18 ottobre 2012

Ribellarsi è un diritto. Cominciamo?

“Chi uccide il tiranno è lodato e merita un premio” san Tommaso d’Aquino “L’albero della libertà deve essere annaffiato di tanto in tanto dal sangue dei patrioti e dei tiranni. E’ il suo concime naturale”. Thomas Jefferson Signori, abbiamo dato come “diritto acquisito” la libertà dall’oppressione. Invece , si tratta di una conquista che si deve strappare agli oppressori, facendo loro paura. Ed anche peggio: Tommaso d’Aquino, un santo, non considera omicidio l’uccisione del tiranno. Oggi, i tiranni e oppressori sono numerosissimi e insaziabili del nostro denaro: sono i politici che abbiamo votato e i loro compari imbucati nel settore pubblico. con mezzi legali non è possibile cacciarli dal poteere, perchè costoro hanno “occupato” la legalità: si aumentano gli stipendi “per legge” (la votano loro), rigettano i tagli “per legge”, tormentano noi cittadini con la burocrazia, ci perseguitano chiamandoci evasori, ed è tutto legale. Noi cittadini, che li paghiamo, siamo sottoposti a soprusi, punizioni arbitrarie intollerabili. Equitalia può bloccarci i conti correnti e le carte di credito, sequestrarci automezzi ed altri beni, senza nemmeno avvertirci: non esiste più il diritto di proprietà in Italia. Le pubbliche persecuzioni hanno portato al suicidio decine di imprendotori, e tutto “legalmente”. La democrazia di fatto non esiste più: i nostri politici hanno ceduto la sovranità popolare che gli avevamo delegato, all’eurocrazia di Bruxelles e alla Bce, entrambi organi non-eletti, fattidi individui coooptati non sappiamo come. E alla fine hanno ceduto il loro “dovere” di governare ad un gruppo di “tecnici” guidati da un presidente della Commissione Trilaterale e da banchieri, a loro volta agli ordini di uno speculatore di Goldman Sachs, Mario Draghi, e di governi stranieri (Berlino). Logica e giustizia voleva che i nostri politici, dopo aver così auto-certificato la loro nullità e inutilità, se ne tornassero a casa. Invece, hanno mantenuto per sé una sola “sovranità”: quella di aumentarsi gli emolumenti a piacere, e di arraffare “contibuti elettorali” e “ai gruppi” che costano miliardi. Con voto unanime, quindi del tutto “legale”. Il supremo tempio del diritto, la Corte Costituzionale, come abbiamo visto, ha dichiarato incostituzionale il taglio degli stipendi loro (400-600 mila euro annui) e degli altri miliardari di stato. La magistratura gode di una totale impunità, e può commettere gravissimi soprusi contro la libertà dei cittadini. Ne elenco tre: intercettare chiunque in qualunque momento, come il vecchio Kgb sovietico. Incarcerare preventivamente innocenti (Kgb). Scegliere come testimoni privilegiati dei criminali comprovati e già giudicati, i “pentiti” (definiti non a caso “collaboratori di giustizia” e stipenditi: in pratica diventano funzionari ausiliari della magistratura) dando loro la libertà di accusare calunniosamente gli avversari politici dei giudici, senz a obbligo di portare prove oggettive. Basta la parola di criminali, meglio se pluriomicidi mafiosi. La parola di testimoni onesti, invece, non vale nulla senza i “riscontri oggettivi”. Quando la volontà del popolo s’è espressa con inequivocabile chiarezza e con “referendum”, dichiarando sua volontà di votare col sistema di voto maggioritario, la responsabilità civile dei giudici, l’annullamento del finanziamento pubblico dei partiti – tutto il sistema “democratico” e “legale” s’è adoperato per calpestarla. Non abbiamo il voto maggioritario, ma un proporzionale corretto, perchè faceva comodo a loro. I magistrati non pagano i loro errori. I partiti, sappiamo come continuano ad arraffare impunemente. Eppure il referendum è il mezzo più legale e legittimo della volontà popolare, scritto nella Costituzione. Chi doveva farlo rispettare? Il presidente della repubblica, la Corte Costituzionale. Non hanno fatto nulla. LA volontà popolare espressa costituzionalmente è stata calpestata, e loro l’hanno lasciata calpestare. Perchè sono parte del potere occupante, del sistema di Dispotismo che si autonomina “democrazia”. Ebbene: questo avviene perchè siamo stati troppo passivi. Perchè a molti di noi faceva comodo, molti hannno ricevuto qualche beneficio d alla “legalità sequestrata”, la maggioranza per paura: questi oppressori, come tutti gli oppressori, si sono anche accaparrati la forza pubblica ed esercitano la violenza contro di noi. Molti cittadini, probabilmente, pensano sia “illegale” sbattere fuori ccon la forza questi mascalzoni. E’ un dovere. C’era un articolo (art.50 secondo comma) che lo dichiarava, nella bozza della nostra Costituzione: “Quando i poteri pubblici violino le libertà fondamentali ed i diritti garantiti dalla Costituzione, la resistenza all’oppressione è diritto e dovere del cittadino”. Questa frase fu proposta dai democristiani, Dossetti e Moro, nel 1947. Fu in seguito cancellata perchè la guerra fredda infuriava, e si temeva desse un’arma in più al più potente partito comunista dell’Occidente (già allora metà del nostro popolo, della libertà se ne fotteva: era pronta a darla a Mosca). Ma ciò non significa che la resistenza all’oppressione sia diventata illegale. Al contrario, è una conseguenza diretta della sovranità popolare: chi ha “occupato” i poteri pubblici e li gestisce in modo da violare i diritti fondamentali dei cittadini, deve essere cacciato. Noi cittadini viviamo, ormai è chiaro, sotto occupazione. Spogliati da un occupante, che non ha il minimo interesse alla prosperità comune, alla giustizia e all’equità. Bisogna re-imparare a resistere. E’ dura, saremo minoranza, dovremo entrare in clandestinità, rischiamo il carcere (preventivo, ossia la tortura), la persecuzione giudiziaria e fiscale. Ma se non ci ribelliamo, ci faranno sempre eggio. L’albero della libertà deve essere annaffiato di tanto in tanto dal sangue dei patrioti e dei tiranni. E’ il suo concime naturale. di Maurizio Blondet

17 ottobre 2012

La singolare malattia della Monti-dipendenza

Chissà se gli italiani cominceranno a liberarsi dalla singolare malattia della Monti-dipendenza adesso che con la legge di stabilità il governo tecnico ha palesemente “toppato” o, per dirla altrimenti, è stato colto con le mani nella marmellata per avere fatto ricorso ad uno di quei mezzucci di cattura del consenso che sembravano appannaggio esclusivo di una deteriore classe politica. Che altro è difatti la mini riduzione dell'Irpef per i due scaglioni più bassi se non un tentativo di gettare fumo negli occhi? Il modesto beneficio, che secondo Monti dovrebbe costituire la prova della propensione del governo alla riduzione della pressione fiscale non appena se ne affacci la possibilità, è, difatti, accompagnato dall'aumento di un punto dell'Iva. Un aumento che, secondo i calcoli degli esperti, non solo pareggia, ma supera il beneficio Irpef anche per i contribuenti che ne usufruiscono e, soprattutto, colpisce senza compensi tutta la vasta area esente da Irpef per insufficienza del reddito (circa 8 milioni di cittadini, che è corretto definire “poveri”). Intendiamoci; la recessione economica non è colpa di Monti e va attribuita a fattori (la globalizzazione anzitutto) di molto anteriori alla intronizzazione per mano di Napolitano del governo tecnico. Monti e i suoi ministri hanno soltanto la funzione di fare accettare, se non con gradimento, con rassegnazione, provvedimenti che avrebbero provocato ben più dure reazioni in caso di varo da parte del governo Berlusconi e, in realtà, di qualunque governo politico (di qui la decisione di non sostituirlo immediatamente con un governo Bersani). Questo in realtà l'hanno capito tutti, ma non tutti (anzi pochi) sembrano rendersi conto che nulla cambierà in meglio quando Monti passerà la mano (se pure lo farà) a un politico, perché le cause della crisi economica sono tuttora vigorosamente all'opera. Mi auguro di essere cattivo profeta, ma in fondo al tunnel non s'intravede affatto la luce vagheggiata (o vaneggiata) da Monti, ma una situazione destinata a divenire per lungo o lunghissimo tempo la nuova realtà dell'Italia e dell'Europa: una realtà che fino a pochi anni fa avremmo definito da “terzo mondo”. Prendiamo la riforma delle pensioni, adesso calcolate e liquidate per rendere il sistema sostenibile sulla base dei contributi versati, il che già di per sé comporta una netta riduzione degli importi rispetto al precedente sistema retributivo. Non per nulla già da qualche anno i lavoratori vengono sollecitati a munirsi di forme integrative di previdenza e a tal fine si sono proposte varie forme volontarie di fondi-pensione. Purtroppo è fin d'ora certo che, per effetto della crisi e della conseguente difficoltà di trovare un lavoro stabile (o, peggio, una qualunque occupazione remunerata), in particolare le giovani generazioni (ma non solo loro) avranno pensioni al limite del livello di sopravvivenza, che in nessun modo potranno integrare. Difatti i lunghi periodi di disoccupazione da un lato incidono negativamente sull'importo dei contributi versati, dall'altro non consentono di destinare parte dei propri guadagni alla previdenza alternativa. Insomma il cane si morde la coda e non ci prova gusto. Al momento la situazione sociale è (quasi) sotto controllo non per merito di Monti, che anzi con il continuo aumento del costo della vita gioca all'amico del giaguaro, ma perché le generazioni da poco approdate alla pensione o sul punto di farlo hanno avuto la possibilità di risparmiare e possono dare una mano a chi il lavoro lo sta ancora cercando (e non lo trova o ha rinunciato). Tuttavia questi “anziani” relativamente fortunati non dureranno in eterno e in ogni caso la loro capacità economica e, quindi, di sostegno ai giovani, già intaccata da una esorbitante pressione fiscale, è destinata a diminuire di anno in anno, perché le pensioni, d'oro o di rame che siano, non vengono adeguate ai reali aumenti del costo della vita. L'inevitabile approdo è una generalizzata carenza di mezzi (vogliamo chiamarla col suo nome: povertà?), nella quale quasi per tutti diviene essenziale, in particolare nei momenti difficili (malattie, vecchiaia ecc.), il ricorso ai servizi pubblici, invece a loro volta oggetto di provvedimenti incidenti in negativo sul numero e l'efficienza delle prestazioni (si pensi ai continui tagli alla Sanità). Scarse le speranze di un'inversione di tendenza, dal momento che alla recessione economica si accompagna (l'ha anzi preceduta e si pone come una delle sue cause) la crisi della società civile che, malata di individualismo amorale, si mostra incapace di reagire e assiste immobile e passiva alla disgregazione di se stessa. di Francesco Mario Agnoli

16 ottobre 2012

La banca centrale pubblica argentina è un faro per la democrazia nel mondo

Quando l’equipaggio di una nave si trova in mare aperto, nel mezzo di una tempesta, e di una Tempesta Perfetta per giunta, l’unica cosa che vorrebbe disperatamente scorgere all’orizzonte è la luce di un faro. La salvezza, la terraferma. In Argentina, all’estremità sud del paese, poco più a est della Terra del Fuoco, si trova una piccola isola, quasi uno scoglio in verità, dove c’è un antico faro dal nome evocativo: il Faro della Fine del Mondo. Poco più in là c’è l’Antartide, con le sue immense distese di ghiaccio, voltandosi indietro si intravedono invece le sconfinate e rigogliose praterie argentine. E in mezzo il Faro. Un luogo magnifico ai confini del mondo, che non a caso lo scrittore francese di romanzi d’avventura Jules Verne, l’autore di “Ventimila leghe sotto i mari”, ha utilizzato per ambientare uno dei suoi libri meno conosciuti: “Il faro in capo al mondo”. In effetti a partire dal 1991, il faro argentino ha perso il primato di essere quello più a sud del mondo, perché né è stato costruito uno a Capo Horn in Cile, ma rimane sicuramente il monumento più antico e famoso, che oggi più che mai rappresenta un vero spartiacque simbolico di civiltà. Una speranza per tutti i naviganti che transitano da quelle parti e sono sommersi e travolti dalle onde della Tempesta Perfetta globale, senza sapere ancora come venirne fuori e quali strumenti utilizzare per domarla. In perfetta analogia, l’Argentina guidata dalla presidentessa Cristina Kirchner, così come il Venezuela di Chavez, l’Ecuador di Correa, la Bolivia di Evo Morales, è diventato un faro, una speranza per quei popoli del mondo, dall’Europa alla Cina passando per gli Stati Uniti, che oggi aspirano a ripristinare un regime democratico al servizio dei cittadini e dei diritti umani, dopo essere stati soppressi e repressi dall’occupazione quasi militare dei tecnocrati, dei faccendieri, dei politicanti, degli elefantiaci apparati dirigisti che lavorano alacremente soltanto per tutelare gli interessi delle lobbies finanziarie, dei comitati d’affari, delle corporazioni multinazionali. Un abisso di distanza in termini di cammino evolutivo della civiltà, che è ancora più accentuato dal fatto che la censura della propaganda di regime dilagante in Europa impedisce a noi cittadini di sapere cosa stia accadendo esattamente in Sudamerica, visto che gli organi di informazione su ordine preciso dei loro potenti committenti hanno completamente tagliato fuori dai circuiti della stampa e della televisione le notizie provenienti da quei paesi. Senza andare troppo per il sottile, il continente sudamericano è stato letteralmente cancellato dalle carte geografiche del mondo, perché i cittadini lobotomizzati e teleguidati d’Europa e degli Stati Uniti non devono sapere nulla dei cambiamenti che stanno avvenendo laggiù. I drastici mutamenti di paradigma rispetto al dogmatismo medievale dell’Occidente, con il loro cattivo esempio, potrebbero infatti spezzare di colpo la catena psicologica su cui si fonda gran parte dell’egemonia totalitarista che ci governa: TINA, There Is No Alternative, non c’è nessuna alternativa alla tecnocrazia neoliberista, si fa come dicono loro e basta. E invece, al pari di ogni altra questione che coinvolge la vita umana, l’alternativa c’è, eccome se c’è. E si chiama Argentina. La storia della crisi e successiva rinascita dell’Argentina è abbastanza nota e per certi versi, soprattutto nelle caratteristiche della fase di declino, molto simile a ciò che sta accedendo oggi nell’eurozona. Con il pretesto di creare maggiore stabilità nei rapporti commerciali con l’estero e in particolare con gli Stati Uniti, nel 1991 il governo Menem decide di ancorare il cambio del peso al dollaro, con una scellerata parità fissa di 1:1 che ovviamente apprezzava troppo la moneta argentina rispetto alla valuta statunitense. Il risultato è stato che per un certo periodo di tempo per gli argentini è stato molto conveniente importare prodotti dall’estero prezzati in dollari e questo eccessivo ricorso alle importazioni ha creato un deficit permanente nella bilancia commerciale, che è stato inizialmente compensato dal notevole afflusso di capitali e investimenti esteri. Sull’onda di questa maggiore fiducia e apertura del governo alle imprese straniere, le multinazionali americane ed europee strapparono facilmente diverse concessioni per gestire i servizi essenziali un tempo pubblici, dagli acquedotti all’energia, dall’industria estrattiva e mineraria alle telecomunicazioni, esportando i profitti in patria, lontano dall’Argentina, e ponendo le basi per un maggiore indebitamento estero del paese. Sia i titoli finanziari privati che quelli pubblici argentini, i famigerati Tango Bonds, venivano piazzati in tutto il mondo assicurando alti rendimenti agli investitori e fornendo un’illusoria parvenza di stabilità economica del paese. Si trattava però di un equilibrio molto precario e sono bastati gli effetti di contagio della crisi delle borse asiatiche del 1997 per mettere in ginocchio il paese e svelare al mondo la reale insostenibilità del suo straordinario sviluppo economico. I capitali esteri sui quali si fondava il sostanziale equilibrio contabile della bilancia dei pagamenti cominciano a fuggire dal paese, gli investitori più accorti vendono in fretta i titoli argentini per limitare le perdite e il governo si vede costretto a bruciare notevoli quantità di riserve di moneta estera per mettere in condizione i debitori di rimborsare i debiti contratti, ad imporre riforme di austerità per rastrellare liquidità dal basso e ad aumentare i tassi di interesse a livelli non più credibili, per favorire l’arrivo di nuovi capitali dall’estero. Questo circolo vizioso dura fino a dicembre del 2001 quando, sulla spinta delle proteste popolari, il governo decide di dichiarare default sul debito estero denominato in dollari, che ammontava a circa $95 miliardi, e i suoi maggiori rappresentanti sono costretti a scappare in elicottero dal paese per evitare il linciaggio. Da quel momento in poi si apre una pagina del tutto nuova nella storia dell’Argentina. Nel maggio 2003, dopo la parentesi della presidenza di Eduardo Duhalde durata due anni, viene eletto a capo del paese Nestor Kirchner, che comincia fin da subito un lungo braccio di ferro con il Fondo Monetario Internazionale per rinegoziare le condizioni di rimborso del debito: l’Argentina vuole ripagare i debiti ma secondo le sue modalità e i suoi tempi e non accettando passivamente le severe scadenze imposte dai creditori. In secondo luogo, con un piano progressivo di ristrutturazione il governo argentino si riappropria della gestione dei servizi pubblici essenziali, estromettendo le multinazionali, per consentire innanzitutto un maggior controllo sui prezzi di erogazione, e questo atteggiamento contrario agli interessi privati dei grandi colossi internazionali inasprisce i rapporti con il FMI, che delle loro logiche predatorie e parassitarie è il tutore a livello globale. A peggiorare ancora di più la situazione, Kirchner avvia politiche sociali per ridurre la povertà e la disoccupazione, cosa anche questa che fa infuriare il FMI, che proprio sulle ampie sacche di povertà e disoccupazione prodotte dalle sue stesse ricette di austerità crea i presupposti per fornire manovalanza a buon mercato per le multinazionali. Mentre continua senza sosta il duello frontale a distanza fra governo argentino e FMI, la rapida svalutazione del peso rispetto al dollaro seguita al default, che si aggira intorno al 200% con un rapporto di cambio ora più realistico e aderente alle esigenze dell’economia argentina di circa 3 pesos per un dollaro, fornisce intanto un doppio beneficio per la bilancia commerciale del paese: da un lato favorisce le esportazioni e dall’altro rende più costose le importazioni, a tutto vantaggio delle produzioni locali. Lentamente l’Argentina riesce a rimettere ordine nei suoi conti disastrati, anche se bisogna subito sottolineare, come già evidenziato in uno splendido articolo pubblicato sul blog Voci dall’Estero, che non è affatto basata sulle esportazioni la grande ripresa economica dell’Argentina, la quale dura inarrestabilmente dal 2° trimestre del 2002 fino ad oggi. Durante il periodo che va dal 2002 al 2011, lo stesso FMI certifica una crescita cumulata del PIL argentino del 94%, che equivale esattamente ad una straordinaria media annua del 9,4% (al pari se non più della stessa Cina), mentre il contributo delle esportazioni sul PIL cumulato nella fase più forte di espansione (2002-2008) si limita ad un modesto 7,6%, cioè solo il 12% del totale. Troppo poco per essere un fattore realmente decisivo e determinante. Se esaminiamo il grafico sotto possiamo in effetti notare che le esportazioni sono cresciute in valore, ma in relazione al ritmo travolgente di aumento del PIL l’apporto dell’export è diventato sempre più marginale e decrescente e se consideriamo infine il saldo netto fra export ed import avremo addirittura un risultato negativo (importazioni di poco superiori alle esportazioni). Ciò significa che la violenta accelerazione del PIL argentino è dovuta evidentemente ad altri fattori e in particolar modo proprio ai due elementi che vengono sempre ignorati nei programmi di “austerità espansiva” (un imbarazzante e assurdo ossimoro che circola impunemente nei messaggi rassicuranti della propaganda asservita, perché come stiamo sperimentando sulla nostra pelle, nel mondo reale non ci può essere mai crescita economica quando si tagliano le spese e si aumentano le tasse) promossi in Europa, negli Stati Uniti e nel mondo dalle orde oscurantiste e dogmatiche di neoliberisti al governo: l’aumento dei consumi e degli investimenti interni (rispettivamente il 45,4% e il 26,4% del totale). Entrambi questi obiettivi sono i più abbordabili da raggiungere per un governo che ha piena disponibilità della sua moneta e di tutte le leve di politica economica, a dimostrazione ancora del fatto che per avvicinare traguardi importanti e ambiziosi spesso bisogna seguire le vie più semplici e dirette, senza complicarsi la vita con gli inutili e pretestuosi tecnicismi inventati di sana piana per confondere le acque e i malsani suggerimenti di cattedratici ampollosi, arroganti, autoreferenziali, corrotti e distanti anni luce dalla realtà della vita quotidiana e dalle esigenze materiali di milioni di individui. Se vuoi aumentare i livelli di spesa, la crescita economica di un paese, devi mettere in condizione cittadini e aziende di spendere e di investire. Chi non capisce questo semplice concetto o è stupido o è stato pagato a sufficienza per far finta di essere stupido. Ma come si è potuta ottenere in Argentina un’esplosione così travolgente e rapida di tali fattori? Semplice, lo Stato argentino, sotto la guida di Nestor Kirchner prima e della moglie Cristina Fernandez a partire dal 2006, ha ricominciato ad attuare normalissime politiche economiche attive a sostegno della popolazione senza trincerarsi più dietro il vile arretramento imposto dalle cure indigeste del FMI e soci. Un esempio evidente è il programma di inserimento “Jefes de Hogar” (Capi Famiglia), tramite il quale sono stati messi a lavorare nel settore pubblico, in impieghi socialmente utili e spesso part-time, ben 2 milioni di disoccupati in un solo anno (il 13% della forza lavoro attiva), che dall’assenza di mezzi monetari hanno adesso un salario minimo garantito con cui potere soddisfare i bisogni primari del proprio nucleo familiare e programmare gli investimenti futuri. Il governo argentino ha poi direttamente organizzato progetti a livello federale, statale e locale e tra questi: grandi investimenti infrastrutturali e iniziative di riciclaggio, progetti di irrigazione e rinnovamento del suolo, assistenza sanitaria e centri diurni, pasti e rifugi per i senzatetto, biblioteche pubbliche e programmi ricreativi, agricoltura di sussistenza e programmi di assistenza agli anziani, centri contro la violenza in famiglia, e molte altre attività sociali. I posti di lavoro così creati nel settore pubblico non solo hanno prodotto reddito, occupazione, rilancio dei consumi e dell'attività produttiva, ma anche qualificazione, istruzione e formazione per tutti i partecipanti, credenziali queste che possono essere rivendute in futuro anche nel settore privato. Ma come ha potuto il governo argentino finanziare tutte queste attività? Anche in questo caso la risposta è abbastanza semplice: la banca centrale, il Banco Central de la Republica Argentina, ha rinunciato al dogma inutile e controproducente dell’autonomia e indipendenza e si è messa al servizio del governo argentino, finanziando la sua spesa pubblica tramite emissioni di nuova base monetaria (riserve bancarie elettroniche, banconote, monete metalliche). Analizzando i contributi netti al PIL cumulato nel periodo 2002-2011, avremo così che la spesa pubblica si aggira intorno alla considerevole quota del 35%: una cifra importante ma in verità molto inferiore rispetto per esempio alla spesa pubblica annuale in Italia, che supera spesso il 50% del PIL complessivo della nazione. Tuttavia, essendo stata convogliata verso finalità utili e redditizie e avendo messo soprattutto nuovi mezzi monetari nelle mani di chi per ovvi motivi ha più tendenza a spendere e consumare rispetto alla sterile tesaurizzazione precauzionale dei risparmi, la spesa pubblica argentina ha subito prodotto effetti positivi di espansione economica a tutti i livelli. Da notare anche che l’Argentina non si è volontariamente ingabbiata in frustranti vincoli di pareggio di bilancio, potendo quindi modulare il regime di tassazione progressiva e indiretta in base a quelle che sono le reali esigenze di contenimento dell’inflazione e mantenimento nel tempo del potere di acquisto del peso. In Italia invece non solo la spesa pubblica è sproporzionata e spesso inefficiente, ma i cittadini e le aziende sono pure gravati da un prelievo fiscale tra i più alti del mondo, che annulla sul nascere qualsiasi tentativo di mettere in atto politiche espansive. Mentre in Argentina si creano soldi dal nulla e questi soldi vengono spesi nell’economia reale, in Italia si prendono in prestito soldi dai mercati finanziari da spendere spesso in modo dissennato e a vantaggio di una ristretta casta di privilegiati e questi soldi più gli interessi devono essere poi prelevati dalle tasche dei comuni cittadini, dei lavoratori e delle aziende, con tutte le nefaste e inesorabili conseguenze che ciò comporta in termini di riduzione dei consumi e degli investimenti. Preso atto di queste circostanze più politiche che strettamente tecniche e della scelta suicida di sottostare ai mercati finanziari, non esiste allora alcun motivo per stupirsi o meravigliarsi se in Argentina l’economia continua a crescere mentre in Italia siamo in profonda recessione. E così strano che scelte tanto distanti fatte a monte dai rispettivi governi si riflettano poi a valle in effetti altrettanto divergenti e contrastanti? Non dovrebbe essere la semplice matematica a suggerirci che sarebbe andata a finire così? Fra l’altro il sostegno della banca centrale argentina non si limita soltanto al finanziamento dei piani di spesa pubblica del governo, ma anche ai programmi di ristrutturazione dell’intero sistema economico nazionale, avendo l’istituto appoggiato le iniziative di nazionalizzazione del settore pensionistico (niente di eccessivamente anormale o sconvolgente perché anche in Italia o in Germania gli enti di previdenza, l’INPS e il Deutsche Rentenversicherung, sono pubblici e nessuno hai mai gridato allo scandalo, accusandoci di statalismo) e delle maggiori imprese di estrazione petrolifera, come nel caso della YPF che prima era in mano alla spagnola Repsol. Queste operazioni del governo argentino sono state necessarie non solo per garantire ai cittadini l’erogazione dei servizi essenziali e la proprietà pubblica delle risorse strategiche, ma anche e soprattutto per difendersi dall’ostilità dei mercati finanziari e dal mancato afflusso di capitali esteri: se i profitti delle multinazionali straniere della finanza e del petrolio se ne vanno all’estero e contemporaneamente nessuno porta nuovi capitali, è chiaro che in assenza di queste drastiche scelte di riappropriazione a tappe forzate delle primarie risorse finanziarie e naturali, l’Argentina sarebbe stata stretta in breve tempo in una nuova morsa dell’indebitamento estero. A parte che bisogna ancora capire cosa ci sia di tanto immorale e sacrilego (agli occhi dei funzionari del FMI e degli squali di Wall Street naturalmente, non dei nostri) nel garantire ai cittadini di uno stato democratico e civile la continuità di erogazione della pensione, dell’elettricità, del gas, del carburante, visto che le privatizzazioni hanno storicamente arrecato più abusi, inefficienze e rendite di posizione, che reali vantaggi per i consumatori. E poi, non è umanamente più giusto e razionale che i profitti ricavati dalle risorse naturali di un territorio vengano redistribuiti tra i cittadini di quel paese, invece di arricchire i forzieri di pochi soggetti privati e persino stranieri? Domande davvero pesanti e improrogabili, a cui l’Argentina ha già risposto con fermezza, mentre i nostri governanti farlocchi e mercenari si ostinano ad abbozzare risposte approssimative e balbettanti, non più accettabili come chiusura definitiva e conclusiva del discorso. Si tratta dunque di quel radicale cambio storico di paradigma di cui abbiamo accennato all’inizio, che l’Argentina sta perseguendo con coraggio e determinazione e ha già messo in crisi parecchie volte le vecchie e sclerotizzate plutocrazie occidentali, che ancora hanno in patria la necessaria forza politica e finanziaria per tenere sotto scacco interi governi, sindacati, mezzi di informazione, opinione pubblica. Ma probabilmente il ribaltamento più interessante e rivoluzionario riguarda appunto lo stesso ruolo della banca centrale, che in Occidente riveste obblighi di tutela degli interessi privati e di stabilità dei prezzi, mentre in Argentina ha più decisamente intrapreso la strada della lotta alla disoccupazione e alla povertà, del sostegno all’economia reale, della stabilità finanziaria nel suo complesso, di cui il contenimento dell’inflazione rappresenta solo un tassello importante ma non prioritario. E i risultati raggiunti sembrano fino ad oggi premiare tutte le scelte fatte dalla banca centrale argentina perché la disoccupazione è scesa dal devastante 54% del 2001 all’8,3% (meno di Italia e Stati Uniti, e nulla in confronto ai livelli occupazionali e ai disagi sociali di Spagna e Grecia), il salario minimo garantito è cresciuto di ben otto volte, il PIL è in continua ascesa, il debito pubblico è diminuito dal 166% al 48%, gli interessi sul debito sono passati dal 21,9% al 6% del bilancio, il tasso di povertà è crollato dal 45% al 14%, con la povertà estrema ben inferiore al 7% (vedi grafico sotto). Dati entusiasmanti che fanno impallidire gli inqualificabili governi del rigore e dell’austerità disseminati in tutta Europa, in cui questi indici di prestazione economica e sociale sono tutti inesorabilmente e drammaticamente in caduta libera. L’unica vera incognita in questa carrellata di successi di politica economica è il dato sull’inflazione che secondo fonti governative sarebbe intorno al 10% annuo, mentre secondo i calcoli degli analisti del FMI avrebbe già sforato il 25%. Ed è proprio su questa interminabile diatriba riguardo ai tassi di inflazione e di crescita che è nato l’acceso scontro al vertice fra le due Cristine (descritto magistralmente dal grande Sergio di Cori Modigliani sul blog Libero Pensiero). La battagliera presidentessa argentina risponde colpo su colpo all’algida e inflessibile direttrice del FMI Christine Lagarde, che proprio in questi giorni ha estratto il primo cartellino giallo nei confronti dell’Argentina in attesa di ricevere dati economici più affidabili entro dicembre, ottenendo in tutta risposta la pronta replica di Cristina Kirchner: "il mio paese non è una squadra di calcio. È un paese sovrano e, come tale, non ha intenzione di accettare una minaccia". La situazione insomma è abbastanza compromessa e surriscaldata, ma in questa contesa cruciale per il destino e il significato stesso della sovranità democratica di una nazione, l’Argentina per nostra fortuna non intende arretrare di un passo, potendo contare sull’appoggio degli altri paesi sudamericani alleati e facendo da apripista per tutti quegli stati non più sovrani che vorrebbero magari in un prossimo futuro svincolarsi dalla stretta mortale del FMI e dell’Unione Europea (sono la stessa cosa, perché uno è il corollario dell’altra e viceversa), come la Grecia, la Spagna e la stessa Italia. In effetti, numeri alla mano, basterebbe solo mettersi d’accordo su quali beni e servizi considerare all’interno del paniere come base di calcolo dell’inflazione e il discorso sarebbe chiuso univocamente, anche se rimarrebbe ancora aperta la questione dell’aumento fittizio dei prezzi di alcuni prodotti agricoli ed alimentari dovuto alla speculazione finanziaria e alle scommesse sui derivati future. Fra l’altro, come ha già dimostrato l’ottimo Giovanni Zibordi sul sito Cobraf, si potrebbe procedere anche ad un calcolo indiretto dell’inflazione tramite il tasso di cambio delle valute nazionali in un regime di cambi flessibili, dato che tale rapporto riflette più o meno i livelli relativi dei prezzi interni ai due paesi presi in esame. A parte infatti le compravendite di moneta che avvengono a titolo puramente speculativo sui mercati valutari, un residente di un paese cambia la sua valuta in una valuta estera solo quando deve comprare dei prodotti da importare da quel dato paese e quindi lo stesso tasso di cambio delle due divise si allineerà in un certo senso al prezzo dei prodotti che verranno scambiati nei flussi incrociati fra i due paesi: più alto sarà il differenziale di inflazione del primo paese rispetto al secondo e maggiore sarà la svalutazione della sua moneta rispetto alla moneta del secondo paese, perché a parità di volumi di merci scambiate sarà più elevata l’offerta di moneta del paese più inflativo rispetto a quella del paese meno inflativo. Utilizzando questo semplice meccanismo, se confrontiamo il valore iniziale di cambio nel 2002 di 3 pesos per 1 dollaro con quello attuale di 4,7 pesos per un 1 dollaro avremo una svalutazione complessiva del peso del 56% rispetto al dollaro, e ricavando nel periodo considerato un’inflazione media negli Stati Uniti pari al 2,5%, avremo che l’inflazione media annua in Argentina in questi ultimi dieci anni sarebbe stata intorno all’8,1%, ben lontana dai picchi del 25% annui stimati dal FMI. Questo è lo stesso motivo per cui oggi possiamo dire con pochi margini di errore che l’uscita dall’euro della Grecia comporterebbe una svalutazione del 70% della nuova dracma nei confronti dell’euro, perché la somma dei suoi differenziali di inflazione rispetto alla media europea porterebbe a questo risultato. Mentre per la medesima ragione, a prescindere dai numeri catastrofici e dagli allarmismi ingiustificati sparsi a caso dalla propaganda per terrorizzare la gente, la svalutazione della lira sarebbe intorno al 20%. I numeri non sbagliano, mentre le voci di popolo sono e rimarranno sempre voci di popolo. Ma a parte i semplici strumenti analitici dell’economia che porterebbero a smontare la tesi del FMI e tralasciando per il momento il fatto che questi conteggi manterrebbero sempre un certo grado di approssimazione per la solita storia della differenza sostanziale di calcolo dell’inflazione negli Stati Uniti e in Argentina, la faccenda è più prettamente politica, morale, filosofica che tecnica. Quello che l’Argentina sta cercando di dimostrare al mondo intero è che l’inflazione non può essere considerato l’unico parametro di valutazione dello stato di salute e benessere di un paese, perché ne esistono molti altri, primi fra tutti i dati sull’occupazione e la povertà, e su questo versante non ci sono dubbi che l’Argentina sia un paese virtuoso perché sta utilizzando tutti gli strumenti fiscali e monetari a disposizione nel solo interesse del bene del suo popolo. Mentre al contrario, l’Europa con la sua maniacale e ossessiva fissazione sul dogma della bassa inflazione di derivazione monetarista e neoliberista, sta portando alla deriva la stabilità sociale, inasprendo i conflitti e creando immense sacche inferocite di disoccupati e nuovi poveri. Per capire meglio questo concetto, sarebbe opportuno rileggere con molta attenzione le parole del giovane economista argentino Ivan Heyn, morto suicida in un albergo a Montevideo a dicembre scorso in circostanze sospette, dopo aver partecipato “guarda caso” ad un turbolento incontro con i funzionari del FMI: “Che cosa me ne importa a me di avere un’inflazione al 3% come avete voi in Europa essendo infelici tutti, se io posso dare felicità alla mia nazione con un’inflazione al 30%? Lo so da me che va abbassata, ho studiato economia anch’io. Lo faremo. Ma lo faremo soltanto quando ci saremo ripresi tutti. Non prima. La felicità ha valore soltanto se può essere condivisa collettivamente, è una teoria economica, questa, e mi meraviglio che lei che viene dal Primo Mondo non lo sappia. La felicità per pochi privilegiati, non è vera felicità, è avidità bulimica. E’ un peccato mortale. Lo sa anche il papa. E noi siamo cattolici” (frase tratta sempre dal blog di Sergio di Cori Modigliani, che conosce molto bene come vanno realmente le cose in Argentina avendoci vissuto per parecchi anni). Una dichiarazione molto simile per certi versi agli illuminanti e memorabili discorsi dell’indimenticato presidente partigiano Sandro Pertini, quando diceva che un popolo povero, affamato, poco istruito, privo di giustizia sociale non può essere libero e la libertà è il maggiore valore fondante di una democrazia. E’ chiaro che in una fase di crescita economica tumultuosa come questa, il dato secco dell’inflazione passa in secondo piano rispetto ai parametri da cui può eventualmente scaturire un’impennata improvvisa dell’inflazione, che malgrado tutti i tentativi diffamatori e lesivi in Argentina non c’è ancora stata: livello di piena occupazione, saturazione della capacità produttiva, politiche salariali troppo espansive, aumento della domanda aggregata non più corrisposto da un contemporaneo aumento dell’offerta aggregata, mancanza di controllo sui prezzi, squilibri permanenti nelle partite correnti con l’estero. Siccome l’Argentina è ancora ben lontana dal raggiungimento di questi traguardi o fenomeni tipici della fase finale di un ciclo economico, ecco che il problema dell’inflazione per tutti i funzionari del governo e della banca centrale è in realtà un falso problema. E la grintosa governatrice del Banco Central Mercedes Marco del Pont (foto sopra: ogni paese ha le donne di potere che si merita, noi purtroppo abbiamo la Bindi, la Santanchè, la Tarantola e la Fornero) può orgogliosamente dichiarare che approvando ad aprile scorso la nuova Carta Organica, l’istituto sarà legato a doppio filo con le politiche del governo rinunciando alla pretesa di autonomia che non porta a nulla, tranne alla deflazione e recessione perenne. E secondo il nuovo statuto la missione primaria e fondamentale della banca centrale argentina non sarà soltanto “preservare il valore della moneta ma includerà anche lo sviluppo economico con giustizia ed equità sociale, l’occupazione e la stabilità finanziaria”. Un vero schiaffo di sfida nei confronti di tutti i principi antidemocratici e i valori antiumani su cui si è fondata nel tempo la supremazia schiacciante e scriteriata della finanza rispetto alle istanze razionali ed etiche degli stati ancora sovrani di gestire l’economia in modo sostenibile e solidale: 1) Lo sviluppo economico non piace alla finanza, perché quando i redditi si espandono, gli affari vanno bene, i debitori pagano i creditori, è difficile mettere in atto strategie di espropriazione di ricchezza ed estrazione di valore dal basso verso l’alto 2) La giustizia e l’equità sociale è una vera bestemmia per la finanza, che ha costruito le sue fortune sulla più diseguale redistribuzione e concentrazione di ricchezze nelle mani di pochi oligarchi che il mondo abbia mai conosciuto 3) L’occupazione non è mai stato un reale obiettivo della finanza, visto che, a parte gli istantanei guadagni speculativi sulle aspettative e sui dati forniti periodicamente dal governo, produce una maggiore spinta al rialzo dei salari dei lavoratori e minori rendimenti e profitti per gli investitori 4) La stabilità finanziaria non è mai stata una condizione propizia per chi vive di rendita e di speculazione, dato che riduce la volatilità dei titoli e la possibilità di fare grandi profitti in poco tempo. Non ci stupisce quindi tutta questa ostilità nei confronti dell’Argentina, sospinta e sobillata dagli ambienti che contano di Wall Street, della City di Londra, di Berlino, di Parigi, di Hong Kong, di Tokyo. Una carta di intenti di questo tipo avrà fatto sussultare sulla sedia migliaia di manager e dirigenti di grandi gruppi finanziari, che credono ancora per abitudine e convenienza che la banca centrale sia soltanto un ente privato al loro servizio, il cui unico scopo sia quello di fornire quantità illimitate di liquidità a comando e di mantenere nel contempo un alto valore e potere di acquisto degli immensi patrimoni accumulati. Un’istituzione chiusa e relegata al solo settore bancario e finanziario, come un vero e proprio Fortino Militarizzato di Ricchezze, che ha l’obbligo categorico di frenare qualunque assalto della società civile, dello Stato e della cosiddetta economia reale, ogni volta che questi ultimi rivendicano il sacrosanto diritto di avere i mezzi di pagamento necessari per una corretto funzionamento dei flussi commerciali e una migliore redistribuzione delle risorse finanziarie. Non a caso le riviste patinate più vicine al mondo finanziario hanno subito inserito la governatrice argentina Del Pont nella lista dei 10 peggiori banchieri centrali del mondo, basandosi evidentemente soltanto su preconcetti, pregiudizi o semplice antipatia personale perché in verità dati reali che confermino inconfutabilmente l’incompetenza e inefficienza della funzionaria ancora non ne esistono. La solita accusa meccanica e infondata che l’eccessivo ricorso alla creazione di nuova base monetaria, volgarmente chiamata “stampa di moneta”, porterà prima o dopo all’iperinflazione della Repubblica di Weimar o dello Zimbabwe dimostra invece una totale ignoranza dei meccanismi moderni di circolazione della stessa base monetaria (formata per il 97% da riserve bancarie elettroniche e solo per il restante 3% da banconote e monete metalliche), che è praticamente tutta interna al circuito interbancario, emergendo in superficie soltanto quando le banche concedono prestiti ai clienti o i clienti stessi prelevano allo sportello questi soldi virtuali ottenendo in cambio banconote. Solo così le famose banconote, che passando rapidamente di mano in mano farebbero aumentare la velocità di circolazione del denaro e innalzare di conseguenza l’indice dei prezzi al consumo, avrebbero un reale effetto inflativo, mentre in caso contrario l’unico modo in cui un banchiere centrale potrebbe assumersi la diretta responsabilità di aumentare la quantità di moneta circolante e produrre inflazione è quello di lanciare banconote da un elicottero. Con buona pace di tutti gli incalliti e retrogradi monetaristi, neoliberisti, devoti della sacralità dell’autonomia, della bassa inflazione e della rarefazione monetaria, il sistema monetario moderno funziona così e prima o dopo dovranno farsene una ragione. E’ l’inflazione a trainare la maggiore offerta di moneta da parte della banca centrale e non viceversa, così come è sempre l’inflazione ad influenzare in prima battuta la svalutazione della moneta e non viceversa (in seconda e terza battuta rientrano invece gli squilibri delle partite correnti con l’estero e le compravendite di moneta sui mercati valutari). L’esperienza del Canada, che ha una banca centrale simile a quella argentina autorizzata a supportare direttamente il governo e a partecipare alle aste primarie di collocamento dei titoli di stato (come accadeva in Italia prima del divorzio fra Ministero del Tesoro e Banca d'Italia del 1981), è abbastanza emblematica: malgrado la banca centrale abbia da sempre “stampato” moneta in accordo con il governo, in Canada, dal dopoguerra ad oggi, non abbiamo mai assistito a fenomeni iperinflazionistici. In sistemi invece meno solidali nella collaborazione con i governi e più orientati a foraggiare illimitatamente i circuiti bancari privati, come quello degli Stati Uniti, Gran Bretagna, Giappone, le rispettive banche centrali hanno allagato il mercato interbancario con immense iniezioni di liquidità, attraverso le cosiddette operazioni di quantitative easing, senza che questo diluvio abbia aumentato di un centesimo di punto percentuale l’inflazione percepita. Una simile circostanza è giustificata dalla semplice considerazione che queste quantità incalcolabili di riserve bancarie elettroniche sono appunto riserve e a parte l'irrisoria percentuale di richieste di conversione in banconote circolanti da parte dei clienti delle banche, il loro destino è già segnato: vengono custodite gelosamente nei conti di deposito dei singoli istituti presso la banca centrale in qualità di asset infinitamente negoziabile e liquido, trasferite senza sosta da un conto all’altro in cambio di titoli, utilizzate per compensare i pagamenti incrociati fra una banca e l’altra, senza mai vedere la luce del sole. L’unico modo, ripetiamo, per aumentare la massa di moneta circolante, ovvero i nostri depositi bancari e le banconote, è una maggiore attività creditizia delle banche commerciali, che come sappiamo può avvenire solo quando esiste una reale domanda di prestiti del mercato, sono verificate le garanzie fornite e i parametri di rischio del debitore, sono rispettati i requisiti patrimoniali della banca come richiesto dagli accordi bancari internazionali di Basilea. E sappiamo purtroppo per esperienza che quando l’attività creditizia delle banche è fuori controllo (boom), non solo ci sono rischi incombenti di inflazione (magari limitati ad un solo settore, come quello immobiliare), ma anche reali possibilità di nascita di bolle speculative che coinvolgono a cascata tutti gli altri settori, gli altri paesi fino a creare le premesse di interminabili crisi finanziarie globali. Così come sappiamo che quando l’attività creditizia si riduce drasticamente (crunch), la scarsità di moneta circolante che ne deriva può creare disastrosi effetti di deflazione dei prezzi, dei salari e depressione di un’intera economia. Gli enti governativi di vigilanza, in perfetta sintonia con le politiche monetarie di controllo dei tassi di interessi della banca centrale, dovrebbero essere efficienti e tempestivi abbastanza per mantenere un dosaggio equilibrato e stabile dell'attività creditizia, intervenendo direttamente solo in caso di evidenti deviazioni sia nell'uno che nell'altro verso. L’Argentina quindi, alla faccia di tutti i suoi detrattori, parte avvantaggiata sul versante della prevenzione dell’inflazione (e deflazione) anche per questo motivo: ha un settore bancario molto ridotto e in gran parte nazionalizzato, un’attività creditizia scarsa e frammentaria, un controllo di vigilanza molto preciso e puntuale da parte della sua banca centrale. Con queste premesse, è difficile che ci possano essere nell'immediato aumenti imprevisti di moneta circolante, eccessi di debito privato e quindi eventuali pericoli di inflazione, che non siano direttamente collegabili alla sola spesa pubblica dello stato, ed è forse questo il maggiore fattore che ha determinato il successo economico dell’Argentina: non la statalizzazione massiccia, ma la concentrazione dei flussi finanziari all’interno di canali molto esegui, visibili e facilmente controllabili. Al contrario di ciò che accade in Europa, negli Stati Uniti, in Giappone, non esistono in Argentina grandi gruppi finanziari e gigantesche corporazioni predatorie, fondi pensioni privati, banche ombre (shadow banks), banche d’affari, banche d’investimento specializzate in strumenti derivati, che possono soggiogare lo stato, orientare le scelte politiche e reprimere a loro vantaggio le richieste dell’economia reale sempre più allo sbando. Come dimostrato in un recente studio dal titolo già di per sé molto eloquente “Too much finance?”, scritto da tre importanti economisti, tra cui l’italiano Ugo Panizza, per conto dello stesso FMI, non esiste un collegamento diretto fra le dimensioni del settore finanziario e la crescita economica di un paese, anzi i dati dimostrano che aree con imprese finanziarie molto sviluppate, aggregate e ramificate spesso soffrono di prolungati periodi di recessione, mentre regioni in cui il settore finanziario è trascurabile, limitato e controllato sono protagoniste di altrettanti fasi di espansione economica. Un'evidenza empirica che ancora una volta da ragione alle scelte intraprese dall’Argentina e dovrebbe mettere in guardia tutti i ministeri dell’economia e delle finanze, gli enti di vigilanza e le banche centrali sparse nel mondo. L’unico serio rischio che corre l’Argentina è quello dell’isolamento, promosso dallo stesso FMI e dal boicottaggio delle nazioni neoliberiste europee, asiatiche, americane, che a lungo termine può compromettere la stabilità dei conti esteri. Ma anche qui la combattività del governo e della banca centrale, ispirata forse dal temperamento delle due donne al comando, non mostra segni di cedimento e in questi ultimi anni l’Argentina ha addirittura raddoppiato le sue riserve monetarie in valuta estera, che saranno utili per difendere o allentare in via preventiva la forza di cambio della valuta nazionale in caso di attacchi speculativi e per evitare ulteriori fughe di capitali all’estero, dovute principalmente ai timori di eccessiva fragilità della divisa nazionale. Considerando l’attuale situazione di equilibrio delle partite correnti della bilancia dei pagamenti, l’Argentina può dormire ancora sonni tranquilli, anche se prima o dopo parte delle sue riserve valutarie dovranno essere destinate al pagamento delle rate del debito estero congelato alle fasi immediatamente successive la dichiarazione di default del 2001. Nonostante però tutte le cupe previsioni di crollo imminente, l’ ultimo avviso ai naviganti potrebbe essere questo: non abbiate paura, panico, timore di osare, di capire, il Faro argentino rimane sempre lì, invisibile soltanto agli occhi di chi non lo vuole vedere. E un giorno non tanto lontano, se non verremo sospinti dalla tempesta sulle terre gelide dell’Antartide, è possibile che la sua luce intensissima indichi la via agli sparuti naufraghi dell’Occidente e a tutti coloro che sono ancora accecati dai bagliori fatui della propaganda di regime. In fondo, come dicono i Maya, il Giorno della Fine del Mondo si sta avvicinando a grandi passi e per evitare strane sorprese, sarebbe meglio prepararsi per tempo, prendendo spunto da chi è già in salvo e al sicuro. di Piero Valerio

