie siano affidabili e competitive – ha dichiarato Vittorio Cogliati Dezza, Presidente nazionale di Legambiente –. Ora occorre puntare con forza in questa direzione, capire quanto sia nell’interesse del Paese raggiungere gli obiettivi fissati dall’Unione Europea al 2020 per la riduzione delle emissioni di CO2 e la crescita delle rinnovabili. Per questo siamo preoccupati di fronte all’assordante silenzio che ci sta accompagnando alla scadenza del prossimo giugno, quando l’Italia dovrà comunicare all’UE il piano nazionale per rientrare nell’obiettivo al 2020 del 17% di rinnovabili. I numeri, le storie raccontate da questo rapporto dimostrano che questi target sono a portata di mano, e che la soluzione più intelligente è quella di guardare ai territori: alla domanda di energia da parte di case, uffici, aziende e attività agricole per capire come soddisfarla con le risorse rinnovabili più adatte ed efficienti. Ma soprattutto, le esperienze raccolte dimostrano quanto questa prospettiva risulti già oggi vantaggiosa: coloro che hanno installato impianti solari termici e fotovoltaici o che sono collegati a reti di teleriscaldamento, pagano bollette meno salate in località dove l’aria è più pulita.”.

Il premio 2010 va a Sluderno (Bz), un Comune con poco più di 1.800 abitanti che fonda il suo successo su un intelligente mix di diversi impianti diffusi nel territorio: 960 mq di pannelli solari termici e 512 kW di pannelli solari fotovoltaici diffusi sui tetti di case e aziende, più 4 micro impianti idroelettrici con una potenza complessiva di 232 kW. E un impianto eolico da 1,2 MW, realizzato in “comproprietà” con 3 Comuni vicini. L’impianto è installato nel Comune di Malles è gestito da un Consorzio dei Comuni più alcune aziende elettriche locali. A scaldare le case sono gli impianti da biomasse locali e da biogas, con una potenza complessiva di 6.200 kW termici, entrambi di tipo cogenerativo, allacciati ad una rete di teleriscaldamento lunga 23 km. Questi impianti producono oltre 13 milioni di kWh annua di energia termica per soddisfare il fabbisogno di oltre 500 utenze sia del Comune di Sluderno che del vicino Comune di Glorenza.

Sono state premiate, inoltre, realtà dove attraverso investimenti lungimiranti nelle fonti rinnovabili, sono stati ottenuti risultati che vanno ben oltre la risposta agli obiettivi energetici e ambientali. Un esempio è il Comune di Tocco da Casauria (Pe), dove sono in funzione quattro pale eoliche che complessivamente (con 3,2 MW) permettono di produrre più energia elettrica di quella necessaria alle famiglie residenti. Nel Comune, inoltre, sono presenti 24 kW di pannelli fotovoltaici oltre a grandi impianti idroelettrici. Qui le royalties provenienti dell’eolico hanno permesso al Comune di acquistare lo storico Castello e progettarne la ristrutturazione. Altro esempio è quello del Comune di Maiolati Spontini (An), di circa 5.700 abitanti, che grazie ad un mix energetico fatto di pannelli solari fotovoltaici (135 kW), di un impianto mini idroelettrico (400 kW) e soprattutto di un impianto a biogas da discarica entra di diritto nella categoria “100% elettrici”.

Da quest’anno poi, l’indagine sulle rinnovabili si è estesa alle Province, per le quali, il premio 2010 va a Grosseto per i risultati conseguiti in questi anni e per l’impegno mostrato nello sviluppo delle fonti rinnovabili.

by Gab

25 marzo 2010

Cos'é il collasso, in fin dei conti?

In ogni blog trovate discussioni in corso, spesso aperte da molto tempo, con numerosi commenti e con gente che invece vi si affaccia per la prima volta. Talvolta i lettori hanno un punto di vista contrario al vostro, oppure sono incuriositi o preoccupati per quel che trovano, o magari sono poco interessati; a volte partecipano attivamente, altre volte gettano uno sguardo distratto e se ne vanno. Riuscire a mantenere un giusto equilibrio tra quello che scrivete per i lettori regolari e quello che scrivete per i lettori saltuari è un esercizio sempre molto interessante, che ho dovuto recentemente affrontare: da alcuni mesi mi occupo infatti di blog scientifici e sono entrato in contatto con un mucchio di gente nuova. È un fatto positivo, che richiede però un'attenta calibrazione: che livello di conoscenza devo presupporre? Quanti concetti di base devo spiegare a quelli che non sono esperti, tornando a ripetere cose già note a molti di coloro che invece mi seguono regolarmente?

PalMD ha di recente indicato, e gliene sono sinceramente grato, uno dei siti in cui evidentemente non sto facendo abbastanza per illustrare le mie idee ai lettori. Ha scritto infatti:

E per finire adoro Sharon Astyk su Casaubon's Book...anche se non condivido alcuni punti fondamentali. Mi piace il suo esperimento IRL (In Real Life. NdT) per una vita (illusoriamente) sostenibile, ma la sua concezione di vita sostenibile mi sembra veramente antisociale. È un progetto per sopravvivere da soli a un disastro che distrugga il tessuto sociale. Il post di oggi parla di come far sopravvivere la famiglia creando una riserva di alimenti indispensabili, e quello di ieri parlava di come far in modo che possa profittare di tutto il cibo accantonato. Molto interessante, ma apparentemente poco utile quando si arriva a fine corsa nel mondo reale: prima di cominciare a sbranarsi a vicenda, i componenti di una qualche milizia per la supremazia bianca vi avrà sterminato per il vostro cibo.

Evidentemente sto commettendo qualche errore; tra l'altro quello di dare per scontato che la gente sappia perché dovrebbe fare scorta di alimenti, o mangiare tutto l'anno prodotti locali. PalMD ritiene che mettere da parte alimenti sia roba da apocalisse, e che in ogni caso una decisione di questo tipo sia un fatto personale e non sociale. Entro certi limiti è un principio corretto; ho scritto parecchio sull'apocalisse, un termine che è accompagnato immancabilmente da idee quali "zombie, supremazia bianca, e sciacallaggio per mangiare".

È irritante scrivere un articolo accattivante e ben presentato e ritrovarsi con qualcuno che risponde formulando una lunga e serissima analisi, e mi dispiace doverlo fare. Nel mio caso è proprio quello che mi ha "fatto staccare" il cervello, e gli sono profondamente grato per avermi offerto l'occasione di smetterla con la critica di cui mi stavo occupando e passare a qualcosa di più interessante!

In effetti, il termine "collasso" non presuppone alcuna forma di cannibalismo nella maggior parte delle società civili, che sono ovviamente contrarie al modello "bambino allo spiedo". I taboo contro una simile pratica sono talmente radicati che la maggior parte degli esseri umani preferirebbe morire di fame piuttosto che violarli, come vediamo nelle società con alti tassi di denutrizione (cfr il libro di Margaret Visser: The Rituals of Dinner) in cui il cannibalismo non viene mai considerato una soluzione alla penuria di cibo ma piuttosto una pratica estremamente ritualizzata e attentamente strutturata, spesso associata a una guerra formale. E non deve necessariamente far pensare a Mad Max. Ne ho già parlato nella mia risposta a Zuska , ma ho pensato di usare adesso un approccio più pragmatico: nel nostro secolo, che cosa è veramente successo quando le società sono arrivate al collasso? Ci sono mezzi per ridurre questa follia? Gli eventi storici non possono fornirci una risposta sufficientemente accurata, ma possono almeno offrirci un punto di partenza.

Da questo punto di vista, il "collasso" è in effetti un fenomeno molto comune: le società arrivano a uno specifico livello funzionale, si scontrano con limiti invalicabili (spesso ecologici, come hanno documentato tra gli altri Jared Diamond in "Collapse: How Societies Choose to Succeed or Fail" e Joseph Tainter in "The Collapse of Complex Systems"), e ricadono a un livello funzionale più basso. Quanto più basso, dipende dal modo in cui la società reagisce. Pensiamo per esempio all'Isola di Pasqua. E più di recente Ruanda e Burundi sono ripetutamente piombati in una violenza insostenibile e in guerre civili senza sbocchi, con conseguenze umane terribili e non molto dissimili da quelle di Mad Max.

D'altro canto pensiamo all'ultima società in ordine di tempo ad aver collassato: l'Islanda. Nel 2008 e l'isola, che era diventata estremamente ricca e prospera, ha conosciuto un crollo economico i cui effetti si fanno ancora sentire. Quello bancario è stato il più grave, se si rapporta alle dimensioni del paese, mai registrato nella storia economica.

Gli avvenimenti islandesi rassicureranno certamente la gente che si preoccupa all'idea di un collasso: la situazione era diventata molto sgradevole, ma in confronto al Ruanda si è trattato di poca cosa. Ci sono state manifestazioni violente, suicidi, emigrazione, e il governo è stato esautorato. Per affrontare la crisi è stato pagato un costo enorme: disoccupazione generalizzata, forte aumento dei tassi d'interesse, crollo delle importazioni, esplosione del numero di pignoramenti, necessità per molti professionisti ben pagati di riciclarsi nell'industria della pesca (e le riserve ittiche sono rapidamente calate), costi proibitivi dei beni importati, rapido impoverimento della popolazione. Ma d'altro canto i beni essenziali sono stati in buona misura preservati.

In conclusione, la prima cosa che possiamo dire del collasso è che si tratta di un evento estremamente variabile (economico, energetico, politico, o tale da sfociare in una guerra civile) e che alcuni casi sono meno gravi di altri. In effetti, Dmitry Orlov, autore di "Reinventing Collapse", in cui paragona quello che succederà, secondo lui, negli USA con quello che è successo nell'Unione Sovietica (evento parzialmente vissuto in prima persona), ha scritto un ponderato e interessante saggio, in cui si sofferma in particolare su un punto:

Anche se molti vedono il collasso come una specie di ascensore che scende al livello delle cantine (il nostro Stato 5), indipendentemente dal pulsante che abbiamo premuto, in realtà non si vede nessun meccanismo automatico di questo tipo. Passare allo Stadio 5 richiede invece uno sforzo concertato a ogni livello. Il fatto che tutti sembrino pronti a farlo può dare al collasso l'apparenza di una tragedia classica, una marcia consapevole ma inesorabile verso la perdizione, piuttosto che di una farsa (Perbacco! Eccoci allo Stadio 5. Chi ci mangiamo per primo? Cominciate con me. Sono prelibato!).

Lo ammetto, trovo estremamente difficile immaginare uno scenario in cui gli USA non collassino almeno in parte; in qualunque modo lo si veda, il paese sta correndo proprio questo pericolo. Continuiamo a proclamare che il crollo economico è stato evitato, ma in realtà lo abbiamo solo rimandato di qualche anno; cosicché l'enorme carico economico ricadrà quasi sicuramente sulle spalle di quelli che oggi hanno meno di 50 anni e delle future generazioni. Si può dire lo stesso della crisi energetica, e a maggior ragione di quella climatica. Nessuno oserà negare, penso, che le nostre politiche in queste tre aree sono a corto termine e pensate per evitare di farci subito carico del peso, non certo per sfuggire alla crisi.

Che cosa mi fa credere che le crisi saranno talmente dure da portare al collasso? Le previsioni di analisti degni di fiducia e imparziali. Ad esempio, nel 2005 l'US DOE (Department of Energy, il ministero statunitense per l'energia. NdT) aveva commissionato uno studio, l' Hirsch Report , per capire se il picco petrolifero rappresentasse un vero pericolo. Robert Hirsch, il ricercatore responsabile del rapporto, ne è oggi un convinto assertore, ma all'inizio la pensava diversamente. Il rapporto per il DOE era arrivato alla conclusione che avremmo potuto evitare il collasso investendo a un livello paragonabile a quello della II guerra per almeno 20 anni (un periodo più breve avrebbe indotto una grave crisi). È la conclusione del DOE, non la mia: dato che non stiamo destinando alle energie rinnovabili somme paragonabili a quelle della II guerra mondiale, e dato che anche l'USGS (United States Geological Survey. NdT) prevede il picco petrolifero entro il 2023, un semplice calcolo suggerisce che ci dobbiamo aspettare seri problemi. L ' Army ha preparato un rapporto simile.

E a proposito del cambio climatico? Beh, guardate The Stern Review di Sir Nicholas Stern sulle conseguenze economiche del fenomeno. Tra le altre conclusioni (i presupposti sugli obiettivi climatici sono oramai superati; riteneva infatti che 550 ppm avrebbero potuto evitare più guai di quanto potranno in realtà fare), c'era quella secondo cui cambiamenti climatici non controllati potrebbero indurre costi superiori al 20% del PIB mondiale, un peso che nessuna economia potrebbe sopportare senza, appunto, collassare. Poiché niente lascia pensare a una nostra capacità di stabilizzare l'ecologia a livelli inferiori, sembra ragionevole presupporre che ci troveremo ad affrontare elevati costi, con gravi conseguenze economiche.

E ciò vale anche per le mie idee sulle conseguenze pratiche e materiali del cambiamento climatico: le previsioni dell'IPCC e di altri studi suggeriscono, tra gli altri effetti inevitabili del fenomeno, l'afflusso di un alto numero di rifugiati, conflitti per le scarse risorse, siccità, ridotti tassi di produzione alimentare, maggiori malattie infettive, tempeste più violente e disastri naturali più numerosi... Questo eventi implicano elevati costi, non solo economici ma anche materiali, che porteranno inevitabilmente al collasso delle società. Si può ragionevolmente affermare, ad esempio, che New Orleans è destinata a restare a un livello funzionale molto più basso per un lungo periodo; anzi, non è chiaro se riuscirà mai a venirne fuori.

A questo punto, non penso di dover spiegare perché secondo me avremo un crollo economico; può sopravvenire in qualsiasi momento, e anzi sappiamo che ci siamo andati vicino nell'autunno 2008.

Sappiamo che possiamo aspettarci un collasso energetico, magari assieme a uno economico: l'ex primo ministro sovietico Yegor Gaider ha scritto un libro in cui afferma che, secondo lui, l'Unione sovietica collassò per la sua dipendenza dalle esportazioni energetiche e per lo spostamento della popolazione dalla campagna alle città. Il paese aveva fatto a lungo affidamento sulle esportazioni energetiche per comprare prodotti alimentari sui mercati esteri, ma dopo il crollo dei prezzi nel settore il numero di contadini risultò insufficiente per aumentare la produzione agricola, e il governo non fu capace di gestire la situazione.

Sappiamo anche che l'evento provocò ulteriori cedimenti: Cuba crollò perché l'Unione sovietica era collassata e aveva sospeso le spedizioni di petrolio. L'isola perse 1/5 delle sue importazioni energetiche e le strutture sociali si disgregarono in parte: la gente cominciò a soffrire la fame e a nutrirsi di scorze di agrumi dato che non c'era più energia per mandare avanti il suo sistema agricolo altamente tecnologico.

L'esempio di Cuba è interessante perché è una ulteriore dimostrazione del fatto che anche piccole alterazioni delle risorse energetiche possono dar luogo a conseguenze disastrose: 1/5 di petrolio in meno non avrebbe dovuto ridurre la gente alla fame. Molti potrebbero ragionevolmente pensare che il contraccolpo avrebbe potuto essere assorbito eliminando gli sprechi del sistema e distribuendo meglio le risorse, o magari che la responsabilità ricada sul governo cubano. Quest'ultimo punto è probabilmente in parte vero, ma non dimentichiamo che anche negli USA abbiamo casi che dimostrano come piccoli cambi nelle forniture energetiche portano a conseguenze estremamente distruttive: lo shock petrolifero degli anni '70 e la susseguente recessione furono dovute a una contrazione delle importazioni petrolifere di poco più del 5%.

In conclusione, ritengo che ci stiamo avviando a una qualche forma di collasso (senza necessariamente collegarla a cannibalismo o bande criminali in difesa della razza bianca) che mi piacerebbe allontanare al più presto: ho anche altre cose da fare! Quando cominciai a scrivere sul tema, nel 2003, mi sembrava probabile che il cambiamento climatico si sarebbe manifestato molto più lentamente e che saremmo stati in grado di affrontare una crisi alla volta.

Mi pare oramai evidente che ci avviamo verso una crisi al tempo stesso economica, energetica e climatica, e non vedo come superarla con successo. Impossibile? Forse no, ma di sicuro improbabile; la ristrutturazione sociale sarebbe enorme e coinvolgerebbe tutti i fattori cui ho prima accennato. Quasi tutti quelli che si occupano del tema fanno paragoni con la II Guerra mondiale e con il clima di guerra (Niels Bohr affermò che sarebbe stato impossibile sviluppare la bomba atomica senza trasformare l'intera nazione in una fabbrica, e nel 1944 osservò che ci eravamo riusciti). Dover rifare la stessa cosa affrontando al tempo stesso una crisi poliedrica sembra ancora più difficile.

In ogni caso, dovremmo comunque prospettarci la possibilità di un fallimento. E questo è un problema in una società che sembra credere a un'alternativa dicotomica: non potete preparavi all'insuccesso e mettere a punto un piano di riserva in caso di fallimento. Psicologicamente ci convinciamo che se pensiamo seriamente alla possibilità di fallire, allora falliremo; e quindi non lo facciamo perché ci sembra morboso. Non ci prepariamo per il disastro, anche quando ci sembra imminente: non creiamo una riserva alimentare, anche se la FEMA (Federal Emergency Management Agency, l'agenzia federale per la gestione delle emergenze. NdT) e la Croce rossa ci mettono in guardia, e anche se recentemente il responsabile della FEMA ha ricordato che la prima linea di difesa è la preparazione individuale. Tendiamo a un approccio dicotomico, mentre in realtà abbiamo bisogno delle due alternative: volontà "e" attenzione nell'attraversare la strada, preparare gli strumenti "e" avere un piano di evacuazione, stipare cibo nella dispensa "e" perseguire una maggiore coesione sociale.

Inoltre, buona parte di quel che raccomando va bene per gente che non è coinvolta in un crollo dichiarato, ma la cui vita sta per collassare: senza lavoro, in procinto di perdere la casa, con possibilità alimentari insufficienti, gravati da problemi medici e privi di assicurazione sanitaria... in gran parte quello che incoraggio la gente a fare, compresa la creazione di una scorta di alimenti e un maggior sostegno sociale funziona con la "gente" che sta per cedere, anche se la società non li ha ancora etichettati come falliti.

Quali sono i punti comuni delle varie società in collasso? Potrei risalire a Roma, ovviamente, ma non mi sembra necessario. Eccone alcuni:

1.La gente, estremamente irritata col governo, arriva di solito a qualche forma di resistenza civile e spesso il governo cambia; talvolta è una buona cosa, talvolta invece no. In certi casi, come ben sappiamo, il governo trova dei capi espiatori, il che è veramente negativo. La migliore soluzione è quando il governo va incontro alle richieste del popolo, o quando si toglie di mezzo e lascia che sia il popolo stesso a decidere.

2. Il tasso di criminalità aumenta; servizi come la protezione cittadina sono meno raggiungibili o vengono privatizzati, e, fattore comune alle società in crisi, sono più violenti. Ma ciò non significa che i signori della guerra uccidano tutti quelli che si trovano sul loro cammino. Significa invece più violenza, furti, stupri e delitti nelle strade, e qualche volta lucrosi rapimenti. Significa anche che la gente è vulnerabile e terrorizzata, e che spesso non ha fiducia nelle autorità; è un po' come essere afroamericani e vivere in una periferia degradata, o magari a Bagdad. In generale non vi fa piacere che i vostri figli escano spesso, anzi tendete a non uscire troppo nemmeno voi, e la sicurezza diventa un problema importante.

