30 aprile 2008

Un popolo camaleontico

Il carro dei vincitori non riesce ad accogliere tutti i "saltatori". Immagini e pensieri che ritornano a luglio 2006 dove la nazionale di calcio conquistò la vetta più elevata. A roma non bastarono pullman scoperti per contenere tutta la folla. Adesso, è lo stesso caso. Un popolo che per forza o debolezza si adatta alla situazione vincente del caso. E' un bene o un male? Penso che non sia nè l'uno, nè l'altro è il DNA.

Spiaceva quasi, l’altroieri, sentire l’intera piazza San Carlo che sfanculava ogni dieci minuti Johnny Raiotta, il direttore del Tg1 che fa rimpiangere Mimun. Troppi vaffa per un solo ometto. Poi però uno rincasava, cercava il servizio del Tg1 di mezza sera su una manifestazione criticabilissima come tutte, ma imponente, che in un giorno ha raccolto 500mila firme per tre referendum. Invece, sorpresa (si fa per dire): nessun servizio, nessuna notizia, nemmeno una parola.

Molti e giusti servizi sul 25 aprile dei politici, sulle elezioni a Roma, sul caro-prezzi, sul ragazzino annegato, poi largo spazio alle due vere notizie del giorno: le torte in faccia al direttore del New York Times e la mostra riminese su Romolo e Remo (anzi, per dirla col novello premier, Remolo). Seguiva un pallosissimo Tv7 con lo stesso Raiotta, Tremonti, la Bonino e Mieli che discutevano per ore e ore di nonsisabenechecosa. Raiotta indossava eccezionalmente...
una giacca, forse per riguardo verso il direttore del Corriere. Questo sì che è servizio pubblico. Così, nel tentativo maldestro di contrastare - oscurandolo - il V-Day sull’informazione, Johnny Raiotta del Kansas City ne confermava e rafforzava le ragioni.

E anche i giornali di ieri facevano a gara nel dimostrare che Grillo, anche quando esagera, non esagera mai abbastanza. Il Giornale della ditta, giustamente allarmato dal referendum per cancellare la legge Gasparri, sguinzaglia per il terzo giorno consecutivo un piccolo sicario con le mèches in una strepitosa inchiesta a puntate: “La vera vita di Grillo”. Finora il segugio ossigenato ha scoperto, nell’ordine, che Grillo: da giovane andava a letto con ragazze; alcuni suoi amici, invidiosi, parlano male di lui; la sua villa a Genova consuma energia elettrica; ha avuto un tragico incidente stradale; è genovese e dunque tirchio (fosse nato ad Ankara, fumerebbe come un turco); nel suo orto ha sistemato una melanzana di plastica; ha avuto un figlio “nato purtroppo con dei problemi motori” (il giornalista è un cultore della privacy); e, quando fa spettacoli a pagamento, pretende addirittura di essere pagato. Insomma, un delinquente. E siamo solo alla terza puntata: chissà quali altri delitti il Pulitzer arcoriano - già difensore di Craxi, Berlusconi, Dell’Utri e Mangano - scoprirà a carico di Grillo.

Nell’attesa, il Giornale ha mandato al V2-Day un inviato di punta, Tony Damascelli. Il quale, mentre il Cainano riceve il camerata Ciarrapico, paragona Grillo a Mussolini chiamandolo Benito e poi si duole perché piazza San Carlo ha applaudito a lungo Montanelli (fondatore del Giornale quand’era una cosa seria) e Biagi, definito graziosamente “il grande disoccupato”. La scelta di inviare Damascelli non è casuale, trattandosi di un giornalista sospeso dall’Ordine dei Giornalisti perché spiava un collega del suo stesso quotidiano, Franco Ordine, spifferando in anteprima quel che scriveva all’amico Moggi. Siccome l’Ordine non è una cosa seria, lo spione non fu cacciato, ma solo sospeso per 4 mesi. E siccome Il Giornale non è (più) una cosa seria, anziché licenziarlo l’ha spostato in cronaca. E l’ha mandato al V-Day che aveva di mira, fra l’altro, l’Ordine dei Giornalisti. Geniale.

Il Foglio, per dimostrare l’ottima salute di cui gode l’informazione, pubblicava proprio ieri un articolo di Roberto Ciuni, ex P2. Ma, oltre ai giornalisti-cimice, abbiamo pure i giornalisti-medium. Quelli che non han bisogno di assistere a un fatto per raccontarlo: prescindono dal fattore spazio-temporale. Il Riformista, alla vigilia del V-Day, già sapeva che sarebbe stata una manifestazione terroristica, “con minacce in stile Br ai giornalisti servi” (“Le Grillate rosse”). Ecco chi erano i 100 mila in piazza San Carlo: brigatisti. Francesco Merlo se ne sta addirittura a Parigi: di lì, armato di un telescopio potentissimo, riesce a vedere e a spiegare agli italiani quel che accade in Italia. Ieri ha scritto su Repubblica che “in Italia c’è sovrapproduzione di informazione” (testuale): ce ne vorrebbe un po’ meno, ecco.