15 ottobre 2012

Domare i banchieri non è facile come domare i tori

Ovviamente tutti sanno che in nessun caso è facile domare un toro, anzi, è del tutto impossibile. È vero che qui in Texas, nei numerosi rodei che vengono organizzati un po’ ovunque, diversi cow boys si cimentano nella gara a chi resiste di più in groppa ad un toro inferocito, ma solo i campioni resistono più di una dozzina di secondi, e molti finiscono a terra molto prima, qualcuno con un po’ di ossa rotte. Quindi quello che voglio dire è che, se domare i tori è impossibile, anche sperare di piegare i banchieri a fare ciò che non vogliono lo è in uguale misura. Loro sono troppo più forti di quelli che vorrebbero cavalcarli per accettare di essere cavalcati. Perché ho fatto questa similitudine? Perché proprio in questi giorni qualcuno in Europa ha finalmente avanzato una proposta, pur piccola ma seria, per risolvere il problema delle banche europee diventate troppo grosse. Essere grosse fa bene alle banche (finché non arrivano le crisi) ma fa male alla gente, perché quando le banche sono troppo grosse fanno quello che vogliono limitandosi (più o meno) a rispettare ciò che impongono le leggi. Includendo però in questo assunto anche il potere occulto di ottenere dai Parlamenti le leggi che fanno loro comodo. Ma quanto sono grandi queste banche per riuscire ad imporre a nazioni intere, e persino a grandi federazioni di Stati, come gli USA e l’Europa, i loro interessi? Lo dice, con una semplice comparazione, Jan Pieter Krahnen professore di Scienza delle Finanze all’Università di Francoforte (Germania): l’insieme di tutto il patrimonio delle banche europee è pari al 350% il volume di tutto il Prodotto Lordo della Comunità Europea. Vale a dire che le banche europee amministrano un patrimonio (cioè capitale proprio + debiti) che è tre volte e mezzo il valore di tutto quello che si produce in Europa. Ciò può significare due cose: o che hanno molte operazioni sull’estero, o che hanno in deposito nel patrimonio molta aria fritta (leggi: crediti inesigibili). Probabilmente sono vere un po’ entrambe le cose. Ma per capire l’entità, e l’anomalia, di questa cifra, basta fare il raffronto con lo stesso parametro calcolato sugli Stati Uniti: l’insieme patrimoniale di tutte le banche USA è pari all’80% del volume di tutto il Prodotto Lordo statunitense. Quindi si capisce agevolmente che le banche europee sono largamente sottocapitalizzate e pertanto sottoposte ad un livello del rischio di default (fallimento) molto più elevato. Si capisce altrettanto bene però che con queste dimensioni patrimoniali nessun paese si può permettere di far fallire le proprie banche e pertanto... “a mali estremi, estremi rimedi”, si salvano le banche sostenendole con aiuti di Stato (in inglese il “bailout”), oppure con le nazionalizzazioni (sempre più rare però, perché non conviene ai banchieri). Quindi il famoso “too big to fail” (troppo grandi per fallire) pronunciato nel 2008 come motivo per salvare con denaro pubblico le grandi banche americane, è tuttora in piena applicazione anche in Europa, soltanto che, visto cosa stava per succedere negli USA, gli europei non si azzardano a lasciarne fallire nemmeno una (di quelle molto grosse). Fino a circa metà degli anni 90 esisteva sia in Europa che in America una legge che teneva nettamente separata l’attività delle banche ordinarie da quella delle banche d’affari o d’investimenti (dette anche di medio-termine). Per effetto di questa legge in Italia le banche ordinarie potevano fare solo operazioni ordinarie con durata fino a 18 mesi, gli Istituti di credito a medio termine potevano fare solo operazioni con durata da 18 mesi in su. La differenza sostanziale però era nella forma di approvvigionamento dei capitali necessari a finanziare queste attività. Le prime (le banche ordinarie) si finanziavano massimamente con i depositi dei correntisti e con i depositi del risparmio a breve. Le seconde (gli Istituti di medio termine), non avendo sportelli per i conti correnti, si dovevano finanziare con l’emissione di certificati di deposito, perlopiù vincolati fino a scadenza, superiore ai 18 mesi. In questo modo veniva evitato che il denaro depositato a breve andasse a finanziare prestiti a scadenza lontana. Con l’invenzione della “cartolarizzazione” del debito, cioè la trasformazione di un debito a scadenza lunga (per es. i mutui) in titoli a risparmio trattati quotidianamente in borsa, si è pensato che quella prudenza non fosse più necessaria (Greenspan convinse Clinton in questo senso) e la legge venne abolita prima negli USA e poi in tutta Europa. Ma nel 2008 si è visto che quell’assunto era solo un illusione. Il mercato non si regola da solo, compete e basta. Lo squilibrio che si era formato tra un debito di durata ultradecennale (i mutui di 20 o 30 anni) e il loro derivato finanziario, trasformato in titoli al portatore che possono essere messi all’incasso tutti insieme nella stessa giornata, ha funzionato finché il mercato delle case e quello dei mutui è stato in crescita, ma quando è crollato e tutti (o buona parte) di quei possessori dei derivati finanziari hanno cercato tutti assieme di rientrare in possesso del loro credito, la crisi di liquidità è esplosa repentinamente, e le banche hanno rischiato tutte di fare la fine che ha fatto la Lehman Brother, cioè fallire. Allora qualcuno, tra i pochi nelle stanze dei bottoni che sembrano non del tutto legati al grande carrozzone, ha pensato che, non riuscendo a imporre legislativamente il ritorno della vecchia legge che separava le banche (negli Usa era la Glass-Steagall, in Italia il DPR 601), si sarebbe potuto ottenere più o meno lo stesso risultato separando quelle diverse attività all’interno della stessa banca. In Europa è stato in questi giorni Erkky Liikanen, delegato Europeo per la Banca Centrale Finlandese, a proporre ufficialmente di intervenire con la nuova regola sulle banche mettendo un differente parametro di capitalizzazione per i due comparti al fine di limitare il rischio proveniente dall’esagerata esposizione proveniente dalle operazioni sui derivati finanziari. Ovviamente, poiché il capitale proprio della banca è uno solo, il parametro diverso funzionerebbe per stabilire l’ammontare massimo delle operazioni sui derivati, che dovrebbe essere più rigido rispetto all’altro parametro, rivolto invece ad operazioni ordinarie molto meno rischiose. Questa proposta, che per le banche sarebbe certamente il male minore rispetto a quella di ripristinare le leggi anni ‘90, si scontra però con la già annunciata opposizione dei grandi banchieri, i quali lamentano che costringerebbe le loro banche a sostenere un grande onere amministrativo per creare all’interno della stessa banca due separate contabilità. Questo appare palesemente come un grande pretesto per non fare niente, dato che ogni grande banca ha già separate contabilità per ogni comparto di attività, ci mancherebbe altro! Il tutto si riunisce poi nel bilancio aggregato e consolidato. Quello che le banche non riuscirebbero a fare non è la separata contabilità, ma la capitalizzazione per mantenere adeguato il volume di attività rischiose. Questo è il principale motivo, insieme alla completa avversione per le “ingerenze” dei politici, per cui la proposta non piace e viene già contestata. Riusciranno i nostri baldi politici a fargliela digerire? È quasi impossibile. Io prevedo che il destino del povero Liikanen e dei suoi (pochi) alleati, sia lo stesso di quei cow boy che pretendono di cavalcare i tori. di Roberto Marchesi

13 ottobre 2012

Monti, i mercati e le alternative ai tecnocrati

Con le elezioni politiche all’orizzonte, nel dibattito pubblico non c’è traccia di una riflessione profonda sui contenuti e sui programmi sui quali gli italiani saranno chiamati a votare. Per questo abbiamo chiesto ad Augusto Grandi, giornalista del Sole24Ore, di commentare per Barbadillo.it le mosse di Mario Monti e i tentennamenti dei partiti, intimoriti dalla grisaglia dell’accademico milanese. Grandi è autore con Daniele Lazzeri e Andrea Marcigliano de “Il Grigiocrate” (fuorionda), un ritratto controcorrente dell’attuale presidente del Consiglio. Grandi, nell’ultimo mese – dall’inaugurazione della Fiera del Levante fino al Forum della Cooperazione di Milano – il presidente del Consiglio Mario Monti ha lanciato messaggi contraddittori in merito alla sua disponibilita’ a ricevere un nuovo incarico di governo. Da cosa nascono queste fibrillazioni? Da un lato i mercati, i veri padroni di Monti, vorrebbero la garanzia assoluta di essere tutelati e di poter continuare ad incassare i lauti interessi sul debito italiano. Per questo premono per la riconferma. Dall’altro il professore è perfettamente consapevole che il popolo italiano, quello che per lui rappresenta un fastidio ed un ingombro, non ha per nulla apprezzato le stangate del governo. Che hanno depredato i cittadini senza ridurre il debito (che è aumentato) e facendo crescere la disoccupazione mentre il Pil è crollato. Dunque c’è il timore di contare i sostenitori. Meglio il solito percorso: Monti si ritira, i “mercati” mettono l’Italia sotto attacco ed i partiti hanno l’alibi per richiamare il professore al governo. L’attuale esecutivo, pur appoggiato con linearità parlamentare da Udc, Pd e Pdl, registra a destra e tra i democratici forti critiche all’eventualità di un Monti bis. E’ un tema che potrebbe dividere le coalizioni che si stanno formando per le prossime politiche? In teoria sì. Ma dall’idea all’azione il passo è lungo. L’ala sinistra del Pd, oltre all’eventuale alleato Vendola, si rende perfettamente conto che le manovre di Monti sono fallimentari in assoluto e hanno costi altissimi per chi non fa parte della sedicente élite. Se le primarie le vincesse Bersani, riuscirebbe a tenere unito il Pd su una posizione di finta critica, con cambi modesti rispetto alla politica economica dei tecnocrati. Ma in caso di successo di Renzi, il Pd potrebbe ritrovarsi con ampie sacche di malcontento, a partire dall’ampio settore legato alla Cgil ed alla Fiom. Quanto al centrodestra, la voglia di fuga dal Pdl di parte della componente ex An è nota. Ma non può aver successo un nuovo partito che punti su vecchi personaggi. Inutile rifare An, o pensare al Movimento sociale, riproponendo ai vertici i responsabili del disastro attuale, tutti coloro che hanno rinnegato la provenienza politica, l’appartenenza, e che ora vorrebbero i voti dei “camerati”, dopo averli scaricati in ogni occasione pubblica. E poi i “colonnelli” hanno paura di tornare a confrontarsi in campo aperto, senza la comoda protezione di Berlusconi. L’Italia e i parametri europei: Monti è riuscito ad alleggerire la morsa tedesca sui conti italiani? Il problema non è la morsa tedesca, ma la servitù di Monti nei confronti delle banche e della speculazione. I tedeschi vogliono un’Italia meno competitiva sul fronte industriale e Monti sta distruggendo la manifattura italiana. Per far questo serve impoverire il Paese ed il Grigiocrate presidente del Consiglio sta eseguendo alla perfezione il compito che gli hanno affidato. Quanto peserà il fiscal compact sulle prossime politiche economiche italiane? Che margini di manovra restano per chi vincerà le elezioni? Il margine di manovra sarebbe ampio, se ci fossero politici competenti, coraggiosi, indipendenti. Politici in grado di strappare questo immondo accordo e rinegoziare il tutto. Ma politici così non abbondano. Quanto al peso sulle elezioni, sarà poco più che nullo. Pd, Pdl e Udc hanno votato il fiscal compact (con lodevoli eccezioni interne), dunque non avranno interesse a parlarne. Lega Nord e Grillini potranno anche parlarne a lungo, ma i media al servizio dei poteri forti non daranno certo molto spazio alle loro posizioni. Quale e’ stato il livello del dibattito parlamentare su un tema così delicato per gli anni futuri? Un livello inesistente, ed ignobile le rare volte in cui si è discusso. L’Italia verrà massacrata di tasse nei prossimi anni (45 miliardi di euro all’anno) e nessuno ha fiatato. Poche righe sui giornali e scarsissimi dibattiti. Nello scacchiere politico si preparano le alleanze in vista delle prossime elezioni. Che scelta potranno avere sulla scheda gli elettori che non hanno condiviso l’operato dell’esecutivo Monti? Le scelte sono limitate. Certo, parte della protesta confluirà sul Movimento 5 stelle, e non ha caso è stato subito messo sotto attacco con la consueta trafila di illazioni, polemiche interne, delazioni. Tutto già visto ogni volta che un movimento nuovo si è presentato sulla scena. Poi c’è la Lega Nord , alle prese con le squallide vicende interne (emerse, non a caso, appena la Lega si è schierata contro Monti) e con una gestione Maroni che non ha ancora individuato la propria strada. E anche l’Idv, coraggiosa su alcune scelte ma ampiamente reticente su altre. E con il problema, non da poco, delle candidature. Va bene il ruspante Di Pietro, ma altri personaggi – tra l’isterico ed il patetico _ sono francamente impresentabili. La Destra resta un’incognita, perché non basta avere un ottimo candidato in Sicilia per ottenere consensi ovunque. La classe dirigente del partito di Storace lascia molto a desiderare, in varie parti d’Italia. E con gli attacchi, orchestrati, contro i politici, sarà importante anche la figura di chi verrà presentato. Non basteranno le idee. di Augusto Grandi - Michele De Feudis