3. La popolazione s'impoverisce rapidamente; questa è forse la caratteristica più comune. Quando le società collassano, la percentuale di poveri aumenta; in Argentina, ad esempio, la crisi del 2001 distrusse in pratica la classe media e fece aumentare il tasso di povertà dal 20% a quasi il 57%. A mio parere è un tratto comune a tutti i collassi, ed è proprio quello che sta succedendo.

4. Costo e disponibilità degli alimenti diventano un serio problema. Il caso dell'Argentina, un paese prima stabile e agiato, mostra che molti alimenti ricercati, in particolare quelli importati, sono spesso introvabili e, cosa più importante, il forte impatto economico rende meno facile comprarli. Crisi sanitaria (in particolare la mancanza di cure), depressione, ricorso all'alcol e alle droghe, aumentano sensibilmente.

5. Servizi e strutture si degradano perché, e il caso è frequente tra gli americani poveri, la gente non è in grado di far fronte ai pagamenti (ad esempio, decine di migliaia di capofamiglia si vedranno tagliare i servizi dal 1° aprile, data prima della quale non è legalmente permesso togliere ai privati i servizi essenziali) o perché le infrastrutture sono fatiscenti e la coesione sociale viene meno. Sempre più spesso l'energia non verrà erogata, i rifiuti non verranno prelevati, il gas mancherà e i camion di riapprovvigionamento non si faranno vedere...

6. La gente si riavvicinerà: che vivano ammassati nei ghetti o che abbiano perso la casa, le famiglie cominceranno ad aiutarsi a vicenda. E lo stesso faranno intere comunità e quartieri: chi ha cibo lo divide con voi, chi ha spazio lo cede ai bisognosi. Nasce una cultura di condivisione.

Si tratta di situazioni praticamente universali e quasi inevitabili nelle società collassate. In alcuni casi, invece, i vostri vicini cercheranno di uccidervi e bande organizzate cominceranno a terrorizzare il quartiere; ma non si tratta di situazioni inevitabili.

Il problema è: se il collasso incombe, su cosa concetrare gli sforzi? Cercate di prevenirlo, anche se è sempre più difficile, o vi preoccupate, come suggerisce Orlov, dei bisogni di base? Secondo me, la risposta è che bisogna operare su entrambi i fronti, concentrandosi su azioni a doppio effetto; le strategie vincenti sono quelle che, quando vi trovate di fronte a un crollo importante dei sistemi, riducono gl'impatti e aumentano la resistenza. Credo che la maggior parte dei miei suggerimenti, se non tutti, vadano in questa direzione.

In caso di collasso, quale che sia, cosa può meglio aiutare? Sappiamo ad esempio che il sostegno sociale fa una grossa differenza. "Reinventing Collapse" sottolinea che il sistema di assistenza sociale è stato fondamentale per la sopravvivenza dei russi. Aver messo a portata del popolo cure mediche, cibo e un luogo in cui vivere ha permesso di evitare che la crisi diventasse troppo dura. A Cuba, con tutti i suoi limiti, il governo ha fatto qualcosa di veramente notevole, l'esatto contrario del governo USA: ha salvaguardato il sostegno sociale, a spese della crescita potenziale. In altre parole, per affrontare la "contingenza particolare", ha diffuso i programmi educativi nelle università più piccole, aumentato il numero di ospedali nelle aree rurali, rafforzato i programmi alimentari. Come sostengo in "Depletion and Abundance", è proprio quello di cui abbiamo bisogno qui da noi: le nostre massime priorità dovrebbero essere l'assistenza medica, la sicurezza alimentare, l'insegnamento e i programmi per gli anziani, i disabili e i bambini. Il bello di questa strategia politica è che le cose che contano sono proprio quelle cui la gente dice di tenere di più.

Disgraziatamente non è questa la cultura in cui viviamo: gli Stati Uniti rispondono alla crisi economica e sociale aumentando regolarmente i programmi governativi e militari, e tagliando i fondi per l'assistenza sociale. Sta già avvenendo, ed è per questo che mi affido alle reti locali e private (per tutti quelli che vivono nelle comunità) e alle altre risorse minimali più che ai grandi programmi; servono infatti da ultimo ricorso per coloro che sono precipitati ma che riescono a sopravvivere, anche in assenza di aiuti federali o statali, perché possono operare a scala sufficientemente locale. Questo non significa che io sia favorevole alla frantumazione dei programmi sociali, sicuramente no; e negli ultimi anni ho scritto spesso sull'importanza di finanziare il servizio sanitario universale, il LiHeap (Low Income Home Energy Assistance Program, NdT), i buoni pasto, il WIC (Special Supplemental Nutrition Program for Women, Infants and Children. NdT) e i programmi per disabili e anziani. Ho speso molte energie per difendere tutte queste azioni, ma al tempo stesso ritengo che sia urgente creare reti di emergenza più localizzate.

Per fermare la discesa verso il basso sono utili anche le strategie di autosoccorso. A Cuba, per esempio, l'agricoltura a piccola scala nei centri urbani ha fatto molto (non tutto, anche i beni importati hanno svolto un ruolo importante) per alleviare la fame e le carenze nutrizionali. In Russia, tutte le analisi economiche affermavano che ci sarebbe stata una carestia generalizzata; non c'è stata, in buona parte grazie allo sviluppo di un'economia locale che ha surrogato le carenze di quella a grande scala. In Argentina, raccogliere cartoni ha aiutato 40.000 persone. Durante la Grande depressione americana, un buon esempio secondo me di un quasi collasso, il numero di lavori informali si moltiplicò: il New York Times osservò che nel 1932 in città c'erano 7.000 persone, in gran parte adulte, che lucidavano scarpe, mentre nel 1928 ce ne erano meno di 200, quasi tutti bambini.

Le strategie individuali di sopravvivenza e le reti di sostegno sociale non entrano in conflitto: sono entrambe necessarie, in particolare quando i programmi di accompagnamento sociale sono criticati o accantonati, come oggi negli USA. Da soli non possono dar sollievo alla popolazione o ridurre la portata del disastro, ma insieme possono permettere alla gente di sopravvive, alimentarsi e sentirsi ragionevolmente al sicuro.

In un certo qual senso può sembrare stupido accontentarsi di questo. Ognuno vuole il meglio per se, gli amici, il mondo, i figli: anche io. Disgraziatamente è assai poco probabile che ci sia offerta la possibilità di ottenere molto di più; mi rendo conto che è deprimente dirlo, ed è il genere di affermazione che sconvolge la gente. In un certo senso sarebbe meglio se potessi convincermi che il collasso sarà un fatto positivo; ma non posso. Ci sono esempi di persone capaci di cavarsela meglio se la società è crollata e poi è risorta, ma è lecito dire che a nessuno piace una tale situazione. Il progetto, dunque, mira a evitare che sia troppo dura o mortale.

PalMD pensa che il mio tentativo di condurre una vita sostenibile sia illusorio, e in un certo qual modo ha ragione. Posso documentare con precisione le risorse che uso, perché le ho registrate negli ultimi quattro anni: rispetto alla quantità media statunitense, i sei componenti della mia famiglia producono il 15% delle emissioni casalinghe e il 20% dei rifiuti, usano il 40% di acqua e spendono il 10% in nuovi beni di consumo. La famiglia media americana è composta da 2,6 persone e il nostro uso reale è inferiore al loro, perché siamo sei membri; siccome siamo comunque una grande famiglia il meno che possiamo fare è tagliare al massimo.

Ma tutto poggia su una base di risorse importate, senza le quali le nostre vite sarebbero veramente difficili. La mia speranza è che anche altri si decidano a eliminare gli sprechi energetici (noi ci siamo riusciti, senza grandi investimenti, coi pannelli solari, e altri membri di Riot for Austerity hanno dimostrato che il risultato può essere raggiunto in città e in campagna, da parte di singoli o di famiglie numerose: dunque sappiamo che è fattibile). Ma non m'illudo che la tendenza diventi una moda in grado di salvare il mondo, perché in ogni caso sarà troppo tardi; dovremmo allora ancora dimezzare, più o meno, i nostri consumi energetici.

Oltre alle giustificazioni morali – è la cosa giusta da fare, sappiamo che le nostre emissioni sono una minaccia e dobbiamo quindi ridurle al minimo – a mio parere c'è un'altra ragione per adottare una posizione simile: vi permette di agire sul piano individuale e collettivo allo stesso tempo, di stipare riserve di cibo indipendentemente e di organizzare la vostra comunità in modo da essere sicuri che i vicini possano sfamarsi e che i vostri figli non muoiano di fame. Vi permette di eliminare in parte la pressione quando perdete il lavoro, ma anche di riempire la dispensa quando potete farlo. Migliora la situazione sia durante che dopo il collasso.

Non funziona invece molto bene nelle situazioni estreme, se cominciamo a trattarci come hanno fatto Tutsi e Hutu dagli anni '70 in poi. Se diamo il potere a un governo fascista che condanna ebrei, intellettuali, atei, immigranti... siamo fregati. Le migliori strategie richiedono di frenare ogni volta che è possibile, e mi piacerebbe se fosse possibile farlo prima di collassare, ma mi pare poco probabile. Ritengo invece che la strategia vincente consista nell'agire in modo da avvicinarci il più possibile all'Islanda e il meno possibile al Ruanda.

di Sharon Astyk

Fonte: www.energybulletin.net

24 marzo 2010

Oltre 68 milioni di euro l’anno: è il costo di Montecitorio

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La Camera degli sprechi

Via le malignità. Basta con le cattiverie. Stop al qualunquismo. Anche in Italia c’è un posto di lavoro dove le regole di sicurezza vengono rispettate. Tutte. E non esistono morti bianche. Guarda un po’. Dove è disponibile un medico; dove la mensa non serve piatti vecchi o riciclati. Anzi, vengono effettuati continui controlli sanitari. Dove anche la cura dell’immagine diventa un valore, pari a 307 mila euro l’anno di foto. Sì, esiste, basta farsi eleggere alla Camera dei Deputati, piazza Montecitorio, Roma.
Quindi ecco uno stipendio di quasi 20 mila euro al mese, altri 7 mila per i collaboratori, 2 mila per i viaggi e 5 mila per un affitto. Più tanto, tanto altro. Per scoprirlo è stato necessario lo sciopero della fame di Rita Bernardini, deputata radicale, tenace nel mettere alle corde i tre questori della Camera (“riluttanti a consegnare quanto richiesto, nonostante il regolamento”, racconta la stessa) e a strappare l’appoggio del presidente della Camera “che mi ha scritto: ‘Sarà lo sciopero della fame più breve della storia. Domani avrai quel che chiedi, giustamente. Con stima Gianfranco Fini”. Così è stato. Ed ecco consegnata al popolo una lista lunga 17 pagine, con su scritti tutti i fornitori, i servizi erogati e i prezzi pagati. Risultato? I radicali quantificano in altri 9.000 euro al mese il costo impiegato per ogni deputato “nemmeno al Grand Hotel un ufficio costerebbe così tanto!” incalza la Bernardini.
Ecco alcune delle voci: quasi 7 milioni di euro per la ristorazione, comprensivi anche del “monitoraggio alla qualità dei servizi” (126 mila euro); oltre 600 mila per il noleggio delle fotocopiatrici; 400 mila per “agende e agendine”, 292 mila per la somministrazione cartoncini, carte e buste personalizzate, 300 mila per i corsi di lingue. Fino al vero “gruzzolo”, composto da oltre 51 milioni per le locazioni: “Sono gli uffici a disposizione per ognuno di noi – continua la radicale. Sono dislocati attorno a Montecitorio, e lì abbiamo a disposizione tutto quanto è necessario”. E di più, ancora. “Non solo, dentro il personale svolge lo stesso ruolo dei commessi della Camera, ma con uno stipendio, e benefit, decisamente inferiori: 800 euro al mese. Li vedo arrivare la mattina presto vestiti con tuta e armati di strofinacci per le pulizie. Quindi si cambiano, indossano gli abiti ufficiali, ed ecco la rappresentanza. Assurdo. Soprattutto perché gli uffici vengono utilizzati pochissimo”. Già, la Camera lavora tre giorni la settimana, dal martedì al giovedì, e molti deputati arrivano da fuori, quindi non restano a Roma durante il periodo di inattività.
Comunque, protagonista alla voce “canone di locazione” è la società Milano 90 Srl, con ben quattro lotti assegnati per la cifra complessiva di circa 45 milioni. “Fa capo all’imprenditore Scarpellini, prosegue la Bernardini. È un costruttore romano, impegnato nella realizzazione di un quartiere alla Romanina e dello stadio della Roma calcio. Ah, comunque, le posso dire anche un’altra cosa: i lavoratori suddetti, nonostante lo stipendio da fame, sono segnalati dai partiti stessi. Insomma, c’è una sorta di lottizzazione. Nella lista consegnata ci sono anche altre voci interessanti”. Vero. Sotto la categoria “manutenzioni” finiscono le punzonatrici: per la loro efficienza, solo per quella, la cifra è di quasi 4 mila euro; o 99 mila per l’arredo verde dei terrazzi, giardini e cortili. E ancora un milione e 200 per le tappezzerie e falegnameria.
Nonostante tutto questo “il bilancio della Camera – conclude la deputata radicale – è omertoso, l’ho detto in aula e lo ripeto: in virtù del principio di autonomia costituzionale, la Camera è esente
da qualsiasi controllo contabile e gestionale esterno”. “Il controllo interno – ricordano i Radicali in un documento – dovrebbe essere esercitato dai questori (...) supportati dal Servizio per il controllo amministrativo, gerarchicamente subordinato al segretario generale, cioè al soggetto che dovrebbe essere controllato. Dunque è lecito dubitare della reale efficacia della funzione di controllo, comunque esclusivamente formale, dato che l’assenza della contabilità analitica non permette di istituire controlli sull’efficienza e l’efficacia della gestione”. Un giro di parole per dire, semplicemente, che chi detta le regole, si giudica; chi emette o assegna un lotto, si auto-controlla. Chi ci guadagna, invece, sorride.

di Alessandro Ferrucci

23 marzo 2010

La pressione fiscale sui ricchi


Si dice che la pressione fiscale sulle grandi fortune non si puó incrementare per non disincentivare gli investimenti e l’iniziativa privata e perché i capitali fuggirebbero in altri paesi con fiscalitá meno forti (fuga che é effettivamente avvenuta dalla Grecia ultimamente). Si ripete con la stessa insistenza che la accumulazione di capitale é una condizione necessaria per l’attivitá economica e il benessere generale. Questi stereotipi fanno parte delle convinzioni piú solide di chi prende le grandi decisioni economiche e politiche e finiscono per essere assunte dall’opinione pubblica. Ma sono un inganno.

Vediamo cosa é successo con le imposte ai ricchi nel paese piú liberale e individualista dell’occidente: gli USA.

Negli anni precedenti alla seconda guerra mondiale, la pressione fiscale sui guadagni piú alti passó dal 25% al 63% nel 1932, come mezzo per combattere la Gran Depressione. Da allora al 1981, cioé per 50 anni, si é mantenuta sempre oltre il 63%, arrivando al picco del 94% nel 1944, come contributo allo sforzo della guerra, e oscillando dal 82% al 91% nei venti anni dalla fine della guerra al 1963. Da Reagan in poi, non fece che diminuire, fino ad arrivare al 35% nel 2009.

Quella lunga esperienza di cinque decenni mostra che la classe capitalista, anche quella piú potente degli USA, puó accettare una pressione fiscale molto alta e che imposte cosí alte sono compatibili con la crescita economica. Nei 50 anni in cui la pressione fiscale negli USA si mantenne oltre, o molto oltre il 50% a carico della parte piú ricca, furono anni di massima prosperitá per quel paese. Quelle tasse potevano servire per migliorare lo stato sociale e i servizi pubblici a beneficio dei piú poveri, se i bilanci delle guerre non avessero fatto la parte del leone nel mangiarsele. Peró quello che ci interessa qui é provare che in 50 lunghi anni la classe capitalista della prima potenza del mondo accettó una pressione fiscale che ora molti dicono del tutto proibitiva e insensata.
La percentuale massima per la IRPEF in Spagna fu posta al 43% nel 2008, quella per le societá (IRPEG) al 30%, cinque punti in meno rispetto alle percentuali del 2000 e non c’è nessun segnale di volerli aumentare.

Un altro stereotipo é che le differenze sulle varie fiscalitá aumentano la fuga di capitali in paesi con minore pressione. Peró questo succede da quando si eliminó il controllo sui cambi e si installó una libertá totale di circolazione dei capitali. Limitiamo o eliminiamo questa libertá e scomparirá la minaccia di fuga di capitali. Non é una fantasia e non é impossibile: é qualcosa che é giá successo e neanche tanto tempo fa. Basta guardare agli anni anteriori alla controrivoluzione neoliberale degli anni settanta. Un giorno si dovrá avere il coraggio di tornare a certe regolamentazioni.

Il terzo mito é che basta con lasciare che si accumulino benefici senza limiti perché l’economia funzioni e tutti ci guadagniamo (la teoria del Trickle Down Economic della scuola di Chicago). Cosí si giustifica la libertá che si concede ai capitali di uscire dall’economia di un paese e delocalizzare, al prezzo della deindustrializzazione di regioni intere e la condanna di migliaia di persone alla disoccupazione (sulla base della sacra libertá del capitale di accumularsi) mentre la realtá e che nel mondo c’è un’enorme incremento di liquiditá. La sovraccumulazione é proprio la causa della speculazione: sulle monete, sul debito dei paesi, sugli immobili, sul petrolio, gli alimenti… Si cercano rendimenti altissimi che non si trovano nell’economia produttiva. Viviamo in un sistema malato che sacrifica tutto all’accumulazione di denaro che non solo é inutile ma dannosa.

Questi tre miti fanno parte dello stesso insieme, che si dovrebbe abbordare con misure combinate come: forti gravami fiscali sulle grandi fortune; armonizzazione delle imposte nell’intera UE; limiti ristretti sulla circolazione di capitali; eliminazione dei paradisi fiscali; armonizzazione verso l’alto dei diritti dei lavoratori e dei diritti sociali nella UE. Il denaro che va alle classi popolari genera una domanda di beni e servizi che é la base di una economía sana, mentre quello che finisce nei portafogli dei ricchi alimenta solo il potenziale speculativo. Alcuni settori popolari si lasciano abbindolare dai fondi di investimento e dalle pensioni integrative solo quando li si minaccia con il fallimento dello Stato Sociale, cosí hanno ingannato gli spagnoli e molti europei negli ultimi 15 anni. Il sistema fa gesti demagogici, come la richiesta al FMI da parte del Consiglio D’Europa (11/12/2009) di una tassa Tobin per le transazioni finanziare speculative per raccogliere un po’ di soldi. Ma sono solo gesti che danno ragione a chi pensa che sono misure che gli convengono, perché si potrebbe fare molto piú di quello. L’aumento delle tasse ha iniziato ad essere nell’agenda europea giá dall’ultima estate, favorita da paesi come Svezia e Finlandia, con una lunga tradizione di alta pressione fiscale coniugata a prosperitá e buoni servizi pubblici.

Nel nostro paese, il dibattito sulle pensioni e sulla sostenibiltá dello Stato Sociale non puó e non deve lasciare questi temi al margine. Centrare le riforme sul mercato del lavoro o sull’aumento dell’etá pensionabile é una nuova aggressione contro i i diritti da parte della oligarchia internazionale del denaro e dei suoi seguaci.

Joaquim Sempere (Professore di Teoria Sociologica e Sociologia dell’Ambiente dell’Universitá di Barcelona)

22 marzo 2010

L'acqua privatizzata? Più cara e inefficente

Bollette dell'acqua molto più salate in cambio di un servizio... peggiore. Sarebbero questi i presunti benefici della totale privatizzazione della gestione dei servizi idrici, imposta dal governo con il decreto Ronchi. In base a questa legge, approvata il 18 novembre scorso, la quota di partecipazione pubblica nelle società miste dovrà passare entro il 2015 dall'attuale 51% al 30%.