Quanto a Grillo, è “in crisi” (2 milioni di persone in 45 piazze) e “non riesce a far ridere” (strano: ridevano tutti). Poi, citando Alberoni (mica uno qualsiasi: Alberoni), ha sostenuto che “in piazza c’erano umori che non s’identificano con Grillo”. Ecco, Merlo è così bravo che, appollaiato tra Montmartre e gli Champs Elysées, riesce a penetrare la mente e gli umori dei cittadini in piazza a Torino, Milano, Bologna, Roma. E spiega loro che cosa effettivamente pensano. Più che un giornalista, un paragnosta. Finchè potrà contare su fenomeni così, l’informazione in Italia è salva. Di che si lamentano, allora, Grillo e gli italiani?

fonte:by voglioscendere

29 aprile 2008

La Trilaterale: i manager del nuovo ordine mondiale





Mentre i media, riparlano di stupri e veline, qualcuno si organizza per far saltare in banco. Naturalmente è tutto legale, come se per legge si vuole imporre un pensiero o un modo di agire. Non è dittatura, è persuasione che attraversa le menti, diciamo virtuale per non dire occulta.

Le riunioni del G8 o quelle del World Economic Forum di Davos sono oggetto di grande attenzione da parte dei mass media e dei movimenti no-global.

Quelle della Commissione Trilaterale, assai più importanti per le sorti del mondo, avvengono invece nel silenzio mediatico più totale. Nessuno se ne accorge, nessuno ne parla, nessuno protesta contro questo organo privato di concertazione e orientamento della politica mondiale che riunisce l’élite politico-economica di Stati Uniti, Europa e Giappone (da cui il nome): duecento tra capi di Stato e di governo, ministri, grandi banchieri, manager delle più grandi multinazionali, economisti, militari si riuniscono ogni anno per quattro giorni in una città della triade, per decidere a porte chiuse le linee guida di politica internazionale ed economica che i singoli governi devono poi seguire.

Quest’anno la riunione si tiene a Washington. I lavori, iniziati venerdì, si concludono oggi.

Il governo mondiale dei ‘migliori’. La Commissione Trilaterale è stata fondata nel 1973 dall’attuale presidente onorario dell’organizzazione, David Rockefeller, patriarca della potente dinastia bancaria e convinto ‘mondialista’, assieme a Zbigniew Brzezinski, uno dei principali architetti della guerra al terrorismo post-11 settembre, oggi consigliere di Barak Obama.

La stampa statunitense dell’epoca definì la Tilaterale una “filiazione diretta” del Gruppo Bilderberg, società segreta internazionale di cui condivide membri e ideologia: quella di un ordine mondiale gestito da una ristretta aristocrazia economico-politica soprannazionale.

Scrive il filosofo e sociologo francese Gilbert Larochelle, “la cittadella trilaterale è un luogo protetto dove i ‘migliori’, nella loro ispirata superiorità, elaborano criteri per poi inviarli verso il basso”.

Una sorta di massoneria internazionale. La Trilaterale non è un’organizzazione segreta, ma è caratterizzata dalla riservatezza tipica delle organizzazioni massoniche.

Ha un sito web molto discreto dove si trovano luoghi e date delle riunioni e dove si possono ordinare i ‘Trialoghi’, gli atti pubblici di quelle riunioni – che però, lo ricordiamo, si svolgono a porte chiuse, quindi non è detto che venga pubblicato proprio tutto.

La maggiore riservatezza riguarda i suoi membri: le liste aggiornate dei partecipanti sono pubbliche solo in teoria: noi l’abbiamo richiesta tempo fa, senza avere risposta.

Linee guida per la politica mondiale. Dai Trialoghi pubblicati finora emerge che nelle riunioni della Trilaterale si prendono decisioni ‘quadro’ in materia di globalizzazione dei mercati, politica energetica, finanza internazionale, liberalizzazione delle economie. Ma si discute anche crisi internazionali e guerre, gestione del dissenso e limitazione degli “eccessi della democrazia”. Il tema dipende dalle contingenze storiche.

Ad esempio, dopo gli attentati dell’11 settembre, la riunione annuale del 2002 fu dominata da Dick Cheney, Donald Rumsfeld, Colin Powell e Alan Greenspan che sollecitavano una “risposta globale” al terrorismo che vedesse impegnati tutti i Paesi occidentali sotto la guida degli Stati Uniti.

I saggi illuminati. Politica estera e militare, economica, finanziaria e sociale di ogni governo devono seguire le direttive imposte da questi ‘esperti’.