12 ottobre 2012

Si scrive “Italia”, si legge “la truffa eretta a sistema”

Ogni giorno se ne sente o se ne legge una “nuova”. Una più grave dell’altra, al punto che non esiste quasi più spazio per lo sbalordimento. Anche questo deve far parte del piano delle élite: assuefarci ad una sequela di “scandali” e “cose dell’altro mondo”, in maniera da far sembrare “normale” anche l’abominio più conclamato. Ma ogni tanto qualcosa riesce ancora a far drizzare i capelli. Da privati cittadini italiani è stata infatti depositata una dettagliata denuncia su una questione che riguarda tutti. Ma tutti davvero. Ascoltate attentamente quanto viene detto e rendiamoci conto di che cosa viene architettato da una ventina d’anni, di quali raggiri fraudolenti sono oramai capaci Lorsignori, per taglieggiare la gente: DENUNCIA - ESAUTORATI I CONCORSISTI PER METTERE I NOMINATI PER SVENDERE L'ITALIA Ora, che solo un manipolo d’impavidi patrioti (riuniti sotto la sigla “Albamed – Alba Mediterranea”) riesca a far emergere quello che dovrebbe uscire, coralmente, dall’animo di un popolo sano, non è una cosa da “paese normale”. Ma da una ventina d’anni, ormai, da quando hanno inscenato a più riprese la farsa della “moralizzazione”, che nei fatti – al di là dello spettacolo delle “inchieste” e degli “avvisi di garanzia” - si traduce nel sistematico saccheggio dello Stato, ci gabellano per “paese normale” una marea di assurde cretinate e di patenti falsità. Ne cito una che vale come paradigma della malafede di sedicenti “opinionisti” ed “esperti”. Alcuni ricorderanno che per un po’ di tempo hanno avuto libera circolazione “autorevoli pareri” a senso unico, in stile lavaggio del cervello, sulla “anormalità” del fatto che in Italia la maggioranza del “debito pubblico” fosse detenuta da creditori nazionali. “Non è una cosa da paese normale”, “in Europa, nei paesi avanzati (nello sfacelo!), fanno così e cosà”, sfoggiando la consueta sicumera di chi fa intendere “ma che ne volete sapere voi, noi siamo gli esperti!”. Bene, sono riusciti, con leggi-truffa (mentre dei “nominati” venivano piazzati al posto di chi ricopriva un ruolo dirigenziale dopo un concorso vinto), l’euro, la BCE e tutti i “trattati” cosiddetti (imposizioni), a ribaltare le percentuali del “debito pubblico” detenute da soggetti nazionali e non, a tutto vantaggio dei secondi; nello specifico, le medesime “banche d’affari” che poi si occupano, una volta fatto scoppiare il tal “scandalo” e fatto salire lo “spread”, di occuparsi della svendita dei “gioielli di famiglia”… Se a rendersi conto del livello della truffa in atto sono solo pochi coraggiosi italiani - e sottolineo italiani perché l’Italia bisogna anche amarla - armati unicamente del loro coraggio e dei residui spazi di libertà esistenti, mentre la maggioranza va dietro a questioni di nessuna importanza anche quando crede di “impegnarsi” (tipico il caso dell’odio indotto verso “la casta”), si può affermare di non essere più un “paese normale”. Che cosa fa invece il popolo? La mitica “maggioranza” che in “democrazia”, per definizione, “ha sempre ragione”? Bofonchia e tira a campare. Considera questi eroi dei nostri tempi come dei “mattacchioni” o “gente che non c’ha un c… da fare”. Degli “illusi” che battagliano coi mulini a vento. Al massimo dello slancio che può produrre, quest’ingombrante massa abituata a pane e circo, non vede l’ora di fare come in Spagna e in Grecia: scendere in piazza a “protestare”! Ma contro che cosa? Contro “la casta”? E in nome di che cosa, se non ha capito un fico secco di come viene truffata? Ma quando mai la “rivoluzione” la si fa nelle “piazze” e con la “presa della Bastiglia”? La “rivoluzione” comincia quando capisci dove e come ti stanno fregando. Che sei immerso in una truffa eretta a sistema. Bisogna lavorare per un cambiamento del paradigma dominante. Adesso ce n’è uno, perfettamente integrato nelle sue “parti” e a suo modo “coerente”, che sorregge, nella sua cerchia esterna, tutto quest’apparato di potere (“la casta”) che i più individuano come “il problema”. Ma quello è solo la scorza. Il problema vero è il nocciolo, la sostanza, altrimenti non sarebbe così difficile “cambiare le cose”. Basterebbe “indignarsi” e “protestare”, no? È difficile perché dentro, anche in quelli che “si oppongono”, circolano le medesime convinzioni, o meglio suggestioni, di fondo: più “democrazia”, più “diritti”, bla… bla… bla. Mai che ciascuno reclamasse di starsene finalmente al suo posto, nella posizione che la sua specifica natura gli ha assegnato. Sproloquiano di “casta” ma non hanno alcuna idea di che cosa significhi essenzialmente una vera casta: qui tutt’al più esiste solo una sterminata ed amorfa massa desiderante senza un alto e un basso. E poi, la fisima dell’onestà! Va bene che in democrazia i peggiori – i più arrivisti, i più scaltri, i più famelici – si piazzano sulla “poltrona”… Ma se chiedi “più democrazia” te la danno eccome, non vedono l’ora! Tutto questo “moralismo” non può produrre alcunché di buono perché la “morale” è solo un elemento, importante quanto si vuole, ma solo un pezzo di un mosaico che va ricomposto per intero a partire dalle sue tessere più importanti, che sono dentro di noi. Se l’ego vuole da mangiare, ci sarà sempre cibo in abbondanza. No, non è quella delle “piazze” la via. Bisogna ridare forma ai “valori tradizionali”, gli unici che – declinati in vario modo secondo le condizioni di tempo e luogo (la “tradizione” non è “immobilismo” né “conservatorismo”) - hanno permesso a tutte le comunità umane di funzionare bene e in ordine, con una legge certa, autorevole e rispettata a partire da chi dovrebbe dare l’esempio. L’esatto opposto della discrezionalità, dell’abuso e della truffa eretta a sistema, di questa parvenza di “legalità” contraddetta platealmente nei fatti (ma all’insaputa dei gonzi), così come impietosamente ed esemplarmente è stato messo a nudo dagli autori di questa denuncia, la quale, proprio perché non siamo un “paese normale”, verrà bellamente ignorata, a partire dagli organi preposti a prenderla in esame e a darle seguito. di Enrico Galoppini

11 ottobre 2012

Tutti con la carta di credito

Lo sapete? Entro pochissimi anni, si avvererà uno dei tanti sogni dei banksters: tutti dovremo avere la carta di credito per acquistare beni e oggetti che eccedono i 50 euro di spesa. Io non sono un esperto del sistema finanziario, né uno studioso di economia, ma certe considerazioni, per farle, basta un minimo di osservazione, esperienza e ragionamento. Del resto le “spiegazioni” dei tecnici mi interessano molto poco visto che so ben valutare da solo, il dare e avere che ne consegue. Vediamo: ripercorriamo questi ultimi anni, più o meno dalla Seconda Repubblica in avanti, dove passo dopo passo, ma con una pianificazione evidente, anche se poco percepibile dall’opinione pubblica, si portò avanti un progetto di adeguamento di tutta l’economia e la finanza del paese al sistema bancario nazionale e internazionale, favorendone i loro interessi. Iniziarono, guarda caso, i governi Amato e Ciampi (non sentite un tintinnio di squadre, finanza e compassi?), sostenuti indirettamente dalla sinistra post comunista, oramai liberal (quella che gira con La Repubblica in tasca) ad incentivare tutto quello che era possibile incentivare per adeguare l’economia e la società italiana al sistema bancario. Ma anche i governi di centro destra non furono da meno, indice di una subordinazione trasversale di tutti i politici alla City di Londra e a Wall Street. Ricordate quando, come fumo negli occhi, ci fu il “regalino” ai correntisti che i libretti di assegni non si sarebbero più pagati? Tutto non iniziò proprio da lì, ma noi possiamo benissimo prendere quell’avvenimento come punto di partenza. Ovviamente le banche in cambio dei foglietto di assegno gratuiti ebbero tanti e tali altri vantaggi da compensare ampiamente quei risibili costi, cosicchè i clienti in pochi anni si videro lievitare a dismisura le spese di tenuta del conto corrente, fino ad arrivare all’assurdo che un normale cliente che deposita una modesta somma in banca, ma poi neppure troppo modesta, a fine anno, tra costi di ogni natura e quel poco di interesse che ci prende, non compensa la spesa annua per questo suo deposito, mentre le banche, proprio con i soldi del cliente, moltiplicati per centinaia di migliaia di altri “castelletti” simili, li investe o li presta a sua volta con ben altre remunerazioni. Se non fosse tragico, ci sarebbe da ridere. E che ci fosse stato uno statista che intervenisse e mettesse un freno a questo sconcio, a questa rapina legalizza! Mai. Comunque sia, in quegli anni ‘90, in men che non si dica, si fece in modo di ridimensionare il valore del “mattone”, storico rifugio dei risparmiatori; i depositi bancari abbassarono a livelli irrisori l’interesse sui depositi; i libretti postali, altro storico rifugio di un popolo che è sempre stato amante del risparmio, dovettero adeguarsi per legge a quelli bancari; si tese a forzare l’indicizzazione delle rate dei mutui, e tante e altre disposizioni simili, furono introdotte, sotto traccia, nella nostra società: tutte gradite e utili alle banche. Tanto si sono impinguate e tanto potere anno eroso che non è un caso che oggi, ogni cento metri e spesso meno, trovate lussuosi sportelli bancari, a 5 o 6 porte, tutti blindati e super computerizzati, ma quasi privi di clienti: come è stato possibile? Non credete che un business e un motivo importante ci sia? Ma torniamo a quegli anni ’90 dove, nel frattempo il mercato azionario, da sempre visto con diffidenza dal nostro popolo, venne sponsrizzato alla grande e gli italiani che avevano qualche risparmio, di fronte ad un “mattone” che non dava più rendite e sicurezza e i conti correnti a risparmio che rendevano poco e nulla, si trovarono quasi costretti ad investire in titoli azionari. Anche le liberalizzazioni che nel frattempo spogliavano il paese di ogni sua risorsa, regalandola ai privati e alle banche d’affari internazionali, offrivano la possibilità di ampliare a dismisura gli investimenti in titoli azionari da parte dei cittadini. E tutti furono invogliati verso promettenti “offerte pubbliche” e la mecca della Borsa, con la messa in vendita di Azioni di importanti e conosciutissime aziende o imprese. Tutta una economia “virtuale” esplose alla grande, con immensa gioia di finanzieri e speculatori e amari pianti di chi, entro pochi anni, vide tutti i suoi risparmi e liquidazioni di anni di lavoro, svanire nel nulla: per dieci che ci guadagnavano, centro andavano sul lastrico. A simbolo di una nuova Era la figura del promotore finanziario prese decisamente quota, furono istituiti apposti albi e corsi, e i cittadini dovettero sorbirsi, pur se non richiesto, anche con telefonate a casa, “consigli” interessati per invogliarli investire il loro denaro. Al contempo, tutto il paese venne progressivamente invaso da proposte di accedere a prestiti, di acquistare beni di consumo con la formula del finanziamento facile: compri oggi e paghi in comode rate, iniziando tra sei mesi; le carte di credito vennero elargite con disinvoltura. Le cassette delle poste si riempirono di reclame per accedere ad un prestito, ad un finanziamento o per fare una carta di credito. Se anni prima, per ottenere un prestito, occorreva non essere protestati e poter dare garanzie, ora non c’erano più problemi: bastava una busta paga, ma poi, sarebbe anche bastato avere un conto in banca. Tra sub prime e ricollocazione di investimenti e prestiti a forte rischio, il mondo finanziario sapeva bene come far fruttare anche il giro di denaro virtuale, senza rimetterci. Neppure un mago ci sarebbe riuscito. L’obiettivo era chiaro: gli storici risparmi degli italiani facevano gola ai banksters e le speculazioni, in uno Stato che nulla provvedeva, ne legiferava, per proteggere i cittadini da questi avvoltoi, non avevano più freni. Da allora se ne è fatta di strada, del resto la Seconda Repubblica era nata proprio con questi presupposti: trasformare i partiti in aggregati di potere, puro e semplice, spogliandoli di ogni orpello ideologico e di rappresentativa sociale, adeguare il più possibile le Istituzioni al sistema anglosassone, il più idoneo a garantire il potere a lobby e consorterie. E quando parliamo di Lobby e Consorterie, quelle di genere finanziario sono le più importanti. Il resto lo conosciamo: i grandi Organismi mondialisti: dalla Banca Mondiale, al FMI, alla BCE, vigilavano, ricattavano e obbligavano i governi a sottomettersi all’usura da loro stessi messa in atto, a prendere “prestiti” per la nazione, fatti passare come aiuti, costringendo questi governi a distogliere ingenti risorse finanziarie per pagare i debiti contratti con questi malfattori. Il debito pubblico, tra signoraggio monetario, usura bancaria e imposizioni mondialiste non sarebbe mai più stato possibile azzerarlo, anzi non poteva che lievitare progressivamente determinando un cappio attorno al collo dei popoli, irreversibile. In ogni caso, intorno al 2007, l’economia virtuale crollò miseramente e non è peregrino ritenere che il “botto” venne anche “aiutato” a determinarsi per oscure manovre messe in atto dalla stessa Alta Finanza internazionale, anche se qualche banca ci rimetteva le penne. Quando si parla di Alta Finanza internazionale, infatti, seppur ci si riferisce ad una miriade di banche, credito, assicurazioni, ecc., in realtà il vero potere è concentrato in pochissime storiche famiglie che fanno e disfanno tutto il sistema a loro tornaconto speculativo e di potere. Il potere dei banksters comunque era così forte che subito Presidenti e Governi, quelli della stessa America compresi, hanno varato provvedimenti di “salvataggio delle banche”, devolvendo enormi capitali pubblici verso il mondo bancario, proprio quello che aveva determinato la crisi. E il popolo? Cornuto e mazziato! Comunque sia il “giocattolo” si era rotto: le “bolle” degli investimenti a rischio girati e rigirati erano scoppiate e al contempo nelle Nazioni l’economia e la finanza, stremate dal signoraggio monetario e dall’usura legalizzata, entravano in crisi costringendo i banksters a fare quello che non avevano mai fatto. Pensate forse che i banksters ritennero di limitare e rivedere le speculazioni, le imposizioni ricattatorie e lo strozzinaggio? Ma quando mai, anzi decuplicarono le imposizioni. Da sempre, infatti, il potere dell’Alta Finanza si era esercitato con discrezione, attraverso i politici e i partiti compiacenti, non a caso definiti i camerieri dei banchieri, e i banksters facevano un pò quello che hanno sempre fatto i Rothschild durante la loro rapace esistenza: essere i veri padroni di tutto, ma per interposta persona, non apparire mai direttamente e fare in modo che si parlasse di loro il meno possibile. Ora però la crisi finanziaria internazionale aveva determinato il rischio che qualche governo nazionale, sotto la pressante richiesta mondialista di devolvere tutto il bilancio statale al pagamento degli usurai, emanando misure lacrime e sangue, poteva tergiversare o non spingere, come preteso, la lama dei tagli fino all’osso del popolo. Tagli di ogni genere alle pensioni, tagli alla sanità, licenziamenti nel settore pubblico, limitazioni di spesa per tutte quelle necessità di cui uno Stato e i cittadini hanno bisogno. Niente, tutto deve essere devoluto per pagare il debito pubblico (una vera e propria invenzione dei banksters), per impinguare le casse del sistema bancario. Anzi occorreva anche introdurre una Legge, come è stato fatto, che rendesse obbligatorio per il bilancio dello Stato, tenere conto di questo famigerato debito pubblico obbligando il governo ad adeguarsi di conseguenza. Per far questo si imponeva però di mettere al governo i cosiddetti “tecnici”, tutti uomini usciti dal mondo bancari0 e finanziario, ma dovevano mantenersi per il tempo necessario e con il consenso dei partiti senza più diatribe, per esempio, tra un Prodi o un Berlusconi. I banksters erano costretti ad uscire allo scoperto. Potete ben immaginare quale era il compito assegnato ai “tecnici”, visto che questi soggetti, mai eletti da nessuno, a nessuno dovevano dar conto e quindi potevano emanare i provvedimenti più impensabili e restrittivi. Del resto ai politici tradizionali, ai cosiddetti partiti, come abbiamo detto, oramai ridotti ad aggregati di potere e centrali di corruzione, non gli pareva vero di lasciar fare il lavoro sporco ai “tecnici”, e non dover essere loro costretti a farlo. Da qui il sostegno bipartisan a questi governi diretta espressione dei banksters. Quello che hanno fatto in Grecia è sotto gli occhi di tutti, ma anche da noi non hanno scherzato e ancora hanno da fare, come per esempio ridurre gli stipendi e le pensioni anche direttamente e non solo indirettamente come hanno fatto fino ad oggi. Tanto per fare un altro esempio, il loro sogno, il sogno dei banksters, è quello che ogni cittadino, dalla culla alla bara, abbia la sua carta di credito e quella usi invece che il denaro contante. Un sogno che fa il paio con quello di obbligare tutti ad avere un conto in banca e che già negli anni passati costrinse coloro che esercitano una qualsiasi attività commerciale ad averne almeno uno. Il nostro Monti, ovviamente, appena messo al governo, provvide subito a costringere anziani e pensionati, spesso recalcitranti e diffidenti verso le banche (del resto i C/C sono ben lungi da essere gratuiti come si vuol far credere), a farsi il loro bel conto corrente bancario, mettendo un limite al prelievo in contanti delle loro pensioni. Ma questo per le banche era solo un palliativo L’ideale per loro è quello di costringere tutte le persone che acquistano o trattano un bene qualsiasi, un oggetto qualsiasi a pagarlo con la carta di credito. Che pacchia: un tempo lontanissimo le banche potevano emettere banconote in base alle riserve aure, poi questa proporzione fu lasciata cadere ed emettevano banconote eccedendo e di molto la copertura aurea, poi il sistema dei titoli e dei conti correnti prese sempre più a sostituire la carta moneta, ora si vorrebbe che questa scomparisse, in modo che tutto il giro di acquisti e vendite sarebbe regolato dalle carte di credito, da un clic del mouse, con grandi profitti per il mondo bancario e un evidente controllo su le spese del cliente. Per esaudire questi desiderata dei banksters, Monti ha però riscontrato alcune resistenze, causate dalle abitudini e dalla costituzione sociale della nostra economia, ma di certo non ci ha rinunciato, del resto proprio quello è uno dei compiti primari che gli è stato affidato. Non si dimentichi infatti che tutta l’economia una volta che sarà totalmente regolata dal sistema bancaria, amplierà a dismisura il potere dei banksters. Quindi verso questo obiettivo ci si arriverà gradualmente. Intanto è stato introdotto, a partire dal 1° gennaio 2014, per gli esercizi commerciali e non solo, l’obbligo di accettare carte di credito, per ogni pagamento eccedente i 50 euro. Capita la furbizia? Si comincia a preparare il terreno in modo che tutto sia predisposto, anche tecnicamente, per far poi scattare l’obbligo a tutti, acquirenti e venditori, di usare la carta di credito per ogni spesa oltre i 50 euro. L’obbligo vero e proprio, invece, quello che limita l’uso del contante solo sotto i 50 euro, è stato provvisoriamente rimandato a uno o più decreti del Ministero dello Sviluppo economico di concerto con il Ministero dell’Economia (meglio sarebbe stato chiamarli: Ministero dello Sviluppo economico delle Banche e Ministero dell’Economia bancaria). E’ così la carta di credito, marchingegno che dovendo comunque vivere in questa società dei consumi, poteva anche avere i suoi vantaggi, ma ovviamente come libera scelta del cittadino e non come imposizione e soprattutto se garantita da disposizioni di legge che ne limitano le speculazioni bancarie, di fatto, diverrà obbligatoria. Signori il gioco è fatto: cominciate a farvi almeno un paio di carte di credito, visto che una sola, per un qualsiasi motivo, potrebbe non bastare, e rassegnatevi ad essere sempre più avvolti nella ragnatela stesa su quasi tutto il pianeta dai banksters. Ma finchè c’è la fila, formatasi notte tempo, davanti ai negozi che vendono l’Ipod5, a chi gliene frega qualcosa? E poi c’è sempre qualche imbecille che ripete il mantra dei governi tecnici: sono provvedimenti atti a combattere il riciclaggio e le transazioni in nero. Beh, sapete che vi dico: che avendo la pistola puntata alla tempia, soppesando i pro e i contro, penso proprio che all’usura del signoraggio bancario, e preferibile quella del pizzo mafioso, e agli arricchimenti a dismisura delle banche, è preferibile che si arricchisca chi ricicla e tratta in nero. Senza dubbio. Ma fino a quando dovremo avere questa pistola puntata alla tempia? di Maurizio Barozzi