Al di là di fondamentali obiezioni di principio (può un bene prezioso come l'acqua essere gestito da società che, per loro natura, seguono la logica del profitto, invece che quella dell'interesse pubblico?) è proprio l'esperienza concreta maturata nelle città dove tali privatizzazioni sono già avvenute, per il tramite di spa a maggioranza pubblica, a sconsigliare di proseguire su questa strada.

L'esempio più citato è quello della provincia di Arezzo, che dal 1999 ha affidato il proprio servizio idrico ad una Spa a maggioranza formalmente pubblica, la Nuove Acque, dove però tutti i poteri sono di fatto nelle mani del socio privato, la multinazionale francese Suez, che ha il diritto di nominare l'amministratore delegato. Una scelta colpevolmente sostenuta in questi anni anche dal centrosinistra ma che, alla prova dei fatti, si è rivelata un errore. Anche perchè la tanto invocata concorrenza tra pubblico e privato, che secondo i "privatizzatori" avrebbe dovuto portare a un riduzione delle tariffe, non c'è stata, in quanto l'acqua continua ad essere erogata in regime di monopolio.ù

«I dati ufficiali del comitato di vigilanza risorse idriche parlano chiaro: Arezzo occupa il terzo posto nella graduatoria delle città in cui l'acqua è più cara», denuncia Stefano Mencucci, del Comitato per l'acqua pubblica del capoluogo toscano. Per parte loro, i sostenitori della privatizzazione sottolineano il presunto aumento del consumo domestico, dovuto - dicono - a un miglioramento della qualità dell'acqua che esce dai rubinetti.
Mencucci scuote la testa: «E' vero il contrario. Nonostante i nuovi allacci nel frattempo effettuati, oggi il consumo è lievemente inferiore a quello di dieci anni fa. E' vero invece che l'acqua di Arezzo è di ottima qualità. Ma non è certo merito della Nuove Acque, bensì del nuovo invaso realizzato con investimenti totalmente pubblici alle sorgenti del Tevere, pochi mesi prima della privatizzazione. Anzi, la Suez si era assunta l'impegno di portare l'acqua dell'invaso di Monte d'Oglio nei comuni limitrofi dopo tre anni, vale a dire nel 2002. Oggi siamo nel 2010 e - a parte un caso - questo non è ancora stato fatto».
Anche chi si aspettava un servizio migliore è rimasto deluso: «Attualmente gli acquedotti dell'Aato 4, consorzio che comprende 37 comuni, perdono - spiega ancora Mencucci - intorno al 35% dell'acqua, sostanzialmente la stessa percentuale che c'era al momento dell'avvento del soggetto privato». Peccato che questo deludente risultato sia stato pagato a caro prezzo dai cittadini, vista la valanga di soldi passati nelle tasche della multinazionale francese, sotto forma di consulenze e prestazioni accessorie sulla carta finalizzate proprio a ridurre le falle presenti nella rete idrica aretina. Basti dire che nel 2009 e nel 2010 la cifra percepita dalla Suez per queste "prestazioni accessorie" è stata di un milione e 269mila euro per ogni anno. Una sorta di utile fisso e garantito fino al termine della concessione, che ha una durata di 25 anni.

Spiace ricordare che l'apprendista stregone di questa operazione "a perdere" sia Paolo Ricci, all'epoca sindaco di centrosinistra e adesso presidente... di Nuove Acque. Dopo una parentesi di centrodestra, dal 2006 Arezzo è stata riconquista dal centrosinistra, inclusa Rifondazione. Purtroppo la lotta per la ripubblicizzazione, oltre a dover fare i conti con ostacoli di carattere tecnico e giuridico, sconta anche l'assenza di una vera volontà politica da parte del Pd, «a parte alcuni suoi esponenti», precisa Mencucci.

Eppure le armi di pressione non mancherebbero: «Nel momento in cui il soggetto privato non fa gli investimenti che deve fare - e questo succede tutti gli anni - si apre un contenzioso. Se chiede aumenti tariffari, non gli si devono dare», è la linea dura suggerita dal Comitato. Che confida in un successo del referendum per l'abrogazione del decreto Ronchi: «Raccoglieremo migliaia di firme», assicura Mencucci.
di Roberto Farneti

21 marzo 2010

La leggenda dell'ascensore sociale


Discutere di occupazione in questi tempi di crisi e' abbastanza complesso, anche perche' le statistiche sull'occupazione sono sempre troppo poco accurate perche' si possano fare delle deduzioni a riguardo. In particolare, nel caso italiano, ci sono alcuni dati che non si vogliono capire. E non si vogliono capire perche' essi impatterebbero troppo con il nostro modo di vivere, di pensare, di agire.
Innanzitutto, la disoccupazione non e' quel che si pensa. Le statistiche sui non occupati non distinguono, per dire, chi ha piu' prospettive da chi non ha piu' prospettive. Un 10% di disoccupati giovani e' molto diverso, per dire, da un 10% di disoccupati cinquantenni. Se il disoccupato giovane e' semplice da reinserire (relativamente, almeno) quello cinquantenne non e' affatto una questione cosi' semplice.
Cosi', comprendere quanto sia devastante il dato "10%" e' difficile: potremmo avere una grande difficolta' di ingresso sul mercato o una difficolta' a rimanerci.

Il secondo grosso problema che non vediamo e' la storia del disoccupato. Se c'e' una crisi economica e vieni dal mondo delle partite IVA, non sei realmente un "disoccupato", a seconda degli strumenti di misura: sei solo un professionista che non ha piu' clienti. Per passare alla fase ufficiale , cioe' per passare alla fase di disoccupato, occorre dichiararsi tali. Siccome queste partite IVA si mantengono tali perche' sperano di trovare clienti o di recuperare i vecchi, spesso questo non avviene.

Al contrario, il lavoratore dipendente che diventa disoccupato lo vedo subito, perche' alla fine dei conti finisce subito in una lista ufficiale.

Fatto questo, appare chiaro come una stima di disoccupazione cosi' come e' fatta (9% in UE, 10% in USA) non sia cosi' efficace. In USA non vedo la disoccupazione di chi e' freelance e di chi e' self-smployee, dal momento che sino a quando non si iscrivono a qualche sussidio per il rilevatore sono solo professionisti senza clienti.
Ci sono poi altri fenomeni, come la sottoccupazione o il calo di reddito. Se prima guadagnavo 1000 e adesso ho trovato un altro lavoro che mi da' 600, per lo stato risulta che io sia occupato come prima. In realta', cambiando lavoro cosi' dovrei dire di essere occupato al 60% rispetto a prima.

Eliminate le considerazioni sul passato, posso iniziare quelle sul futuro. A seconda della mia eta', il lavoro mi offrira' prospettive future o meno. Se prima un dipendente era dentro una multinazionale, potra' pensare di aver fatto due-tre passi di carriera negli anni successivi. Se per via della crisi e' stato licenziato ed e' andato a fare lo stesso lavoro in un piccolo negozio, il risultato e' che anche a livello di reddito non crescera' come prima nei prossimi anni.

Siamo cioe' nella situazione in cui moltissime statistiche non ci dicono quasi nulla, perche' (anche omettendo il lavoro nero) ci dicono solo quanta gente dichiara di essere senza lavoro, ma non ci dicono nulla sui cambiamenti del mercato del lavoro.

E qui andiamo alla disoccupazione italiana. La disoccupazione in Italia ha diverse cause, tra cui alcune culturali e sociali.

La prima causa culturale e' che si e' dato per scontato che l'ascensore sociale potesse crescere all'infinito. C'e' gente che si lamenta del fatto che l'ascensore sociale si sia fermato, ma proviamo a rifletterci.
Se nel 1910 avevamo 100 operai per ogni dirigente, l'idea de "ascensore sociale" e' che tutti e 100 i figli degli operai debbano (almeno in potenza) diventare dirigenti. A parte la domanda che viene spontanea (e chi lavora?) il problema e' che si tratta evidentemente di una cosa impossibile. La storia dell'ascensore sociale sarebbe possibile solo se da qualche parte ci fossero 100 operai che prendono il posto dei figli degli operai, diventati tutti dirigenti.

LA nostra scuola, figlia del mito dell' "ascensore sociale", non ha capito pero' che questa cosa non sia possibile, e si e' comportata come se l'ascensore sociale sia una realta' ineluttabile, o addirittura un principio della fisica. C'e' gente che ha enunciato come l' "ascensore sociale" sia una realta' tipica delle economie sane, cosa che non e': e' tipica delle economie che vanno al disastro.

La nostra nazione che oggi ha 100 operai e un dirigente, pretende tra una generazione di avere 100 dirigenti e non chiarisce chi fara' il lavoro degli operai. Struttura la scuola per mandare tutti (in potenza) a studiare management , dichiara che "lo studio e' un diritto" e forma generazioni di giovani che non faranno mai nulla per cui hanno studiato.

Subito dopo il fallimento dei nostri 100 ragazzi che vogliono l'ascensore sociale, si scopre che non solo non possono andare piu' in alto, ma non riescono neanche a tornare al livello dei padri, perche' non sono operai. Bisogna stare molto attenti a questa cosa, perche' di fatto ci troviamo con una nazione che non solo ha inflazionato i ruoli dei dirigenti (cosa che ne ha abbassato il reddito) , ma importa lavoro dall'estero.

Ora, torniamo al punto di partenza: una nazione di 60 milioni di persone decide che i giovani usufruiranno dell'ascensore sociale. Forti di questo mito, si sono create scuole senza sforzarsi non dico di pianificare, ma di porre dei limiti ragionevoli.

La nostra nazione ha prodotto, per decenni, giovani convinti di usufruire dell'ascensore sociale. All'inizio ha funzionato: avendo alte marginalita', le aziende hanno assunto middle management e comprato servizi , spostando all'estero la produzione, visto che i figli degli operai non vogliono piu' fare gli operai perche' devono avere l'ascensore sociale.

Ovviamente, questo processo e' stato molto piu' forte altrove che in Italia, ma oggi arriva il conto anche da noi. Questo mito dell'ascensore sociale ha prodotto delocalizzazione e cattiva immigrazione, fino a quando non ci si sta rendendo conto che l'ascensore sociale non funzioni.

E no, non e' questione della crisi: e' NORMALE che non possa esistere niente come un ascensore sociale. Quando chiude una fabbrica con 100 operai, si dice che in Italia resteranno solo servizi e management, cosi' si invitano i figli dei 100 operai ad andare a scuola di management e a darsi ai servizi. Ma poi si scopre che i servizi ed il management non rendono i 100 posti di lavoro.

Che cosa ne e' risultato? Ne e' risultato non solo che ci sia stata una delocalizzazione, ma dopo anni ed anni di una scuola che guarda solo in alto, se anche le aziende tornassero indietro non troverebbero il personale per riportare indietro il manufatturiero perduto. Provate ad appendere un annuncio di fronte ad un liceo, dicendo di cercare operai. Fatelo poco prima degli esami di maturita'. Cosa succedera'? Niente.

Tutti gli studenti preferiranno laurearsi. Bene. La media di delocalizzazione attuale in Italia e' del 7.5%. Il che significa di base che rilocalizzando si potrebbe assumere quasi tutta la disoccupazione, che e' attorno al 10%. Se pero' andiamo a vedere che cosa si sia delocalizzato, osserviamo che si e' delocalizzata la catena produttiva, non la ricerca o il management.
Non dico che sia falso che moltissimi giovani andrebbero a fare gli operai oggi. Il problema e' che se non hai fatto un buon istituto tecnico o una buona scuola professionale, non sei un operaio, sei solo "due braccia". Cosi', se rilocalizzassimo le aziende italiane il risultato sarebbe di produrre una migrazione di qualche milione di stranieri, che avendo studiato come si tiene una lima in mano lo sanno fare.

Il concetto che non si e' mai capito e' che l'ascensore sociale funziona solo se, quando i figli fanno un lavoro migliore rispetto ai padri, c'e' qualcuno (spesso all'estero) che prende il posto dei padri. Cosi', negli scorsi decenni l'illusione si e' alimentata al punto che l'accademia considera "sano" un paese con l'ascensore sociale: in realta' quello che sta succedendo a quel paese e' che i figli aspirano ad un lavoro "migliore" rispetto ai padri, e quando i padri vanno in pensione il loro posto di lavoro viene delocalizzato. Questo dara' l'illusione dell'ascensore sociale, ma in realta' e' semplicemente la prima fase della trasformazione della nazione da nazione manufatturiera a nazione inutile.

Dopo qualche anno, il risultato e' che il lavoro dei padri e' tutto delocalizzato e I PRIMI figli hanno effettivamente avuto l'ascensore sociale. Figo.

Ma i bambini continuano a nascere, e ad ogni generazione di figli c'e' una generazione di adulti che va in pensione. Poiche' esiste l'ascensore sociale, (wow) i figli NON prenderanno il posto dei padri, ma ambiranno di fare qualcosa di piu': del resto, ai giovani di dieci anni fa riusciva, perche' a noi no?

Con l'andare del tempo, sempre piu' bambini si immettono in percorsi scolastici che presumono un ascensore sociale, e sempre piu' anziani vanno in pensione senza venire sostituiti, il loro lavoro fatto all'estero. La menzogna dell'ascensore sociale ha distrutto la nazione, che si trova con giovani incapaci ,o capaci solo di telefonare, inviare email e indossare una cravatta, aziende che delocalizzano cercando qualcuno che sappia piantare un chiodo, e non ci sara' MAI modo di rilocalizzare perche', per via del mito dell'ascensore sociale, nessuno ha piu' frequentato scuole adeguate.

Certo , c'e' uyna grande litania riguardo alla scuola che prepara per il mondo del lavoro. Quando si dice questo si intende sempre il lavoro "alto", cioe' l'informatica, i servizi avanzati, eccetera. Raramente si prendono in considerazione le scuole comunali, gli istituti tecnici, le scuole provinciali, che non formavano tecnologi ma soltanto operai specializzati.

Ed e' proprio la morte dell'operaio specializzato quella che stiamo pagando carissima: oggi i casi sono due. O riesci a scuola, e allora arrivi ad una laurea e poi ti lamenti che manca l'ascensore sociale, oppure abbandoni la scuola. La via di mezzo, ovvero frequentare una scuola che in breve ti porti ad una mansione pratica e specializzata, e' sempre piu' abbandonata. Chi studia vuole diventare dottore, chi non studia si getta sul mercato a mani nude.

Manca la fascia intermedia, quelli che studiavano per diventare operai specializzati. Figure che potevano anche crescere di reddito (anche se non quanto un manager) a seconda delle lotte sindacali e della bravura, ma che non avrebbero usufruito di alcun "ascensore sociale", uscendo da scuola come operai , proprio come i padri.


Per lottare contro questo fenomeno, e' necessario innanzitutto ribaltare il concetto di ascensore sociale. Ovvero, dire una buona volta che non e' pensabile che tutti facciano un lavoro migliore rispetto ai propri padri. Certo, mentre la nazione esce da un periodo di dopoguerra o si industrializza e' possibile, ma una volta raggiunta una certa stabilita (con crescite del PIL attorno all' 1-2%) parlare di ascensore sociale e' assurdo.

E' necessario iniziare a fare uno screening del mondo del lavoro attuale, e capire quanti oggi facciano effettivamente i dirigenti, quanti gli operai, e quanti gli specialisti, eccetera. Bisogna considerare che con un aumento medio del PIL annuo dell' 1% , e iniziare a dire che no, FORSE un 1% dei giovani ogni anno potra' usufruire dell'ascensore sociale, e fare un lavoro migliore del padre. Tutti gli altri dovranno PRENDERE IL POSTO del padre.

Nessun ascensore locale.

Stampato in testa a chiare lettere che l'ascensore sociale funzionera' per un minimo di fortunati, allora sara' possibile ricostruire il tessuto lavorativo del paese, ed avra' senso per le aziende rilocalizzare. Ma se oggi quel 7% di delocalizzazione tornasse a casa, in fabbrica ci andrebbero solo stranieri, cioe' persone che non hanno master, non hanno lauree, ma sanno usare un tornio.

Il prezioso laureato italiano, che ha pianificato gli studi credendo nell'ascensore sociale, non ne usufruirebbe comunque, perche' non qualificato per un posto come operaio specializzato.

La mia opinione e' che moltissimo del disastro occupazionale italiano sia dovuto dall'aver diffuso la leggenda dell'ascensore sociale. Milioni di giovani hanno pianificato i loro studi non pensando di prendere il posto del padre (se non i figli di papa' importanti) ma nel caso dei figli di persone di classe modesta hanno pensato di poter andare ttuti avanti.

I loro padri sono andati in pensione e nessuno ha preso il loro posto, cosi' il manufatturiero si e' spostato all'estero. I loro figli , inseguendo il mito dell'ascensore sociale, avevano studiato scienze dell'informazione.

Oggi le aziende potrebbero rilocalizzare?

Nella misura in cui il ragazzo italiano e' disposto a fare una scuola tecnica, andare a lavorare a 18 anni in una fabbrica, si'. Nella misura in cui i suoi genitori lo lascierebbero fare, si'.

Ma la misura , appunto, e' molto piccola.

E cosi', un 60% di terziario non riesce piu' a vivere su un 30% di industria che non offre lavoro.

Fine della leggenda dell'ascensore sociale.

E no, nei "paesi sani" dove c'e' l'ascensore sociale che funziona il conto sara' (o meglio, e' gia') ancora piu' salato.
by Uriel

20 marzo 2010

Per un voto onesto servirebbe l'Onu



"LA DISPERAZIONE più grave che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere onestamente sia inutile. E questa disperazione avvolge il mio paese da molto tempo". È una riflessione che Corrado Alvaro, scrittore calabrese di San Luca, scrisse alla fine della sua vita. E io non ho paura a dirlo: è necessario che il nostro Paese chieda un aiuto. Lo dico e non temo che mi si punti il dito contro, per un'affermazione del genere. Chi pensa che questa sia un'esagerazione, sappia che l'Italia è un paese sotto assedio. In Calabria su 50 consiglieri regionali 35 sono stati inquisiti o condannati. E tutto accade nella più totale accondiscendenza. Nel silenzio. Quale altro paese lo ammetterebbe?

Quello che in altri Stati sarebbe considerato veleno, in Italia è pasto quotidiano: dai più piccoli Comuni sino alla gestione delle province e delle regioni, non c'è luogo in cui la corruzione non sia ritenuta cosa ovvia. L'ingiustizia ha ormai un sapore che non ci disgusta, non ci schifa, non ci stravolge lo stomaco, né l'orgoglio. Ma come è potuto accadere?
Il solo dubbio che ogni sforzo sia inutile, che esprimere il proprio voto e quindi la propria opinione sia vano, toglie forza agli onesti. Annega, strozza e seppellisce il diritto. Il diritto che fonda le regole del vivere civile, ma anche il diritto che lo trascende: il diritto alla felicità.

Il senso del "è tutto inutile" toglie speranza nel futuro, e ormai sono sempre di più coloro che abbandonano la propria terra per andare a vivere al Nord o in un altro paese. Lontano da questa vergogna.
Io non voglio arrendermi a un'Italia così, a un'Italia che costringe i propri giovani ad andar via per vergogna e mancanza di speranza. Non voglio vivere in un paese che dovrebbe chiedere all'Osce, all'Onu, alla Comunità europea di inviare osservatori nei territori più difficili, durante le fasi ultime della campagna elettorale per garantire la regolarità di tutte le fasi del voto. Ci vorrebbe un controllo che qui non si riesce più a esercitare.


Ciò che riusciamo a valutare, a occhio nudo, sono i ribaltoni, i voltafaccia, i casi eclatanti in cui per ridare dignità alla cosa pubblica un politico, magari, si dovrebbe fare da parte anche se per legge può rimanere dov'è. Ma non riusciamo a esercitare un controllo che costringa la politica italiana a guardarsi allo specchio veramente, perché lo specchio che usiamo riesce a riflettere solo gli strati più superficiali della realtà. Ci indigniamo per politici come l'imputata Sandra Lonardo Mastella che dall'esilio si ricicla per sostenere, questa volta, non più il Pd ma il candidato a governatore in Campania del Pdl, Stefano Caldoro. Per Fiorella Bilancio, che aveva tappezzato Napoli di manifesti del Pdl ma all'ultimo momento è stata cancellata dalla lista del partito e ha accettato la candidatura nell'Udc. Così sui manifesti c'è il simbolo di un partito ma lei si candida per un altro.

Ci indigniamo per la vicenda dell'ex consigliere regionale dei Verdi e della Margherita, Roberto Conte, candidatosi nuovamente nonostante una condanna in primo grado a due anni e otto mesi per associazione camorristica e per giunta questa volta nel Pdl. Ci indigniamo perché il sottosegretario all'economia Nicola Cosentino, su cui pende un mandato d'arresto, mantiene la propria posizione senza pensare di lasciare il suo incarico di sottosegretario e di coordinatore regionale del Pdl.

Ci indigniamo perché è possibile che un senatore possa essere eletto nella circoscrizione Estero con i voti della 'ndrangheta, com'è accaduto a Nicola Di Girolamo, coinvolto anche, secondo l'accusa, nella mega-truffa di Fastweb. Ci indigniamo, infine, perché alla criminalità organizzata è consentito gestire locali di lusso nel cuore della nostra capitale, come il Café de Paris a via Vittorio Veneto.
Ascoltiamo allibiti la commissione parlamentare antimafia che dichiara, riguardo queste ultime elezioni, che ci sono alcuni politici da attenzionare nelle liste del centrosinistra.

E ad oggi il centrosinistra non ha dato risposte. Si tratta di Ottavio Bruni candidato nel Pd a Vibo Valentia. Sua figlia fu trovata in casa con un latitante di 'ndrangheta. Si tratta di Nicola Adamo candidato Pd nel Cosentino, rinviato a giudizio nell'inchiesta Why not. Di Diego Tommasi candidato Pd anche lui nel Cosentino e coinvolto nell'inchiesta sulle pale eoliche. Luciano Racco candidato Pd nel Reggino, che non è indagato, ma il cui nome spunta fuori nell'ambito delle intercettazioni sui boss Costa di Siderno. Il boss Tommaso Costa ha fornito, per gli inquirenti, il proprio sostegno elettorale a Luciano Racco in occasione delle Europee del 2004 che vedevano Racco candidato nella lista "Socialisti Uniti" della circoscrizione meridionale. Tutte le intercettazioni sono depositate nel processo "Lettera Morta" contro il clan Costa ed in quelle per l'uccisione del giovane commerciante di Siderno Gianluca Congiusta.

A tutto questo non possiamo rimanere indifferenti e ci indigniamo perché facciamo delle valutazioni che vanno oltre il - o vengono prima del - diritto, valutazioni in merito all'opportunità politica e alla possibilità di votare per professionisti che non cambino bandiera a seconda di chi sta alla maggioranza e all'opposizione. Trasformarsi, riciclarsi, mantenere il proprio posto, l'antica prassi della politica italiana non è semplicemente una aberrazione. È ormai considerata un'abitudine, una specie di vizio, di eventualità che ogni elettore deve suo malgrado mettere in conto sperando di sbagliarsi. Sperando che questa volta non succeda. È un tradimento che quasi si perdona con un'alzata di spalle come quello d'un marito troppo spensierato che scivola nelle lenzuola di un'altra donna.

Ma si possono barattare le proprie attese e i propri sogni per la leggerezza e per il cinismo di qualcun altro?
Oramai si parte dal presupposto che la politica non abbia un percorso, non abbia idee e progetti. Eppure la gente continua ad aspettarsi altro, continua a chiedere altro.

Dov'è finito l'orgoglio della missione politica? La responsabilità di parlare a nome di un elettorato? Dov'è finita la consapevolezza che le parole e le promesse sono responsabilità che ci si assume? E la consapevolezza che un partito, un gruppo politico, senza una linea precisa, non è niente? Eppure proprio questo è diventata, nella maggioranza dei casi, la politica italiana: niente, spillette colorate da appuntarsi al bavero del doppiopetto. Senza più credibilità. Contenitori vuoti da riempire con parole e a volte nemmeno più con quelle. A volte si è divenuti addirittura incapaci si servirsi delle parole.

Quando la politica diviene questo, le mafie hanno già vinto. Poiché nessuno più di loro riesce a dare certezze - certezza di un lavoro, di uno stipendio, di una sistemazione. Certezze che si pagano, è ovvio, con l'obbedienza al clan. È terribile, ma si tratta di avere a che fare con chi una risposta la fornisce. Con chi ti paga la mesata, l'avvocato. Non è questo il tempo per moralismi, poco importa se ci si deve sporcare le mani.

Solo quando la politica smetterà di somigliare al potere mafioso - meno crudele, certo, ma meno forte e solido - solo quando cesserà di essere identificato con favori, scambi, acquisti di voti, baratto di morale, solo allora sarà possibile dare un'alternativa vera e vincente.
Anche nei paesi dominati dalle mafie è possibile essere un'alternativa.
Lo sono già i commercianti che non si piegano, lo sono già quelli che resistono, ogni giorno.

Del resto, quello che più d'ogni altra cosa dobbiamo comprendere è che le mafie sono un problema internazionale e internazionalmente vanno contrastate.
L'Italia non può farcela da sola. Le organizzazioni criminali stanno modificando le strutture politiche dei paesi di mezzo mondo. Negli Usa considerano i cartelli criminali italiani tra le prime cause di inquinamento del libero mercato mondiale. Sapendo che il Messico oramai è divenuto una narcodemocrazia la nostra rischia di essere, se non lo è già diventata una democrazia a capitale camorrista e ndranghetista.

Qui, invece, ancora si crede che la crisi sia esclusivamente un problema legato al lavoro, a un rallentamento della domanda e dell'offerta. Qui ancora non si è compreso davvero che uscire dalla crisi significa cercare alternative all'economia criminale. E non basta la militarizzazione del territorio. Non bastano le confische dei beni. Bisogna arginare la corruzione, le collusioni, gli accordi sottobanco. Bisogna porre un freno alla ricattabilità della politica, e come per un cancro cercare ovunque le sue proliferazioni.

Sarebbe triste che i cittadini, gli elettori italiani, dovessero rivolgersi all'Onu, all'Unione Europea, all'Osce per vedere garantito un diritto che ogni democrazia occidentale deve considerare normale : la pulizia e la regolarità delle elezioni.
Dovrebbe essere normale sapere, in questo Paese, che votare non è inutile, che il voto non si regala per 50 euro, per un corso di formazione o per delle bollette pagate. Che la politica non è solo uno scambio di favori, una strada furba per ottenere qualcosa che senza pagare il potere sarebbe impossibile raggiungere. Che restare in Italia, vivere e partecipare è necessario. Che la felicità non è un sogno da bambini ma un orizzonte di diritto.
©2010 Roberto Saviano/

31 marzo 2010

Elezioni e finanza

1. Farò solo qualche battuta sulle ultime elezioni regionali (per poi parlar d’altro) che sembrano aver rafforzato il governo di Centro-Destra, sebbene con l’ingombro della Lega divenuta un soggetto politico sempre più pesante all’interno della coalizione guidata da Berlusconi.
L’ultima tornata elettorale può essere ben definita quella del “pisello”, a sinistra come a destra. A sinistra, viene in evidenza quello floscio e un po’ sibilante (inteso come difetto di pronuncia) di Vendola che si riconferma governatore della Puglia nonostante la tempesta giudiziaria abbattutasi sulla sanità della regione adriatica e in barba al tiro “mancino” giocatogli da D’Alema, il quale avrebbe preferito vedere Nichi a capo dell’arcigay ma non del suo feudo. A destra prevale il pisello inturgidito e agitato come un bastone nell’aria padana (e ora anche oltre) della Lega che conquista le grandi regioni del Nord dove, ha già detto, metterà in pratica quel federalismo economico e sociale i cui strumenti di attuazione sono stati ampiamente forniti dal Governo.
Certo, controllando il Veneto e il Piemonte, facendo valere tutta la sua forza in Lombardia, il partito di Bossi alzerà la voce, e di molto, in Conferenza Stato-Regioni dando maggiore concretezza a quella parte del suo programma orientata alla devoluzione territoriale che da Roma hanno sempre mal digerito e, a volte, ostacolato.
Quanto alla valutazione sui singoli partiti, il PDL perde qualche consenso pagando così le brutte figure di Roma e le liti interne tra Berlusconi e Fini; il PD sembra reggere nonostante il suo anonimo segretario “intortellinato” dai capibastone delle varie correnti che lo tengono in pugno; purtroppo si conferma e si rafforza l’IDV del torbido spione Di Pietro; il Grillo parlante col suo movimento di esaltati a 5 stelle ottiene una insperata affermazione e ci fa il favore di togliere il Piemonte al Centro-Sinistra; per finire, facciamo le ennesime esequie della sinistra estrema divenuta ormai lo spettro di sé stessa (non quello del comunismo che faceva rabbrividire l’Europa) senza le lacrime di nessuno, nemmeno le nostre.
Per chiudere, il dato sull’astensione che cresce ma mai abbastanza per screditare definitivamente una classe politica che da nord a sud, da sinistra a destra, da un estremo all’altro sta portando il Paese alla rovina per incompetenza e assenza di una prospettiva storica degna di tale nome. Questa, in una epitome certamente non esaustiva, la situazione italiana dopo la chiusura delle urne.

2. Vorrei invece tornare sulla faccenda delle Assicurazioni Generali, in particolar modo sulla nomina del suo nuovo Presidente, rispetto alla quale ci siamo esposti per primi cercando di spiegare quali programmi ci fossero dietro la partita a scacchi dei poteri marci, in lotta per l’individuazione del successore di Bernheim sul Leone alato. Mentre i giornali di regime - questi fogliacci che sono lo specchio del mercimonio delle idee scadute nel fango e nella merda di un paese inabissatosi culturalmente - relegavano la notizia in fondo al loro baratro disinformativo, noi abbiamo cercato di leggere tra le righe e di dare un’interpretazione meno di banale di quello che stava accadendo.
Con le poche informazioni a nostra disposizione, compulsando gli articoli dei vari “esperti” come Giannini, Pons, Panerai, Porro (il migliore tra quelli citati, dipendente non di un padrone, per il quale muovere a comando la propria penna come il resto della compagnia, ma della sua stessa ideologia liberista che gli impedisce di andare oltre il velo economicistico delle cose) abbiamo detto la nostra e alla fine crediamo di non esserci allontanati molto dalla verità.
Certezze che vengono confermate dal sito Dagospia (l’articolo è riprodotto alla fine di questo pezzo) il quale, vivendo della scoperta dei sotterfugi e delle trame che accompagnano quasi sempre le ammucchiate orgiastiche del potere, giochi finanziari inclusi, ne ha fornito una versione meno obnubilata dalla patinatura servile di cui si fregia e ci sfregia l’informazione cammellata nazionale. Un solo mestiere contende al giornalismo la palma di lavoro più sporco e nauseabondo del mondo: il meretricio. Forse a quest'ultimo possiamo riconoscere delle attenuati sociali che al primo, per i danni che causa alla collettività, non dobbiamo nemmeno minimamente sollevare. Ecco cosa scriveva Balzac nel suo magnifico romanzo “Le illusioni perdute” sul verminaio di lacchè senza morale e senza pudore che affolla la carta stampata: “Il giornalismo, invece di essere un sacerdozio, è divenuto uno strumento per i partiti; da strumento si è fatto commercio; e, come tutti i commerci, è senza fede né legge. Ogni giornale è una bottega ove si vendono al pubblico parole del colore ch'egli richiede. Se esistesse un giornale dei gobbi, esso proverebbe dal mattino alla sera la bellezza, la bontà, la necessità dei gobbi. Un giornale non è più fatto per illuminare, bensì per blandire le opinioni. Così, tutti i giornali saranno, in un dato spazio di tempo, vili, ipocriti, infami, bugiardi, assassini; uccideranno le idee, i sistemi, gli uomini, e perciò stesso saranno fiorenti. Essi avranno i vantaggi di tutti gli esseri ragionevoli: il male sarà fatto senza che alcuno ne sia colpevole...Napoleone ha dato la ragione di questo fenomeno morale o immorale, come più vi piaccia, con una frase sublime che gli hanno dettato i suoi studi sulla Convenzione: i delitti collettivi non impegnano nessuno.” Per chi vuol capire che razza di luridume sia la professione giornalistica si rivolga all’intero lavoro del letterato francese, non per niente Engels diceva di aver imparato di più dal reazionario Balzac che da tutti gli economisti messi insieme.
Con la nomina di Geronzi alla guida della compagnia triestina qualcosa dunque cambia nel panorama economico nazionale, in virtù di uno sbilanciamento dei precedenti assetti di potere che iniziano a scricchiolare e a far emergere degli equilibri meno sfavorevoli a Silvio Berlusconi.
Il Cavaliere e Letta hanno indubbiamente interpretato una parte in questa scalata geronziana benché le loro dichiarazioni pubbliche non siano mai scivolate verso alcuna partigianeria definita. La blindatura di Rcs quotidiani con l’entrata nel cda in prima persona di Giovanni Bazoli, Luca Cordero di Montezemolo, Diego Della Valle, Cesare Geronzi, Piergaetano Marchetti, Antonello Perricone, Giampiero Pesenti e Marco Tronchetti Provera, ci dice però che i poteri putridi si preparano a darsele di santa ragione perché con l’aria che tira nell’agone politico, con la crisi economica che avanza, qualcuno ci rimetterà le penne.

3. Per concludere vorrei segnalare una intervista pubblicata dall’Unità al filosofo Slavoj Žižek che parla ancora di sinistra e di comunismo, nonché della possibilità per gli antisistemici di poter uscire dalla pesante crisi d’identità nella quale sono sprofondati. Žižek propone alla sinistra di essere conservatrice e moralista al fine togliere terreno ai suoi avversari e attaccarli in casa propria, sui temi dove questi irrobustiscono il loro consenso. L’intellettuale sloveno, ultimamente resosi compartecipe di appelli a favore dell’onda verde iraniana, più che conservatore sta divenendo un vero e proprio reazionario filo statunitense. Inoltre, di fogna moralistica, anticamera della corruzione, nella sinistra italiana ne troverà in abbondanza con la conseguenza che i sedicenti progressisti e riformisti del Bel Paese sono i peggiori servi della superpotenza Usa e della sua affermazione in Europa.
In realtà, avremmo bisogno di inventare un’altra morale, di ripercorrere la nostra storia e le nostre differenti identità politiche per costruire ben altro soggetto politico appoggiato ad un solido blocco sociale capace di fare strame di tutta la vecchia merda di destra e di sinistra. Ma questo per Žižek, evidentemente, non è abbastanza intellettualoide e non serve a sfondare nel panorama editoriale.
Qui finisce il nostro requiem per Žižek e per quelli come lui.

LO STRANO ASSE CORRIERE-REPUBBLICA
"Accordo su Generali: Geronzi verso la presidenza. Pagliaro a Mediobanca". Il Corriere delle banche richiama la notizia in prima pagina con un francobollino, poi però la fionda a pagina 50 perché trattasi di roba squisitamente tecnico-finanziaria, priva di qualunque ricaduta politica e di potere.

A babbo morto, Daniele Manca scopre finalmente l'arte del retroscena (tanto i manovratori hanno già manovrato) e critica: "i nostri bizantinismi che un investitore internazionale non capirebbe"; "un percorso simile al totonomine della politica", "un metodo davvero singolare per la definizione dell'assetto di comando della prima compagnia assicurativa e tra le prime tre in Europa". Tutto bene, tutto giusto. Ma a Manca manca il coraggio di estendere le sue osservazioni al metodo che ha portato Pagliaro alla presidenza di Mediobanca. Molto diverso da quello che issato Geronzi sul Leone?
Giovanni Bazoli e Cesare Geronzi Antoine Bernheim Generali con Cesare Geronzi Mediobanca

Su Repubblica, giornale partecipato dalle Generali e da Unicredit, il vicedirettore Massimo Giannini mastica amaro: "Dal Leone al Gattopardo, così si Blinda la Galassia del Nord". Una lunga articolessa per ribadire che lo sbarco di Gero-vital Geronzi al posto del ragazzino Bernheim "è legato ai guai giudiziari del banchiere a all'intreccio con la politica" e che quindi siamo di fronte a uno scenario di inaudito allarme sociale.

Ok, anche i curatori di questa modesta rassegna sono più o meno d'accordo, ma allora perché affannarsi per le restanti tre colonne a spiegare agli incolpevoli lettori di Ri-pubblica che tanto la presidenza delle Generali è priva di delegehe operative e, insomma, Cesaron deì Cesaroni va a Trieste a svernare e fare un cazzo? (p.15). Che, forse l'ingegner Debenedettoni c'è rimasto un po' male?

Il Giornale di Feltrusconi, che in Mediobanca conta parecchio attraverso Doris e Marina B., e può contare su un ambasciatore di eccezione come Tarak Ben Ammar, si affida a Nicola Porro ("Così Trieste diventa capitale della finanza"). Pezzo intelligente e senza tesi precostituite, che pone l'accento sulla questione chiave: con Geronzi, le Generali diventeranno più autonome da Mediobanca? "Nel tempo si capirà quanto il diffuso azionariato delle Generali si sarà coagulato in mani amiche. Del nuovo presidente", osserva Porro Seduto.

Sulla stessa linea l'interpretazione di Francesco Pallacorda, sulla Stampa (p.27): "Così cambia il Leone con Cesare in sella". "Con 400 miliardi di attivi il ruolo della compagnia può diventare più incisivo. Ma Piazzetta Cuccia vuole mantenere il controllo sulla partecipata".

Smaccata invece la festa di Panerai-ahi-ahi! su Milano Finanza: parte ricordando che da ragazzo Cesare Geronzi manifestò per Trieste libera e va avanti sul filo della liberazione delle Generali da Mediobanca. Poi mette le mani avanti: "i due amministratori delegati hanno bisogno di un consistente supporto e anche i manager di Mediobanca sono d'accordo che al futuro presidente Geronzi siano assegnate, nella tradizione di un potere esecutivo anche del numero uno della compagnia, le deleghe su finanza e partecipazioni".

Cioè, se ha ragione l'Innominabile, due cosette da niente. E nel dubbio il suo lettore non avesse capito da che parte si deve stare, una chiusa patriottica: questa presidenza piena di poteri sarebbe "un presidio da cui garantire l'indipendenza di Generali-Trieste sarà assai più facile".

Gode anche il Sole 24 Ore, che affida a Guido Gentili (p.1) un commento compassato ma felice: "Roma-Trieste passando per il mondo". L'ex direttore salmonato spiega che la doppia presidenza Pagliaro-Geronzi è una "soluzione di sistema" e non dimentica di indicare chi sono i grandi vecchi di questo "sistema" che "alla fine ha tenuto più di altri di fronte alla crisi": Giovanni Bazoli e Cesare Geronzi.