10 ottobre 2012

La Monti-dipendenza è un altro modo di chiamare l’Italia-impotenza

1) Stiamo vivendo in una fase di recessione economica, che ha reso manifesta la crisi della società civile, con l’eclissi della partecipazione politica delle masse, il degrado delle strutture statuali, il processo di disgregazione morale e civile di una società postideologica, rifondata, dalla fine del XX° secolo su una cultura e un sistema politico ispirato alla liberaldemocrazia occidentale. Il fenomeno della disgregazione sociale e politica di questa società era già latente negli ultimi due decenni, ma oggi si manifesta in tutta la sua drammaticità, con il declino economico, la disoccupazione, l’assenza di prospettive materiali e ideali per le giovani generazioni. Si riscontrano in questo stato di crisi epocale alcune evidenti contraddizioni. Le crisi sono fenomeni ricorrenti nel campo economico, tuttavia, sulla base della esperienza storica della società capitalistica, il sistema economico e politico è sopravvissuto alle sue crisi. Ma la presente crisi, oltre che l’economia, coinvolge anche le istituzioni politiche e gli equilibri sociali: trattasi di una crisi del sistema capitalista globale, che potrebbe non sopravvivere a se stesso. A tale stato di disgregazione sistemica, fa però riscontro l’immobilismo, sia individuale che collettivo di una società che assiste immobile e passiva alla disintegrazione di se stessa. Le crisi strutturali hanno sempre determinato storicamente la fine di sistemi politici e sociali ormai anacronistici, innescando processi di trasformazione politica, con relativo sconvolgimento degli equilibri sociali preesistenti: sono le crisi a porre i presupposti dei fenomeni rivoluzionari. Questo immobilismo sociale e politico, dovuto alla mancanza di reattività dei popoli (specie europei), dinanzi alla propria dissoluzione, è dovuto innanzi tutto alla falsa coscienza diffusa della crisi in atto, quale fenomeno congenito ai cicli economici di un sistema capitalista resosi assoluto, che, proprio per la mancanza di idee e prospettive diverse, trova in se stesso gli strumenti della propria rigenerazione. Nell’ottica del liberismo economico anzi, le crisi costituiscono fasi di trasformazione necessarie di un sistema di per se mai immobile, ma progressivo ed evolutivo. L’immobilismo sociale del presente è il frutto più maturo dell’individualismo generalizzato, che negli ultimi 30 anni ha mutato profondamente l’antropologia sociale dei popoli occidentali. Il sistema economico globale, in perenne mobilità e mutamento, per perpetuarsi ha necessità di oggetti individuali ed immobili, in quanto indifferenziati, fungibili, e sempre uguali a se stessi, da plasmare e integrare nella produzione e nel consumo del mercato globale. L’individualismo, in questo contesto, è astorico, immutabile incontestabile fondamento della natura umana. L’individualismo preclude la coesione e la solidarietà sociale, quei fenomeni cioè, in cui si può realizzare una reazione allo stato di cose presenti, quali elementi da contrapporre alla disgregazione della società. Il rapporto sociale è considerato con diffidenza e paura. L’essere sociale dell’uomo assume una connotazione negativa: se il mondo è capovolto, lo è anche la natura umana nella società contemporanea. Si avverte paura verso ciò che oggi non si conosce più, dato che l’individualismo è alla base della competizione liberista generalizzata e della selettività darwiniana sui sono soggetti gli individui nella perenne concorrenza selvaggia. La competizione, nelle fasi di crisi si accentua e accelera la disgregazione sociale, perché con la recessione la concorrenza diviene lotta per la sopravvivenza. L’individuo è immobile perché da almeno due generazioni le sue prospettive di vita sono solo di natura materiale ed individuale, ristrette cioè agli orizzonti del consumo, del proprio status sociale, delle ambizioni individuali, in una giungla sociale dominata dalla lotta per la sopravvivenza. Vorrei già cogliere in questa prima risposta il nucleo teorico espressivo delle tue riflessioni, in modo che le altre tre risposte siano soltanto articolazioni analitiche. Ti farò subito un elogio ed una critica. Un elogio, perché è vero che il paradosso del nostro tempo è proprio la compresenza, razionalmente contraddittoria ma esistenzialmente dolorosa, di un mutamento storico epocale, e quindi non di una sola crisi economica ricorsiva analoga a crisi precedenti e ben note, e di un immobilismo sociale apparentemente assurdo, perché in generale ad un momento storico “di mutamento e di trapasso (Hegel) si è sempre accompagnato anche un fiorire intellettuale di riflessioni. Una critica, perché tu sembri rifugiarti in una spiegazione largamente tautologica, quella dell’individualismo antropologico di massa. Non nego infatti che quest’ultimo esista, ed è proprio per questo che ho dedicato lunghi studi all’elogio del comunitarismo. Ma la progressiva costituzione antropologica dell’ “individuo immobile” (ottima definizione) non sta in fondo alla “catena dei perché. Cerchiamo allora di ricostruire, sia pure sommariamente, questa catena dei perché. Vedremo che (come cercherò di chiarire nella mia ultima quarta risposta) in questo modo potremo anche in parte illuminare l’enigma attuale della Monti-dipendenza degli italiani. Partiamo da un fatto, il fatto cioè che questa società sembra assistere immobile ed indifferente alla palese disgregazione di se stessa. Evidentemente non solo questa crisi non è percepita come irreversibile, ma si vuol credere ad una prossima ripresa della “crescita” (termine che ha ormai assunto un carattere religioso). Tuttavia, questi fenomeni illusionistici di massa non sono una novità. Negli anni Trenta gli ebrei europei non si aspettavano di essere sterminati. Volevano credere e si sforzavano di credere che oltre ad un certo grado di vessazioni non si sarebbe andati. Non possiamo allora spiegare questo immobilismo con l’individualismo di massa, anche se quest’ultimo ne è certamente concausa, che mi guardo bene dal negare. A mio avviso il vecchio capitalismo borghese, nato anch’esso in modo aleatorio a metà Settecento, è veramente giunto al termine, e non si tratta allora soltanto di una crisi ciclica e di una recessione temporanea, come recita la teologia liberale di Monti e di Draghi. Nello stesso tempo, il capitalismo in quanto tale non è affatto giunto al termine, e bisogna evitare di ricadere nelle illusioni “stadiali” che il marxismo ha intrattenuto per più di un secolo. Mi scuserei se insisto, ma so che tu sei stato biograficamente estraneo a quella particolare forma di religione imperfettamente laicizzata chiamata “marxismo”, mentre io ne sono stato un “credente” per decenni. Sebbene il baraccone del comunismo storico novecentesco (l’unico realmente esistito, perché non intendo calcolarvi i salotti romani Ingrao-Rossanda e le cooperative emiliane pre-bersaniane) sia ormai caduto da più di vent’anni, sono ancora vivi presso il ceto intellettuale gli effetti depressivi, relativistici e nichilistici di questo crollo inatteso. Con questo crollo è crollata anche la concezione stadiale della storia, basata sul mito borghese del progresso. Il nazionalismo cinese ed il post-modernismo europeo non ne sono che temporanei succedanei, in cui però il “temporaneo” può durare decenni. Tu stesso noti che il “rapporto sociale è considerato con diffidenza e paura”. Proprio così. Le generazioni del secolo breve (1914 - 1991 di Hobsbawm) e del secolo brevissimo (1914 - 1975 di Bontempelli, vedi Koiné in Il respiro del Novecento) hanno puntato tutte le loro speranze nel rapporto sociale, variamente interpretato a destra, al centro o a sinistra. Non è pertanto strano che le oligarchie oggi al potere puntino, per riaffermare il loro dominio, non in una nuova interpretazione di destra, centro o sinistra del rapporto sociale, ma sulla abolizione tendenziale del carattere normativo del rapporto sociale stesso. Resta l’apparenza normativa della legittimazione elettorale, che viene anzi estesa con bombardamenti ed embarghi nel mondo che non l’aveva ancora conosciuta, ma è sempre più svuotata di effettività politica, e la dicotomia bipolare viene reimposta come protesi di manipolazione per tifosi dipendenti dagli inputs del circo mediatico, prevalentemente televisivo. Questa società è quindi ad un tempo disintegrata ed immobile. Ed è immobile non tanto e non solo per ragioni di individualismo antropologico, quanto per il venir meno di una prospettiva visibile ed immaginabile di mutamento “verso il meglio”. Oggi prevale la sensazione di un futuro probabile “mutamento verso il peggio” e questo provoca paralisi. Non a caso chi sa di non poter affrontare con speranza di successo uno scontro fisico si copre gli occhi e la testa con le mani chiedendo al massimo pietà al vincitore. Anche oggi, in Italia, si spera che Monti e Draghi non infieriranno troppo. La prima analogia che mi viene in mente per descrivere l’attuale società è quella di “zattera alla deriva”. Immaginiamoci allora una zattera, in cui i naufraghi non dispongono neppure di rami, remi e pagaie per poterla minimamente dirigerla. Essi sono completamente in balia delle onde in tempesta (incarnate oggi dal cosiddetto “giudizio dei mercati”, “entità” che è del tutto al di là sia di Dio che del Progresso) ed è del tutto normale che diventino “individualisti”. Ma allora l’individualismo non è altro che un modo di ribattezzare il “grado zero della sopravvivenza”. Scrivo tutto questo con vero dispiacere. Non ho mai infatti aderito psicologicamente al fatalismo snobistico sulla insensatezza del mondo, ed ho sempre pensato che si trattasse di un lusso riservato ai ceti benestanti. In fondo, l’insensatezza totale della storia fu già teorizzata in modo insuperabile da Schopenhauer nel lontano 1819, ed ogni ripresentazione postmoderna di questo pessimismo non riesce ad aggiungervi nulla. Ma oggi l’immagine della zattera alla deriva ha perso ogni carattere letterario, ed è diventata la descrizione realistica di quanto ci sta circondando. E’ lo stadio ultimo della storia? Certamente no. Dio ci guardi e liberi dagli stadi ultimi della storia. Ma la zattera alla deriva può continuare ad andare alla deriva può continuare ad andare alla deriva per decenni, spinta dall’approdo al consumo di sterminate masse asiatiche e dall’incredibile quantità di capitali concentrati nelle mani delle oligarchie finanziarie. Certo avrai sentito parlare delle “profezie che si autorealizzano”. E’ forse il caso della vecchia darwiniana lotta per la vita e la sopravvivenza delle specie. Nel mondo della natura, però, molto spesso le specie sono solidali e collaborative al loro interno. Noi siamo invece riusciti a creare un mondo in cui si parla in teoria di uomo sociale e di ente naturale generico, ma nei fatti si è affermato lo stato di natura di Hobbes della guerra di tutti contro tutti. Il fatto è che lo scenario in cui stiamo vivendo, la compresenza di disgregazione sociale e di immobilismo politico, è una relativa novità storica, che richiederebbe un nuovo apparato concettuale di spiegazione. Proprio quello che giornalisti e professori universitari non ci daranno mai. E non solo non ce lo daranno, ma faranno un infernale fuoco di sbarramento di artiglieria chi si azzarderebbe a proporlo. 2) Il nostro presente, in una prospettiva storica, potrebbe essere considerato come la fase terminale di un processo di decadenza della civiltà e della società occidentale. Certo è che l’Europa e l’Occidente sono due entità storiche e culturali ben distinte e non assimilabili, ma tuttavia, dobbiamo oggi prendere atto che l’Europa non esiste (e soprattutto non è la UE), perché fagocitata ed omologata all’occidente americano. Pertanto, la crisi dell’Europa coincide con quella dell’Occidente e del primato americano irreversibilmente decadente. Ma anche l’analisi della presente realtà storica, conduce necessariamente a considerare, alla luce del decadimento culturale, morale e politico europeo, la crisi attuale come nella prospettiva di una fase finale di un lungo periodo di decadenza europea protrattosi per circa un secolo. La decadenza europea è un fenomeno presente nella coscienza delle generazioni che si sono succedute dal secondo dopoguerra in poi. La nostra generazione è forse l’ultima testimone dell’esistenza di una società in cui sopravvivevano valori, concetti, stili di vita estranei alla dinamica della società di mercato. Si può parlare dunque, alla luce di quei valori ormai quasi estinti, di una decadenza intesa come un’epoca di disgregazione sociale scaturita dall’avvento del sistema di produzione e di consumo proprio del capitalismo. Varie generazioni europee hanno convissuto con la decadenza. La loro cultura i loro stili di vita, il loro modo di essere nella società è stato permeato da questo spirito decadente. Ma la decadenza non ha suscitato reazioni di rilevo per arginarla, o tentativi di capovolgere questo presunto destino storico vissuto come ineluttabile. Gli stesi furori ideologici degli anni ’70 hanno rappresentato con evidenza la degenerazione storica di culture e fedi ideologiche ormai estranee alla realtà storica. La decadenza è invece l’immagine vivente di uno spirito di assuefazione passiva a destini storici prestabiliti dalla egemonia delle classi egemoni del capitalismo, le sole sopravvissute alla lotta di classe e quindi in grado di imporre il loro corso e il loro senso alla storia. Nella decadenza l’uomo si rifugia nella sua solitudine individualista, si estranea dai processi di trasformazione sociale in atto. Nella decadenza possiamo rinvenire la genesi dell’individualismo contemporaneo, dell’uomo autoreferente di se stesso, di una visione del mondo, di una prospettiva di esistenza limitata a vicende solipsistiche destinate ad esaurirsi in se stesse, senza lasciare traccia. Decadenza è sinonimo di rinuncia ad un senso della vita, di oblio dell’essere, di estraneazione dell’uomo da se stesso. Il tramonto dell’Occidente non deriva da una necessità storica, ma da uno stato della coscienza nichilistico, che si identifica nella alienazione di un uomo estraniato dalla società e dalla storia. Nella decadenza l’uomo occidentale ha comunque vissuto in uno stato di benessere, nel disimpegno morale, perché la decadenza comporta la assenza di creatività e di spirito di trasformazione. La decadenza ha aspetti economici, sociali e culturali del tutto analoghi. Si è vissuti di un capitale accumulato dalle precedenti generazioni, nei risparmi familiari, nelle strutture dello stato sociale, nel patrimonio culturale e storico oggi considerato come un insieme di beni obsoleti e quindi destinati alla musealità. Le capitali europee non sono forse dei musei viventi? La nostra società ha consumato le proprie risorse morali, culturali ed economiche senza essere capace di riprodurle ed il loro esaurimento è ormai un dato di fatto. Il capitalismo ha potuto prevalere attraverso l’abile impiego per i propri fini di tali risorse, generate da un passato anche premoderno, per imporre il proprio potere assoluto. Ma questa eredità si è adesso estinta. Lo steso capitalismo ha distrutto, secondo la logica del consumo illimitato, risorse naturali, materiali e morali rese ad esso funzionali, ma ora non più riproducibili. In questa crisi immanente, cosa rimarrà del capitalismo stesso, se porta in dote per il futuro solo i relitti della sua sistematica opera di distruzione della società, della storia, della civiltà? A proposito del concetto, della percezione e della realtà della decadenza, ne vorrei subito distinguere tre livelli: una decadenza personale o individuale, una decadenza generazionale ed infine una decadenza storica definibile in qualche modo “oggettivo”. La decadenza personale o individuale viene con il decadimento fisico legato all’età (uno dei fatti più comuni e nello stesso tempo più rimossi), e soprattutto con l’inaridimento delle proprie capacità creative, cui non basta ovviare con l’infinita ripetizione di ciò che è già stato detto in un tempo precedente. Questo decadimento è uno dei fenomeni più dolorosi che possano avvenire, ma ciò non la ovviamente nulla a che fare con un concetto storico “oggettivo” di decadenze. La decadenza generazionale è invece un fenomeno maggiormente storico, anche se intrecciato con una sensibilità esistenziale. Fra i quindici ed i trenta anni ci si socializza all’interno di determinate prospettive politiche e culturali, che inevitabilmente cambiano, perché raramente queste configurazioni sociali durano più di venti anni. A questo punto, giunti da una certa età, assomigliamo a dei poveri pedoni che si sforzano di correre per prendere l’autobus. Le porte dell’autobus sono ancora aperte e ci sono persino delle mani generose che si tendono per aiutarci a salire, ma sono le nostre gambe che non ce la fanno più ed allora vediamo l’autobus allontanarsi inesorabilmente. Personalmente, ho sempre questa impressione quando apro la televisione per sentire le notizie. Il senso di estraneità domina ormai sullo stesso sdegno per i continui scandali. Certo, si ha a che fare anche con un processo di assuefazione, come avveniva per il veleno, assunto dal re Mitridate. Ormai, se venissi a sapere che l’intera spesa pubblica italiana dedicata alla sanità è stata spesa in una sola grande orgia del ceto politico non riuscirei neppure più ad indignarmi, come sarebbe peraltro buono e giusto. Gli italiani si sono ormai “mitridatizzati” ed io con loro. Esistono solo alcuni giornalisti che si sdegnano moralisticamente a contratto, ma solamente quando la vergogna tocca la parte politica avversa. Tu proponi invece una nozione discutibile, ma “oggettiva” di decadenza, rilevando soprattutto due dimensioni. In primo luogo, il fatto che la nostra generazione è forse l’ultima testimone della sopravvivenza di valori in qualche modo “premoderni”, precedenti la dinamica della società integrale del mercato. In secondo luogo, il fatto che lo stesso capitalismo aveva fino ad oggi potuto riprodursi sfruttando elementi sociali e culturali pre-capitalistici, ed appunto pre-moderni. Potrei dire di me quello che ad un certo punto il critico francese Roland Barthes ha detto di se stesso: “Improvvisamente non mi ha interessato più nulla essere moderno”. La coazione dell’adeguamento forzoso ad una presunta e mai ben definita “modernità” ha caratterizzato gli ultimi decenni e lo stesso post-moderno nonostante la sua fondamentale ipocrisia ne è stato a suo modo una reazione. Nata con le migliori intenzioni, la modernità si è rovesciata dialetticamente in decadenza. Questa diagnosi era già perfettamente presente in Nietzsche, ma la sua comprensione è stata resa difficile dalla tendenza politicistica ad incasellare Nietzsche a destra o a sinistra. Il disincanto illuministico del mondo, salutato come un grande progresso umano universale, ha soltanto portato alla luce la “sventura” (non ricordo se lo abbia scritto Benjamin o Adorno, o tutti e due). Oggi viviamo in questa conclamata sventura. E’ importante capire che si tratta di una novità storica. A mio avviso, la riproduzione allargata di questa decadenza è ormai irreversibile, salvo improvvise ed imprevedibili catastrofi. Questo sistema del resto ha come principale sua base di legittimazione il ricatto “o me o la catastrofe”. Del resto, chi vuole riflettere filosoficamente su quella che tu chiami la “Monti-dipendenza” in Italia, non potrà che arrivarci da solo. Monti ha azzerato tutte le ideologie con cui per mezzo secolo erano stati addomesticati gli Italiani. Resta soltanto o il ricatto dell’Euro o l’elogio della zoccola (ho in testa la Minetti, ma non solo). Quando Erasmo da Rotterdam scrisse l’Elogio della pazzia, in realtà voleva mettere in guardia paradossalmente dalla pazzia stessa. Oggi, invece, i soli “oggetti” visibili sono il denaro e la fica. Tutta la polemica di origine sessantottina contro il moralismo borghese e piccolo-borghese ha distrutto i ruoli precedenti, con l’inevitabile ipocrisia che si portavano dietro. Se penso che Formigoni aveva fatto il voto di castità e di povertà, e la Chiesa ha sempre fatto finta di non accorgersene, ne concludo che ci meritiamo il gioco delle parti fra Vendola e Renzi, il matrimonio gay e l’autopromozione del fighetto in carriera. 3) La grave situazione economica italiana ed in larga parte europea non può essere superata tramite le strategie di salvataggio della BCE, né tantomeno con la devoluzione, di fatto della sovranità degli stati agli organi finanziari della UE. Appare chiara a molti l’irreversibilità di una crisi sia economica che politica. Solo mutamenti sistemici di vasta portata potrebbero creare nuovi orizzonti nell’avvenire delle nuove generazioni europee. In questo contesto di disfacimento degli stati e della società, solo un evento rivoluzionario potrebbe rappresentare la definitiva rottura con l’ordine capitalista assoluto. Ma una rivoluzione è oggi possibile? Le rivoluzioni sono eventi legati alle ideologie novecentesche, quindi, ad un periodo storico ormai esaurito. Ma non sarebbe possibile oggi la nascita di nuove ideologie compatibili con le esigenze, le contraddizioni, i problemi irrisolti della società del XXI° secolo? In realtà l’ideologia è una forma di interpretazione generalizzata della società e della storia: concezione oggi ritenuta superata, in considerazione delle fallimentari esperienze totalitarie del secolo XX°. Il credo ideologico, al pari della fede religiosa, per sussistere richiede riferimenti culturali e antropologici legati alla cultura europea classica, idealista e premoderna, oggi ritenuta non compatibile con lo sviluppo della società aperta della globalizzazione economica. Occorrerebbe dunque richiamarsi a forme di pensiero che trascendano l’economicismo autoreferente del nostro tempo, che prefigurino cioè una storia che non si identifichi necessariamente con il progresso illimitato, che generino quella utopia creatrice capace di restituire senso e finalità alla vita degli individui e dei popoli del nostro tempo. Ma ideologie e fedi religiose sono state emarginate e condannate come retaggi di secoli passati, come forme di pensiero atte a prefigurare fughe mistiche e orizzonti storici smentiti dallo sviluppo materiale di una società i cui valori si identificano con le certezze empiriche della scienza, della tecnologia, della economia del mercato globale. L’uomo contemporaneo è un individuo compiuto nella misura in cui si sia liberato della credulità mistico - ideologica dei secoli bui e assassini e soprattutto si sia liberato dal problema del senso di se stesso e della storia. Ma oggi è proprio la realtà materiale, fattuale, empirica a smentire le premesse di questo pseudo illuminismo riciclato come modernità del secolo XXI°. Anziché sviluppo c’è recessione, diseguaglianza e privilegi diffusi annullano di fatto ogni principio di eguaglianza, le libertà politiche vengono sempre più compresse dalle esigenze della competitività economica. La contraddizione è evidente, ma l’incapacità di ribellione allo stato delle cose presenti è dovuta proprio a quella mancanza di senso che pervade l’odierna società. E’ questa impossibilità anche solo di immaginare una società diversa e/o alternativa alla presente realtà storica a troncare le radici di ogni possibile rivoluzione e consente a questo capitalismo assoluto di sopravvivere ancora a se stesso: le macerie morali e culturali da esso prodotte sono i fondamenti della sua resistenza e sussistenza. La rivoluzione è diventata impensabile ed inimmaginabile proprio quando è ormai necessaria. L’immaginario politico occidentale da circa due secoli ruota intorno al concetto di rivoluzione, dando infatti luogo ai due campi simbolici complementari dei rivoluzionari e dei contro-rivoluzionari. I fatti del triennio 1989-1991, hanno inaugurato in Europa un’epoca che ha abolito il concetto di rivoluzione, identificato o con i fiumi di sangue dei fanatici o con le code per comprare salsicce e carta igienica. Solo uno sciocco privo di spirito dialettico poteva però pensare che l’abolizione della rivoluzione dall’immaginario sociale non comportasse anche conseguenze telluriche nella cultura complessiva. Molte proposte politiche, oggi, non incitano più alla rivoluzione (come hanno fatto per quasi un secolo i movimenti comunisti e neo-fascisti), ma ad una sorta di “conversione”. Pensiamo ad esempio alle recenti conferenze italiane di Serge Latouche, il profeta della decrescita. Latouche, con tutte le sue palesi buone intenzioni, non è in grado di chiarire in che modo possa iniziare a livello mondiale un processo equilibrato e democraticamente controllabile di decrescita e si limita a spiegare le ragioni per cui sarebbe auspicabile. In questo modo, di fatto, il suo discorso diventa religioso, simile a quello che fa Ratzinger, quando esorta a convertirsi. Del resto, non è certo la prima volta nella storia in cui l’eclissi di una prospettiva rivoluzionaria comporta il passaggio ad una generalizzata esortazione alla conversione. E’ invece la prima volta che sembra imporsi nella coscienza sociale una vera e propria irrappresentabilità del mutamento. In un esame comparato della storia mondiale nelle varie epoche, il mutamento mi è sempre sembrato costantemente rappresentabile. Un popolo era dominato da un altro e pensava, progettava o sognava di come liberarsene. Si potrebbero fare molti esempi di questo tipo, ma tutti arriverebbero alla conclusione del mantenimento di una prospettiva di uscita da una situazione ritenuta negativa. E’ evidente che tu imposti correttamente il problema quando parli letteralmente di forme di pensiero che trascendano l’economicismo. Dal punto di vista della teoria filosofica, è veramente così. Ma ad esempio anche la teoria della decrescita trascende l’economicismo, eppure non riesce a passare dall’invito alla conversione all’organizzazione della rivoluzione. L’economia si è evoluta da scienza particolare della produzione e della distribuzione della ricchezza a fondamento filosofico unico della riproduzione umana. A suo tempo, Roger Garaudy parlò opportunamente di monoteismo del mercato. Lo stesso pensiero di Marx, peraltro non privo di errori e di previsioni smentite dal processo storico, non intendeva dare vita ad una scuola economica, ma ad una critica generale e complessiva dell’interna società in quanto con la “critica dell’economia politica” intendeva una critica complessiva della società capitalistica. Non posseggo ovviamente la formula del superamento della visione economicistica del mondo. Riesco soltanto a pensarne le dimensioni geopolitiche legate alla sovranità nazionale e questo significa respingere in qualche modo la logica della globalizzazione. I cosiddetti movimenti no-global, peraltro non a caso in via di sparizione, sono in proposito del tutto inutili, perché rappresentano l’estrema propaggine storica della mentalità avanguardistica del Sessantotto. Essi affermano di non volere la globalizzazione e poi non vogliono cominciare dal ristabilimento della sovranità nazionale sull’economia, passo non certo sufficiente, ma almeno necessario per cominciare. Credo quindi che soltanto una catastrofe, o una serie di catastrofi, possa portare ad una inversione di tendenza. Non le auspico certamente, al contrario. Non lo vorrei, e vorrei invece una somma di conversione filosofica e rivoluzione sociale. Ma le oligarchie economiche hanno spinto a tale punto le cose da far diventare difficilmente pensabile un tale auspicabile scenario di transizione pacifica. In ogni caso, si tratterà di un problema che affronteranno le generazioni a venire, su basi teoriche che noi non possiamo neppure probabilmente immaginare. 4) Osservando la realtà politica italiana, quale viene rappresentata dai media, si ha l’impressione che l’Italia sia un paese Monti - dipendente. L’avvento del governo tecnico di Monti rappresenterebbe dunque un fatto epocale nella storia recente del nostro paese da cui non si possa prescindere nel futuro. In realtà non esiste una Italia ante - Monti e un’altra post - Monti. Il personaggio Monti è un tecnico, un uomo cioè imposto dalle oligarchie finanziarie della BCE e, con procedure poco ortodosse dal punto di vista costituzionale dal presidente Napolitano, al fine di compiere quelle manovre di austerity economico - sociale imposte dalla UE. Egli è dunque solo un tecnico, un materiale esecutore di quanto altrove deliberato per l’Italia. Si è fatto ricorso al tecnico Monti per attuare provvedimenti che i governi politici, anche se in stato di limitata sovranità ed eterodiretti dalla UE, si erano dimostrati incapaci di mettere in atto. Ma le linee fondamentali della politica italiana degli ultimi 20 anni sono rimaste identiche. L’esproprio della sovranità politica italiana in favore della UE ha avuto quasi definitivo compimento ma questa è solo la fase ultima di un lungo processo iniziato con la seconda repubblica. Se Monti succederà a Monti o gli subentreranno altri personaggi politici o tecnici, è una questione di scarsa rilevanza. Certo è che sia l’abbassamento dello spread che i rialzi delle borse degli ultimi tempi, non sono argomenti che interessino molto il cittadino medio italiano, dato l’espandersi della disoccupazione, l’innalzamento della età pensionabile, il potere d’acquisto dei salari sempre più ridotto, unito all’inasprimento senza limiti della pressione fiscale. Il mondo finanziario, causa prima del declino economico e sociale italiano, è sempre più lontano ed estraneo alla realtà quotidiana in cui si dibatte il popolo italiano. Nonostante tutto, la maggioranza degli italiani è ancora convinta della positività della esperienza governativa di Monti, forse terrorizzata dalla esperienza greca e/o da scenari apocalittici diffusi dai media in caso di fuoriuscita dall’euro. Forse il disfacimento del sistema non è giunto ancora al punto critico di non ritorno, forse in Italia non si è ancora diffusa sufficientemente nella collettività la coscienza della irreversibilità della crisi, perché possano delinearsi scenari di trasformazione rivoluzionaria di un sistema ormai condannato alla ineluttabile decadenza. Certo è che episodi come la probabile chiusura della Alcoa e le prospettive di dismissione degli investimenti della Fiat in Italia, potrebbero accelerare il corso di eventi ancora impensabili per la maggioranza della popolazione. A proposito della cosiddetta Monti-dipendenza (mi congratulo con te per l’ottima e sintetica definizione) credo che abbiamo a che fare col vero nucleo teorico del problema. E definirò questo nucleo teorico come una generalizzata perdita di controllo conoscitiva del presente inteso come storia. Permettimi di disaggregare concettualmente la definizione: generalizzata perché riguarda tutti, anche se è veicolata ideologicamente dal ceto corrotto degli intellettuali, frazione dominata dalla classe dominante (che resta la sola oligarchia finanziaria); perdita di controllo conoscitiva significa perdita di capacità di analisi strutturale dei meccanismi di riproduzione (capitale finanziario) e di legittimazione (simulazioni elettorali periodiche prive di sovranità politica); presente inteso come storia significa che anche il presente, prima di essere cronaca, è innanzitutto storia, anche se ovviamente manca la necessaria prospettiva temporale che sola permette i bilanci storici seri. Voglio fare due esempi pittoreschi di questa Monti-dipendenza, uno riguardante l’attore romano Carlo Verdone e l’altro l’intellettuale torinese della sinistra politicamente corretta (politicamente corretta=operaismo testimoniale + azionismo moralistico) Marco Revelli. Interpellato dal quotidiano “La Stampa” (21.09.2012), Verdone prende spunto dalle ultime maialate del ceto politico professionale romano “di destra” (Fiorito eccetera), le condanna con virtuosi accenti alla Beppe Grillo, afferma che costoro non hanno solo rubato la torta, ma addirittura svuotato la pasticceria, e poi finisce in bellezza dicendo: “E meno male che abbiamo Monti, almeno sta facendo il possibile per mettere toppe, e poi dobbiamo anche ringraziare Mario Draghi”. Si dirà che Verdone è un attore comico, e non possiamo pretendere da lui analisi strutturali. Ma passiamo a Revelli, storico-sociologo di professione, intellettuale invitato permanente dal “Manifesto”, dal TG3, e da Rai News. Quando Monti fu insediato, lo vidi che ne faceva un elogio sperticato in nome del fatto che “almeno ci farà fare bella figura all’estero”, in quanto il puttaniere maialone Berlusconi con i suoi volgari apprezzamenti sul culone della Merkel era ormai impresentabile. Se fosse rimasto anche solo un briciolo di capacità di analisi strutturali del presente storico, si sarebbe capito che così come dietro il livello delle orge di Tiberio e Nerone ci stavano i problemi strutturali della produzione schiavistica, analogamente dietro le maialate di Berlusconi ci stava la sua incapacità di far passare misure antipopolari di massa, per cui ci voleva un “tecnico” anglofono percepito come indipendente con le mani pulite. E pazienza se l’attore Verdone non lo capisce. Ma che non lo capisca lo sputasentenze Revelli significa che ormai che ogni capacità di analisi strutturale è perduta. Nella mia prima risposta che qui non riprendo nei particolari mi sono già chiesto se questa crisi sia o no irreversibile. Ricorderai che ho risposto in modo intermedio: questa crisi non è una semplice crisi ciclica come quelle che l’hanno storicamente preceduta, ma nello stesso tempo non bisogna illudersi sul fatto che sia una “crisi finale”, destinata a dare luogo ad un mondo in qualche modo nuovo. Ora in questa mia quarta risposta vorrei tornare a questa impostazione calibrandola proprio sul caso della Monti-dipendenza. L’Italia è davvero oggi un anello debole dell’Europa. Ma il termine “anello debole” non deve essere inteso nel senso di Lenin, come eccezione che può favorire una rivoluzione (nei termini del trotzkista Pasquinelli, una sollevazione). L’Italia è un anello debole perché è un paese in via di progressiva deindustrializzazione, che ha un ceto politico parassitario strutturale (particolarmente volgare a destra, “ipocrita” al centro ma ben radicato anche a sinistra) che evidentemente non si riesce a togliere né con Mani Pulite, né con altri accorgimenti giudiziari. Si tratta probabilmente dell’eredità sociologica della Prima Repubblica (1946-1992), in cui il gonfiamento degli apparati politici era funzionale alla stabilità strategica di un paese di “frontiera dell’Occidente”. Il ventennio berlusconiano (1993-2011) non ha potuto cambiare le cose sul piano strutturale, ma ha permesso alla “destra” di legittimarsi e di mostrare la sua vera faccia (quella delle maschere di maiale dei festini della destra romana della Regione Lazio), ed alla “sinistra” di riciclarsi facendo dimenticare con l’anti-berlusconismo ossessivo di essersi legittimata per decenni ingannando le masse con la prospettiva illusoria della via italiana al socialismo. Il “bonapartismo” di Monti appare inspiegabile al di fuori di questo vuoto pneumatico di cultura, di ideologia e di prospettiva. Abituati da lungo tempo a non pensare più con la propria testa, Monti semplicemente è il successore di una lunga serie precedente, Giolitti, Mussolini, Togliatti, Andreotti, Craxi, Berlusconi, etc. Più esattamente, non credo basti dire che l’Italia è oggi Monti-dipendente. L’Italia è oggi un paese ad amministrazione controllata, in quando la sua intera sovranità economica è avocata dalla Troika e l’intera sovranità militare dall’alleanza NATO. In Grecia (Samaras) ed in Spagna (Rajoy) è stato possibile delegare l’amministrazione controllata ad esponenti del ceto politico tradizionale di centro-destra, ma in Italia questo si è rivelato impossibile per il doppio e concomitante fenomeno del berlusconismo, da un lato, e l’interminabile riciclaggio dell’ex-PCI, dall’altro. Fenomeni ridicoli come Vendola (a sinistra) e Renzi (a destra), al di là degli aspetti di superficie (rottamazione generazionale, matrimoni gay, eccetera), sono semplicemente la superficie di assestamenti geologici di lungo periodo e di normalizzazione dell’elefante-PCI. La Monti-dipendenza non è che la manifestazione del fatto che le tare storiche della modernizzazione italiane non potevano essere colmate da forze sovrane, come sono pur sempre Berlusconi e Bersani. Succederà Monti a se stesso nel 2013? Scrivendo queste righe nel settembre 2012 non posso certo saperlo, perché non ho la sfera di cristallo. Ma se i particolari di quando avverrà fra qualche mese sono ancora oscuri, non lo è la politica economica eterodiretta che il cosiddetto impegno europeo ci chiederà. Un Monti con Monti o un Monti senza Monti può essere interessante per i maneggi del ceto politico, ma non per l’italiano qualunque. A proposito del corpo elettorale, una parte si asterrà perché ha capito di non essere più sovrano (ed anche perché ci saranno sempre meno soldi a pioggia per le clientele fameliche), una parte voterà Grillo, e la parte restante si dividerà nelle collaudate tifoserie di destra e di sinistra, tifoserie che rendono possibile la legittimazione politica dell’attuale riproduzione oligarchica. Personalmente sono d’accordo con i sovranisti (vedi l’economista Bagnai), ma non credo che gli italiani siano pronti per il sovranismo. Ne avrebbero troppa paura. I giornali sono sempre pieni di scandali e scandaletti (ormai la “Repubblica” è diventata asfissiante, sembra che al mondo ci siano solo Formigoni e la Regione Lazio), ma sono i dati fondamentali dell’economia quelli che contano ed essi non sono forse ancora catastrofici, ma vanno inesorabilmente in discesa. La Monti-dipendenza è un altro modo di chiamare l’Italia-impotenza di Costanzo Preve - Luigi Tedeschi

18 ottobre 2012

Ribellarsi è un diritto. Cominciamo?