Alla fine, per trovare due giornali che non abbiano interesse alcuno su questa partita, visto il loro azionariato "puro", bisogna prendere il Cetriolo Quotidiano e il Secolo XIX.
Il quotidiano diretto da Antonio Padellaro, tutto distratto da Santoro & Friends, sottovaluta pericolosamente la notizia ficcandola a pagina 11 e titolandola così: "E' fatta: Geronzi al vertice delle Generali" (p.11). Nel suo pezzo, dopo uno degli attacchi più farraginosi della storia del giornalismo, Alessandro Faieta azzecca però un punto fondamentale: "il nodo non è più lo sbarco o meno di Geronzi a Trieste, ma chi guiderò il patto di sindacato di Mediobanca".
berlusconi silvio debenedetti carlo imago

Anche il giornale genovese, diretto da Umberto La Rocca, non degna la notizia di alcun richiamo in prima, ma pubblica un retroscena dell'ex cetriolista Francesco Bonazzi (p. 15) il cui succo è: i francesi non si sono fidati di Geronzone, e per dargli il via libera formale su Generali volevano essere sicuri di avere in cambio una soluzione negoziata sulla successione in Mediobanca.
G. Petrosillo

30 marzo 2010

Ci hanno convinti a non votare


Non possono esistere dubbi sul fatto che il dato più emblematico uscito (o sarebbe meglio dire mai entrato) dalle urne di queste elezioni regionali di marzo 2010 sia costituito dai quasi 3 milioni e mezzo in più di cittadini che non si sono recati a votare, portando il “partito” dell’astensione a sfiorare il 37%, diventando di fatto il maggiore partito del Paese. Un incremento nell’ordine dell’8%, con punte fra il 14%, il 12% e il 10% in Puglia, Lazio e Toscana, che qualifica il partito del non voto come l’unico reale vincitore di questa tornata elettorale.

Una vittoria, quella del non voto, determinata da una campagna elettorale sincopata, nevrotica al limite del parossismo, giocata esclusivamente intorno allo screditamento dell’avversario, totalmente priva di qualsiasi abbozzo di programma credibile.
Una campagna elettorale nel corso della quale i problemi reali del paese, che si chiamano crisi occupazionale, disastro economico, crollo del potere di acquisto delle famiglie, inquinamento del territorio, sono stati lasciati a margine da parte delle due coalizioni impegnate a contendersi il governo delle regioni.
Una campagna elettorale imperniata sulla violenza verbale dispensata a piene mani, vissuta fra litigi ed animosità al limite dello scontro fisico, sempre incentrati su differenze artificiali e prive di fondamento, utilizzati per nascondere l’assoluta mancanza di differenze reali fra i due poli che si contendono il governo regionale.

Un italiano su tre ha dunque preferito non recarsi a votare nonostante (o forse anche a causa) la quantità industriale di materiale pubblicitario che ha riempito le buche delle lettere, l’ossessiva tempesta delle telefonate a domicilio, la massa dei manifesti ad abbruttire i muri delle città, la marea di “santini” con faccioni sorridenti e cravatte multicolori. Tutto materiale che a dispetto degli sforzi esperiti dagli esperti del marketing è apparso intriso di un vuoto cosmico, tanto era infarcito di slogan demagogici che sarebbero parsi artificiosi anche agli occhi di un bambino di 5 anni e miravano unicamente a fare leva sulla tanto stantia quanto ormai sempre più improponibile scelta di campo fra destra e sinistra.

Anche in Italia, come nella maggior parte dei paesi occidentali, la distanza fra i partiti politici ed i cittadini continua perciò a farsi sempre più siderale, dimostrando in maniera inequivocabile l’inadeguatezza di un sistema come quello della democrazia rappresentativa, soprattutto qualora gestito in termini di bipolarismo. Anche il clima da “guerra civile” creato nell’occasione e gli “epici” inviti a scelte di campo presentate come decisive, non sembrano avere sortito l’effetto voluto.
I cittadini stanno continuando ad allontanarsi ed i partiti politici parlano ogni giorno di più un linguaggio alieno a chi vive e soffre nel paese reale, un linguaggio autoreferenziale che ben presto rischierà di trasformarsi in una lingua morta.
Per quanto riguarda i risultati elettorali non sono mancate le sorprese e neppure gli elementi che meritano di diventare oggetto di riflessione.

Il centrosinistra, nonostante l’operato del governo Berlusconi non sia stato fin qui entusiasmante, ha nuovamente subito una sconfitta cocente. Se la perdita di regioni come la Calabria, la Campania ed il Lazio può trovare la spiegazione all’interno degli scandali di varia natura che hanno caratterizzato le amministrazioni esistenti, ben più grave appare la debacle in Piemonte. Dove Mercedes Bresso si è vista costretta a cedere il passo a Cota, nonostante fosse riuscita ad incamerare nella propria coalizione tanto l’UDC di Casini quanto la Federazione della sinistra radicale. E’ indicativo il fatto che l’unica regione “a rischio” nella quale il centrosinistra ottiene un risultato positivo sia proprio quella Puglia dove Nichi Vendola ha difeso con i denti la propria candidatura, imponendo una lista più “di sinistra” rispetto al listone in alleanza con l’UDC che era stato imposto da D’Alema

Le liste 5 stelle di Beppe Grillo hanno ottenuto nel complesso risultati di tutto rilievo, fra i quali spiccano Giovanni Favia in Emilia Romagna che ha ottenuto il 7% e Davide Bono in Piemonte arrivato a superare il 4%, a dimostrazione del fatto che esiste senza dubbio ampio spazio di manovra per chi intenda costruire delle alternative ai partiti politici tradizionali.

L’inesorabile continua discesa del centrosinistra, laddove questo non riesce a proporsi come concreto elemento di alternativa, ma semplicemente come una fotocopia sbiadita di Berlusconi, unitamente al buon risultato delle liste che fanno riferimento a Beppe Grillo e al grande incremento dell’astensione, stanno a dimostrare in maniera inequivocabile tanto il “bisogno” di alternative concrete da parte dell’elettorato, quanto la palese incapacità di esprimere le stesse espresse dal sistema dei partiti.
Proprio questo bisogno di alternative concrete, pensiamo possa considerarsi la vera novità di questa tornata elettorale. Una novità destinata naturalmente ad essere sottaciuta, tanto dal sistema dei partiti ormai incancrenito nella spartizione del potere, quanto dai media mainstream che di quel potere rappresentano uno degli elementi cardine.
M. Cedolin

Ci hanno convinti a non votare


Non possono esistere dubbi sul fatto che il dato più emblematico uscito (o sarebbe meglio dire mai entrato) dalle urne di queste elezioni regionali di marzo 2010 sia costituito dai quasi 3 milioni e mezzo in più di cittadini che non si sono recati a votare, portando il “partito” dell’astensione a sfiorare il 37%, diventando di fatto il maggiore partito del Paese. Un incremento nell’ordine dell’8%, con punte fra il 14%, il 12% e il 10% in Puglia, Lazio e Toscana, che qualifica il partito del non voto come l’unico reale vincitore di questa tornata elettorale.

Una vittoria, quella del non voto, determinata da una campagna elettorale sincopata, nevrotica al limite del parossismo, giocata esclusivamente intorno allo screditamento dell’avversario, totalmente priva di qualsiasi abbozzo di programma credibile.
Una campagna elettorale nel corso della quale i problemi reali del paese, che si chiamano crisi occupazionale, disastro economico, crollo del potere di acquisto delle famiglie, inquinamento del territorio, sono stati lasciati a margine da parte delle due coalizioni impegnate a contendersi il governo delle regioni.
Una campagna elettorale imperniata sulla violenza verbale dispensata a piene mani, vissuta fra litigi ed animosità al limite dello scontro fisico, sempre incentrati su differenze artificiali e prive di fondamento, utilizzati per nascondere l’assoluta mancanza di differenze reali fra i due poli che si contendono il governo regionale.

Un italiano su tre ha dunque preferito non recarsi a votare nonostante (o forse anche a causa) la quantità industriale di materiale pubblicitario che ha riempito le buche delle lettere, l’ossessiva tempesta delle telefonate a domicilio, la massa dei manifesti ad abbruttire i muri delle città, la marea di “santini” con faccioni sorridenti e cravatte multicolori. Tutto materiale che a dispetto degli sforzi esperiti dagli esperti del marketing è apparso intriso di un vuoto cosmico, tanto era infarcito di slogan demagogici che sarebbero parsi artificiosi anche agli occhi di un bambino di 5 anni e miravano unicamente a fare leva sulla tanto stantia quanto ormai sempre più improponibile scelta di campo fra destra e sinistra.

Anche in Italia, come nella maggior parte dei paesi occidentali, la distanza fra i partiti politici ed i cittadini continua perciò a farsi sempre più siderale, dimostrando in maniera inequivocabile l’inadeguatezza di un sistema come quello della democrazia rappresentativa, soprattutto qualora gestito in termini di bipolarismo. Anche il clima da “guerra civile” creato nell’occasione e gli “epici” inviti a scelte di campo presentate come decisive, non sembrano avere sortito l’effetto voluto.
I cittadini stanno continuando ad allontanarsi ed i partiti politici parlano ogni giorno di più un linguaggio alieno a chi vive e soffre nel paese reale, un linguaggio autoreferenziale che ben presto rischierà di trasformarsi in una lingua morta.
Per quanto riguarda i risultati elettorali non sono mancate le sorprese e neppure gli elementi che meritano di diventare oggetto di riflessione.

Il centrosinistra, nonostante l’operato del governo Berlusconi non sia stato fin qui entusiasmante, ha nuovamente subito una sconfitta cocente. Se la perdita di regioni come la Calabria, la Campania ed il Lazio può trovare la spiegazione all’interno degli scandali di varia natura che hanno caratterizzato le amministrazioni esistenti, ben più grave appare la debacle in Piemonte. Dove Mercedes Bresso si è vista costretta a cedere il passo a Cota, nonostante fosse riuscita ad incamerare nella propria coalizione tanto l’UDC di Casini quanto la Federazione della sinistra radicale. E’ indicativo il fatto che l’unica regione “a rischio” nella quale il centrosinistra ottiene un risultato positivo sia proprio quella Puglia dove Nichi Vendola ha difeso con i denti la propria candidatura, imponendo una lista più “di sinistra” rispetto al listone in alleanza con l’UDC che era stato imposto da D’Alema

Le liste 5 stelle di Beppe Grillo hanno ottenuto nel complesso risultati di tutto rilievo, fra i quali spiccano Giovanni Favia in Emilia Romagna che ha ottenuto il 7% e Davide Bono in Piemonte arrivato a superare il 4%, a dimostrazione del fatto che esiste senza dubbio ampio spazio di manovra per chi intenda costruire delle alternative ai partiti politici tradizionali.

L’inesorabile continua discesa del centrosinistra, laddove questo non riesce a proporsi come concreto elemento di alternativa, ma semplicemente come una fotocopia sbiadita di Berlusconi, unitamente al buon risultato delle liste che fanno riferimento a Beppe Grillo e al grande incremento dell’astensione, stanno a dimostrare in maniera inequivocabile tanto il “bisogno” di alternative concrete da parte dell’elettorato, quanto la palese incapacità di esprimere le stesse espresse dal sistema dei partiti.
Proprio questo bisogno di alternative concrete, pensiamo possa considerarsi la vera novità di questa tornata elettorale. Una novità destinata naturalmente ad essere sottaciuta, tanto dal sistema dei partiti ormai incancrenito nella spartizione del potere, quanto dai media mainstream che di quel potere rappresentano uno degli elementi cardine.
M. Cedolin

29 marzo 2010

Settemila comuni rinnovabili

Un ottimo esempio di buona amministrazione sul campo delle rinnovabili. L'Italia virtuosa cresce per merito delle amministrazioni locali. Il rapporto Comuni Rinnovabili di Legambiente fa luce sull'impiego di sole, vento, acqua, geotermia, biomasse...
Sono ben 6.993 i Comuni italiani dove è installato almeno un impianto di produzione energetica da fonti rinnovabili. Erano 5.580 lo scorso anno, 3.190 nel 2008. Le fonti pulite che fino a dieci anni fa interessavano, con il grande idroelettrico e la geotermia le aree più interne e comunque una porzione limitata del territorio italiano, oggi sono presenti nell’86% dei Comuni. E per quanto riguarda la diffusione, sono 6.801 i Comuni del solare, 297 quelli dell’eolico, 799 quelli del mini idroeletttrico e 181 quelli della geotermia. Le biomasse si trovano invece in 788 municipi dei quali 286 utilizzano biomasse di origine organica animale o vegetale.

Ecco, in sintesi, il quadro dell’Italia sostenibile, rilevato dal rapporto Comuni Rinnovabili 2010 di Legambiente, realizzato in collaborazione con GSE e Sorgenia.
Il rapporto parla di un salto impressionante che si è verificato in Italia nel numero degli impianti installati. Attraverso nuovi impianti solari, eolici, geotermici, idroelettrici, da biomasse già oggi sono centinaia i Comuni in Italia che producono più energia elettrica di quanta ne consumino. Grazie a questi impianti sono stati creati nuovi posti di lavoro, portati nuovi servizi e create nuove prospettive di ricerca applicata oltre, naturalmente, ad aver ottenuto un maggiore benessere e qualità della vita. Queste esperienze sono oggi la migliore dimostrazione del fatto che investire nelle rinnovabili è una scelta lungimirante e conveniente, che può innescare uno scenario virtuoso di innovazione e qualità nel territorio.
Nel 2009 la crescita delle fonti rinnovabili è stata fortissima (+13% di produzione), e dimostra quanto oggi queste tecnologie siano affidabili e competitive – ha dichiarato Vittorio Cogliati Dezza, Presidente nazionale di Legambiente –. Ora occorre puntare con forza in questa direzione, capire quanto sia nell’interesse del Paese raggiungere gli obiettivi fissati dall’Unione Europea al 2020 per la riduzione delle emissioni di CO2 e la crescita delle rinnovabili. Per questo siamo preoccupati di fronte all’assordante silenzio che ci sta accompagnando alla scadenza del prossimo giugno, quando l’Italia dovrà comunicare all’UE il piano nazionale per rientrare nell’obiettivo al 2020 del 17% di rinnovabili. I numeri, le storie raccontate da questo rapporto dimostrano che questi target sono a portata di mano, e che la soluzione più intelligente è quella di guardare ai territori: alla domanda di energia da parte di case, uffici, aziende e attività agricole per capire come soddisfarla con le risorse rinnovabili più adatte ed efficienti. Ma soprattutto, le esperienze raccolte dimostrano quanto questa prospettiva risulti già oggi vantaggiosa: coloro che hanno installato impianti solari termici e fotovoltaici o che sono collegati a reti di teleriscaldamento, pagano bollette meno salate in località dove l’aria è più pulita.”.

Il premio 2010 va a Sluderno (Bz), un Comune con poco più di 1.800 abitanti che fonda il suo successo su un intelligente mix di diversi impianti diffusi nel territorio: 960 mq di pannelli solari termici e 512 kW di pannelli solari fotovoltaici diffusi sui tetti di case e aziende, più 4 micro impianti idroelettrici con una potenza complessiva di 232 kW. E un impianto eolico da 1,2 MW, realizzato in “comproprietà” con 3 Comuni vicini. L’impianto è installato nel Comune di Malles è gestito da un Consorzio dei Comuni più alcune aziende elettriche locali. A scaldare le case sono gli impianti da biomasse locali e da biogas, con una potenza complessiva di 6.200 kW termici, entrambi di tipo cogenerativo, allacciati ad una rete di teleriscaldamento lunga 23 km. Questi impianti producono oltre 13 milioni di kWh annua di energia termica per soddisfare il fabbisogno di oltre 500 utenze sia del Comune di Sluderno che del vicino Comune di Glorenza.

Sono state premiate, inoltre, realtà dove attraverso investimenti lungimiranti nelle fonti rinnovabili, sono stati ottenuti risultati che vanno ben oltre la risposta agli obiettivi energetici e ambientali. Un esempio è il Comune di Tocco da Casauria (Pe), dove sono in funzione quattro pale eoliche che complessivamente (con 3,2 MW) permettono di produrre più energia elettrica di quella necessaria alle famiglie residenti. Nel Comune, inoltre, sono presenti 24 kW di pannelli fotovoltaici oltre a grandi impianti idroelettrici. Qui le royalties provenienti dell’eolico hanno permesso al Comune di acquistare lo storico Castello e progettarne la ristrutturazione. Altro esempio è quello del Comune di Maiolati Spontini (An), di circa 5.700 abitanti, che grazie ad un mix energetico fatto di pannelli solari fotovoltaici (135 kW), di un impianto mini idroelettrico (400 kW) e soprattutto di un impianto a biogas da discarica entra di diritto nella categoria “100% elettrici”.

Da quest’anno poi, l’indagine sulle rinnovabili si è estesa alle Province, per le quali, il premio 2010 va a Grosseto per i risultati conseguiti in questi anni e per l’impegno mostrato nello sviluppo delle fonti rinnovabili.

by Gab

25 marzo 2010

Cos'é il collasso, in fin dei conti?

In ogni blog trovate discussioni in corso, spesso aperte da molto tempo, con numerosi commenti e con gente che invece vi si affaccia per la prima volta. Talvolta i lettori hanno un punto di vista contrario al vostro, oppure sono incuriositi o preoccupati per quel che trovano, o magari sono poco interessati; a volte partecipano attivamente, altre volte gettano uno sguardo distratto e se ne vanno. Riuscire a mantenere un giusto equilibrio tra quello che scrivete per i lettori regolari e quello che scrivete per i lettori saltuari è un esercizio sempre molto interessante, che ho dovuto recentemente affrontare: da alcuni mesi mi occupo infatti di blog scientifici e sono entrato in contatto con un mucchio di gente nuova. È un fatto positivo, che richiede però un'attenta calibrazione: che livello di conoscenza devo presupporre? Quanti concetti di base devo spiegare a quelli che non sono esperti, tornando a ripetere cose già note a molti di coloro che invece mi seguono regolarmente?

PalMD ha di recente indicato, e gliene sono sinceramente grato, uno dei siti in cui evidentemente non sto facendo abbastanza per illustrare le mie idee ai lettori. Ha scritto infatti:

E per finire adoro Sharon Astyk su Casaubon's Book...anche se non condivido alcuni punti fondamentali. Mi piace il suo esperimento IRL (In Real Life. NdT) per una vita (illusoriamente) sostenibile, ma la sua concezione di vita sostenibile mi sembra veramente antisociale. È un progetto per sopravvivere da soli a un disastro che distrugga il tessuto sociale. Il post di oggi parla di come far sopravvivere la famiglia creando una riserva di alimenti indispensabili, e quello di ieri parlava di come far in modo che possa profittare di tutto il cibo accantonato. Molto interessante, ma apparentemente poco utile quando si arriva a fine corsa nel mondo reale: prima di cominciare a sbranarsi a vicenda, i componenti di una qualche milizia per la supremazia bianca vi avrà sterminato per il vostro cibo.

Evidentemente sto commettendo qualche errore; tra l'altro quello di dare per scontato che la gente sappia perché dovrebbe fare scorta di alimenti, o mangiare tutto l'anno prodotti locali. PalMD ritiene che mettere da parte alimenti sia roba da apocalisse, e che in ogni caso una decisione di questo tipo sia un fatto personale e non sociale. Entro certi limiti è un principio corretto; ho scritto parecchio sull'apocalisse, un termine che è accompagnato immancabilmente da idee quali "zombie, supremazia bianca, e sciacallaggio per mangiare".

È irritante scrivere un articolo accattivante e ben presentato e ritrovarsi con qualcuno che risponde formulando una lunga e serissima analisi, e mi dispiace doverlo fare. Nel mio caso è proprio quello che mi ha "fatto staccare" il cervello, e gli sono profondamente grato per avermi offerto l'occasione di smetterla con la critica di cui mi stavo occupando e passare a qualcosa di più interessante!

In effetti, il termine "collasso" non presuppone alcuna forma di cannibalismo nella maggior parte delle società civili, che sono ovviamente contrarie al modello "bambino allo spiedo". I taboo contro una simile pratica sono talmente radicati che la maggior parte degli esseri umani preferirebbe morire di fame piuttosto che violarli, come vediamo nelle società con alti tassi di denutrizione (cfr il libro di Margaret Visser: The Rituals of Dinner) in cui il cannibalismo non viene mai considerato una soluzione alla penuria di cibo ma piuttosto una pratica estremamente ritualizzata e attentamente strutturata, spesso associata a una guerra formale. E non deve necessariamente far pensare a Mad Max. Ne ho già parlato nella mia risposta a Zuska , ma ho pensato di usare adesso un approccio più pragmatico: nel nostro secolo, che cosa è veramente successo quando le società sono arrivate al collasso? Ci sono mezzi per ridurre questa follia? Gli eventi storici non possono fornirci una risposta sufficientemente accurata, ma possono almeno offrirci un punto di partenza.

Da questo punto di vista, il "collasso" è in effetti un fenomeno molto comune: le società arrivano a uno specifico livello funzionale, si scontrano con limiti invalicabili (spesso ecologici, come hanno documentato tra gli altri Jared Diamond in "Collapse: How Societies Choose to Succeed or Fail" e Joseph Tainter in "The Collapse of Complex Systems"), e ricadono a un livello funzionale più basso. Quanto più basso, dipende dal modo in cui la società reagisce. Pensiamo per esempio all'Isola di Pasqua. E più di recente Ruanda e Burundi sono ripetutamente piombati in una violenza insostenibile e in guerre civili senza sbocchi, con conseguenze umane terribili e non molto dissimili da quelle di Mad Max.

D'altro canto pensiamo all'ultima società in ordine di tempo ad aver collassato: l'Islanda. Nel 2008 e l'isola, che era diventata estremamente ricca e prospera, ha conosciuto un crollo economico i cui effetti si fanno ancora sentire. Quello bancario è stato il più grave, se si rapporta alle dimensioni del paese, mai registrato nella storia economica.

Gli avvenimenti islandesi rassicureranno certamente la gente che si preoccupa all'idea di un collasso: la situazione era diventata molto sgradevole, ma in confronto al Ruanda si è trattato di poca cosa. Ci sono state manifestazioni violente, suicidi, emigrazione, e il governo è stato esautorato. Per affrontare la crisi è stato pagato un costo enorme: disoccupazione generalizzata, forte aumento dei tassi d'interesse, crollo delle importazioni, esplosione del numero di pignoramenti, necessità per molti professionisti ben pagati di riciclarsi nell'industria della pesca (e le riserve ittiche sono rapidamente calate), costi proibitivi dei beni importati, rapido impoverimento della popolazione. Ma d'altro canto i beni essenziali sono stati in buona misura preservati.

In conclusione, la prima cosa che possiamo dire del collasso è che si tratta di un evento estremamente variabile (economico, energetico, politico, o tale da sfociare in una guerra civile) e che alcuni casi sono meno gravi di altri. In effetti, Dmitry Orlov, autore di "Reinventing Collapse", in cui paragona quello che succederà, secondo lui, negli USA con quello che è successo nell'Unione Sovietica (evento parzialmente vissuto in prima persona), ha scritto un ponderato e interessante saggio, in cui si sofferma in particolare su un punto:

Anche se molti vedono il collasso come una specie di ascensore che scende al livello delle cantine (il nostro Stato 5), indipendentemente dal pulsante che abbiamo premuto, in realtà non si vede nessun meccanismo automatico di questo tipo. Passare allo Stadio 5 richiede invece uno sforzo concertato a ogni livello. Il fatto che tutti sembrino pronti a farlo può dare al collasso l'apparenza di una tragedia classica, una marcia consapevole ma inesorabile verso la perdizione, piuttosto che di una farsa (Perbacco! Eccoci allo Stadio 5. Chi ci mangiamo per primo? Cominciate con me. Sono prelibato!).

Lo ammetto, trovo estremamente difficile immaginare uno scenario in cui gli USA non collassino almeno in parte; in qualunque modo lo si veda, il paese sta correndo proprio questo pericolo. Continuiamo a proclamare che il crollo economico è stato evitato, ma in realtà lo abbiamo solo rimandato di qualche anno; cosicché l'enorme carico economico ricadrà quasi sicuramente sulle spalle di quelli che oggi hanno meno di 50 anni e delle future generazioni. Si può dire lo stesso della crisi energetica, e a maggior ragione di quella climatica. Nessuno oserà negare, penso, che le nostre politiche in queste tre aree sono a corto termine e pensate per evitare di farci subito carico del peso, non certo per sfuggire alla crisi.

Che cosa mi fa credere che le crisi saranno talmente dure da portare al collasso? Le previsioni di analisti degni di fiducia e imparziali. Ad esempio, nel 2005 l'US DOE (Department of Energy, il ministero statunitense per l'energia. NdT) aveva commissionato uno studio, l' Hirsch Report , per capire se il picco petrolifero rappresentasse un vero pericolo. Robert Hirsch, il ricercatore responsabile del rapporto, ne è oggi un convinto assertore, ma all'inizio la pensava diversamente. Il rapporto per il DOE era arrivato alla conclusione che avremmo potuto evitare il collasso investendo a un livello paragonabile a quello della II guerra per almeno 20 anni (un periodo più breve avrebbe indotto una grave crisi). È la conclusione del DOE, non la mia: dato che non stiamo destinando alle energie rinnovabili somme paragonabili a quelle della II guerra mondiale, e dato che anche l'USGS (United States Geological Survey. NdT) prevede il picco petrolifero entro il 2023, un semplice calcolo suggerisce che ci dobbiamo aspettare seri problemi. L ' Army ha preparato un rapporto simile.

E a proposito del cambio climatico? Beh, guardate The Stern Review di Sir Nicholas Stern sulle conseguenze economiche del fenomeno. Tra le altre conclusioni (i presupposti sugli obiettivi climatici sono oramai superati; riteneva infatti che 550 ppm avrebbero potuto evitare più guai di quanto potranno in realtà fare), c'era quella secondo cui cambiamenti climatici non controllati potrebbero indurre costi superiori al 20% del PIB mondiale, un peso che nessuna economia potrebbe sopportare senza, appunto, collassare. Poiché niente lascia pensare a una nostra capacità di stabilizzare l'ecologia a livelli inferiori, sembra ragionevole presupporre che ci troveremo ad affrontare elevati costi, con gravi conseguenze economiche.

E ciò vale anche per le mie idee sulle conseguenze pratiche e materiali del cambiamento climatico: le previsioni dell'IPCC e di altri studi suggeriscono, tra gli altri effetti inevitabili del fenomeno, l'afflusso di un alto numero di rifugiati, conflitti per le scarse risorse, siccità, ridotti tassi di produzione alimentare, maggiori malattie infettive, tempeste più violente e disastri naturali più numerosi... Questo eventi implicano elevati costi, non solo economici ma anche materiali, che porteranno inevitabilmente al collasso delle società. Si può ragionevolmente affermare, ad esempio, che New Orleans è destinata a restare a un livello funzionale molto più basso per un lungo periodo; anzi, non è chiaro se riuscirà mai a venirne fuori.

A questo punto, non penso di dover spiegare perché secondo me avremo un crollo economico; può sopravvenire in qualsiasi momento, e anzi sappiamo che ci siamo andati vicino nell'autunno 2008.

Sappiamo che possiamo aspettarci un collasso energetico, magari assieme a uno economico: l'ex primo ministro sovietico Yegor Gaider ha scritto un libro in cui afferma che, secondo lui, l'Unione sovietica collassò per la sua dipendenza dalle esportazioni energetiche e per lo spostamento della popolazione dalla campagna alle città. Il paese aveva fatto a lungo affidamento sulle esportazioni energetiche per comprare prodotti alimentari sui mercati esteri, ma dopo il crollo dei prezzi nel settore il numero di contadini risultò insufficiente per aumentare la produzione agricola, e il governo non fu capace di gestire la situazione.

Sappiamo anche che l'evento provocò ulteriori cedimenti: Cuba crollò perché l'Unione sovietica era collassata e aveva sospeso le spedizioni di petrolio. L'isola perse 1/5 delle sue importazioni energetiche e le strutture sociali si disgregarono in parte: la gente cominciò a soffrire la fame e a nutrirsi di scorze di agrumi dato che non c'era più energia per mandare avanti il suo sistema agricolo altamente tecnologico.

L'esempio di Cuba è interessante perché è una ulteriore dimostrazione del fatto che anche piccole alterazioni delle risorse energetiche possono dar luogo a conseguenze disastrose: 1/5 di petrolio in meno non avrebbe dovuto ridurre la gente alla fame. Molti potrebbero ragionevolmente pensare che il contraccolpo avrebbe potuto essere assorbito eliminando gli sprechi del sistema e distribuendo meglio le risorse, o magari che la responsabilità ricada sul governo cubano. Quest'ultimo punto è probabilmente in parte vero, ma non dimentichiamo che anche negli USA abbiamo casi che dimostrano come piccoli cambi nelle forniture energetiche portano a conseguenze estremamente distruttive: lo shock petrolifero degli anni '70 e la susseguente recessione furono dovute a una contrazione delle importazioni petrolifere di poco più del 5%.

In conclusione, ritengo che ci stiamo avviando a una qualche forma di collasso (senza necessariamente collegarla a cannibalismo o bande criminali in difesa della razza bianca) che mi piacerebbe allontanare al più presto: ho anche altre cose da fare! Quando cominciai a scrivere sul tema, nel 2003, mi sembrava probabile che il cambiamento climatico si sarebbe manifestato molto più lentamente e che saremmo stati in grado di affrontare una crisi alla volta.

Mi pare oramai evidente che ci avviamo verso una crisi al tempo stesso economica, energetica e climatica, e non vedo come superarla con successo. Impossibile? Forse no, ma di sicuro improbabile; la ristrutturazione sociale sarebbe enorme e coinvolgerebbe tutti i fattori cui ho prima accennato. Quasi tutti quelli che si occupano del tema fanno paragoni con la II Guerra mondiale e con il clima di guerra (Niels Bohr affermò che sarebbe stato impossibile sviluppare la bomba atomica senza trasformare l'intera nazione in una fabbrica, e nel 1944 osservò che ci eravamo riusciti). Dover rifare la stessa cosa affrontando al tempo stesso una crisi poliedrica sembra ancora più difficile.

In ogni caso, dovremmo comunque prospettarci la possibilità di un fallimento. E questo è un problema in una società che sembra credere a un'alternativa dicotomica: non potete preparavi all'insuccesso e mettere a punto un piano di riserva in caso di fallimento. Psicologicamente ci convinciamo che se pensiamo seriamente alla possibilità di fallire, allora falliremo; e quindi non lo facciamo perché ci sembra morboso. Non ci prepariamo per il disastro, anche quando ci sembra imminente: non creiamo una riserva alimentare, anche se la FEMA (Federal Emergency Management Agency, l'agenzia federale per la gestione delle emergenze. NdT) e la Croce rossa ci mettono in guardia, e anche se recentemente il responsabile della FEMA ha ricordato che la prima linea di difesa è la preparazione individuale. Tendiamo a un approccio dicotomico, mentre in realtà abbiamo bisogno delle due alternative: volontà "e" attenzione nell'attraversare la strada, preparare gli strumenti "e" avere un piano di evacuazione, stipare cibo nella dispensa "e" perseguire una maggiore coesione sociale.

Inoltre, buona parte di quel che raccomando va bene per gente che non è coinvolta in un crollo dichiarato, ma la cui vita sta per collassare: senza lavoro, in procinto di perdere la casa, con possibilità alimentari insufficienti, gravati da problemi medici e privi di assicurazione sanitaria... in gran parte quello che incoraggio la gente a fare, compresa la creazione di una scorta di alimenti e un maggior sostegno sociale funziona con la "gente" che sta per cedere, anche se la società non li ha ancora etichettati come falliti.

Quali sono i punti comuni delle varie società in collasso? Potrei risalire a Roma, ovviamente, ma non mi sembra necessario. Eccone alcuni:

1.La gente, estremamente irritata col governo, arriva di solito a qualche forma di resistenza civile e spesso il governo cambia; talvolta è una buona cosa, talvolta invece no. In certi casi, come ben sappiamo, il governo trova dei capi espiatori, il che è veramente negativo. La migliore soluzione è quando il governo va incontro alle richieste del popolo, o quando si toglie di mezzo e lascia che sia il popolo stesso a decidere.

2. Il tasso di criminalità aumenta; servizi come la protezione cittadina sono meno raggiungibili o vengono privatizzati, e, fattore comune alle società in crisi, sono più violenti. Ma ciò non significa che i signori della guerra uccidano tutti quelli che si trovano sul loro cammino. Significa invece più violenza, furti, stupri e delitti nelle strade, e qualche volta lucrosi rapimenti. Significa anche che la gente è vulnerabile e terrorizzata, e che spesso non ha fiducia nelle autorità; è un po' come essere afroamericani e vivere in una periferia degradata, o magari a Bagdad. In generale non vi fa piacere che i vostri figli escano spesso, anzi tendete a non uscire troppo nemmeno voi, e la sicurezza diventa un problema importante.

3. La popolazione s'impoverisce rapidamente; questa è forse la caratteristica più comune. Quando le società collassano, la percentuale di poveri aumenta; in Argentina, ad esempio, la crisi del 2001 distrusse in pratica la classe media e fece aumentare il tasso di povertà dal 20% a quasi il 57%. A mio parere è un tratto comune a tutti i collassi, ed è proprio quello che sta succedendo.

4. Costo e disponibilità degli alimenti diventano un serio problema. Il caso dell'Argentina, un paese prima stabile e agiato, mostra che molti alimenti ricercati, in particolare quelli importati, sono spesso introvabili e, cosa più importante, il forte impatto economico rende meno facile comprarli. Crisi sanitaria (in particolare la mancanza di cure), depressione, ricorso all'alcol e alle droghe, aumentano sensibilmente.

5. Servizi e strutture si degradano perché, e il caso è frequente tra gli americani poveri, la gente non è in grado di far fronte ai pagamenti (ad esempio, decine di migliaia di capofamiglia si vedranno tagliare i servizi dal 1° aprile, data prima della quale non è legalmente permesso togliere ai privati i servizi essenziali) o perché le infrastrutture sono fatiscenti e la coesione sociale viene meno. Sempre più spesso l'energia non verrà erogata, i rifiuti non verranno prelevati, il gas mancherà e i camion di riapprovvigionamento non si faranno vedere...

6. La gente si riavvicinerà: che vivano ammassati nei ghetti o che abbiano perso la casa, le famiglie cominceranno ad aiutarsi a vicenda. E lo stesso faranno intere comunità e quartieri: chi ha cibo lo divide con voi, chi ha spazio lo cede ai bisognosi. Nasce una cultura di condivisione.

Si tratta di situazioni praticamente universali e quasi inevitabili nelle società collassate. In alcuni casi, invece, i vostri vicini cercheranno di uccidervi e bande organizzate cominceranno a terrorizzare il quartiere; ma non si tratta di situazioni inevitabili.

Il problema è: se il collasso incombe, su cosa concetrare gli sforzi? Cercate di prevenirlo, anche se è sempre più difficile, o vi preoccupate, come suggerisce Orlov, dei bisogni di base? Secondo me, la risposta è che bisogna operare su entrambi i fronti, concentrandosi su azioni a doppio effetto; le strategie vincenti sono quelle che, quando vi trovate di fronte a un crollo importante dei sistemi, riducono gl'impatti e aumentano la resistenza. Credo che la maggior parte dei miei suggerimenti, se non tutti, vadano in questa direzione.

In caso di collasso, quale che sia, cosa può meglio aiutare? Sappiamo ad esempio che il sostegno sociale fa una grossa differenza. "Reinventing Collapse" sottolinea che il sistema di assistenza sociale è stato fondamentale per la sopravvivenza dei russi. Aver messo a portata del popolo cure mediche, cibo e un luogo in cui vivere ha permesso di evitare che la crisi diventasse troppo dura. A Cuba, con tutti i suoi limiti, il governo ha fatto qualcosa di veramente notevole, l'esatto contrario del governo USA: ha salvaguardato il sostegno sociale, a spese della crescita potenziale. In altre parole, per affrontare la "contingenza particolare", ha diffuso i programmi educativi nelle università più piccole, aumentato il numero di ospedali nelle aree rurali, rafforzato i programmi alimentari. Come sostengo in "Depletion and Abundance", è proprio quello di cui abbiamo bisogno qui da noi: le nostre massime priorità dovrebbero essere l'assistenza medica, la sicurezza alimentare, l'insegnamento e i programmi per gli anziani, i disabili e i bambini. Il bello di questa strategia politica è che le cose che contano sono proprio quelle cui la gente dice di tenere di più.

Disgraziatamente non è questa la cultura in cui viviamo: gli Stati Uniti rispondono alla crisi economica e sociale aumentando regolarmente i programmi governativi e militari, e tagliando i fondi per l'assistenza sociale. Sta già avvenendo, ed è per questo che mi affido alle reti locali e private (per tutti quelli che vivono nelle comunità) e alle altre risorse minimali più che ai grandi programmi; servono infatti da ultimo ricorso per coloro che sono precipitati ma che riescono a sopravvivere, anche in assenza di aiuti federali o statali, perché possono operare a scala sufficientemente locale. Questo non significa che io sia favorevole alla frantumazione dei programmi sociali, sicuramente no; e negli ultimi anni ho scritto spesso sull'importanza di finanziare il servizio sanitario universale, il LiHeap (Low Income Home Energy Assistance Program, NdT), i buoni pasto, il WIC (Special Supplemental Nutrition Program for Women, Infants and Children. NdT) e i programmi per disabili e anziani. Ho speso molte energie per difendere tutte queste azioni, ma al tempo stesso ritengo che sia urgente creare reti di emergenza più localizzate.

Per fermare la discesa verso il basso sono utili anche le strategie di autosoccorso. A Cuba, per esempio, l'agricoltura a piccola scala nei centri urbani ha fatto molto (non tutto, anche i beni importati hanno svolto un ruolo importante) per alleviare la fame e le carenze nutrizionali. In Russia, tutte le analisi economiche affermavano che ci sarebbe stata una carestia generalizzata; non c'è stata, in buona parte grazie allo sviluppo di un'economia locale che ha surrogato le carenze di quella a grande scala. In Argentina, raccogliere cartoni ha aiutato 40.000 persone. Durante la Grande depressione americana, un buon esempio secondo me di un quasi collasso, il numero di lavori informali si moltiplicò: il New York Times osservò che nel 1932 in città c'erano 7.000 persone, in gran parte adulte, che lucidavano scarpe, mentre nel 1928 ce ne erano meno di 200, quasi tutti bambini.

Le strategie individuali di sopravvivenza e le reti di sostegno sociale non entrano in conflitto: sono entrambe necessarie, in particolare quando i programmi di accompagnamento sociale sono criticati o accantonati, come oggi negli USA. Da soli non possono dar sollievo alla popolazione o ridurre la portata del disastro, ma insieme possono permettere alla gente di sopravvive, alimentarsi e sentirsi ragionevolmente al sicuro.

In un certo qual senso può sembrare stupido accontentarsi di questo. Ognuno vuole il meglio per se, gli amici, il mondo, i figli: anche io. Disgraziatamente è assai poco probabile che ci sia offerta la possibilità di ottenere molto di più; mi rendo conto che è deprimente dirlo, ed è il genere di affermazione che sconvolge la gente. In un certo senso sarebbe meglio se potessi convincermi che il collasso sarà un fatto positivo; ma non posso. Ci sono esempi di persone capaci di cavarsela meglio se la società è crollata e poi è risorta, ma è lecito dire che a nessuno piace una tale situazione. Il progetto, dunque, mira a evitare che sia troppo dura o mortale.

PalMD pensa che il mio tentativo di condurre una vita sostenibile sia illusorio, e in un certo qual modo ha ragione. Posso documentare con precisione le risorse che uso, perché le ho registrate negli ultimi quattro anni: rispetto alla quantità media statunitense, i sei componenti della mia famiglia producono il 15% delle emissioni casalinghe e il 20% dei rifiuti, usano il 40% di acqua e spendono il 10% in nuovi beni di consumo. La famiglia media americana è composta da 2,6 persone e il nostro uso reale è inferiore al loro, perché siamo sei membri; siccome siamo comunque una grande famiglia il meno che possiamo fare è tagliare al massimo.