“Chi uccide il tiranno è lodato e merita un premio” san Tommaso d’Aquino “L’albero della libertà deve essere annaffiato di tanto in tanto dal sangue dei patrioti e dei tiranni. E’ il suo concime naturale”. Thomas Jefferson Signori, abbiamo dato come “diritto acquisito” la libertà dall’oppressione. Invece , si tratta di una conquista che si deve strappare agli oppressori, facendo loro paura. Ed anche peggio: Tommaso d’Aquino, un santo, non considera omicidio l’uccisione del tiranno. Oggi, i tiranni e oppressori sono numerosissimi e insaziabili del nostro denaro: sono i politici che abbiamo votato e i loro compari imbucati nel settore pubblico. con mezzi legali non è possibile cacciarli dal poteere, perchè costoro hanno “occupato” la legalità: si aumentano gli stipendi “per legge” (la votano loro), rigettano i tagli “per legge”, tormentano noi cittadini con la burocrazia, ci perseguitano chiamandoci evasori, ed è tutto legale. Noi cittadini, che li paghiamo, siamo sottoposti a soprusi, punizioni arbitrarie intollerabili. Equitalia può bloccarci i conti correnti e le carte di credito, sequestrarci automezzi ed altri beni, senza nemmeno avvertirci: non esiste più il diritto di proprietà in Italia. Le pubbliche persecuzioni hanno portato al suicidio decine di imprendotori, e tutto “legalmente”. La democrazia di fatto non esiste più: i nostri politici hanno ceduto la sovranità popolare che gli avevamo delegato, all’eurocrazia di Bruxelles e alla Bce, entrambi organi non-eletti, fattidi individui coooptati non sappiamo come. E alla fine hanno ceduto il loro “dovere” di governare ad un gruppo di “tecnici” guidati da un presidente della Commissione Trilaterale e da banchieri, a loro volta agli ordini di uno speculatore di Goldman Sachs, Mario Draghi, e di governi stranieri (Berlino). Logica e giustizia voleva che i nostri politici, dopo aver così auto-certificato la loro nullità e inutilità, se ne tornassero a casa. Invece, hanno mantenuto per sé una sola “sovranità”: quella di aumentarsi gli emolumenti a piacere, e di arraffare “contibuti elettorali” e “ai gruppi” che costano miliardi. Con voto unanime, quindi del tutto “legale”. Il supremo tempio del diritto, la Corte Costituzionale, come abbiamo visto, ha dichiarato incostituzionale il taglio degli stipendi loro (400-600 mila euro annui) e degli altri miliardari di stato. La magistratura gode di una totale impunità, e può commettere gravissimi soprusi contro la libertà dei cittadini. Ne elenco tre: intercettare chiunque in qualunque momento, come il vecchio Kgb sovietico. Incarcerare preventivamente innocenti (Kgb). Scegliere come testimoni privilegiati dei criminali comprovati e già giudicati, i “pentiti” (definiti non a caso “collaboratori di giustizia” e stipenditi: in pratica diventano funzionari ausiliari della magistratura) dando loro la libertà di accusare calunniosamente gli avversari politici dei giudici, senz a obbligo di portare prove oggettive. Basta la parola di criminali, meglio se pluriomicidi mafiosi. La parola di testimoni onesti, invece, non vale nulla senza i “riscontri oggettivi”. Quando la volontà del popolo s’è espressa con inequivocabile chiarezza e con “referendum”, dichiarando sua volontà di votare col sistema di voto maggioritario, la responsabilità civile dei giudici, l’annullamento del finanziamento pubblico dei partiti – tutto il sistema “democratico” e “legale” s’è adoperato per calpestarla. Non abbiamo il voto maggioritario, ma un proporzionale corretto, perchè faceva comodo a loro. I magistrati non pagano i loro errori. I partiti, sappiamo come continuano ad arraffare impunemente. Eppure il referendum è il mezzo più legale e legittimo della volontà popolare, scritto nella Costituzione. Chi doveva farlo rispettare? Il presidente della repubblica, la Corte Costituzionale. Non hanno fatto nulla. LA volontà popolare espressa costituzionalmente è stata calpestata, e loro l’hanno lasciata calpestare. Perchè sono parte del potere occupante, del sistema di Dispotismo che si autonomina “democrazia”. Ebbene: questo avviene perchè siamo stati troppo passivi. Perchè a molti di noi faceva comodo, molti hannno ricevuto qualche beneficio d alla “legalità sequestrata”, la maggioranza per paura: questi oppressori, come tutti gli oppressori, si sono anche accaparrati la forza pubblica ed esercitano la violenza contro di noi. Molti cittadini, probabilmente, pensano sia “illegale” sbattere fuori ccon la forza questi mascalzoni. E’ un dovere. C’era un articolo (art.50 secondo comma) che lo dichiarava, nella bozza della nostra Costituzione: “Quando i poteri pubblici violino le libertà fondamentali ed i diritti garantiti dalla Costituzione, la resistenza all’oppressione è diritto e dovere del cittadino”. Questa frase fu proposta dai democristiani, Dossetti e Moro, nel 1947. Fu in seguito cancellata perchè la guerra fredda infuriava, e si temeva desse un’arma in più al più potente partito comunista dell’Occidente (già allora metà del nostro popolo, della libertà se ne fotteva: era pronta a darla a Mosca). Ma ciò non significa che la resistenza all’oppressione sia diventata illegale. Al contrario, è una conseguenza diretta della sovranità popolare: chi ha “occupato” i poteri pubblici e li gestisce in modo da violare i diritti fondamentali dei cittadini, deve essere cacciato. Noi cittadini viviamo, ormai è chiaro, sotto occupazione. Spogliati da un occupante, che non ha il minimo interesse alla prosperità comune, alla giustizia e all’equità. Bisogna re-imparare a resistere. E’ dura, saremo minoranza, dovremo entrare in clandestinità, rischiamo il carcere (preventivo, ossia la tortura), la persecuzione giudiziaria e fiscale. Ma se non ci ribelliamo, ci faranno sempre eggio. L’albero della libertà deve essere annaffiato di tanto in tanto dal sangue dei patrioti e dei tiranni. E’ il suo concime naturale. di Maurizio Blondet

17 ottobre 2012

La singolare malattia della Monti-dipendenza

Chissà se gli italiani cominceranno a liberarsi dalla singolare malattia della Monti-dipendenza adesso che con la legge di stabilità il governo tecnico ha palesemente “toppato” o, per dirla altrimenti, è stato colto con le mani nella marmellata per avere fatto ricorso ad uno di quei mezzucci di cattura del consenso che sembravano appannaggio esclusivo di una deteriore classe politica. Che altro è difatti la mini riduzione dell'Irpef per i due scaglioni più bassi se non un tentativo di gettare fumo negli occhi? Il modesto beneficio, che secondo Monti dovrebbe costituire la prova della propensione del governo alla riduzione della pressione fiscale non appena se ne affacci la possibilità, è, difatti, accompagnato dall'aumento di un punto dell'Iva. Un aumento che, secondo i calcoli degli esperti, non solo pareggia, ma supera il beneficio Irpef anche per i contribuenti che ne usufruiscono e, soprattutto, colpisce senza compensi tutta la vasta area esente da Irpef per insufficienza del reddito (circa 8 milioni di cittadini, che è corretto definire “poveri”). Intendiamoci; la recessione economica non è colpa di Monti e va attribuita a fattori (la globalizzazione anzitutto) di molto anteriori alla intronizzazione per mano di Napolitano del governo tecnico. Monti e i suoi ministri hanno soltanto la funzione di fare accettare, se non con gradimento, con rassegnazione, provvedimenti che avrebbero provocato ben più dure reazioni in caso di varo da parte del governo Berlusconi e, in realtà, di qualunque governo politico (di qui la decisione di non sostituirlo immediatamente con un governo Bersani). Questo in realtà l'hanno capito tutti, ma non tutti (anzi pochi) sembrano rendersi conto che nulla cambierà in meglio quando Monti passerà la mano (se pure lo farà) a un politico, perché le cause della crisi economica sono tuttora vigorosamente all'opera. Mi auguro di essere cattivo profeta, ma in fondo al tunnel non s'intravede affatto la luce vagheggiata (o vaneggiata) da Monti, ma una situazione destinata a divenire per lungo o lunghissimo tempo la nuova realtà dell'Italia e dell'Europa: una realtà che fino a pochi anni fa avremmo definito da “terzo mondo”. Prendiamo la riforma delle pensioni, adesso calcolate e liquidate per rendere il sistema sostenibile sulla base dei contributi versati, il che già di per sé comporta una netta riduzione degli importi rispetto al precedente sistema retributivo. Non per nulla già da qualche anno i lavoratori vengono sollecitati a munirsi di forme integrative di previdenza e a tal fine si sono proposte varie forme volontarie di fondi-pensione. Purtroppo è fin d'ora certo che, per effetto della crisi e della conseguente difficoltà di trovare un lavoro stabile (o, peggio, una qualunque occupazione remunerata), in particolare le giovani generazioni (ma non solo loro) avranno pensioni al limite del livello di sopravvivenza, che in nessun modo potranno integrare. Difatti i lunghi periodi di disoccupazione da un lato incidono negativamente sull'importo dei contributi versati, dall'altro non consentono di destinare parte dei propri guadagni alla previdenza alternativa. Insomma il cane si morde la coda e non ci prova gusto. Al momento la situazione sociale è (quasi) sotto controllo non per merito di Monti, che anzi con il continuo aumento del costo della vita gioca all'amico del giaguaro, ma perché le generazioni da poco approdate alla pensione o sul punto di farlo hanno avuto la possibilità di risparmiare e possono dare una mano a chi il lavoro lo sta ancora cercando (e non lo trova o ha rinunciato). Tuttavia questi “anziani” relativamente fortunati non dureranno in eterno e in ogni caso la loro capacità economica e, quindi, di sostegno ai giovani, già intaccata da una esorbitante pressione fiscale, è destinata a diminuire di anno in anno, perché le pensioni, d'oro o di rame che siano, non vengono adeguate ai reali aumenti del costo della vita. L'inevitabile approdo è una generalizzata carenza di mezzi (vogliamo chiamarla col suo nome: povertà?), nella quale quasi per tutti diviene essenziale, in particolare nei momenti difficili (malattie, vecchiaia ecc.), il ricorso ai servizi pubblici, invece a loro volta oggetto di provvedimenti incidenti in negativo sul numero e l'efficienza delle prestazioni (si pensi ai continui tagli alla Sanità). Scarse le speranze di un'inversione di tendenza, dal momento che alla recessione economica si accompagna (l'ha anzi preceduta e si pone come una delle sue cause) la crisi della società civile che, malata di individualismo amorale, si mostra incapace di reagire e assiste immobile e passiva alla disgregazione di se stessa. di Francesco Mario Agnoli

16 ottobre 2012

La banca centrale pubblica argentina è un faro per la democrazia nel mondo

Quando l’equipaggio di una nave si trova in mare aperto, nel mezzo di una tempesta, e di una Tempesta Perfetta per giunta, l’unica cosa che vorrebbe disperatamente scorgere all’orizzonte è la luce di un faro. La salvezza, la terraferma. In Argentina, all’estremità sud del paese, poco più a est della Terra del Fuoco, si trova una piccola isola, quasi uno scoglio in verità, dove c’è un antico faro dal nome evocativo: il Faro della Fine del Mondo. Poco più in là c’è l’Antartide, con le sue immense distese di ghiaccio, voltandosi indietro si intravedono invece le sconfinate e rigogliose praterie argentine. E in mezzo il Faro. Un luogo magnifico ai confini del mondo, che non a caso lo scrittore francese di romanzi d’avventura Jules Verne, l’autore di “Ventimila leghe sotto i mari”, ha utilizzato per ambientare uno dei suoi libri meno conosciuti: “Il faro in capo al mondo”. In effetti a partire dal 1991, il faro argentino ha perso il primato di essere quello più a sud del mondo, perché né è stato costruito uno a Capo Horn in Cile, ma rimane sicuramente il monumento più antico e famoso, che oggi più che mai rappresenta un vero spartiacque simbolico di civiltà. Una speranza per tutti i naviganti che transitano da quelle parti e sono sommersi e travolti dalle onde della Tempesta Perfetta globale, senza sapere ancora come venirne fuori e quali strumenti utilizzare per domarla. In perfetta analogia, l’Argentina guidata dalla presidentessa Cristina Kirchner, così come il Venezuela di Chavez, l’Ecuador di Correa, la Bolivia di Evo Morales, è diventato un faro, una speranza per quei popoli del mondo, dall’Europa alla Cina passando per gli Stati Uniti, che oggi aspirano a ripristinare un regime democratico al servizio dei cittadini e dei diritti umani, dopo essere stati soppressi e repressi dall’occupazione quasi militare dei tecnocrati, dei faccendieri, dei politicanti, degli elefantiaci apparati dirigisti che lavorano alacremente soltanto per tutelare gli interessi delle lobbies finanziarie, dei comitati d’affari, delle corporazioni multinazionali. Un abisso di distanza in termini di cammino evolutivo della civiltà, che è ancora più accentuato dal fatto che la censura della propaganda di regime dilagante in Europa impedisce a noi cittadini di sapere cosa stia accadendo esattamente in Sudamerica, visto che gli organi di informazione su ordine preciso dei loro potenti committenti hanno completamente tagliato fuori dai circuiti della stampa e della televisione le notizie provenienti da quei paesi. Senza andare troppo per il sottile, il continente sudamericano è stato letteralmente cancellato dalle carte geografiche del mondo, perché i cittadini lobotomizzati e teleguidati d’Europa e degli Stati Uniti non devono sapere nulla dei cambiamenti che stanno avvenendo laggiù. I drastici mutamenti di paradigma rispetto al dogmatismo medievale dell’Occidente, con il loro cattivo esempio, potrebbero infatti spezzare di colpo la catena psicologica su cui si fonda gran parte dell’egemonia totalitarista che ci governa: TINA, There Is No Alternative, non c’è nessuna alternativa alla tecnocrazia neoliberista, si fa come dicono loro e basta. E invece, al pari di ogni altra questione che coinvolge la vita umana, l’alternativa c’è, eccome se c’è. E si chiama Argentina. La storia della crisi e successiva rinascita dell’Argentina è abbastanza nota e per certi versi, soprattutto nelle caratteristiche della fase di declino, molto simile a ciò che sta accedendo oggi nell’eurozona. Con il pretesto di creare maggiore stabilità nei rapporti commerciali con l’estero e in particolare con gli Stati Uniti, nel 1991 il governo Menem decide di ancorare il cambio del peso al dollaro, con una scellerata parità fissa di 1:1 che ovviamente apprezzava troppo la moneta argentina rispetto alla valuta statunitense. Il risultato è stato che per un certo periodo di tempo per gli argentini è stato molto conveniente importare prodotti dall’estero prezzati in dollari e questo eccessivo ricorso alle importazioni ha creato un deficit permanente nella bilancia commerciale, che è stato inizialmente compensato dal notevole afflusso di capitali e investimenti esteri. Sull’onda di questa maggiore fiducia e apertura del governo alle imprese straniere, le multinazionali americane ed europee strapparono facilmente diverse concessioni per gestire i servizi essenziali un tempo pubblici, dagli acquedotti all’energia, dall’industria estrattiva e mineraria alle telecomunicazioni, esportando i profitti in patria, lontano dall’Argentina, e ponendo le basi per un maggiore indebitamento estero del paese. Sia i titoli finanziari privati che quelli pubblici argentini, i famigerati Tango Bonds, venivano piazzati in tutto il mondo assicurando alti rendimenti agli investitori e fornendo un’illusoria parvenza di stabilità economica del paese. Si trattava però di un equilibrio molto precario e sono bastati gli effetti di contagio della crisi delle borse asiatiche del 1997 per mettere in ginocchio il paese e svelare al mondo la reale insostenibilità del suo straordinario sviluppo economico. I capitali esteri sui quali si fondava il sostanziale equilibrio contabile della bilancia dei pagamenti cominciano a fuggire dal paese, gli investitori più accorti vendono in fretta i titoli argentini per limitare le perdite e il governo si vede costretto a bruciare notevoli quantità di riserve di moneta estera per mettere in condizione i debitori di rimborsare i debiti contratti, ad imporre riforme di austerità per rastrellare liquidità dal basso e ad aumentare i tassi di interesse a livelli non più credibili, per favorire l’arrivo di nuovi capitali dall’estero. Questo circolo vizioso dura fino a dicembre del 2001 quando, sulla spinta delle proteste popolari, il governo decide di dichiarare default sul debito estero denominato in dollari, che ammontava a circa $95 miliardi, e i suoi maggiori rappresentanti sono costretti a scappare in elicottero dal paese per evitare il linciaggio. Da quel momento in poi si apre una pagina del tutto nuova nella storia dell’Argentina. Nel maggio 2003, dopo la parentesi della presidenza di Eduardo Duhalde durata due anni, viene eletto a capo del paese Nestor Kirchner, che comincia fin da subito un lungo braccio di ferro con il Fondo Monetario Internazionale per rinegoziare le condizioni di rimborso del debito: l’Argentina vuole ripagare i debiti ma secondo le sue modalità e i suoi tempi e non accettando passivamente le severe scadenze imposte dai creditori. In secondo luogo, con un piano progressivo di ristrutturazione il governo argentino si riappropria della gestione dei servizi pubblici essenziali, estromettendo le multinazionali, per consentire innanzitutto un maggior controllo sui prezzi di erogazione, e questo atteggiamento contrario agli interessi privati dei grandi colossi internazionali inasprisce i rapporti con il FMI, che delle loro logiche predatorie e parassitarie è il tutore a livello globale. A peggiorare ancora di più la situazione, Kirchner avvia politiche sociali per ridurre la povertà e la disoccupazione, cosa anche questa che fa infuriare il FMI, che proprio sulle ampie sacche di povertà e disoccupazione prodotte dalle sue stesse ricette di austerità crea i presupposti per fornire manovalanza a buon mercato per le multinazionali. Mentre continua senza sosta il duello frontale a distanza fra governo argentino e FMI, la rapida svalutazione del peso rispetto al dollaro seguita al default, che si aggira intorno al 200% con un rapporto di cambio ora più realistico e aderente alle esigenze dell’economia argentina di circa 3 pesos per un dollaro, fornisce intanto un doppio beneficio per la bilancia commerciale del paese: da un lato favorisce le esportazioni e dall’altro rende più costose le importazioni, a tutto vantaggio delle produzioni locali. Lentamente l’Argentina riesce a rimettere ordine nei suoi conti disastrati, anche se bisogna subito sottolineare, come già evidenziato in uno splendido articolo pubblicato sul blog Voci dall’Estero, che non è affatto basata sulle esportazioni la grande ripresa economica dell’Argentina, la quale dura inarrestabilmente dal 2° trimestre del 2002 fino ad oggi. Durante il periodo che va dal 2002 al 2011, lo stesso FMI certifica una crescita cumulata del PIL argentino del 94%, che equivale esattamente ad una straordinaria media annua del 9,4% (al pari se non più della stessa Cina), mentre il contributo delle esportazioni sul PIL cumulato nella fase più forte di espansione (2002-2008) si limita ad un modesto 7,6%, cioè solo il 12% del totale. Troppo poco per essere un fattore realmente decisivo e determinante. Se esaminiamo il grafico sotto possiamo in effetti notare che le esportazioni sono cresciute in valore, ma in relazione al ritmo travolgente di aumento del PIL l’apporto dell’export è diventato sempre più marginale e decrescente e se consideriamo infine il saldo netto fra export ed import avremo addirittura un risultato negativo (importazioni di poco superiori alle esportazioni). Ciò significa che la violenta accelerazione del PIL argentino è dovuta evidentemente ad altri fattori e in particolar modo proprio ai due elementi che vengono sempre ignorati nei programmi di “austerità espansiva” (un imbarazzante e assurdo ossimoro che circola impunemente nei messaggi rassicuranti della propaganda asservita, perché come stiamo sperimentando sulla nostra pelle, nel mondo reale non ci può essere mai crescita economica quando si tagliano le spese e si aumentano le tasse) promossi in Europa, negli Stati Uniti e nel mondo dalle orde oscurantiste e dogmatiche di neoliberisti al governo: l’aumento dei consumi e degli investimenti interni (rispettivamente il 45,4% e il 26,4% del totale). Entrambi questi obiettivi sono i più abbordabili da raggiungere per un governo che ha piena disponibilità della sua moneta e di tutte le leve di politica economica, a dimostrazione ancora del fatto che per avvicinare traguardi importanti e ambiziosi spesso bisogna seguire le vie più semplici e dirette, senza complicarsi la vita con gli inutili e pretestuosi tecnicismi inventati di sana piana per confondere le acque e i malsani suggerimenti di cattedratici ampollosi, arroganti, autoreferenziali, corrotti e distanti anni luce dalla realtà della vita quotidiana e dalle esigenze materiali di milioni di individui. Se vuoi aumentare i livelli di spesa, la crescita economica di un paese, devi mettere in condizione cittadini e aziende di spendere e di investire. Chi non capisce questo semplice concetto o è stupido o è stato pagato a sufficienza per far finta di essere stupido. Ma come si è potuta ottenere in Argentina un’esplosione così travolgente e rapida di tali fattori? Semplice, lo Stato argentino, sotto la guida di Nestor Kirchner prima e della moglie Cristina Fernandez a partire dal 2006, ha ricominciato ad attuare normalissime politiche economiche attive a sostegno della popolazione senza trincerarsi più dietro il vile arretramento imposto dalle cure indigeste del FMI e soci. Un esempio evidente è il programma di inserimento “Jefes de Hogar” (Capi Famiglia), tramite il quale sono stati messi a lavorare nel settore pubblico, in impieghi socialmente utili e spesso part-time, ben 2 milioni di disoccupati in un solo anno (il 13% della forza lavoro attiva), che dall’assenza di mezzi monetari hanno adesso un salario minimo garantito con cui potere soddisfare i bisogni primari del proprio nucleo familiare e programmare gli investimenti futuri. Il governo argentino ha poi direttamente organizzato progetti a livello federale, statale e locale e tra questi: grandi investimenti infrastrutturali e iniziative di riciclaggio, progetti di irrigazione e rinnovamento del suolo, assistenza sanitaria e centri diurni, pasti e rifugi per i senzatetto, biblioteche pubbliche e programmi ricreativi, agricoltura di sussistenza e programmi di assistenza agli anziani, centri contro la violenza in famiglia, e molte altre attività sociali. I posti di lavoro così creati nel settore pubblico non solo hanno prodotto reddito, occupazione, rilancio dei consumi e dell'attività produttiva, ma anche qualificazione, istruzione e formazione per tutti i partecipanti, credenziali queste che possono essere rivendute in futuro anche nel settore privato. Ma come ha potuto il governo argentino finanziare tutte queste attività? Anche in questo caso la risposta è abbastanza semplice: la banca centrale, il Banco Central de la Republica Argentina, ha rinunciato al dogma inutile e controproducente dell’autonomia e indipendenza e si è messa al servizio del governo argentino, finanziando la sua spesa pubblica tramite emissioni di nuova base monetaria (riserve bancarie elettroniche, banconote, monete metalliche). Analizzando i contributi netti al PIL cumulato nel periodo 2002-2011, avremo così che la spesa pubblica si aggira intorno alla considerevole quota del 35%: una cifra importante ma in verità molto inferiore rispetto per esempio alla spesa pubblica annuale in Italia, che supera spesso il 50% del PIL complessivo della nazione. Tuttavia, essendo stata convogliata verso finalità utili e redditizie e avendo messo soprattutto nuovi mezzi monetari nelle mani di chi per ovvi motivi ha più tendenza a spendere e consumare rispetto alla sterile tesaurizzazione precauzionale dei risparmi, la spesa pubblica argentina ha subito prodotto effetti positivi di espansione economica a tutti i livelli. Da notare anche che l’Argentina non si è volontariamente ingabbiata in frustranti vincoli di pareggio di bilancio, potendo quindi modulare il regime di tassazione progressiva e indiretta in base a quelle che sono le reali esigenze di contenimento dell’inflazione e mantenimento nel tempo del potere di acquisto del peso. In Italia invece non solo la spesa pubblica è sproporzionata e spesso inefficiente, ma i cittadini e le aziende sono pure gravati da un prelievo fiscale tra i più alti del mondo, che annulla sul nascere qualsiasi tentativo di mettere in atto politiche espansive. Mentre in Argentina si creano soldi dal nulla e questi soldi vengono spesi nell’economia reale, in Italia si prendono in prestito soldi dai mercati finanziari da spendere spesso in modo dissennato e a vantaggio di una ristretta casta di privilegiati e questi soldi più gli interessi devono essere poi prelevati dalle tasche dei comuni cittadini, dei lavoratori e delle aziende, con tutte le nefaste e inesorabili conseguenze che ciò comporta in termini di riduzione dei consumi e degli investimenti. Preso atto di queste circostanze più politiche che strettamente tecniche e della scelta suicida di sottostare ai mercati finanziari, non esiste allora alcun motivo per stupirsi o meravigliarsi se in Argentina l’economia continua a crescere mentre in Italia siamo in profonda recessione. E così strano che scelte tanto distanti fatte a monte dai rispettivi governi si riflettano poi a valle in effetti altrettanto divergenti e contrastanti? Non dovrebbe essere la semplice matematica a suggerirci che sarebbe andata a finire così? Fra l’altro il sostegno della banca centrale argentina non si limita soltanto al finanziamento dei piani di spesa pubblica del governo, ma anche ai programmi di ristrutturazione dell’intero sistema economico nazionale, avendo l’istituto appoggiato le iniziative di nazionalizzazione del settore pensionistico (niente di eccessivamente anormale o sconvolgente perché anche in Italia o in Germania gli enti di previdenza, l’INPS e il Deutsche Rentenversicherung, sono pubblici e nessuno hai mai gridato allo scandalo, accusandoci di statalismo) e delle maggiori imprese di estrazione petrolifera, come nel caso della YPF che prima era in mano alla spagnola Repsol. Queste operazioni del governo argentino sono state necessarie non solo per garantire ai cittadini l’erogazione dei servizi essenziali e la proprietà pubblica delle risorse strategiche, ma anche e soprattutto per difendersi dall’ostilità dei mercati finanziari e dal mancato afflusso di capitali esteri: se i profitti delle multinazionali straniere della finanza e del petrolio se ne vanno all’estero e contemporaneamente nessuno porta nuovi capitali, è chiaro che in assenza di queste drastiche scelte di riappropriazione a tappe forzate delle primarie risorse finanziarie e naturali, l’Argentina sarebbe stata stretta in breve tempo in una nuova morsa dell’indebitamento estero. A parte che bisogna ancora capire cosa ci sia di tanto immorale e sacrilego (agli occhi dei funzionari del FMI e degli squali di Wall Street naturalmente, non dei nostri) nel garantire ai cittadini di uno stato democratico e civile la continuità di erogazione della pensione, dell’elettricità, del gas, del carburante, visto che le privatizzazioni hanno storicamente arrecato più abusi, inefficienze e rendite di posizione, che reali vantaggi per i consumatori. E poi, non è umanamente più giusto e razionale che i profitti ricavati dalle risorse naturali di un territorio vengano redistribuiti tra i cittadini di quel paese, invece di arricchire i forzieri di pochi soggetti privati e persino stranieri? Domande davvero pesanti e improrogabili, a cui l’Argentina ha già risposto con fermezza, mentre i nostri governanti farlocchi e mercenari si ostinano ad abbozzare risposte approssimative e balbettanti, non più accettabili come chiusura definitiva e conclusiva del discorso. Si tratta dunque di quel radicale cambio storico di paradigma di cui abbiamo accennato all’inizio, che l’Argentina sta perseguendo con coraggio e determinazione e ha già messo in crisi parecchie volte le vecchie e sclerotizzate plutocrazie occidentali, che ancora hanno in patria la necessaria forza politica e finanziaria per tenere sotto scacco interi governi, sindacati, mezzi di informazione, opinione pubblica. Ma probabilmente il ribaltamento più interessante e rivoluzionario riguarda appunto lo stesso ruolo della banca centrale, che in Occidente riveste obblighi di tutela degli interessi privati e di stabilità dei prezzi, mentre in Argentina ha più decisamente intrapreso la strada della lotta alla disoccupazione e alla povertà, del sostegno all’economia reale, della stabilità finanziaria nel suo complesso, di cui il contenimento dell’inflazione rappresenta solo un tassello importante ma non prioritario. E i risultati raggiunti sembrano fino ad oggi premiare tutte le scelte fatte dalla banca centrale argentina perché la disoccupazione è scesa dal devastante 54% del 2001 all’8,3% (meno di Italia e Stati Uniti, e nulla in confronto ai livelli occupazionali e ai disagi sociali di Spagna e Grecia), il salario minimo garantito è cresciuto di ben otto volte, il PIL è in continua ascesa, il debito pubblico è diminuito dal 166% al 48%, gli interessi sul debito sono passati dal 21,9% al 6% del bilancio, il tasso di povertà è crollato dal 45% al 14%, con la povertà estrema ben inferiore al 7% (vedi grafico sotto). Dati entusiasmanti che fanno impallidire gli inqualificabili governi del rigore e dell’austerità disseminati in tutta Europa, in cui questi indici di prestazione economica e sociale sono tutti inesorabilmente e drammaticamente in caduta libera. L’unica vera incognita in questa carrellata di successi di politica economica è il dato sull’inflazione che secondo fonti governative sarebbe intorno al 10% annuo, mentre secondo i calcoli degli analisti del FMI avrebbe già sforato il 25%. Ed è proprio su questa interminabile diatriba riguardo ai tassi di inflazione e di crescita che è nato l’acceso scontro al vertice fra le due Cristine (descritto magistralmente dal grande Sergio di Cori Modigliani sul blog Libero Pensiero). La battagliera presidentessa argentina risponde colpo su colpo all’algida e inflessibile direttrice del FMI Christine Lagarde, che proprio in questi giorni ha estratto il primo cartellino giallo nei confronti dell’Argentina in attesa di ricevere dati economici più affidabili entro dicembre, ottenendo in tutta risposta la pronta replica di Cristina Kirchner: "il mio paese non è una squadra di calcio. È un paese sovrano e, come tale, non ha intenzione di accettare una minaccia". La situazione insomma è abbastanza compromessa e surriscaldata, ma in questa contesa cruciale per il destino e il significato stesso della sovranità democratica di una nazione, l’Argentina per nostra fortuna non intende arretrare di un passo, potendo contare sull’appoggio degli altri paesi sudamericani alleati e facendo da apripista per tutti quegli stati non più sovrani che vorrebbero magari in un prossimo futuro svincolarsi dalla stretta mortale del FMI e dell’Unione Europea (sono la stessa cosa, perché uno è il corollario dell’altra e viceversa), come la Grecia, la Spagna e la stessa Italia. In effetti, numeri alla mano, basterebbe solo mettersi d’accordo su quali beni e servizi considerare all’interno del paniere come base di calcolo dell’inflazione e il discorso sarebbe chiuso univocamente, anche se rimarrebbe ancora aperta la questione dell’aumento fittizio dei prezzi di alcuni prodotti agricoli ed alimentari dovuto alla speculazione finanziaria e alle scommesse sui derivati future. Fra l’altro, come ha già dimostrato l’ottimo Giovanni Zibordi sul sito Cobraf, si potrebbe procedere anche ad un calcolo indiretto dell’inflazione tramite il tasso di cambio delle valute nazionali in un regime di cambi flessibili, dato che tale rapporto riflette più o meno i livelli relativi dei prezzi interni ai due paesi presi in esame. A parte infatti le compravendite di moneta che avvengono a titolo puramente speculativo sui mercati valutari, un residente di un paese cambia la sua valuta in una valuta estera solo quando deve comprare dei prodotti da importare da quel dato paese e quindi lo stesso tasso di cambio delle due divise si allineerà in un certo senso al prezzo dei prodotti che verranno scambiati nei flussi incrociati fra i due paesi: più alto sarà il differenziale di inflazione del primo paese rispetto al secondo e maggiore sarà la svalutazione della sua moneta rispetto alla moneta del secondo paese, perché a parità di volumi di merci scambiate sarà più elevata l’offerta di moneta del paese più inflativo rispetto a quella del paese meno inflativo. Utilizzando questo semplice meccanismo, se confrontiamo il valore iniziale di cambio nel 2002 di 3 pesos per 1 dollaro con quello attuale di 4,7 pesos per un 1 dollaro avremo una svalutazione complessiva del peso del 56% rispetto al dollaro, e ricavando nel periodo considerato un’inflazione media negli Stati Uniti pari al 2,5%, avremo che l’inflazione media annua in Argentina in questi ultimi dieci anni sarebbe stata intorno all’8,1%, ben lontana dai picchi del 25% annui stimati dal FMI. Questo è lo stesso motivo per cui oggi possiamo dire con pochi margini di errore che l’uscita dall’euro della Grecia comporterebbe una svalutazione del 70% della nuova dracma nei confronti dell’euro, perché la somma dei suoi differenziali di inflazione rispetto alla media europea porterebbe a questo risultato. Mentre per la medesima ragione, a prescindere dai numeri catastrofici e dagli allarmismi ingiustificati sparsi a caso dalla propaganda per terrorizzare la gente, la svalutazione della lira sarebbe intorno al 20%. I numeri non sbagliano, mentre le voci di popolo sono e rimarranno sempre voci di popolo. Ma a parte i semplici strumenti analitici dell’economia che porterebbero a smontare la tesi del FMI e tralasciando per il momento il fatto che questi conteggi manterrebbero sempre un certo grado di approssimazione per la solita storia della differenza sostanziale di calcolo dell’inflazione negli Stati Uniti e in Argentina, la faccenda è più prettamente politica, morale, filosofica che tecnica. Quello che l’Argentina sta cercando di dimostrare al mondo intero è che l’inflazione non può essere considerato l’unico parametro di valutazione dello stato di salute e benessere di un paese, perché ne esistono molti altri, primi fra tutti i dati sull’occupazione e la povertà, e su questo versante non ci sono dubbi che l’Argentina sia un paese virtuoso perché sta utilizzando tutti gli strumenti fiscali e monetari a disposizione nel solo interesse del bene del suo popolo. Mentre al contrario, l’Europa con la sua maniacale e ossessiva fissazione sul dogma della bassa inflazione di derivazione monetarista e neoliberista, sta portando alla deriva la stabilità sociale, inasprendo i conflitti e creando immense sacche inferocite di disoccupati e nuovi poveri. Per capire meglio questo concetto, sarebbe opportuno rileggere con molta attenzione le parole del giovane economista argentino Ivan Heyn, morto suicida in un albergo a Montevideo a dicembre scorso in circostanze sospette, dopo aver partecipato “guarda caso” ad un turbolento incontro con i funzionari del FMI: “Che cosa me ne importa a me di avere un’inflazione al 3% come avete voi in Europa essendo infelici tutti, se io posso dare felicità alla mia nazione con un’inflazione al 30%? Lo so da me che va abbassata, ho studiato economia anch’io. Lo faremo. Ma lo faremo soltanto quando ci saremo ripresi tutti. Non prima. La felicità ha valore soltanto se può essere condivisa collettivamente, è una teoria economica, questa, e mi meraviglio che lei che viene dal Primo Mondo non lo sappia. La felicità per pochi privilegiati, non è vera felicità, è avidità bulimica. E’ un peccato mortale. Lo sa anche il papa. E noi siamo cattolici” (frase tratta sempre dal blog di Sergio di Cori Modigliani, che conosce molto bene come vanno realmente le cose in Argentina avendoci vissuto per parecchi anni). Una dichiarazione molto simile per certi versi agli illuminanti e memorabili discorsi dell’indimenticato presidente partigiano Sandro Pertini, quando diceva che un popolo povero, affamato, poco istruito, privo di giustizia sociale non può essere libero e la libertà è il maggiore valore fondante di una democrazia. E’ chiaro che in una fase di crescita economica tumultuosa come questa, il dato secco dell’inflazione passa in secondo piano rispetto ai parametri da cui può eventualmente scaturire un’impennata improvvisa dell’inflazione, che malgrado tutti i tentativi diffamatori e lesivi in Argentina non c’è ancora stata: livello di piena occupazione, saturazione della capacità produttiva, politiche salariali troppo espansive, aumento della domanda aggregata non più corrisposto da un contemporaneo aumento dell’offerta aggregata, mancanza di controllo sui prezzi, squilibri permanenti nelle partite correnti con l’estero. Siccome l’Argentina è ancora ben lontana dal raggiungimento di questi traguardi o fenomeni tipici della fase finale di un ciclo economico, ecco che il problema dell’inflazione per tutti i funzionari del governo e della banca centrale è in realtà un falso problema. E la grintosa governatrice del Banco Central Mercedes Marco del Pont (foto sopra: ogni paese ha le donne di potere che si merita, noi purtroppo abbiamo la Bindi, la Santanchè, la Tarantola e la Fornero) può orgogliosamente dichiarare che approvando ad aprile scorso la nuova Carta Organica, l’istituto sarà legato a doppio filo con le politiche del governo rinunciando alla pretesa di autonomia che non porta a nulla, tranne alla deflazione e recessione perenne. E secondo il nuovo statuto la missione primaria e fondamentale della banca centrale argentina non sarà soltanto “preservare il valore della moneta ma includerà anche lo sviluppo economico con giustizia ed equità sociale, l’occupazione e la stabilità finanziaria”. Un vero schiaffo di sfida nei confronti di tutti i principi antidemocratici e i valori antiumani su cui si è fondata nel tempo la supremazia schiacciante e scriteriata della finanza rispetto alle istanze razionali ed etiche degli stati ancora sovrani di gestire l’economia in modo sostenibile e solidale: 1) Lo sviluppo economico non piace alla finanza, perché quando i redditi si espandono, gli affari vanno bene, i debitori pagano i creditori, è difficile mettere in atto strategie di espropriazione di ricchezza ed estrazione di valore dal basso verso l’alto 2) La giustizia e l’equità sociale è una vera bestemmia per la finanza, che ha costruito le sue fortune sulla più diseguale redistribuzione e concentrazione di ricchezze nelle mani di pochi oligarchi che il mondo abbia mai conosciuto 3) L’occupazione non è mai stato un reale obiettivo della finanza, visto che, a parte gli istantanei guadagni speculativi sulle aspettative e sui dati forniti periodicamente dal governo, produce una maggiore spinta al rialzo dei salari dei lavoratori e minori rendimenti e profitti per gli investitori 4) La stabilità finanziaria non è mai stata una condizione propizia per chi vive di rendita e di speculazione, dato che riduce la volatilità dei titoli e la possibilità di fare grandi profitti in poco tempo. Non ci stupisce quindi tutta questa ostilità nei confronti dell’Argentina, sospinta e sobillata dagli ambienti che contano di Wall Street, della City di Londra, di Berlino, di Parigi, di Hong Kong, di Tokyo. Una carta di intenti di questo tipo avrà fatto sussultare sulla sedia migliaia di manager e dirigenti di grandi gruppi finanziari, che credono ancora per abitudine e convenienza che la banca centrale sia soltanto un ente privato al loro servizio, il cui unico scopo sia quello di fornire quantità illimitate di liquidità a comando e di mantenere nel contempo un alto valore e potere di acquisto degli immensi patrimoni accumulati. Un’istituzione chiusa e relegata al solo settore bancario e finanziario, come un vero e proprio Fortino Militarizzato di Ricchezze, che ha l’obbligo categorico di frenare qualunque assalto della società civile, dello Stato e della cosiddetta economia reale, ogni volta che questi ultimi rivendicano il sacrosanto diritto di avere i mezzi di pagamento necessari per una corretto funzionamento dei flussi commerciali e una migliore redistribuzione delle risorse finanziarie. Non a caso le riviste patinate più vicine al mondo finanziario hanno subito inserito la governatrice argentina Del Pont nella lista dei 10 peggiori banchieri centrali del mondo, basandosi evidentemente soltanto su preconcetti, pregiudizi o semplice antipatia personale perché in verità dati reali che confermino inconfutabilmente l’incompetenza e inefficienza della funzionaria ancora non ne esistono. La solita accusa meccanica e infondata che l’eccessivo ricorso alla creazione di nuova base monetaria, volgarmente chiamata “stampa di moneta”, porterà prima o dopo all’iperinflazione della Repubblica di Weimar o dello Zimbabwe dimostra invece una totale ignoranza dei meccanismi moderni di circolazione della stessa base monetaria (formata per il 97% da riserve bancarie elettroniche e solo per il restante 3% da banconote e monete metalliche), che è praticamente tutta interna al circuito interbancario, emergendo in superficie soltanto quando le banche concedono prestiti ai clienti o i clienti stessi prelevano allo sportello questi soldi virtuali ottenendo in cambio banconote. Solo così le famose banconote, che passando rapidamente di mano in mano farebbero aumentare la velocità di circolazione del denaro e innalzare di conseguenza l’indice dei prezzi al consumo, avrebbero un reale effetto inflativo, mentre in caso contrario l’unico modo in cui un banchiere centrale potrebbe assumersi la diretta responsabilità di aumentare la quantità di moneta circolante e produrre inflazione è quello di lanciare banconote da un elicottero. Con buona pace di tutti gli incalliti e retrogradi monetaristi, neoliberisti, devoti della sacralità dell’autonomia, della bassa inflazione e della rarefazione monetaria, il sistema monetario moderno funziona così e prima o dopo dovranno farsene una ragione. E’ l’inflazione a trainare la maggiore offerta di moneta da parte della banca centrale e non viceversa, così come è sempre l’inflazione ad influenzare in prima battuta la svalutazione della moneta e non viceversa (in seconda e terza battuta rientrano invece gli squilibri delle partite correnti con l’estero e le compravendite di moneta sui mercati valutari). L’esperienza del Canada, che ha una banca centrale simile a quella argentina autorizzata a supportare direttamente il governo e a partecipare alle aste primarie di collocamento dei titoli di stato (come accadeva in Italia prima del divorzio fra Ministero del Tesoro e Banca d'Italia del 1981), è abbastanza emblematica: malgrado la banca centrale abbia da sempre “stampato” moneta in accordo con il governo, in Canada, dal dopoguerra ad oggi, non abbiamo mai assistito a fenomeni iperinflazionistici. In sistemi invece meno solidali nella collaborazione con i governi e più orientati a foraggiare illimitatamente i circuiti bancari privati, come quello degli Stati Uniti, Gran Bretagna, Giappone, le rispettive banche centrali hanno allagato il mercato interbancario con immense iniezioni di liquidità, attraverso le cosiddette operazioni di quantitative easing, senza che questo diluvio abbia aumentato di un centesimo di punto percentuale l’inflazione percepita. Una simile circostanza è giustificata dalla semplice considerazione che queste quantità incalcolabili di riserve bancarie elettroniche sono appunto riserve e a parte l'irrisoria percentuale di richieste di conversione in banconote circolanti da parte dei clienti delle banche, il loro destino è già segnato: vengono custodite gelosamente nei conti di deposito dei singoli istituti presso la banca centrale in qualità di asset infinitamente negoziabile e liquido, trasferite senza sosta da un conto all’altro in cambio di titoli, utilizzate per compensare i pagamenti incrociati fra una banca e l’altra, senza mai vedere la luce del sole. L’unico modo, ripetiamo, per aumentare la massa di moneta circolante, ovvero i nostri depositi bancari e le banconote, è una maggiore attività creditizia delle banche commerciali, che come sappiamo può avvenire solo quando esiste una reale domanda di prestiti del mercato, sono verificate le garanzie fornite e i parametri di rischio del debitore, sono rispettati i requisiti patrimoniali della banca come richiesto dagli accordi bancari internazionali di Basilea. E sappiamo purtroppo per esperienza che quando l’attività creditizia delle banche è fuori controllo (boom), non solo ci sono rischi incombenti di inflazione (magari limitati ad un solo settore, come quello immobiliare), ma anche reali possibilità di nascita di bolle speculative che coinvolgono a cascata tutti gli altri settori, gli altri paesi fino a creare le premesse di interminabili crisi finanziarie globali. Così come sappiamo che quando l’attività creditizia si riduce drasticamente (crunch), la scarsità di moneta circolante che ne deriva può creare disastrosi effetti di deflazione dei prezzi, dei salari e depressione di un’intera economia. Gli enti governativi di vigilanza, in perfetta sintonia con le politiche monetarie di controllo dei tassi di interessi della banca centrale, dovrebbero essere efficienti e tempestivi abbastanza per mantenere un dosaggio equilibrato e stabile dell'attività creditizia, intervenendo direttamente solo in caso di evidenti deviazioni sia nell'uno che nell'altro verso. L’Argentina quindi, alla faccia di tutti i suoi detrattori, parte avvantaggiata sul versante della prevenzione dell’inflazione (e deflazione) anche per questo motivo: ha un settore bancario molto ridotto e in gran parte nazionalizzato, un’attività creditizia scarsa e frammentaria, un controllo di vigilanza molto preciso e puntuale da parte della sua banca centrale. Con queste premesse, è difficile che ci possano essere nell'immediato aumenti imprevisti di moneta circolante, eccessi di debito privato e quindi eventuali pericoli di inflazione, che non siano direttamente collegabili alla sola spesa pubblica dello stato, ed è forse questo il maggiore fattore che ha determinato il successo economico dell’Argentina: non la statalizzazione massiccia, ma la concentrazione dei flussi finanziari all’interno di canali molto esegui, visibili e facilmente controllabili. Al contrario di ciò che accade in Europa, negli Stati Uniti, in Giappone, non esistono in Argentina grandi gruppi finanziari e gigantesche corporazioni predatorie, fondi pensioni privati, banche ombre (shadow banks), banche d’affari, banche d’investimento specializzate in strumenti derivati, che possono soggiogare lo stato, orientare le scelte politiche e reprimere a loro vantaggio le richieste dell’economia reale sempre più allo sbando. Come dimostrato in un recente studio dal titolo già di per sé molto eloquente “Too much finance?”, scritto da tre importanti economisti, tra cui l’italiano Ugo Panizza, per conto dello stesso FMI, non esiste un collegamento diretto fra le dimensioni del settore finanziario e la crescita economica di un paese, anzi i dati dimostrano che aree con imprese finanziarie molto sviluppate, aggregate e ramificate spesso soffrono di prolungati periodi di recessione, mentre regioni in cui il settore finanziario è trascurabile, limitato e controllato sono protagoniste di altrettanti fasi di espansione economica. Un'evidenza empirica che ancora una volta da ragione alle scelte intraprese dall’Argentina e dovrebbe mettere in guardia tutti i ministeri dell’economia e delle finanze, gli enti di vigilanza e le banche centrali sparse nel mondo. L’unico serio rischio che corre l’Argentina è quello dell’isolamento, promosso dallo stesso FMI e dal boicottaggio delle nazioni neoliberiste europee, asiatiche, americane, che a lungo termine può compromettere la stabilità dei conti esteri. Ma anche qui la combattività del governo e della banca centrale, ispirata forse dal temperamento delle due donne al comando, non mostra segni di cedimento e in questi ultimi anni l’Argentina ha addirittura raddoppiato le sue riserve monetarie in valuta estera, che saranno utili per difendere o allentare in via preventiva la forza di cambio della valuta nazionale in caso di attacchi speculativi e per evitare ulteriori fughe di capitali all’estero, dovute principalmente ai timori di eccessiva fragilità della divisa nazionale. Considerando l’attuale situazione di equilibrio delle partite correnti della bilancia dei pagamenti, l’Argentina può dormire ancora sonni tranquilli, anche se prima o dopo parte delle sue riserve valutarie dovranno essere destinate al pagamento delle rate del debito estero congelato alle fasi immediatamente successive la dichiarazione di default del 2001. Nonostante però tutte le cupe previsioni di crollo imminente, l’ ultimo avviso ai naviganti potrebbe essere questo: non abbiate paura, panico, timore di osare, di capire, il Faro argentino rimane sempre lì, invisibile soltanto agli occhi di chi non lo vuole vedere. E un giorno non tanto lontano, se non verremo sospinti dalla tempesta sulle terre gelide dell’Antartide, è possibile che la sua luce intensissima indichi la via agli sparuti naufraghi dell’Occidente e a tutti coloro che sono ancora accecati dai bagliori fatui della propaganda di regime. In fondo, come dicono i Maya, il Giorno della Fine del Mondo si sta avvicinando a grandi passi e per evitare strane sorprese, sarebbe meglio prepararsi per tempo, prendendo spunto da chi è già in salvo e al sicuro. di Piero Valerio

15 ottobre 2012

Domare i banchieri non è facile come domare i tori

Ovviamente tutti sanno che in nessun caso è facile domare un toro, anzi, è del tutto impossibile. È vero che qui in Texas, nei numerosi rodei che vengono organizzati un po’ ovunque, diversi cow boys si cimentano nella gara a chi resiste di più in groppa ad un toro inferocito, ma solo i campioni resistono più di una dozzina di secondi, e molti finiscono a terra molto prima, qualcuno con un po’ di ossa rotte. Quindi quello che voglio dire è che, se domare i tori è impossibile, anche sperare di piegare i banchieri a fare ciò che non vogliono lo è in uguale misura. Loro sono troppo più forti di quelli che vorrebbero cavalcarli per accettare di essere cavalcati. Perché ho fatto questa similitudine? Perché proprio in questi giorni qualcuno in Europa ha finalmente avanzato una proposta, pur piccola ma seria, per risolvere il problema delle banche europee diventate troppo grosse. Essere grosse fa bene alle banche (finché non arrivano le crisi) ma fa male alla gente, perché quando le banche sono troppo grosse fanno quello che vogliono limitandosi (più o meno) a rispettare ciò che impongono le leggi. Includendo però in questo assunto anche il potere occulto di ottenere dai Parlamenti le leggi che fanno loro comodo. Ma quanto sono grandi queste banche per riuscire ad imporre a nazioni intere, e persino a grandi federazioni di Stati, come gli USA e l’Europa, i loro interessi? Lo dice, con una semplice comparazione, Jan Pieter Krahnen professore di Scienza delle Finanze all’Università di Francoforte (Germania): l’insieme di tutto il patrimonio delle banche europee è pari al 350% il volume di tutto il Prodotto Lordo della Comunità Europea. Vale a dire che le banche europee amministrano un patrimonio (cioè capitale proprio + debiti) che è tre volte e mezzo il valore di tutto quello che si produce in Europa. Ciò può significare due cose: o che hanno molte operazioni sull’estero, o che hanno in deposito nel patrimonio molta aria fritta (leggi: crediti inesigibili). Probabilmente sono vere un po’ entrambe le cose. Ma per capire l’entità, e l’anomalia, di questa cifra, basta fare il raffronto con lo stesso parametro calcolato sugli Stati Uniti: l’insieme patrimoniale di tutte le banche USA è pari all’80% del volume di tutto il Prodotto Lordo statunitense. Quindi si capisce agevolmente che le banche europee sono largamente sottocapitalizzate e pertanto sottoposte ad un livello del rischio di default (fallimento) molto più elevato. Si capisce altrettanto bene però che con queste dimensioni patrimoniali nessun paese si può permettere di far fallire le proprie banche e pertanto... “a mali estremi, estremi rimedi”, si salvano le banche sostenendole con aiuti di Stato (in inglese il “bailout”), oppure con le nazionalizzazioni (sempre più rare però, perché non conviene ai banchieri). Quindi il famoso “too big to fail” (troppo grandi per fallire) pronunciato nel 2008 come motivo per salvare con denaro pubblico le grandi banche americane, è tuttora in piena applicazione anche in Europa, soltanto che, visto cosa stava per succedere negli USA, gli europei non si azzardano a lasciarne fallire nemmeno una (di quelle molto grosse). Fino a circa metà degli anni 90 esisteva sia in Europa che in America una legge che teneva nettamente separata l’attività delle banche ordinarie da quella delle banche d’affari o d’investimenti (dette anche di medio-termine). Per effetto di questa legge in Italia le banche ordinarie potevano fare solo operazioni ordinarie con durata fino a 18 mesi, gli Istituti di credito a medio termine potevano fare solo operazioni con durata da 18 mesi in su. La differenza sostanziale però era nella forma di approvvigionamento dei capitali necessari a finanziare queste attività. Le prime (le banche ordinarie) si finanziavano massimamente con i depositi dei correntisti e con i depositi del risparmio a breve. Le seconde (gli Istituti di medio termine), non avendo sportelli per i conti correnti, si dovevano finanziare con l’emissione di certificati di deposito, perlopiù vincolati fino a scadenza, superiore ai 18 mesi. In questo modo veniva evitato che il denaro depositato a breve andasse a finanziare prestiti a scadenza lontana. Con l’invenzione della “cartolarizzazione” del debito, cioè la trasformazione di un debito a scadenza lunga (per es. i mutui) in titoli a risparmio trattati quotidianamente in borsa, si è pensato che quella prudenza non fosse più necessaria (Greenspan convinse Clinton in questo senso) e la legge venne abolita prima negli USA e poi in tutta Europa. Ma nel 2008 si è visto che quell’assunto era solo un illusione. Il mercato non si regola da solo, compete e basta. Lo squilibrio che si era formato tra un debito di durata ultradecennale (i mutui di 20 o 30 anni) e il loro derivato finanziario, trasformato in titoli al portatore che possono essere messi all’incasso tutti insieme nella stessa giornata, ha funzionato finché il mercato delle case e quello dei mutui è stato in crescita, ma quando è crollato e tutti (o buona parte) di quei possessori dei derivati finanziari hanno cercato tutti assieme di rientrare in possesso del loro credito, la crisi di liquidità è esplosa repentinamente, e le banche hanno rischiato tutte di fare la fine che ha fatto la Lehman Brother, cioè fallire. Allora qualcuno, tra i pochi nelle stanze dei bottoni che sembrano non del tutto legati al grande carrozzone, ha pensato che, non riuscendo a imporre legislativamente il ritorno della vecchia legge che separava le banche (negli Usa era la Glass-Steagall, in Italia il DPR 601), si sarebbe potuto ottenere più o meno lo stesso risultato separando quelle diverse attività all’interno della stessa banca. In Europa è stato in questi giorni Erkky Liikanen, delegato Europeo per la Banca Centrale Finlandese, a proporre ufficialmente di intervenire con la nuova regola sulle banche mettendo un differente parametro di capitalizzazione per i due comparti al fine di limitare il rischio proveniente dall’esagerata esposizione proveniente dalle operazioni sui derivati finanziari. Ovviamente, poiché il capitale proprio della banca è uno solo, il parametro diverso funzionerebbe per stabilire l’ammontare massimo delle operazioni sui derivati, che dovrebbe essere più rigido rispetto all’altro parametro, rivolto invece ad operazioni ordinarie molto meno rischiose. Questa proposta, che per le banche sarebbe certamente il male minore rispetto a quella di ripristinare le leggi anni ‘90, si scontra però con la già annunciata opposizione dei grandi banchieri, i quali lamentano che costringerebbe le loro banche a sostenere un grande onere amministrativo per creare all’interno della stessa banca due separate contabilità. Questo appare palesemente come un grande pretesto per non fare niente, dato che ogni grande banca ha già separate contabilità per ogni comparto di attività, ci mancherebbe altro! Il tutto si riunisce poi nel bilancio aggregato e consolidato. Quello che le banche non riuscirebbero a fare non è la separata contabilità, ma la capitalizzazione per mantenere adeguato il volume di attività rischiose. Questo è il principale motivo, insieme alla completa avversione per le “ingerenze” dei politici, per cui la proposta non piace e viene già contestata. Riusciranno i nostri baldi politici a fargliela digerire? È quasi impossibile. Io prevedo che il destino del povero Liikanen e dei suoi (pochi) alleati, sia lo stesso di quei cow boy che pretendono di cavalcare i tori. di Roberto Marchesi

13 ottobre 2012

Monti, i mercati e le alternative ai tecnocrati

Con le elezioni politiche all’orizzonte, nel dibattito pubblico non c’è traccia di una riflessione profonda sui contenuti e sui programmi sui quali gli italiani saranno chiamati a votare. Per questo abbiamo chiesto ad Augusto Grandi, giornalista del Sole24Ore, di commentare per Barbadillo.it le mosse di Mario Monti e i tentennamenti dei partiti, intimoriti dalla grisaglia dell’accademico milanese. Grandi è autore con Daniele Lazzeri e Andrea Marcigliano de “Il Grigiocrate” (fuorionda), un ritratto controcorrente dell’attuale presidente del Consiglio. Grandi, nell’ultimo mese – dall’inaugurazione della Fiera del Levante fino al Forum della Cooperazione di Milano – il presidente del Consiglio Mario Monti ha lanciato messaggi contraddittori in merito alla sua disponibilita’ a ricevere un nuovo incarico di governo. Da cosa nascono queste fibrillazioni? Da un lato i mercati, i veri padroni di Monti, vorrebbero la garanzia assoluta di essere tutelati e di poter continuare ad incassare i lauti interessi sul debito italiano. Per questo premono per la riconferma. Dall’altro il professore è perfettamente consapevole che il popolo italiano, quello che per lui rappresenta un fastidio ed un ingombro, non ha per nulla apprezzato le stangate del governo. Che hanno depredato i cittadini senza ridurre il debito (che è aumentato) e facendo crescere la disoccupazione mentre il Pil è crollato. Dunque c’è il timore di contare i sostenitori. Meglio il solito percorso: Monti si ritira, i “mercati” mettono l’Italia sotto attacco ed i partiti hanno l’alibi per richiamare il professore al governo. L’attuale esecutivo, pur appoggiato con linearità parlamentare da Udc, Pd e Pdl, registra a destra e tra i democratici forti critiche all’eventualità di un Monti bis. E’ un tema che potrebbe dividere le coalizioni che si stanno formando per le prossime politiche? In teoria sì. Ma dall’idea all’azione il passo è lungo. L’ala sinistra del Pd, oltre all’eventuale alleato Vendola, si rende perfettamente conto che le manovre di Monti sono fallimentari in assoluto e hanno costi altissimi per chi non fa parte della sedicente élite. Se le primarie le vincesse Bersani, riuscirebbe a tenere unito il Pd su una posizione di finta critica, con cambi modesti rispetto alla politica economica dei tecnocrati. Ma in caso di successo di Renzi, il Pd potrebbe ritrovarsi con ampie sacche di malcontento, a partire dall’ampio settore legato alla Cgil ed alla Fiom. Quanto al centrodestra, la voglia di fuga dal Pdl di parte della componente ex An è nota. Ma non può aver successo un nuovo partito che punti su vecchi personaggi. Inutile rifare An, o pensare al Movimento sociale, riproponendo ai vertici i responsabili del disastro attuale, tutti coloro che hanno rinnegato la provenienza politica, l’appartenenza, e che ora vorrebbero i voti dei “camerati”, dopo averli scaricati in ogni occasione pubblica. E poi i “colonnelli” hanno paura di tornare a confrontarsi in campo aperto, senza la comoda protezione di Berlusconi. L’Italia e i parametri europei: Monti è riuscito ad alleggerire la morsa tedesca sui conti italiani? Il problema non è la morsa tedesca, ma la servitù di Monti nei confronti delle banche e della speculazione. I tedeschi vogliono un’Italia meno competitiva sul fronte industriale e Monti sta distruggendo la manifattura italiana. Per far questo serve impoverire il Paese ed il Grigiocrate presidente del Consiglio sta eseguendo alla perfezione il compito che gli hanno affidato. Quanto peserà il fiscal compact sulle prossime politiche economiche italiane? Che margini di manovra restano per chi vincerà le elezioni? Il margine di manovra sarebbe ampio, se ci fossero politici competenti, coraggiosi, indipendenti. Politici in grado di strappare questo immondo accordo e rinegoziare il tutto. Ma politici così non abbondano. Quanto al peso sulle elezioni, sarà poco più che nullo. Pd, Pdl e Udc hanno votato il fiscal compact (con lodevoli eccezioni interne), dunque non avranno interesse a parlarne. Lega Nord e Grillini potranno anche parlarne a lungo, ma i media al servizio dei poteri forti non daranno certo molto spazio alle loro posizioni. Quale e’ stato il livello del dibattito parlamentare su un tema così delicato per gli anni futuri? Un livello inesistente, ed ignobile le rare volte in cui si è discusso. L’Italia verrà massacrata di tasse nei prossimi anni (45 miliardi di euro all’anno) e nessuno ha fiatato. Poche righe sui giornali e scarsissimi dibattiti. Nello scacchiere politico si preparano le alleanze in vista delle prossime elezioni. Che scelta potranno avere sulla scheda gli elettori che non hanno condiviso l’operato dell’esecutivo Monti? Le scelte sono limitate. Certo, parte della protesta confluirà sul Movimento 5 stelle, e non ha caso è stato subito messo sotto attacco con la consueta trafila di illazioni, polemiche interne, delazioni. Tutto già visto ogni volta che un movimento nuovo si è presentato sulla scena. Poi c’è la Lega Nord , alle prese con le squallide vicende interne (emerse, non a caso, appena la Lega si è schierata contro Monti) e con una gestione Maroni che non ha ancora individuato la propria strada. E anche l’Idv, coraggiosa su alcune scelte ma ampiamente reticente su altre. E con il problema, non da poco, delle candidature. Va bene il ruspante Di Pietro, ma altri personaggi – tra l’isterico ed il patetico _ sono francamente impresentabili. La Destra resta un’incognita, perché non basta avere un ottimo candidato in Sicilia per ottenere consensi ovunque. La classe dirigente del partito di Storace lascia molto a desiderare, in varie parti d’Italia. E con gli attacchi, orchestrati, contro i politici, sarà importante anche la figura di chi verrà presentato. Non basteranno le idee. di Augusto Grandi - Michele De Feudis