Ma tutto poggia su una base di risorse importate, senza le quali le nostre vite sarebbero veramente difficili. La mia speranza è che anche altri si decidano a eliminare gli sprechi energetici (noi ci siamo riusciti, senza grandi investimenti, coi pannelli solari, e altri membri di Riot for Austerity hanno dimostrato che il risultato può essere raggiunto in città e in campagna, da parte di singoli o di famiglie numerose: dunque sappiamo che è fattibile). Ma non m'illudo che la tendenza diventi una moda in grado di salvare il mondo, perché in ogni caso sarà troppo tardi; dovremmo allora ancora dimezzare, più o meno, i nostri consumi energetici.

Oltre alle giustificazioni morali – è la cosa giusta da fare, sappiamo che le nostre emissioni sono una minaccia e dobbiamo quindi ridurle al minimo – a mio parere c'è un'altra ragione per adottare una posizione simile: vi permette di agire sul piano individuale e collettivo allo stesso tempo, di stipare riserve di cibo indipendentemente e di organizzare la vostra comunità in modo da essere sicuri che i vicini possano sfamarsi e che i vostri figli non muoiano di fame. Vi permette di eliminare in parte la pressione quando perdete il lavoro, ma anche di riempire la dispensa quando potete farlo. Migliora la situazione sia durante che dopo il collasso.

Non funziona invece molto bene nelle situazioni estreme, se cominciamo a trattarci come hanno fatto Tutsi e Hutu dagli anni '70 in poi. Se diamo il potere a un governo fascista che condanna ebrei, intellettuali, atei, immigranti... siamo fregati. Le migliori strategie richiedono di frenare ogni volta che è possibile, e mi piacerebbe se fosse possibile farlo prima di collassare, ma mi pare poco probabile. Ritengo invece che la strategia vincente consista nell'agire in modo da avvicinarci il più possibile all'Islanda e il meno possibile al Ruanda.

di Sharon Astyk

Fonte: www.energybulletin.net

24 marzo 2010

Oltre 68 milioni di euro l’anno: è il costo di Montecitorio

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La Camera degli sprechi

Via le malignità. Basta con le cattiverie. Stop al qualunquismo. Anche in Italia c’è un posto di lavoro dove le regole di sicurezza vengono rispettate. Tutte. E non esistono morti bianche. Guarda un po’. Dove è disponibile un medico; dove la mensa non serve piatti vecchi o riciclati. Anzi, vengono effettuati continui controlli sanitari. Dove anche la cura dell’immagine diventa un valore, pari a 307 mila euro l’anno di foto. Sì, esiste, basta farsi eleggere alla Camera dei Deputati, piazza Montecitorio, Roma.
Quindi ecco uno stipendio di quasi 20 mila euro al mese, altri 7 mila per i collaboratori, 2 mila per i viaggi e 5 mila per un affitto. Più tanto, tanto altro. Per scoprirlo è stato necessario lo sciopero della fame di Rita Bernardini, deputata radicale, tenace nel mettere alle corde i tre questori della Camera (“riluttanti a consegnare quanto richiesto, nonostante il regolamento”, racconta la stessa) e a strappare l’appoggio del presidente della Camera “che mi ha scritto: ‘Sarà lo sciopero della fame più breve della storia. Domani avrai quel che chiedi, giustamente. Con stima Gianfranco Fini”. Così è stato. Ed ecco consegnata al popolo una lista lunga 17 pagine, con su scritti tutti i fornitori, i servizi erogati e i prezzi pagati. Risultato? I radicali quantificano in altri 9.000 euro al mese il costo impiegato per ogni deputato “nemmeno al Grand Hotel un ufficio costerebbe così tanto!” incalza la Bernardini.
Ecco alcune delle voci: quasi 7 milioni di euro per la ristorazione, comprensivi anche del “monitoraggio alla qualità dei servizi” (126 mila euro); oltre 600 mila per il noleggio delle fotocopiatrici; 400 mila per “agende e agendine”, 292 mila per la somministrazione cartoncini, carte e buste personalizzate, 300 mila per i corsi di lingue. Fino al vero “gruzzolo”, composto da oltre 51 milioni per le locazioni: “Sono gli uffici a disposizione per ognuno di noi – continua la radicale. Sono dislocati attorno a Montecitorio, e lì abbiamo a disposizione tutto quanto è necessario”. E di più, ancora. “Non solo, dentro il personale svolge lo stesso ruolo dei commessi della Camera, ma con uno stipendio, e benefit, decisamente inferiori: 800 euro al mese. Li vedo arrivare la mattina presto vestiti con tuta e armati di strofinacci per le pulizie. Quindi si cambiano, indossano gli abiti ufficiali, ed ecco la rappresentanza. Assurdo. Soprattutto perché gli uffici vengono utilizzati pochissimo”. Già, la Camera lavora tre giorni la settimana, dal martedì al giovedì, e molti deputati arrivano da fuori, quindi non restano a Roma durante il periodo di inattività.
Comunque, protagonista alla voce “canone di locazione” è la società Milano 90 Srl, con ben quattro lotti assegnati per la cifra complessiva di circa 45 milioni. “Fa capo all’imprenditore Scarpellini, prosegue la Bernardini. È un costruttore romano, impegnato nella realizzazione di un quartiere alla Romanina e dello stadio della Roma calcio. Ah, comunque, le posso dire anche un’altra cosa: i lavoratori suddetti, nonostante lo stipendio da fame, sono segnalati dai partiti stessi. Insomma, c’è una sorta di lottizzazione. Nella lista consegnata ci sono anche altre voci interessanti”. Vero. Sotto la categoria “manutenzioni” finiscono le punzonatrici: per la loro efficienza, solo per quella, la cifra è di quasi 4 mila euro; o 99 mila per l’arredo verde dei terrazzi, giardini e cortili. E ancora un milione e 200 per le tappezzerie e falegnameria.
Nonostante tutto questo “il bilancio della Camera – conclude la deputata radicale – è omertoso, l’ho detto in aula e lo ripeto: in virtù del principio di autonomia costituzionale, la Camera è esente
da qualsiasi controllo contabile e gestionale esterno”. “Il controllo interno – ricordano i Radicali in un documento – dovrebbe essere esercitato dai questori (...) supportati dal Servizio per il controllo amministrativo, gerarchicamente subordinato al segretario generale, cioè al soggetto che dovrebbe essere controllato. Dunque è lecito dubitare della reale efficacia della funzione di controllo, comunque esclusivamente formale, dato che l’assenza della contabilità analitica non permette di istituire controlli sull’efficienza e l’efficacia della gestione”. Un giro di parole per dire, semplicemente, che chi detta le regole, si giudica; chi emette o assegna un lotto, si auto-controlla. Chi ci guadagna, invece, sorride.

di Alessandro Ferrucci

23 marzo 2010

La pressione fiscale sui ricchi


Si dice che la pressione fiscale sulle grandi fortune non si puó incrementare per non disincentivare gli investimenti e l’iniziativa privata e perché i capitali fuggirebbero in altri paesi con fiscalitá meno forti (fuga che é effettivamente avvenuta dalla Grecia ultimamente). Si ripete con la stessa insistenza che la accumulazione di capitale é una condizione necessaria per l’attivitá economica e il benessere generale. Questi stereotipi fanno parte delle convinzioni piú solide di chi prende le grandi decisioni economiche e politiche e finiscono per essere assunte dall’opinione pubblica. Ma sono un inganno.

Vediamo cosa é successo con le imposte ai ricchi nel paese piú liberale e individualista dell’occidente: gli USA.

Negli anni precedenti alla seconda guerra mondiale, la pressione fiscale sui guadagni piú alti passó dal 25% al 63% nel 1932, come mezzo per combattere la Gran Depressione. Da allora al 1981, cioé per 50 anni, si é mantenuta sempre oltre il 63%, arrivando al picco del 94% nel 1944, come contributo allo sforzo della guerra, e oscillando dal 82% al 91% nei venti anni dalla fine della guerra al 1963. Da Reagan in poi, non fece che diminuire, fino ad arrivare al 35% nel 2009.

Quella lunga esperienza di cinque decenni mostra che la classe capitalista, anche quella piú potente degli USA, puó accettare una pressione fiscale molto alta e che imposte cosí alte sono compatibili con la crescita economica. Nei 50 anni in cui la pressione fiscale negli USA si mantenne oltre, o molto oltre il 50% a carico della parte piú ricca, furono anni di massima prosperitá per quel paese. Quelle tasse potevano servire per migliorare lo stato sociale e i servizi pubblici a beneficio dei piú poveri, se i bilanci delle guerre non avessero fatto la parte del leone nel mangiarsele. Peró quello che ci interessa qui é provare che in 50 lunghi anni la classe capitalista della prima potenza del mondo accettó una pressione fiscale che ora molti dicono del tutto proibitiva e insensata.
La percentuale massima per la IRPEF in Spagna fu posta al 43% nel 2008, quella per le societá (IRPEG) al 30%, cinque punti in meno rispetto alle percentuali del 2000 e non c’è nessun segnale di volerli aumentare.

Un altro stereotipo é che le differenze sulle varie fiscalitá aumentano la fuga di capitali in paesi con minore pressione. Peró questo succede da quando si eliminó il controllo sui cambi e si installó una libertá totale di circolazione dei capitali. Limitiamo o eliminiamo questa libertá e scomparirá la minaccia di fuga di capitali. Non é una fantasia e non é impossibile: é qualcosa che é giá successo e neanche tanto tempo fa. Basta guardare agli anni anteriori alla controrivoluzione neoliberale degli anni settanta. Un giorno si dovrá avere il coraggio di tornare a certe regolamentazioni.

Il terzo mito é che basta con lasciare che si accumulino benefici senza limiti perché l’economia funzioni e tutti ci guadagniamo (la teoria del Trickle Down Economic della scuola di Chicago). Cosí si giustifica la libertá che si concede ai capitali di uscire dall’economia di un paese e delocalizzare, al prezzo della deindustrializzazione di regioni intere e la condanna di migliaia di persone alla disoccupazione (sulla base della sacra libertá del capitale di accumularsi) mentre la realtá e che nel mondo c’è un’enorme incremento di liquiditá. La sovraccumulazione é proprio la causa della speculazione: sulle monete, sul debito dei paesi, sugli immobili, sul petrolio, gli alimenti… Si cercano rendimenti altissimi che non si trovano nell’economia produttiva. Viviamo in un sistema malato che sacrifica tutto all’accumulazione di denaro che non solo é inutile ma dannosa.

Questi tre miti fanno parte dello stesso insieme, che si dovrebbe abbordare con misure combinate come: forti gravami fiscali sulle grandi fortune; armonizzazione delle imposte nell’intera UE; limiti ristretti sulla circolazione di capitali; eliminazione dei paradisi fiscali; armonizzazione verso l’alto dei diritti dei lavoratori e dei diritti sociali nella UE. Il denaro che va alle classi popolari genera una domanda di beni e servizi che é la base di una economía sana, mentre quello che finisce nei portafogli dei ricchi alimenta solo il potenziale speculativo. Alcuni settori popolari si lasciano abbindolare dai fondi di investimento e dalle pensioni integrative solo quando li si minaccia con il fallimento dello Stato Sociale, cosí hanno ingannato gli spagnoli e molti europei negli ultimi 15 anni. Il sistema fa gesti demagogici, come la richiesta al FMI da parte del Consiglio D’Europa (11/12/2009) di una tassa Tobin per le transazioni finanziare speculative per raccogliere un po’ di soldi. Ma sono solo gesti che danno ragione a chi pensa che sono misure che gli convengono, perché si potrebbe fare molto piú di quello. L’aumento delle tasse ha iniziato ad essere nell’agenda europea giá dall’ultima estate, favorita da paesi come Svezia e Finlandia, con una lunga tradizione di alta pressione fiscale coniugata a prosperitá e buoni servizi pubblici.

Nel nostro paese, il dibattito sulle pensioni e sulla sostenibiltá dello Stato Sociale non puó e non deve lasciare questi temi al margine. Centrare le riforme sul mercato del lavoro o sull’aumento dell’etá pensionabile é una nuova aggressione contro i i diritti da parte della oligarchia internazionale del denaro e dei suoi seguaci.

Joaquim Sempere (Professore di Teoria Sociologica e Sociologia dell’Ambiente dell’Universitá di Barcelona)

22 marzo 2010

L'acqua privatizzata? Più cara e inefficente

Bollette dell'acqua molto più salate in cambio di un servizio... peggiore. Sarebbero questi i presunti benefici della totale privatizzazione della gestione dei servizi idrici, imposta dal governo con il decreto Ronchi. In base a questa legge, approvata il 18 novembre scorso, la quota di partecipazione pubblica nelle società miste dovrà passare entro il 2015 dall'attuale 51% al 30%.

Al di là di fondamentali obiezioni di principio (può un bene prezioso come l'acqua essere gestito da società che, per loro natura, seguono la logica del profitto, invece che quella dell'interesse pubblico?) è proprio l'esperienza concreta maturata nelle città dove tali privatizzazioni sono già avvenute, per il tramite di spa a maggioranza pubblica, a sconsigliare di proseguire su questa strada.

L'esempio più citato è quello della provincia di Arezzo, che dal 1999 ha affidato il proprio servizio idrico ad una Spa a maggioranza formalmente pubblica, la Nuove Acque, dove però tutti i poteri sono di fatto nelle mani del socio privato, la multinazionale francese Suez, che ha il diritto di nominare l'amministratore delegato. Una scelta colpevolmente sostenuta in questi anni anche dal centrosinistra ma che, alla prova dei fatti, si è rivelata un errore. Anche perchè la tanto invocata concorrenza tra pubblico e privato, che secondo i "privatizzatori" avrebbe dovuto portare a un riduzione delle tariffe, non c'è stata, in quanto l'acqua continua ad essere erogata in regime di monopolio.ù

«I dati ufficiali del comitato di vigilanza risorse idriche parlano chiaro: Arezzo occupa il terzo posto nella graduatoria delle città in cui l'acqua è più cara», denuncia Stefano Mencucci, del Comitato per l'acqua pubblica del capoluogo toscano. Per parte loro, i sostenitori della privatizzazione sottolineano il presunto aumento del consumo domestico, dovuto - dicono - a un miglioramento della qualità dell'acqua che esce dai rubinetti.
Mencucci scuote la testa: «E' vero il contrario. Nonostante i nuovi allacci nel frattempo effettuati, oggi il consumo è lievemente inferiore a quello di dieci anni fa. E' vero invece che l'acqua di Arezzo è di ottima qualità. Ma non è certo merito della Nuove Acque, bensì del nuovo invaso realizzato con investimenti totalmente pubblici alle sorgenti del Tevere, pochi mesi prima della privatizzazione. Anzi, la Suez si era assunta l'impegno di portare l'acqua dell'invaso di Monte d'Oglio nei comuni limitrofi dopo tre anni, vale a dire nel 2002. Oggi siamo nel 2010 e - a parte un caso - questo non è ancora stato fatto».
Anche chi si aspettava un servizio migliore è rimasto deluso: «Attualmente gli acquedotti dell'Aato 4, consorzio che comprende 37 comuni, perdono - spiega ancora Mencucci - intorno al 35% dell'acqua, sostanzialmente la stessa percentuale che c'era al momento dell'avvento del soggetto privato». Peccato che questo deludente risultato sia stato pagato a caro prezzo dai cittadini, vista la valanga di soldi passati nelle tasche della multinazionale francese, sotto forma di consulenze e prestazioni accessorie sulla carta finalizzate proprio a ridurre le falle presenti nella rete idrica aretina. Basti dire che nel 2009 e nel 2010 la cifra percepita dalla Suez per queste "prestazioni accessorie" è stata di un milione e 269mila euro per ogni anno. Una sorta di utile fisso e garantito fino al termine della concessione, che ha una durata di 25 anni.

Spiace ricordare che l'apprendista stregone di questa operazione "a perdere" sia Paolo Ricci, all'epoca sindaco di centrosinistra e adesso presidente... di Nuove Acque. Dopo una parentesi di centrodestra, dal 2006 Arezzo è stata riconquista dal centrosinistra, inclusa Rifondazione. Purtroppo la lotta per la ripubblicizzazione, oltre a dover fare i conti con ostacoli di carattere tecnico e giuridico, sconta anche l'assenza di una vera volontà politica da parte del Pd, «a parte alcuni suoi esponenti», precisa Mencucci.

Eppure le armi di pressione non mancherebbero: «Nel momento in cui il soggetto privato non fa gli investimenti che deve fare - e questo succede tutti gli anni - si apre un contenzioso. Se chiede aumenti tariffari, non gli si devono dare», è la linea dura suggerita dal Comitato. Che confida in un successo del referendum per l'abrogazione del decreto Ronchi: «Raccoglieremo migliaia di firme», assicura Mencucci.
di Roberto Farneti

21 marzo 2010

La leggenda dell'ascensore sociale


Discutere di occupazione in questi tempi di crisi e' abbastanza complesso, anche perche' le statistiche sull'occupazione sono sempre troppo poco accurate perche' si possano fare delle deduzioni a riguardo. In particolare, nel caso italiano, ci sono alcuni dati che non si vogliono capire. E non si vogliono capire perche' essi impatterebbero troppo con il nostro modo di vivere, di pensare, di agire.
Innanzitutto, la disoccupazione non e' quel che si pensa. Le statistiche sui non occupati non distinguono, per dire, chi ha piu' prospettive da chi non ha piu' prospettive. Un 10% di disoccupati giovani e' molto diverso, per dire, da un 10% di disoccupati cinquantenni. Se il disoccupato giovane e' semplice da reinserire (relativamente, almeno) quello cinquantenne non e' affatto una questione cosi' semplice.
Cosi', comprendere quanto sia devastante il dato "10%" e' difficile: potremmo avere una grande difficolta' di ingresso sul mercato o una difficolta' a rimanerci.

Il secondo grosso problema che non vediamo e' la storia del disoccupato. Se c'e' una crisi economica e vieni dal mondo delle partite IVA, non sei realmente un "disoccupato", a seconda degli strumenti di misura: sei solo un professionista che non ha piu' clienti. Per passare alla fase ufficiale , cioe' per passare alla fase di disoccupato, occorre dichiararsi tali. Siccome queste partite IVA si mantengono tali perche' sperano di trovare clienti o di recuperare i vecchi, spesso questo non avviene.

Al contrario, il lavoratore dipendente che diventa disoccupato lo vedo subito, perche' alla fine dei conti finisce subito in una lista ufficiale.

Fatto questo, appare chiaro come una stima di disoccupazione cosi' come e' fatta (9% in UE, 10% in USA) non sia cosi' efficace. In USA non vedo la disoccupazione di chi e' freelance e di chi e' self-smployee, dal momento che sino a quando non si iscrivono a qualche sussidio per il rilevatore sono solo professionisti senza clienti.
Ci sono poi altri fenomeni, come la sottoccupazione o il calo di reddito. Se prima guadagnavo 1000 e adesso ho trovato un altro lavoro che mi da' 600, per lo stato risulta che io sia occupato come prima. In realta', cambiando lavoro cosi' dovrei dire di essere occupato al 60% rispetto a prima.

Eliminate le considerazioni sul passato, posso iniziare quelle sul futuro. A seconda della mia eta', il lavoro mi offrira' prospettive future o meno. Se prima un dipendente era dentro una multinazionale, potra' pensare di aver fatto due-tre passi di carriera negli anni successivi. Se per via della crisi e' stato licenziato ed e' andato a fare lo stesso lavoro in un piccolo negozio, il risultato e' che anche a livello di reddito non crescera' come prima nei prossimi anni.