12 ottobre 2012

Si scrive “Italia”, si legge “la truffa eretta a sistema”

Ogni giorno se ne sente o se ne legge una “nuova”. Una più grave dell’altra, al punto che non esiste quasi più spazio per lo sbalordimento. Anche questo deve far parte del piano delle élite: assuefarci ad una sequela di “scandali” e “cose dell’altro mondo”, in maniera da far sembrare “normale” anche l’abominio più conclamato. Ma ogni tanto qualcosa riesce ancora a far drizzare i capelli. Da privati cittadini italiani è stata infatti depositata una dettagliata denuncia su una questione che riguarda tutti. Ma tutti davvero. Ascoltate attentamente quanto viene detto e rendiamoci conto di che cosa viene architettato da una ventina d’anni, di quali raggiri fraudolenti sono oramai capaci Lorsignori, per taglieggiare la gente: DENUNCIA - ESAUTORATI I CONCORSISTI PER METTERE I NOMINATI PER SVENDERE L'ITALIA Ora, che solo un manipolo d’impavidi patrioti (riuniti sotto la sigla “Albamed – Alba Mediterranea”) riesca a far emergere quello che dovrebbe uscire, coralmente, dall’animo di un popolo sano, non è una cosa da “paese normale”. Ma da una ventina d’anni, ormai, da quando hanno inscenato a più riprese la farsa della “moralizzazione”, che nei fatti – al di là dello spettacolo delle “inchieste” e degli “avvisi di garanzia” - si traduce nel sistematico saccheggio dello Stato, ci gabellano per “paese normale” una marea di assurde cretinate e di patenti falsità. Ne cito una che vale come paradigma della malafede di sedicenti “opinionisti” ed “esperti”. Alcuni ricorderanno che per un po’ di tempo hanno avuto libera circolazione “autorevoli pareri” a senso unico, in stile lavaggio del cervello, sulla “anormalità” del fatto che in Italia la maggioranza del “debito pubblico” fosse detenuta da creditori nazionali. “Non è una cosa da paese normale”, “in Europa, nei paesi avanzati (nello sfacelo!), fanno così e cosà”, sfoggiando la consueta sicumera di chi fa intendere “ma che ne volete sapere voi, noi siamo gli esperti!”. Bene, sono riusciti, con leggi-truffa (mentre dei “nominati” venivano piazzati al posto di chi ricopriva un ruolo dirigenziale dopo un concorso vinto), l’euro, la BCE e tutti i “trattati” cosiddetti (imposizioni), a ribaltare le percentuali del “debito pubblico” detenute da soggetti nazionali e non, a tutto vantaggio dei secondi; nello specifico, le medesime “banche d’affari” che poi si occupano, una volta fatto scoppiare il tal “scandalo” e fatto salire lo “spread”, di occuparsi della svendita dei “gioielli di famiglia”… Se a rendersi conto del livello della truffa in atto sono solo pochi coraggiosi italiani - e sottolineo italiani perché l’Italia bisogna anche amarla - armati unicamente del loro coraggio e dei residui spazi di libertà esistenti, mentre la maggioranza va dietro a questioni di nessuna importanza anche quando crede di “impegnarsi” (tipico il caso dell’odio indotto verso “la casta”), si può affermare di non essere più un “paese normale”. Che cosa fa invece il popolo? La mitica “maggioranza” che in “democrazia”, per definizione, “ha sempre ragione”? Bofonchia e tira a campare. Considera questi eroi dei nostri tempi come dei “mattacchioni” o “gente che non c’ha un c… da fare”. Degli “illusi” che battagliano coi mulini a vento. Al massimo dello slancio che può produrre, quest’ingombrante massa abituata a pane e circo, non vede l’ora di fare come in Spagna e in Grecia: scendere in piazza a “protestare”! Ma contro che cosa? Contro “la casta”? E in nome di che cosa, se non ha capito un fico secco di come viene truffata? Ma quando mai la “rivoluzione” la si fa nelle “piazze” e con la “presa della Bastiglia”? La “rivoluzione” comincia quando capisci dove e come ti stanno fregando. Che sei immerso in una truffa eretta a sistema. Bisogna lavorare per un cambiamento del paradigma dominante. Adesso ce n’è uno, perfettamente integrato nelle sue “parti” e a suo modo “coerente”, che sorregge, nella sua cerchia esterna, tutto quest’apparato di potere (“la casta”) che i più individuano come “il problema”. Ma quello è solo la scorza. Il problema vero è il nocciolo, la sostanza, altrimenti non sarebbe così difficile “cambiare le cose”. Basterebbe “indignarsi” e “protestare”, no? È difficile perché dentro, anche in quelli che “si oppongono”, circolano le medesime convinzioni, o meglio suggestioni, di fondo: più “democrazia”, più “diritti”, bla… bla… bla. Mai che ciascuno reclamasse di starsene finalmente al suo posto, nella posizione che la sua specifica natura gli ha assegnato. Sproloquiano di “casta” ma non hanno alcuna idea di che cosa significhi essenzialmente una vera casta: qui tutt’al più esiste solo una sterminata ed amorfa massa desiderante senza un alto e un basso. E poi, la fisima dell’onestà! Va bene che in democrazia i peggiori – i più arrivisti, i più scaltri, i più famelici – si piazzano sulla “poltrona”… Ma se chiedi “più democrazia” te la danno eccome, non vedono l’ora! Tutto questo “moralismo” non può produrre alcunché di buono perché la “morale” è solo un elemento, importante quanto si vuole, ma solo un pezzo di un mosaico che va ricomposto per intero a partire dalle sue tessere più importanti, che sono dentro di noi. Se l’ego vuole da mangiare, ci sarà sempre cibo in abbondanza. No, non è quella delle “piazze” la via. Bisogna ridare forma ai “valori tradizionali”, gli unici che – declinati in vario modo secondo le condizioni di tempo e luogo (la “tradizione” non è “immobilismo” né “conservatorismo”) - hanno permesso a tutte le comunità umane di funzionare bene e in ordine, con una legge certa, autorevole e rispettata a partire da chi dovrebbe dare l’esempio. L’esatto opposto della discrezionalità, dell’abuso e della truffa eretta a sistema, di questa parvenza di “legalità” contraddetta platealmente nei fatti (ma all’insaputa dei gonzi), così come impietosamente ed esemplarmente è stato messo a nudo dagli autori di questa denuncia, la quale, proprio perché non siamo un “paese normale”, verrà bellamente ignorata, a partire dagli organi preposti a prenderla in esame e a darle seguito. di Enrico Galoppini

11 ottobre 2012

Tutti con la carta di credito

Lo sapete? Entro pochissimi anni, si avvererà uno dei tanti sogni dei banksters: tutti dovremo avere la carta di credito per acquistare beni e oggetti che eccedono i 50 euro di spesa. Io non sono un esperto del sistema finanziario, né uno studioso di economia, ma certe considerazioni, per farle, basta un minimo di osservazione, esperienza e ragionamento. Del resto le “spiegazioni” dei tecnici mi interessano molto poco visto che so ben valutare da solo, il dare e avere che ne consegue. Vediamo: ripercorriamo questi ultimi anni, più o meno dalla Seconda Repubblica in avanti, dove passo dopo passo, ma con una pianificazione evidente, anche se poco percepibile dall’opinione pubblica, si portò avanti un progetto di adeguamento di tutta l’economia e la finanza del paese al sistema bancario nazionale e internazionale, favorendone i loro interessi. Iniziarono, guarda caso, i governi Amato e Ciampi (non sentite un tintinnio di squadre, finanza e compassi?), sostenuti indirettamente dalla sinistra post comunista, oramai liberal (quella che gira con La Repubblica in tasca) ad incentivare tutto quello che era possibile incentivare per adeguare l’economia e la società italiana al sistema bancario. Ma anche i governi di centro destra non furono da meno, indice di una subordinazione trasversale di tutti i politici alla City di Londra e a Wall Street. Ricordate quando, come fumo negli occhi, ci fu il “regalino” ai correntisti che i libretti di assegni non si sarebbero più pagati? Tutto non iniziò proprio da lì, ma noi possiamo benissimo prendere quell’avvenimento come punto di partenza. Ovviamente le banche in cambio dei foglietto di assegno gratuiti ebbero tanti e tali altri vantaggi da compensare ampiamente quei risibili costi, cosicchè i clienti in pochi anni si videro lievitare a dismisura le spese di tenuta del conto corrente, fino ad arrivare all’assurdo che un normale cliente che deposita una modesta somma in banca, ma poi neppure troppo modesta, a fine anno, tra costi di ogni natura e quel poco di interesse che ci prende, non compensa la spesa annua per questo suo deposito, mentre le banche, proprio con i soldi del cliente, moltiplicati per centinaia di migliaia di altri “castelletti” simili, li investe o li presta a sua volta con ben altre remunerazioni. Se non fosse tragico, ci sarebbe da ridere. E che ci fosse stato uno statista che intervenisse e mettesse un freno a questo sconcio, a questa rapina legalizza! Mai. Comunque sia, in quegli anni ‘90, in men che non si dica, si fece in modo di ridimensionare il valore del “mattone”, storico rifugio dei risparmiatori; i depositi bancari abbassarono a livelli irrisori l’interesse sui depositi; i libretti postali, altro storico rifugio di un popolo che è sempre stato amante del risparmio, dovettero adeguarsi per legge a quelli bancari; si tese a forzare l’indicizzazione delle rate dei mutui, e tante e altre disposizioni simili, furono introdotte, sotto traccia, nella nostra società: tutte gradite e utili alle banche. Tanto si sono impinguate e tanto potere anno eroso che non è un caso che oggi, ogni cento metri e spesso meno, trovate lussuosi sportelli bancari, a 5 o 6 porte, tutti blindati e super computerizzati, ma quasi privi di clienti: come è stato possibile? Non credete che un business e un motivo importante ci sia? Ma torniamo a quegli anni ’90 dove, nel frattempo il mercato azionario, da sempre visto con diffidenza dal nostro popolo, venne sponsrizzato alla grande e gli italiani che avevano qualche risparmio, di fronte ad un “mattone” che non dava più rendite e sicurezza e i conti correnti a risparmio che rendevano poco e nulla, si trovarono quasi costretti ad investire in titoli azionari. Anche le liberalizzazioni che nel frattempo spogliavano il paese di ogni sua risorsa, regalandola ai privati e alle banche d’affari internazionali, offrivano la possibilità di ampliare a dismisura gli investimenti in titoli azionari da parte dei cittadini. E tutti furono invogliati verso promettenti “offerte pubbliche” e la mecca della Borsa, con la messa in vendita di Azioni di importanti e conosciutissime aziende o imprese. Tutta una economia “virtuale” esplose alla grande, con immensa gioia di finanzieri e speculatori e amari pianti di chi, entro pochi anni, vide tutti i suoi risparmi e liquidazioni di anni di lavoro, svanire nel nulla: per dieci che ci guadagnavano, centro andavano sul lastrico. A simbolo di una nuova Era la figura del promotore finanziario prese decisamente quota, furono istituiti apposti albi e corsi, e i cittadini dovettero sorbirsi, pur se non richiesto, anche con telefonate a casa, “consigli” interessati per invogliarli investire il loro denaro. Al contempo, tutto il paese venne progressivamente invaso da proposte di accedere a prestiti, di acquistare beni di consumo con la formula del finanziamento facile: compri oggi e paghi in comode rate, iniziando tra sei mesi; le carte di credito vennero elargite con disinvoltura. Le cassette delle poste si riempirono di reclame per accedere ad un prestito, ad un finanziamento o per fare una carta di credito. Se anni prima, per ottenere un prestito, occorreva non essere protestati e poter dare garanzie, ora non c’erano più problemi: bastava una busta paga, ma poi, sarebbe anche bastato avere un conto in banca. Tra sub prime e ricollocazione di investimenti e prestiti a forte rischio, il mondo finanziario sapeva bene come far fruttare anche il giro di denaro virtuale, senza rimetterci. Neppure un mago ci sarebbe riuscito. L’obiettivo era chiaro: gli storici risparmi degli italiani facevano gola ai banksters e le speculazioni, in uno Stato che nulla provvedeva, ne legiferava, per proteggere i cittadini da questi avvoltoi, non avevano più freni. Da allora se ne è fatta di strada, del resto la Seconda Repubblica era nata proprio con questi presupposti: trasformare i partiti in aggregati di potere, puro e semplice, spogliandoli di ogni orpello ideologico e di rappresentativa sociale, adeguare il più possibile le Istituzioni al sistema anglosassone, il più idoneo a garantire il potere a lobby e consorterie. E quando parliamo di Lobby e Consorterie, quelle di genere finanziario sono le più importanti. Il resto lo conosciamo: i grandi Organismi mondialisti: dalla Banca Mondiale, al FMI, alla BCE, vigilavano, ricattavano e obbligavano i governi a sottomettersi all’usura da loro stessi messa in atto, a prendere “prestiti” per la nazione, fatti passare come aiuti, costringendo questi governi a distogliere ingenti risorse finanziarie per pagare i debiti contratti con questi malfattori. Il debito pubblico, tra signoraggio monetario, usura bancaria e imposizioni mondialiste non sarebbe mai più stato possibile azzerarlo, anzi non poteva che lievitare progressivamente determinando un cappio attorno al collo dei popoli, irreversibile. In ogni caso, intorno al 2007, l’economia virtuale crollò miseramente e non è peregrino ritenere che il “botto” venne anche “aiutato” a determinarsi per oscure manovre messe in atto dalla stessa Alta Finanza internazionale, anche se qualche banca ci rimetteva le penne. Quando si parla di Alta Finanza internazionale, infatti, seppur ci si riferisce ad una miriade di banche, credito, assicurazioni, ecc., in realtà il vero potere è concentrato in pochissime storiche famiglie che fanno e disfanno tutto il sistema a loro tornaconto speculativo e di potere. Il potere dei banksters comunque era così forte che subito Presidenti e Governi, quelli della stessa America compresi, hanno varato provvedimenti di “salvataggio delle banche”, devolvendo enormi capitali pubblici verso il mondo bancario, proprio quello che aveva determinato la crisi. E il popolo? Cornuto e mazziato! Comunque sia il “giocattolo” si era rotto: le “bolle” degli investimenti a rischio girati e rigirati erano scoppiate e al contempo nelle Nazioni l’economia e la finanza, stremate dal signoraggio monetario e dall’usura legalizzata, entravano in crisi costringendo i banksters a fare quello che non avevano mai fatto. Pensate forse che i banksters ritennero di limitare e rivedere le speculazioni, le imposizioni ricattatorie e lo strozzinaggio? Ma quando mai, anzi decuplicarono le imposizioni. Da sempre, infatti, il potere dell’Alta Finanza si era esercitato con discrezione, attraverso i politici e i partiti compiacenti, non a caso definiti i camerieri dei banchieri, e i banksters facevano un pò quello che hanno sempre fatto i Rothschild durante la loro rapace esistenza: essere i veri padroni di tutto, ma per interposta persona, non apparire mai direttamente e fare in modo che si parlasse di loro il meno possibile. Ora però la crisi finanziaria internazionale aveva determinato il rischio che qualche governo nazionale, sotto la pressante richiesta mondialista di devolvere tutto il bilancio statale al pagamento degli usurai, emanando misure lacrime e sangue, poteva tergiversare o non spingere, come preteso, la lama dei tagli fino all’osso del popolo. Tagli di ogni genere alle pensioni, tagli alla sanità, licenziamenti nel settore pubblico, limitazioni di spesa per tutte quelle necessità di cui uno Stato e i cittadini hanno bisogno. Niente, tutto deve essere devoluto per pagare il debito pubblico (una vera e propria invenzione dei banksters), per impinguare le casse del sistema bancario. Anzi occorreva anche introdurre una Legge, come è stato fatto, che rendesse obbligatorio per il bilancio dello Stato, tenere conto di questo famigerato debito pubblico obbligando il governo ad adeguarsi di conseguenza. Per far questo si imponeva però di mettere al governo i cosiddetti “tecnici”, tutti uomini usciti dal mondo bancari0 e finanziario, ma dovevano mantenersi per il tempo necessario e con il consenso dei partiti senza più diatribe, per esempio, tra un Prodi o un Berlusconi. I banksters erano costretti ad uscire allo scoperto. Potete ben immaginare quale era il compito assegnato ai “tecnici”, visto che questi soggetti, mai eletti da nessuno, a nessuno dovevano dar conto e quindi potevano emanare i provvedimenti più impensabili e restrittivi. Del resto ai politici tradizionali, ai cosiddetti partiti, come abbiamo detto, oramai ridotti ad aggregati di potere e centrali di corruzione, non gli pareva vero di lasciar fare il lavoro sporco ai “tecnici”, e non dover essere loro costretti a farlo. Da qui il sostegno bipartisan a questi governi diretta espressione dei banksters. Quello che hanno fatto in Grecia è sotto gli occhi di tutti, ma anche da noi non hanno scherzato e ancora hanno da fare, come per esempio ridurre gli stipendi e le pensioni anche direttamente e non solo indirettamente come hanno fatto fino ad oggi. Tanto per fare un altro esempio, il loro sogno, il sogno dei banksters, è quello che ogni cittadino, dalla culla alla bara, abbia la sua carta di credito e quella usi invece che il denaro contante. Un sogno che fa il paio con quello di obbligare tutti ad avere un conto in banca e che già negli anni passati costrinse coloro che esercitano una qualsiasi attività commerciale ad averne almeno uno. Il nostro Monti, ovviamente, appena messo al governo, provvide subito a costringere anziani e pensionati, spesso recalcitranti e diffidenti verso le banche (del resto i C/C sono ben lungi da essere gratuiti come si vuol far credere), a farsi il loro bel conto corrente bancario, mettendo un limite al prelievo in contanti delle loro pensioni. Ma questo per le banche era solo un palliativo L’ideale per loro è quello di costringere tutte le persone che acquistano o trattano un bene qualsiasi, un oggetto qualsiasi a pagarlo con la carta di credito. Che pacchia: un tempo lontanissimo le banche potevano emettere banconote in base alle riserve aure, poi questa proporzione fu lasciata cadere ed emettevano banconote eccedendo e di molto la copertura aurea, poi il sistema dei titoli e dei conti correnti prese sempre più a sostituire la carta moneta, ora si vorrebbe che questa scomparisse, in modo che tutto il giro di acquisti e vendite sarebbe regolato dalle carte di credito, da un clic del mouse, con grandi profitti per il mondo bancario e un evidente controllo su le spese del cliente. Per esaudire questi desiderata dei banksters, Monti ha però riscontrato alcune resistenze, causate dalle abitudini e dalla costituzione sociale della nostra economia, ma di certo non ci ha rinunciato, del resto proprio quello è uno dei compiti primari che gli è stato affidato. Non si dimentichi infatti che tutta l’economia una volta che sarà totalmente regolata dal sistema bancaria, amplierà a dismisura il potere dei banksters. Quindi verso questo obiettivo ci si arriverà gradualmente. Intanto è stato introdotto, a partire dal 1° gennaio 2014, per gli esercizi commerciali e non solo, l’obbligo di accettare carte di credito, per ogni pagamento eccedente i 50 euro. Capita la furbizia? Si comincia a preparare il terreno in modo che tutto sia predisposto, anche tecnicamente, per far poi scattare l’obbligo a tutti, acquirenti e venditori, di usare la carta di credito per ogni spesa oltre i 50 euro. L’obbligo vero e proprio, invece, quello che limita l’uso del contante solo sotto i 50 euro, è stato provvisoriamente rimandato a uno o più decreti del Ministero dello Sviluppo economico di concerto con il Ministero dell’Economia (meglio sarebbe stato chiamarli: Ministero dello Sviluppo economico delle Banche e Ministero dell’Economia bancaria). E’ così la carta di credito, marchingegno che dovendo comunque vivere in questa società dei consumi, poteva anche avere i suoi vantaggi, ma ovviamente come libera scelta del cittadino e non come imposizione e soprattutto se garantita da disposizioni di legge che ne limitano le speculazioni bancarie, di fatto, diverrà obbligatoria. Signori il gioco è fatto: cominciate a farvi almeno un paio di carte di credito, visto che una sola, per un qualsiasi motivo, potrebbe non bastare, e rassegnatevi ad essere sempre più avvolti nella ragnatela stesa su quasi tutto il pianeta dai banksters. Ma finchè c’è la fila, formatasi notte tempo, davanti ai negozi che vendono l’Ipod5, a chi gliene frega qualcosa? E poi c’è sempre qualche imbecille che ripete il mantra dei governi tecnici: sono provvedimenti atti a combattere il riciclaggio e le transazioni in nero. Beh, sapete che vi dico: che avendo la pistola puntata alla tempia, soppesando i pro e i contro, penso proprio che all’usura del signoraggio bancario, e preferibile quella del pizzo mafioso, e agli arricchimenti a dismisura delle banche, è preferibile che si arricchisca chi ricicla e tratta in nero. Senza dubbio. Ma fino a quando dovremo avere questa pistola puntata alla tempia? di Maurizio Barozzi