Siamo cioe' nella situazione in cui moltissime statistiche non ci dicono quasi nulla, perche' (anche omettendo il lavoro nero) ci dicono solo quanta gente dichiara di essere senza lavoro, ma non ci dicono nulla sui cambiamenti del mercato del lavoro.

E qui andiamo alla disoccupazione italiana. La disoccupazione in Italia ha diverse cause, tra cui alcune culturali e sociali.

La prima causa culturale e' che si e' dato per scontato che l'ascensore sociale potesse crescere all'infinito. C'e' gente che si lamenta del fatto che l'ascensore sociale si sia fermato, ma proviamo a rifletterci.
Se nel 1910 avevamo 100 operai per ogni dirigente, l'idea de "ascensore sociale" e' che tutti e 100 i figli degli operai debbano (almeno in potenza) diventare dirigenti. A parte la domanda che viene spontanea (e chi lavora?) il problema e' che si tratta evidentemente di una cosa impossibile. La storia dell'ascensore sociale sarebbe possibile solo se da qualche parte ci fossero 100 operai che prendono il posto dei figli degli operai, diventati tutti dirigenti.

LA nostra scuola, figlia del mito dell' "ascensore sociale", non ha capito pero' che questa cosa non sia possibile, e si e' comportata come se l'ascensore sociale sia una realta' ineluttabile, o addirittura un principio della fisica. C'e' gente che ha enunciato come l' "ascensore sociale" sia una realta' tipica delle economie sane, cosa che non e': e' tipica delle economie che vanno al disastro.

La nostra nazione che oggi ha 100 operai e un dirigente, pretende tra una generazione di avere 100 dirigenti e non chiarisce chi fara' il lavoro degli operai. Struttura la scuola per mandare tutti (in potenza) a studiare management , dichiara che "lo studio e' un diritto" e forma generazioni di giovani che non faranno mai nulla per cui hanno studiato.

Subito dopo il fallimento dei nostri 100 ragazzi che vogliono l'ascensore sociale, si scopre che non solo non possono andare piu' in alto, ma non riescono neanche a tornare al livello dei padri, perche' non sono operai. Bisogna stare molto attenti a questa cosa, perche' di fatto ci troviamo con una nazione che non solo ha inflazionato i ruoli dei dirigenti (cosa che ne ha abbassato il reddito) , ma importa lavoro dall'estero.

Ora, torniamo al punto di partenza: una nazione di 60 milioni di persone decide che i giovani usufruiranno dell'ascensore sociale. Forti di questo mito, si sono create scuole senza sforzarsi non dico di pianificare, ma di porre dei limiti ragionevoli.

La nostra nazione ha prodotto, per decenni, giovani convinti di usufruire dell'ascensore sociale. All'inizio ha funzionato: avendo alte marginalita', le aziende hanno assunto middle management e comprato servizi , spostando all'estero la produzione, visto che i figli degli operai non vogliono piu' fare gli operai perche' devono avere l'ascensore sociale.

Ovviamente, questo processo e' stato molto piu' forte altrove che in Italia, ma oggi arriva il conto anche da noi. Questo mito dell'ascensore sociale ha prodotto delocalizzazione e cattiva immigrazione, fino a quando non ci si sta rendendo conto che l'ascensore sociale non funzioni.

E no, non e' questione della crisi: e' NORMALE che non possa esistere niente come un ascensore sociale. Quando chiude una fabbrica con 100 operai, si dice che in Italia resteranno solo servizi e management, cosi' si invitano i figli dei 100 operai ad andare a scuola di management e a darsi ai servizi. Ma poi si scopre che i servizi ed il management non rendono i 100 posti di lavoro.

Che cosa ne e' risultato? Ne e' risultato non solo che ci sia stata una delocalizzazione, ma dopo anni ed anni di una scuola che guarda solo in alto, se anche le aziende tornassero indietro non troverebbero il personale per riportare indietro il manufatturiero perduto. Provate ad appendere un annuncio di fronte ad un liceo, dicendo di cercare operai. Fatelo poco prima degli esami di maturita'. Cosa succedera'? Niente.

Tutti gli studenti preferiranno laurearsi. Bene. La media di delocalizzazione attuale in Italia e' del 7.5%. Il che significa di base che rilocalizzando si potrebbe assumere quasi tutta la disoccupazione, che e' attorno al 10%. Se pero' andiamo a vedere che cosa si sia delocalizzato, osserviamo che si e' delocalizzata la catena produttiva, non la ricerca o il management.
Non dico che sia falso che moltissimi giovani andrebbero a fare gli operai oggi. Il problema e' che se non hai fatto un buon istituto tecnico o una buona scuola professionale, non sei un operaio, sei solo "due braccia". Cosi', se rilocalizzassimo le aziende italiane il risultato sarebbe di produrre una migrazione di qualche milione di stranieri, che avendo studiato come si tiene una lima in mano lo sanno fare.

Il concetto che non si e' mai capito e' che l'ascensore sociale funziona solo se, quando i figli fanno un lavoro migliore rispetto ai padri, c'e' qualcuno (spesso all'estero) che prende il posto dei padri. Cosi', negli scorsi decenni l'illusione si e' alimentata al punto che l'accademia considera "sano" un paese con l'ascensore sociale: in realta' quello che sta succedendo a quel paese e' che i figli aspirano ad un lavoro "migliore" rispetto ai padri, e quando i padri vanno in pensione il loro posto di lavoro viene delocalizzato. Questo dara' l'illusione dell'ascensore sociale, ma in realta' e' semplicemente la prima fase della trasformazione della nazione da nazione manufatturiera a nazione inutile.

Dopo qualche anno, il risultato e' che il lavoro dei padri e' tutto delocalizzato e I PRIMI figli hanno effettivamente avuto l'ascensore sociale. Figo.

Ma i bambini continuano a nascere, e ad ogni generazione di figli c'e' una generazione di adulti che va in pensione. Poiche' esiste l'ascensore sociale, (wow) i figli NON prenderanno il posto dei padri, ma ambiranno di fare qualcosa di piu': del resto, ai giovani di dieci anni fa riusciva, perche' a noi no?

Con l'andare del tempo, sempre piu' bambini si immettono in percorsi scolastici che presumono un ascensore sociale, e sempre piu' anziani vanno in pensione senza venire sostituiti, il loro lavoro fatto all'estero. La menzogna dell'ascensore sociale ha distrutto la nazione, che si trova con giovani incapaci ,o capaci solo di telefonare, inviare email e indossare una cravatta, aziende che delocalizzano cercando qualcuno che sappia piantare un chiodo, e non ci sara' MAI modo di rilocalizzare perche', per via del mito dell'ascensore sociale, nessuno ha piu' frequentato scuole adeguate.

Certo , c'e' uyna grande litania riguardo alla scuola che prepara per il mondo del lavoro. Quando si dice questo si intende sempre il lavoro "alto", cioe' l'informatica, i servizi avanzati, eccetera. Raramente si prendono in considerazione le scuole comunali, gli istituti tecnici, le scuole provinciali, che non formavano tecnologi ma soltanto operai specializzati.

Ed e' proprio la morte dell'operaio specializzato quella che stiamo pagando carissima: oggi i casi sono due. O riesci a scuola, e allora arrivi ad una laurea e poi ti lamenti che manca l'ascensore sociale, oppure abbandoni la scuola. La via di mezzo, ovvero frequentare una scuola che in breve ti porti ad una mansione pratica e specializzata, e' sempre piu' abbandonata. Chi studia vuole diventare dottore, chi non studia si getta sul mercato a mani nude.

Manca la fascia intermedia, quelli che studiavano per diventare operai specializzati. Figure che potevano anche crescere di reddito (anche se non quanto un manager) a seconda delle lotte sindacali e della bravura, ma che non avrebbero usufruito di alcun "ascensore sociale", uscendo da scuola come operai , proprio come i padri.


Per lottare contro questo fenomeno, e' necessario innanzitutto ribaltare il concetto di ascensore sociale. Ovvero, dire una buona volta che non e' pensabile che tutti facciano un lavoro migliore rispetto ai propri padri. Certo, mentre la nazione esce da un periodo di dopoguerra o si industrializza e' possibile, ma una volta raggiunta una certa stabilita (con crescite del PIL attorno all' 1-2%) parlare di ascensore sociale e' assurdo.

E' necessario iniziare a fare uno screening del mondo del lavoro attuale, e capire quanti oggi facciano effettivamente i dirigenti, quanti gli operai, e quanti gli specialisti, eccetera. Bisogna considerare che con un aumento medio del PIL annuo dell' 1% , e iniziare a dire che no, FORSE un 1% dei giovani ogni anno potra' usufruire dell'ascensore sociale, e fare un lavoro migliore del padre. Tutti gli altri dovranno PRENDERE IL POSTO del padre.

Nessun ascensore locale.

Stampato in testa a chiare lettere che l'ascensore sociale funzionera' per un minimo di fortunati, allora sara' possibile ricostruire il tessuto lavorativo del paese, ed avra' senso per le aziende rilocalizzare. Ma se oggi quel 7% di delocalizzazione tornasse a casa, in fabbrica ci andrebbero solo stranieri, cioe' persone che non hanno master, non hanno lauree, ma sanno usare un tornio.

Il prezioso laureato italiano, che ha pianificato gli studi credendo nell'ascensore sociale, non ne usufruirebbe comunque, perche' non qualificato per un posto come operaio specializzato.

La mia opinione e' che moltissimo del disastro occupazionale italiano sia dovuto dall'aver diffuso la leggenda dell'ascensore sociale. Milioni di giovani hanno pianificato i loro studi non pensando di prendere il posto del padre (se non i figli di papa' importanti) ma nel caso dei figli di persone di classe modesta hanno pensato di poter andare ttuti avanti.

I loro padri sono andati in pensione e nessuno ha preso il loro posto, cosi' il manufatturiero si e' spostato all'estero. I loro figli , inseguendo il mito dell'ascensore sociale, avevano studiato scienze dell'informazione.

Oggi le aziende potrebbero rilocalizzare?

Nella misura in cui il ragazzo italiano e' disposto a fare una scuola tecnica, andare a lavorare a 18 anni in una fabbrica, si'. Nella misura in cui i suoi genitori lo lascierebbero fare, si'.

Ma la misura , appunto, e' molto piccola.

E cosi', un 60% di terziario non riesce piu' a vivere su un 30% di industria che non offre lavoro.

Fine della leggenda dell'ascensore sociale.

E no, nei "paesi sani" dove c'e' l'ascensore sociale che funziona il conto sara' (o meglio, e' gia') ancora piu' salato.
by Uriel

20 marzo 2010

Per un voto onesto servirebbe l'Onu



"LA DISPERAZIONE più grave che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere onestamente sia inutile. E questa disperazione avvolge il mio paese da molto tempo". È una riflessione che Corrado Alvaro, scrittore calabrese di San Luca, scrisse alla fine della sua vita. E io non ho paura a dirlo: è necessario che il nostro Paese chieda un aiuto. Lo dico e non temo che mi si punti il dito contro, per un'affermazione del genere. Chi pensa che questa sia un'esagerazione, sappia che l'Italia è un paese sotto assedio. In Calabria su 50 consiglieri regionali 35 sono stati inquisiti o condannati. E tutto accade nella più totale accondiscendenza. Nel silenzio. Quale altro paese lo ammetterebbe?

Quello che in altri Stati sarebbe considerato veleno, in Italia è pasto quotidiano: dai più piccoli Comuni sino alla gestione delle province e delle regioni, non c'è luogo in cui la corruzione non sia ritenuta cosa ovvia. L'ingiustizia ha ormai un sapore che non ci disgusta, non ci schifa, non ci stravolge lo stomaco, né l'orgoglio. Ma come è potuto accadere?
Il solo dubbio che ogni sforzo sia inutile, che esprimere il proprio voto e quindi la propria opinione sia vano, toglie forza agli onesti. Annega, strozza e seppellisce il diritto. Il diritto che fonda le regole del vivere civile, ma anche il diritto che lo trascende: il diritto alla felicità.

Il senso del "è tutto inutile" toglie speranza nel futuro, e ormai sono sempre di più coloro che abbandonano la propria terra per andare a vivere al Nord o in un altro paese. Lontano da questa vergogna.
Io non voglio arrendermi a un'Italia così, a un'Italia che costringe i propri giovani ad andar via per vergogna e mancanza di speranza. Non voglio vivere in un paese che dovrebbe chiedere all'Osce, all'Onu, alla Comunità europea di inviare osservatori nei territori più difficili, durante le fasi ultime della campagna elettorale per garantire la regolarità di tutte le fasi del voto. Ci vorrebbe un controllo che qui non si riesce più a esercitare.


Ciò che riusciamo a valutare, a occhio nudo, sono i ribaltoni, i voltafaccia, i casi eclatanti in cui per ridare dignità alla cosa pubblica un politico, magari, si dovrebbe fare da parte anche se per legge può rimanere dov'è. Ma non riusciamo a esercitare un controllo che costringa la politica italiana a guardarsi allo specchio veramente, perché lo specchio che usiamo riesce a riflettere solo gli strati più superficiali della realtà. Ci indigniamo per politici come l'imputata Sandra Lonardo Mastella che dall'esilio si ricicla per sostenere, questa volta, non più il Pd ma il candidato a governatore in Campania del Pdl, Stefano Caldoro. Per Fiorella Bilancio, che aveva tappezzato Napoli di manifesti del Pdl ma all'ultimo momento è stata cancellata dalla lista del partito e ha accettato la candidatura nell'Udc. Così sui manifesti c'è il simbolo di un partito ma lei si candida per un altro.

Ci indigniamo per la vicenda dell'ex consigliere regionale dei Verdi e della Margherita, Roberto Conte, candidatosi nuovamente nonostante una condanna in primo grado a due anni e otto mesi per associazione camorristica e per giunta questa volta nel Pdl. Ci indigniamo perché il sottosegretario all'economia Nicola Cosentino, su cui pende un mandato d'arresto, mantiene la propria posizione senza pensare di lasciare il suo incarico di sottosegretario e di coordinatore regionale del Pdl.

Ci indigniamo perché è possibile che un senatore possa essere eletto nella circoscrizione Estero con i voti della 'ndrangheta, com'è accaduto a Nicola Di Girolamo, coinvolto anche, secondo l'accusa, nella mega-truffa di Fastweb. Ci indigniamo, infine, perché alla criminalità organizzata è consentito gestire locali di lusso nel cuore della nostra capitale, come il Café de Paris a via Vittorio Veneto.
Ascoltiamo allibiti la commissione parlamentare antimafia che dichiara, riguardo queste ultime elezioni, che ci sono alcuni politici da attenzionare nelle liste del centrosinistra.

E ad oggi il centrosinistra non ha dato risposte. Si tratta di Ottavio Bruni candidato nel Pd a Vibo Valentia. Sua figlia fu trovata in casa con un latitante di 'ndrangheta. Si tratta di Nicola Adamo candidato Pd nel Cosentino, rinviato a giudizio nell'inchiesta Why not. Di Diego Tommasi candidato Pd anche lui nel Cosentino e coinvolto nell'inchiesta sulle pale eoliche. Luciano Racco candidato Pd nel Reggino, che non è indagato, ma il cui nome spunta fuori nell'ambito delle intercettazioni sui boss Costa di Siderno. Il boss Tommaso Costa ha fornito, per gli inquirenti, il proprio sostegno elettorale a Luciano Racco in occasione delle Europee del 2004 che vedevano Racco candidato nella lista "Socialisti Uniti" della circoscrizione meridionale. Tutte le intercettazioni sono depositate nel processo "Lettera Morta" contro il clan Costa ed in quelle per l'uccisione del giovane commerciante di Siderno Gianluca Congiusta.

A tutto questo non possiamo rimanere indifferenti e ci indigniamo perché facciamo delle valutazioni che vanno oltre il - o vengono prima del - diritto, valutazioni in merito all'opportunità politica e alla possibilità di votare per professionisti che non cambino bandiera a seconda di chi sta alla maggioranza e all'opposizione. Trasformarsi, riciclarsi, mantenere il proprio posto, l'antica prassi della politica italiana non è semplicemente una aberrazione. È ormai considerata un'abitudine, una specie di vizio, di eventualità che ogni elettore deve suo malgrado mettere in conto sperando di sbagliarsi. Sperando che questa volta non succeda. È un tradimento che quasi si perdona con un'alzata di spalle come quello d'un marito troppo spensierato che scivola nelle lenzuola di un'altra donna.

Ma si possono barattare le proprie attese e i propri sogni per la leggerezza e per il cinismo di qualcun altro?
Oramai si parte dal presupposto che la politica non abbia un percorso, non abbia idee e progetti. Eppure la gente continua ad aspettarsi altro, continua a chiedere altro.

Dov'è finito l'orgoglio della missione politica? La responsabilità di parlare a nome di un elettorato? Dov'è finita la consapevolezza che le parole e le promesse sono responsabilità che ci si assume? E la consapevolezza che un partito, un gruppo politico, senza una linea precisa, non è niente? Eppure proprio questo è diventata, nella maggioranza dei casi, la politica italiana: niente, spillette colorate da appuntarsi al bavero del doppiopetto. Senza più credibilità. Contenitori vuoti da riempire con parole e a volte nemmeno più con quelle. A volte si è divenuti addirittura incapaci si servirsi delle parole.

Quando la politica diviene questo, le mafie hanno già vinto. Poiché nessuno più di loro riesce a dare certezze - certezza di un lavoro, di uno stipendio, di una sistemazione. Certezze che si pagano, è ovvio, con l'obbedienza al clan. È terribile, ma si tratta di avere a che fare con chi una risposta la fornisce. Con chi ti paga la mesata, l'avvocato. Non è questo il tempo per moralismi, poco importa se ci si deve sporcare le mani.

Solo quando la politica smetterà di somigliare al potere mafioso - meno crudele, certo, ma meno forte e solido - solo quando cesserà di essere identificato con favori, scambi, acquisti di voti, baratto di morale, solo allora sarà possibile dare un'alternativa vera e vincente.
Anche nei paesi dominati dalle mafie è possibile essere un'alternativa.
Lo sono già i commercianti che non si piegano, lo sono già quelli che resistono, ogni giorno.

Del resto, quello che più d'ogni altra cosa dobbiamo comprendere è che le mafie sono un problema internazionale e internazionalmente vanno contrastate.
L'Italia non può farcela da sola. Le organizzazioni criminali stanno modificando le strutture politiche dei paesi di mezzo mondo. Negli Usa considerano i cartelli criminali italiani tra le prime cause di inquinamento del libero mercato mondiale. Sapendo che il Messico oramai è divenuto una narcodemocrazia la nostra rischia di essere, se non lo è già diventata una democrazia a capitale camorrista e ndranghetista.

Qui, invece, ancora si crede che la crisi sia esclusivamente un problema legato al lavoro, a un rallentamento della domanda e dell'offerta. Qui ancora non si è compreso davvero che uscire dalla crisi significa cercare alternative all'economia criminale. E non basta la militarizzazione del territorio. Non bastano le confische dei beni. Bisogna arginare la corruzione, le collusioni, gli accordi sottobanco. Bisogna porre un freno alla ricattabilità della politica, e come per un cancro cercare ovunque le sue proliferazioni.

Sarebbe triste che i cittadini, gli elettori italiani, dovessero rivolgersi all'Onu, all'Unione Europea, all'Osce per vedere garantito un diritto che ogni democrazia occidentale deve considerare normale : la pulizia e la regolarità delle elezioni.
Dovrebbe essere normale sapere, in questo Paese, che votare non è inutile, che il voto non si regala per 50 euro, per un corso di formazione o per delle bollette pagate. Che la politica non è solo uno scambio di favori, una strada furba per ottenere qualcosa che senza pagare il potere sarebbe impossibile raggiungere. Che restare in Italia, vivere e partecipare è necessario. Che la felicità non è un sogno da bambini ma un orizzonte di diritto.
©2010 Roberto Saviano/