10 ottobre 2012

La Monti-dipendenza è un altro modo di chiamare l’Italia-impotenza

1) Stiamo vivendo in una fase di recessione economica, che ha reso manifesta la crisi della società civile, con l’eclissi della partecipazione politica delle masse, il degrado delle strutture statuali, il processo di disgregazione morale e civile di una società postideologica, rifondata, dalla fine del XX° secolo su una cultura e un sistema politico ispirato alla liberaldemocrazia occidentale. Il fenomeno della disgregazione sociale e politica di questa società era già latente negli ultimi due decenni, ma oggi si manifesta in tutta la sua drammaticità, con il declino economico, la disoccupazione, l’assenza di prospettive materiali e ideali per le giovani generazioni. Si riscontrano in questo stato di crisi epocale alcune evidenti contraddizioni. Le crisi sono fenomeni ricorrenti nel campo economico, tuttavia, sulla base della esperienza storica della società capitalistica, il sistema economico e politico è sopravvissuto alle sue crisi. Ma la presente crisi, oltre che l’economia, coinvolge anche le istituzioni politiche e gli equilibri sociali: trattasi di una crisi del sistema capitalista globale, che potrebbe non sopravvivere a se stesso. A tale stato di disgregazione sistemica, fa però riscontro l’immobilismo, sia individuale che collettivo di una società che assiste immobile e passiva alla disintegrazione di se stessa. Le crisi strutturali hanno sempre determinato storicamente la fine di sistemi politici e sociali ormai anacronistici, innescando processi di trasformazione politica, con relativo sconvolgimento degli equilibri sociali preesistenti: sono le crisi a porre i presupposti dei fenomeni rivoluzionari. Questo immobilismo sociale e politico, dovuto alla mancanza di reattività dei popoli (specie europei), dinanzi alla propria dissoluzione, è dovuto innanzi tutto alla falsa coscienza diffusa della crisi in atto, quale fenomeno congenito ai cicli economici di un sistema capitalista resosi assoluto, che, proprio per la mancanza di idee e prospettive diverse, trova in se stesso gli strumenti della propria rigenerazione. Nell’ottica del liberismo economico anzi, le crisi costituiscono fasi di trasformazione necessarie di un sistema di per se mai immobile, ma progressivo ed evolutivo. L’immobilismo sociale del presente è il frutto più maturo dell’individualismo generalizzato, che negli ultimi 30 anni ha mutato profondamente l’antropologia sociale dei popoli occidentali. Il sistema economico globale, in perenne mobilità e mutamento, per perpetuarsi ha necessità di oggetti individuali ed immobili, in quanto indifferenziati, fungibili, e sempre uguali a se stessi, da plasmare e integrare nella produzione e nel consumo del mercato globale. L’individualismo, in questo contesto, è astorico, immutabile incontestabile fondamento della natura umana. L’individualismo preclude la coesione e la solidarietà sociale, quei fenomeni cioè, in cui si può realizzare una reazione allo stato di cose presenti, quali elementi da contrapporre alla disgregazione della società. Il rapporto sociale è considerato con diffidenza e paura. L’essere sociale dell’uomo assume una connotazione negativa: se il mondo è capovolto, lo è anche la natura umana nella società contemporanea. Si avverte paura verso ciò che oggi non si conosce più, dato che l’individualismo è alla base della competizione liberista generalizzata e della selettività darwiniana sui sono soggetti gli individui nella perenne concorrenza selvaggia. La competizione, nelle fasi di crisi si accentua e accelera la disgregazione sociale, perché con la recessione la concorrenza diviene lotta per la sopravvivenza. L’individuo è immobile perché da almeno due generazioni le sue prospettive di vita sono solo di natura materiale ed individuale, ristrette cioè agli orizzonti del consumo, del proprio status sociale, delle ambizioni individuali, in una giungla sociale dominata dalla lotta per la sopravvivenza. Vorrei già cogliere in questa prima risposta il nucleo teorico espressivo delle tue riflessioni, in modo che le altre tre risposte siano soltanto articolazioni analitiche. Ti farò subito un elogio ed una critica. Un elogio, perché è vero che il paradosso del nostro tempo è proprio la compresenza, razionalmente contraddittoria ma esistenzialmente dolorosa, di un mutamento storico epocale, e quindi non di una sola crisi economica ricorsiva analoga a crisi precedenti e ben note, e di un immobilismo sociale apparentemente assurdo, perché in generale ad un momento storico “di mutamento e di trapasso (Hegel) si è sempre accompagnato anche un fiorire intellettuale di riflessioni. Una critica, perché tu sembri rifugiarti in una spiegazione largamente tautologica, quella dell’individualismo antropologico di massa. Non nego infatti che quest’ultimo esista, ed è proprio per questo che ho dedicato lunghi studi all’elogio del comunitarismo. Ma la progressiva costituzione antropologica dell’ “individuo immobile” (ottima definizione) non sta in fondo alla “catena dei perché. Cerchiamo allora di ricostruire, sia pure sommariamente, questa catena dei perché. Vedremo che (come cercherò di chiarire nella mia ultima quarta risposta) in questo modo potremo anche in parte illuminare l’enigma attuale della Monti-dipendenza degli italiani. Partiamo da un fatto, il fatto cioè che questa società sembra assistere immobile ed indifferente alla palese disgregazione di se stessa. Evidentemente non solo questa crisi non è percepita come irreversibile, ma si vuol credere ad una prossima ripresa della “crescita” (termine che ha ormai assunto un carattere religioso). Tuttavia, questi fenomeni illusionistici di massa non sono una novità. Negli anni Trenta gli ebrei europei non si aspettavano di essere sterminati. Volevano credere e si sforzavano di credere che oltre ad un certo grado di vessazioni non si sarebbe andati. Non possiamo allora spiegare questo immobilismo con l’individualismo di massa, anche se quest’ultimo ne è certamente concausa, che mi guardo bene dal negare. A mio avviso il vecchio capitalismo borghese, nato anch’esso in modo aleatorio a metà Settecento, è veramente giunto al termine, e non si tratta allora soltanto di una crisi ciclica e di una recessione temporanea, come recita la teologia liberale di Monti e di Draghi. Nello stesso tempo, il capitalismo in quanto tale non è affatto giunto al termine, e bisogna evitare di ricadere nelle illusioni “stadiali” che il marxismo ha intrattenuto per più di un secolo. Mi scuserei se insisto, ma so che tu sei stato biograficamente estraneo a quella particolare forma di religione imperfettamente laicizzata chiamata “marxismo”, mentre io ne sono stato un “credente” per decenni. Sebbene il baraccone del comunismo storico novecentesco (l’unico realmente esistito, perché non intendo calcolarvi i salotti romani Ingrao-Rossanda e le cooperative emiliane pre-bersaniane) sia ormai caduto da più di vent’anni, sono ancora vivi presso il ceto intellettuale gli effetti depressivi, relativistici e nichilistici di questo crollo inatteso. Con questo crollo è crollata anche la concezione stadiale della storia, basata sul mito borghese del progresso. Il nazionalismo cinese ed il post-modernismo europeo non ne sono che temporanei succedanei, in cui però il “temporaneo” può durare decenni. Tu stesso noti che il “rapporto sociale è considerato con diffidenza e paura”. Proprio così. Le generazioni del secolo breve (1914 - 1991 di Hobsbawm) e del secolo brevissimo (1914 - 1975 di Bontempelli, vedi Koiné in Il respiro del Novecento) hanno puntato tutte le loro speranze nel rapporto sociale, variamente interpretato a destra, al centro o a sinistra. Non è pertanto strano che le oligarchie oggi al potere puntino, per riaffermare il loro dominio, non in una nuova interpretazione di destra, centro o sinistra del rapporto sociale, ma sulla abolizione tendenziale del carattere normativo del rapporto sociale stesso. Resta l’apparenza normativa della legittimazione elettorale, che viene anzi estesa con bombardamenti ed embarghi nel mondo che non l’aveva ancora conosciuta, ma è sempre più svuotata di effettività politica, e la dicotomia bipolare viene reimposta come protesi di manipolazione per tifosi dipendenti dagli inputs del circo mediatico, prevalentemente televisivo. Questa società è quindi ad un tempo disintegrata ed immobile. Ed è immobile non tanto e non solo per ragioni di individualismo antropologico, quanto per il venir meno di una prospettiva visibile ed immaginabile di mutamento “verso il meglio”. Oggi prevale la sensazione di un futuro probabile “mutamento verso il peggio” e questo provoca paralisi. Non a caso chi sa di non poter affrontare con speranza di successo uno scontro fisico si copre gli occhi e la testa con le mani chiedendo al massimo pietà al vincitore. Anche oggi, in Italia, si spera che Monti e Draghi non infieriranno troppo. La prima analogia che mi viene in mente per descrivere l’attuale società è quella di “zattera alla deriva”. Immaginiamoci allora una zattera, in cui i naufraghi non dispongono neppure di rami, remi e pagaie per poterla minimamente dirigerla. Essi sono completamente in balia delle onde in tempesta (incarnate oggi dal cosiddetto “giudizio dei mercati”, “entità” che è del tutto al di là sia di Dio che del Progresso) ed è del tutto normale che diventino “individualisti”. Ma allora l’individualismo non è altro che un modo di ribattezzare il “grado zero della sopravvivenza”. Scrivo tutto questo con vero dispiacere. Non ho mai infatti aderito psicologicamente al fatalismo snobistico sulla insensatezza del mondo, ed ho sempre pensato che si trattasse di un lusso riservato ai ceti benestanti. In fondo, l’insensatezza totale della storia fu già teorizzata in modo insuperabile da Schopenhauer nel lontano 1819, ed ogni ripresentazione postmoderna di questo pessimismo non riesce ad aggiungervi nulla. Ma oggi l’immagine della zattera alla deriva ha perso ogni carattere letterario, ed è diventata la descrizione realistica di quanto ci sta circondando. E’ lo stadio ultimo della storia? Certamente no. Dio ci guardi e liberi dagli stadi ultimi della storia. Ma la zattera alla deriva può continuare ad andare alla deriva può continuare ad andare alla deriva per decenni, spinta dall’approdo al consumo di sterminate masse asiatiche e dall’incredibile quantità di capitali concentrati nelle mani delle oligarchie finanziarie. Certo avrai sentito parlare delle “profezie che si autorealizzano”. E’ forse il caso della vecchia darwiniana lotta per la vita e la sopravvivenza delle specie. Nel mondo della natura, però, molto spesso le specie sono solidali e collaborative al loro interno. Noi siamo invece riusciti a creare un mondo in cui si parla in teoria di uomo sociale e di ente naturale generico, ma nei fatti si è affermato lo stato di natura di Hobbes della guerra di tutti contro tutti. Il fatto è che lo scenario in cui stiamo vivendo, la compresenza di disgregazione sociale e di immobilismo politico, è una relativa novità storica, che richiederebbe un nuovo apparato concettuale di spiegazione. Proprio quello che giornalisti e professori universitari non ci daranno mai. E non solo non ce lo daranno, ma faranno un infernale fuoco di sbarramento di artiglieria chi si azzarderebbe a proporlo. 2) Il nostro presente, in una prospettiva storica, potrebbe essere considerato come la fase terminale di un processo di decadenza della civiltà e della società occidentale. Certo è che l’Europa e l’Occidente sono due entità storiche e culturali ben distinte e non assimilabili, ma tuttavia, dobbiamo oggi prendere atto che l’Europa non esiste (e soprattutto non è la UE), perché fagocitata ed omologata all’occidente americano. Pertanto, la crisi dell’Europa coincide con quella dell’Occidente e del primato americano irreversibilmente decadente. Ma anche l’analisi della presente realtà storica, conduce necessariamente a considerare, alla luce del decadimento culturale, morale e politico europeo, la crisi attuale come nella prospettiva di una fase finale di un lungo periodo di decadenza europea protrattosi per circa un secolo. La decadenza europea è un fenomeno presente nella coscienza delle generazioni che si sono succedute dal secondo dopoguerra in poi. La nostra generazione è forse l’ultima testimone dell’esistenza di una società in cui sopravvivevano valori, concetti, stili di vita estranei alla dinamica della società di mercato. Si può parlare dunque, alla luce di quei valori ormai quasi estinti, di una decadenza intesa come un’epoca di disgregazione sociale scaturita dall’avvento del sistema di produzione e di consumo proprio del capitalismo. Varie generazioni europee hanno convissuto con la decadenza. La loro cultura i loro stili di vita, il loro modo di essere nella società è stato permeato da questo spirito decadente. Ma la decadenza non ha suscitato reazioni di rilevo per arginarla, o tentativi di capovolgere questo presunto destino storico vissuto come ineluttabile. Gli stesi furori ideologici degli anni ’70 hanno rappresentato con evidenza la degenerazione storica di culture e fedi ideologiche ormai estranee alla realtà storica. La decadenza è invece l’immagine vivente di uno spirito di assuefazione passiva a destini storici prestabiliti dalla egemonia delle classi egemoni del capitalismo, le sole sopravvissute alla lotta di classe e quindi in grado di imporre il loro corso e il loro senso alla storia. Nella decadenza l’uomo si rifugia nella sua solitudine individualista, si estranea dai processi di trasformazione sociale in atto. Nella decadenza possiamo rinvenire la genesi dell’individualismo contemporaneo, dell’uomo autoreferente di se stesso, di una visione del mondo, di una prospettiva di esistenza limitata a vicende solipsistiche destinate ad esaurirsi in se stesse, senza lasciare traccia. Decadenza è sinonimo di rinuncia ad un senso della vita, di oblio dell’essere, di estraneazione dell’uomo da se stesso. Il tramonto dell’Occidente non deriva da una necessità storica, ma da uno stato della coscienza nichilistico, che si identifica nella alienazione di un uomo estraniato dalla società e dalla storia. Nella decadenza l’uomo occidentale ha comunque vissuto in uno stato di benessere, nel disimpegno morale, perché la decadenza comporta la assenza di creatività e di spirito di trasformazione. La decadenza ha aspetti economici, sociali e culturali del tutto analoghi. Si è vissuti di un capitale accumulato dalle precedenti generazioni, nei risparmi familiari, nelle strutture dello stato sociale, nel patrimonio culturale e storico oggi considerato come un insieme di beni obsoleti e quindi destinati alla musealità. Le capitali europee non sono forse dei musei viventi? La nostra società ha consumato le proprie risorse morali, culturali ed economiche senza essere capace di riprodurle ed il loro esaurimento è ormai un dato di fatto. Il capitalismo ha potuto prevalere attraverso l’abile impiego per i propri fini di tali risorse, generate da un passato anche premoderno, per imporre il proprio potere assoluto. Ma questa eredità si è adesso estinta. Lo steso capitalismo ha distrutto, secondo la logica del consumo illimitato, risorse naturali, materiali e morali rese ad esso funzionali, ma ora non più riproducibili. In questa crisi immanente, cosa rimarrà del capitalismo stesso, se porta in dote per il futuro solo i relitti della sua sistematica opera di distruzione della società, della storia, della civiltà? A proposito del concetto, della percezione e della realtà della decadenza, ne vorrei subito distinguere tre livelli: una decadenza personale o individuale, una decadenza generazionale ed infine una decadenza storica definibile in qualche modo “oggettivo”. La decadenza personale o individuale viene con il decadimento fisico legato all’età (uno dei fatti più comuni e nello stesso tempo più rimossi), e soprattutto con l’inaridimento delle proprie capacità creative, cui non basta ovviare con l’infinita ripetizione di ciò che è già stato detto in un tempo precedente. Questo decadimento è uno dei fenomeni più dolorosi che possano avvenire, ma ciò non la ovviamente nulla a che fare con un concetto storico “oggettivo” di decadenze. La decadenza generazionale è invece un fenomeno maggiormente storico, anche se intrecciato con una sensibilità esistenziale. Fra i quindici ed i trenta anni ci si socializza all’interno di determinate prospettive politiche e culturali, che inevitabilmente cambiano, perché raramente queste configurazioni sociali durano più di venti anni. A questo punto, giunti da una certa età, assomigliamo a dei poveri pedoni che si sforzano di correre per prendere l’autobus. Le porte dell’autobus sono ancora aperte e ci sono persino delle mani generose che si tendono per aiutarci a salire, ma sono le nostre gambe che non ce la fanno più ed allora vediamo l’autobus allontanarsi inesorabilmente. Personalmente, ho sempre questa impressione quando apro la televisione per sentire le notizie. Il senso di estraneità domina ormai sullo stesso sdegno per i continui scandali. Certo, si ha a che fare anche con un processo di assuefazione, come avveniva per il veleno, assunto dal re Mitridate. Ormai, se venissi a sapere che l’intera spesa pubblica italiana dedicata alla sanità è stata spesa in una sola grande orgia del ceto politico non riuscirei neppure più ad indignarmi, come sarebbe peraltro buono e giusto. Gli italiani si sono ormai “mitridatizzati” ed io con loro. Esistono solo alcuni giornalisti che si sdegnano moralisticamente a contratto, ma solamente quando la vergogna tocca la parte politica avversa. Tu proponi invece una nozione discutibile, ma “oggettiva” di decadenza, rilevando soprattutto due dimensioni. In primo luogo, il fatto che la nostra generazione è forse l’ultima testimone della sopravvivenza di valori in qualche modo “premoderni”, precedenti la dinamica della società integrale del mercato. In secondo luogo, il fatto che lo stesso capitalismo aveva fino ad oggi potuto riprodursi sfruttando elementi sociali e culturali pre-capitalistici, ed appunto pre-moderni. Potrei dire di me quello che ad un certo punto il critico francese Roland Barthes ha detto di se stesso: “Improvvisamente non mi ha interessato più nulla essere moderno”. La coazione dell’adeguamento forzoso ad una presunta e mai ben definita “modernità” ha caratterizzato gli ultimi decenni e lo stesso post-moderno nonostante la sua fondamentale ipocrisia ne è stato a suo modo una reazione. Nata con le migliori intenzioni, la modernità si è rovesciata dialetticamente in decadenza. Questa diagnosi era già perfettamente presente in Nietzsche, ma la sua comprensione è stata resa difficile dalla tendenza politicistica ad incasellare Nietzsche a destra o a sinistra. Il disincanto illuministico del mondo, salutato come un grande progresso umano universale, ha soltanto portato alla luce la “sventura” (non ricordo se lo abbia scritto Benjamin o Adorno, o tutti e due). Oggi viviamo in questa conclamata sventura. E’ importante capire che si tratta di una novità storica. A mio avviso, la riproduzione allargata di questa decadenza è ormai irreversibile, salvo improvvise ed imprevedibili catastrofi. Questo sistema del resto ha come principale sua base di legittimazione il ricatto “o me o la catastrofe”. Del resto, chi vuole riflettere filosoficamente su quella che tu chiami la “Monti-dipendenza” in Italia, non potrà che arrivarci da solo. Monti ha azzerato tutte le ideologie con cui per mezzo secolo erano stati addomesticati gli Italiani. Resta soltanto o il ricatto dell’Euro o l’elogio della zoccola (ho in testa la Minetti, ma non solo). Quando Erasmo da Rotterdam scrisse l’Elogio della pazzia, in realtà voleva mettere in guardia paradossalmente dalla pazzia stessa. Oggi, invece, i soli “oggetti” visibili sono il denaro e la fica. Tutta la polemica di origine sessantottina contro il moralismo borghese e piccolo-borghese ha distrutto i ruoli precedenti, con l’inevitabile ipocrisia che si portavano dietro. Se penso che Formigoni aveva fatto il voto di castità e di povertà, e la Chiesa ha sempre fatto finta di non accorgersene, ne concludo che ci meritiamo il gioco delle parti fra Vendola e Renzi, il matrimonio gay e l’autopromozione del fighetto in carriera. 3) La grave situazione economica italiana ed in larga parte europea non può essere superata tramite le strategie di salvataggio della BCE, né tantomeno con la devoluzione, di fatto della sovranità degli stati agli organi finanziari della UE. Appare chiara a molti l’irreversibilità di una crisi sia economica che politica. Solo mutamenti sistemici di vasta portata potrebbero creare nuovi orizzonti nell’avvenire delle nuove generazioni europee. In questo contesto di disfacimento degli stati e della società, solo un evento rivoluzionario potrebbe rappresentare la definitiva rottura con l’ordine capitalista assoluto. Ma una rivoluzione è oggi possibile? Le rivoluzioni sono eventi legati alle ideologie novecentesche, quindi, ad un periodo storico ormai esaurito. Ma non sarebbe possibile oggi la nascita di nuove ideologie compatibili con le esigenze, le contraddizioni, i problemi irrisolti della società del XXI° secolo? In realtà l’ideologia è una forma di interpretazione generalizzata della società e della storia: concezione oggi ritenuta superata, in considerazione delle fallimentari esperienze totalitarie del secolo XX°. Il credo ideologico, al pari della fede religiosa, per sussistere richiede riferimenti culturali e antropologici legati alla cultura europea classica, idealista e premoderna, oggi ritenuta non compatibile con lo sviluppo della società aperta della globalizzazione economica. Occorrerebbe dunque richiamarsi a forme di pensiero che trascendano l’economicismo autoreferente del nostro tempo, che prefigurino cioè una storia che non si identifichi necessariamente con il progresso illimitato, che generino quella utopia creatrice capace di restituire senso e finalità alla vita degli individui e dei popoli del nostro tempo. Ma ideologie e fedi religiose sono state emarginate e condannate come retaggi di secoli passati, come forme di pensiero atte a prefigurare fughe mistiche e orizzonti storici smentiti dallo sviluppo materiale di una società i cui valori si identificano con le certezze empiriche della scienza, della tecnologia, della economia del mercato globale. L’uomo contemporaneo è un individuo compiuto nella misura in cui si sia liberato della credulità mistico - ideologica dei secoli bui e assassini e soprattutto si sia liberato dal problema del senso di se stesso e della storia. Ma oggi è proprio la realtà materiale, fattuale, empirica a smentire le premesse di questo pseudo illuminismo riciclato come modernità del secolo XXI°. Anziché sviluppo c’è recessione, diseguaglianza e privilegi diffusi annullano di fatto ogni principio di eguaglianza, le libertà politiche vengono sempre più compresse dalle esigenze della competitività economica. La contraddizione è evidente, ma l’incapacità di ribellione allo stato delle cose presenti è dovuta proprio a quella mancanza di senso che pervade l’odierna società. E’ questa impossibilità anche solo di immaginare una società diversa e/o alternativa alla presente realtà storica a troncare le radici di ogni possibile rivoluzione e consente a questo capitalismo assoluto di sopravvivere ancora a se stesso: le macerie morali e culturali da esso prodotte sono i fondamenti della sua resistenza e sussistenza. La rivoluzione è diventata impensabile ed inimmaginabile proprio quando è ormai necessaria. L’immaginario politico occidentale da circa due secoli ruota intorno al concetto di rivoluzione, dando infatti luogo ai due campi simbolici complementari dei rivoluzionari e dei contro-rivoluzionari. I fatti del triennio 1989-1991, hanno inaugurato in Europa un’epoca che ha abolito il concetto di rivoluzione, identificato o con i fiumi di sangue dei fanatici o con le code per comprare salsicce e carta igienica. Solo uno sciocco privo di spirito dialettico poteva però pensare che l’abolizione della rivoluzione dall’immaginario sociale non comportasse anche conseguenze telluriche nella cultura complessiva. Molte proposte politiche, oggi, non incitano più alla rivoluzione (come hanno fatto per quasi un secolo i movimenti comunisti e neo-fascisti), ma ad una sorta di “conversione”. Pensiamo ad esempio alle recenti conferenze italiane di Serge Latouche, il profeta della decrescita. Latouche, con tutte le sue palesi buone intenzioni, non è in grado di chiarire in che modo possa iniziare a livello mondiale un processo equilibrato e democraticamente controllabile di decrescita e si limita a spiegare le ragioni per cui sarebbe auspicabile. In questo modo, di fatto, il suo discorso diventa religioso, simile a quello che fa Ratzinger, quando esorta a convertirsi. Del resto, non è certo la prima volta nella storia in cui l’eclissi di una prospettiva rivoluzionaria comporta il passaggio ad una generalizzata esortazione alla conversione. E’ invece la prima volta che sembra imporsi nella coscienza sociale una vera e propria irrappresentabilità del mutamento. In un esame comparato della storia mondiale nelle varie epoche, il mutamento mi è sempre sembrato costantemente rappresentabile. Un popolo era dominato da un altro e pensava, progettava o sognava di come liberarsene. Si potrebbero fare molti esempi di questo tipo, ma tutti arriverebbero alla conclusione del mantenimento di una prospettiva di uscita da una situazione ritenuta negativa. E’ evidente che tu imposti correttamente il problema quando parli letteralmente di forme di pensiero che trascendano l’economicismo. Dal punto di vista della teoria filosofica, è veramente così. Ma ad esempio anche la teoria della decrescita trascende l’economicismo, eppure non riesce a passare dall’invito alla conversione all’organizzazione della rivoluzione. L’economia si è evoluta da scienza particolare della produzione e della distribuzione della ricchezza a fondamento filosofico unico della riproduzione umana. A suo tempo, Roger Garaudy parlò opportunamente di monoteismo del mercato. Lo stesso pensiero di Marx, peraltro non privo di errori e di previsioni smentite dal processo storico, non intendeva dare vita ad una scuola economica, ma ad una critica generale e complessiva dell’interna società in quanto con la “critica dell’economia politica” intendeva una critica complessiva della società capitalistica. Non posseggo ovviamente la formula del superamento della visione economicistica del mondo. Riesco soltanto a pensarne le dimensioni geopolitiche legate alla sovranità nazionale e questo significa respingere in qualche modo la logica della globalizzazione. I cosiddetti movimenti no-global, peraltro non a caso in via di sparizione, sono in proposito del tutto inutili, perché rappresentano l’estrema propaggine storica della mentalità avanguardistica del Sessantotto. Essi affermano di non volere la globalizzazione e poi non vogliono cominciare dal ristabilimento della sovranità nazionale sull’economia, passo non certo sufficiente, ma almeno necessario per cominciare. Credo quindi che soltanto una catastrofe, o una serie di catastrofi, possa portare ad una inversione di tendenza. Non le auspico certamente, al contrario. Non lo vorrei, e vorrei invece una somma di conversione filosofica e rivoluzione sociale. Ma le oligarchie economiche hanno spinto a tale punto le cose da far diventare difficilmente pensabile un tale auspicabile scenario di transizione pacifica. In ogni caso, si tratterà di un problema che affronteranno le generazioni a venire, su basi teoriche che noi non possiamo neppure probabilmente immaginare. 4) Osservando la realtà politica italiana, quale viene rappresentata dai media, si ha l’impressione che l’Italia sia un paese Monti - dipendente. L’avvento del governo tecnico di Monti rappresenterebbe dunque un fatto epocale nella storia recente del nostro paese da cui non si possa prescindere nel futuro. In realtà non esiste una Italia ante - Monti e un’altra post - Monti. Il personaggio Monti è un tecnico, un uomo cioè imposto dalle oligarchie finanziarie della BCE e, con procedure poco ortodosse dal punto di vista costituzionale dal presidente Napolitano, al fine di compiere quelle manovre di austerity economico - sociale imposte dalla UE. Egli è dunque solo un tecnico, un materiale esecutore di quanto altrove deliberato per l’Italia. Si è fatto ricorso al tecnico Monti per attuare provvedimenti che i governi politici, anche se in stato di limitata sovranità ed eterodiretti dalla UE, si erano dimostrati incapaci di mettere in atto. Ma le linee fondamentali della politica italiana degli ultimi 20 anni sono rimaste identiche. L’esproprio della sovranità politica italiana in favore della UE ha avuto quasi definitivo compimento ma questa è solo la fase ultima di un lungo processo iniziato con la seconda repubblica. Se Monti succederà a Monti o gli subentreranno altri personaggi politici o tecnici, è una questione di scarsa rilevanza. Certo è che sia l’abbassamento dello spread che i rialzi delle borse degli ultimi tempi, non sono argomenti che interessino molto il cittadino medio italiano, dato l’espandersi della disoccupazione, l’innalzamento della età pensionabile, il potere d’acquisto dei salari sempre più ridotto, unito all’inasprimento senza limiti della pressione fiscale. Il mondo finanziario, causa prima del declino economico e sociale italiano, è sempre più lontano ed estraneo alla realtà quotidiana in cui si dibatte il popolo italiano. Nonostante tutto, la maggioranza degli italiani è ancora convinta della positività della esperienza governativa di Monti, forse terrorizzata dalla esperienza greca e/o da scenari apocalittici diffusi dai media in caso di fuoriuscita dall’euro. Forse il disfacimento del sistema non è giunto ancora al punto critico di non ritorno, forse in Italia non si è ancora diffusa sufficientemente nella collettività la coscienza della irreversibilità della crisi, perché possano delinearsi scenari di trasformazione rivoluzionaria di un sistema ormai condannato alla ineluttabile decadenza. Certo è che episodi come la probabile chiusura della Alcoa e le prospettive di dismissione degli investimenti della Fiat in Italia, potrebbero accelerare il corso di eventi ancora impensabili per la maggioranza della popolazione. A proposito della cosiddetta Monti-dipendenza (mi congratulo con te per l’ottima e sintetica definizione) credo che abbiamo a che fare col vero nucleo teorico del problema. E definirò questo nucleo teorico come una generalizzata perdita di controllo conoscitiva del presente inteso come storia. Permettimi di disaggregare concettualmente la definizione: generalizzata perché riguarda tutti, anche se è veicolata ideologicamente dal ceto corrotto degli intellettuali, frazione dominata dalla classe dominante (che resta la sola oligarchia finanziaria); perdita di controllo conoscitiva significa perdita di capacità di analisi strutturale dei meccanismi di riproduzione (capitale finanziario) e di legittimazione (simulazioni elettorali periodiche prive di sovranità politica); presente inteso come storia significa che anche il presente, prima di essere cronaca, è innanzitutto storia, anche se ovviamente manca la necessaria prospettiva temporale che sola permette i bilanci storici seri. Voglio fare due esempi pittoreschi di questa Monti-dipendenza, uno riguardante l’attore romano Carlo Verdone e l’altro l’intellettuale torinese della sinistra politicamente corretta (politicamente corretta=operaismo testimoniale + azionismo moralistico) Marco Revelli. Interpellato dal quotidiano “La Stampa” (21.09.2012), Verdone prende spunto dalle ultime maialate del ceto politico professionale romano “di destra” (Fiorito eccetera), le condanna con virtuosi accenti alla Beppe Grillo, afferma che costoro non hanno solo rubato la torta, ma addirittura svuotato la pasticceria, e poi finisce in bellezza dicendo: “E meno male che abbiamo Monti, almeno sta facendo il possibile per mettere toppe, e poi dobbiamo anche ringraziare Mario Draghi”. Si dirà che Verdone è un attore comico, e non possiamo pretendere da lui analisi strutturali. Ma passiamo a Revelli, storico-sociologo di professione, intellettuale invitato permanente dal “Manifesto”, dal TG3, e da Rai News. Quando Monti fu insediato, lo vidi che ne faceva un elogio sperticato in nome del fatto che “almeno ci farà fare bella figura all’estero”, in quanto il puttaniere maialone Berlusconi con i suoi volgari apprezzamenti sul culone della Merkel era ormai impresentabile. Se fosse rimasto anche solo un briciolo di capacità di analisi strutturali del presente storico, si sarebbe capito che così come dietro il livello delle orge di Tiberio e Nerone ci stavano i problemi strutturali della produzione schiavistica, analogamente dietro le maialate di Berlusconi ci stava la sua incapacità di far passare misure antipopolari di massa, per cui ci voleva un “tecnico” anglofono percepito come indipendente con le mani pulite. E pazienza se l’attore Verdone non lo capisce. Ma che non lo capisca lo sputasentenze Revelli significa che ormai che ogni capacità di analisi strutturale è perduta. Nella mia prima risposta che qui non riprendo nei particolari mi sono già chiesto se questa crisi sia o no irreversibile. Ricorderai che ho risposto in modo intermedio: questa crisi non è una semplice crisi ciclica come quelle che l’hanno storicamente preceduta, ma nello stesso tempo non bisogna illudersi sul fatto che sia una “crisi finale”, destinata a dare luogo ad un mondo in qualche modo nuovo. Ora in questa mia quarta risposta vorrei tornare a questa impostazione calibrandola proprio sul caso della Monti-dipendenza. L’Italia è davvero oggi un anello debole dell’Europa. Ma il termine “anello debole” non deve essere inteso nel senso di Lenin, come eccezione che può favorire una rivoluzione (nei termini del trotzkista Pasquinelli, una sollevazione). L’Italia è un anello debole perché è un paese in via di progressiva deindustrializzazione, che ha un ceto politico parassitario strutturale (particolarmente volgare a destra, “ipocrita” al centro ma ben radicato anche a sinistra) che evidentemente non si riesce a togliere né con Mani Pulite, né con altri accorgimenti giudiziari. Si tratta probabilmente dell’eredità sociologica della Prima Repubblica (1946-1992), in cui il gonfiamento degli apparati politici era funzionale alla stabilità strategica di un paese di “frontiera dell’Occidente”. Il ventennio berlusconiano (1993-2011) non ha potuto cambiare le cose sul piano strutturale, ma ha permesso alla “destra” di legittimarsi e di mostrare la sua vera faccia (quella delle maschere di maiale dei festini della destra romana della Regione Lazio), ed alla “sinistra” di riciclarsi facendo dimenticare con l’anti-berlusconismo ossessivo di essersi legittimata per decenni ingannando le masse con la prospettiva illusoria della via italiana al socialismo. Il “bonapartismo” di Monti appare inspiegabile al di fuori di questo vuoto pneumatico di cultura, di ideologia e di prospettiva. Abituati da lungo tempo a non pensare più con la propria testa, Monti semplicemente è il successore di una lunga serie precedente, Giolitti, Mussolini, Togliatti, Andreotti, Craxi, Berlusconi, etc. Più esattamente, non credo basti dire che l’Italia è oggi Monti-dipendente. L’Italia è oggi un paese ad amministrazione controllata, in quando la sua intera sovranità economica è avocata dalla Troika e l’intera sovranità militare dall’alleanza NATO. In Grecia (Samaras) ed in Spagna (Rajoy) è stato possibile delegare l’amministrazione controllata ad esponenti del ceto politico tradizionale di centro-destra, ma in Italia questo si è rivelato impossibile per il doppio e concomitante fenomeno del berlusconismo, da un lato, e l’interminabile riciclaggio dell’ex-PCI, dall’altro. Fenomeni ridicoli come Vendola (a sinistra) e Renzi (a destra), al di là degli aspetti di superficie (rottamazione generazionale, matrimoni gay, eccetera), sono semplicemente la superficie di assestamenti geologici di lungo periodo e di normalizzazione dell’elefante-PCI. La Monti-dipendenza non è che la manifestazione del fatto che le tare storiche della modernizzazione italiane non potevano essere colmate da forze sovrane, come sono pur sempre Berlusconi e Bersani. Succederà Monti a se stesso nel 2013? Scrivendo queste righe nel settembre 2012 non posso certo saperlo, perché non ho la sfera di cristallo. Ma se i particolari di quando avverrà fra qualche mese sono ancora oscuri, non lo è la politica economica eterodiretta che il cosiddetto impegno europeo ci chiederà. Un Monti con Monti o un Monti senza Monti può essere interessante per i maneggi del ceto politico, ma non per l’italiano qualunque. A proposito del corpo elettorale, una parte si asterrà perché ha capito di non essere più sovrano (ed anche perché ci saranno sempre meno soldi a pioggia per le clientele fameliche), una parte voterà Grillo, e la parte restante si dividerà nelle collaudate tifoserie di destra e di sinistra, tifoserie che rendono possibile la legittimazione politica dell’attuale riproduzione oligarchica. Personalmente sono d’accordo con i sovranisti (vedi l’economista Bagnai), ma non credo che gli italiani siano pronti per il sovranismo. Ne avrebbero troppa paura. I giornali sono sempre pieni di scandali e scandaletti (ormai la “Repubblica” è diventata asfissiante, sembra che al mondo ci siano solo Formigoni e la Regione Lazio), ma sono i dati fondamentali dell’economia quelli che contano ed essi non sono forse ancora catastrofici, ma vanno inesorabilmente in discesa. La Monti-dipendenza è un altro modo di chiamare l’Italia-impotenza di Costanzo Preve - Luigi Tedeschi