Su Le Monde Diplomatique del novembre 2003, l’autore di un articolo sulla Commissione Trilaterale – il professore Olivier Boiral – scriveva: “Come i re filosofi della città platonica, che contemplavano il mondo delle idee per infondere la loro trascendente saggezza nella gestione degli affari terrestri, l’élite che si riunisce all’interno di questa istituzione molto poco democratica si adopera nel definire i criteri di un ‘buon governo’ internazionale. Veicola un ideale platonico di ordine e controllo, assicurato da una classe privilegiata di tecnocrati che mette la propria competenza e la propria esperienza al di sopra delle profane rivendicazioni dei semplici cittadini”.

di Enrico Piovesana

28 aprile 2008

Parole giuste e parole ingiuste



Il potere delle parole. Chi pubblica le parole pensa di essere Parola. Ma chi pubblica falsità come sarà tranquillo con la sua coscienza. E, chi non pubblica sapendo che certi fatti non devono essere pubblicato sono schiavi o servi del Destino?

Ci sono parole e parole.
Ci sono parole usate per raccontare fatti e parole usate per orientare consensi, elettorali e non.
Parole trasparenti e parole oscure. Parole che vogliamo definire, con un’espressione forse non corretta ma che ci piace, “giuste” e “ingiuste”.

Spesso i giornalisti, che con le parole lavorano, complici del potere o dei poteri, usano le seconde, quelle ingiuste; talora ne inventano di sana pianta così da creare polveroni che mascherino o nascondano del tutto la verità.
E non parlo solo di silenzi, censure, falsità, imbrogli belli e buoni che quasi sempre raggiungono lettori ignari sotto forma di interi articoli.
Parlo proprio di parole, di semplici brevi parole, coniate dalla cattiva politica e adottate dalla cattiva stampa, nella migliore dell’ipotesi per pigrizia, nella peggiore per complice disonestà.

Vi ricordate di...
Bettino Craxi, tangentista della prima ora che per sfuggire al processo, scappò in Tunisia dove visse finché il diabete glielo permise, nella sua bellissima villa sul mare?

Uno che scappa per non subire condanne o comunque per non incappare nelle maglie della giustizia, secondo la lingua italiana, la logica e la coscienza, è un “latitante”.
Ebbene la stampa ne ha fatto un “esule”.

E che dire della guerra preventiva?
Invenzione del governo americano per giustificare un’aggressione sulla base di una presunzione di colpevolezza creata ad hoc, che gli irakeni – i magazzini stipati di armi chimiche – stessero per sferrare un attacco micidiale contro l’Occidente.
E talora le “guerre” diventano addirittura “missioni di pace”.

Non basta.
Ci sono altri ossimori della vergogna.

Il fuoco amico, ad esempio, per addolcire la pillola dell’errore del commilitone.
Amico il cavolo. La gente muore e mai nessuno è morto per amicizia.
Ed anche le bombe intelligenti. Stupidi ordigni che seminano il terrore.
E a proposito di terrore.
L’Occidente bolla – e a ragione – come terroristi, estremisti e integralisti islamici che con l’esplosivo fanno saltare e si fanno saltare in aria.
E’ chiaro che la definizione calza a pennello a chi semina morte con attentati. Perché terrore semina anche quando mette in gioco la sua stessa vita.

Ma forse hanno seminato meno terrore, le atomiche su Hiroshima e Nagasaki?
Le incursioni nei villaggi e i bombardamenti di napaln in Vietnam?
Gli interventi della Cia per appoggiare o rovesciare governi?
L’embargo per il quale sono stati negati presidi essenziali a popolazioni inermi?
Le ultime guerre che hanno allineato dietro gli Usa altri i paesi dell’“Occidente civile” sono state spacciate come esportazioni di democrazia e difesa di libertà.

Ma abbiamo visto il terrore negli occhi di donne e bambini.
Peccato che nessun giornalista abbia definito terroristi i governi Usa.
Ada Mollica

Denaro non commestibile


In vari Paesi del Terzo Mondo, da Haiti all’Honduras all’Egitto, ci sono state delle rivolte per il pane, come nel cinquecento di manzoniana memoria. Ma la fame comincia a lambire anche Paesi sviluppati come l’Italia se è vero che parecchie persone, gente perbene, soprattutto anziani, vengono sorpresi a rubare cibo nei supermercati. Com’é possibile?

IL MODELLO di sviluppooccidentale ha distrutto, con la sua penetrazione, le economie di sussistenza (autoproduzione e autoconsumo) dei Paesi che noi chiamiamo Terzo Mondo, su cui quelle popolazioni

avevano vissuto, e a volte prosperato, per secoli e millenni. Ciò ha costretto quegli agricoltori ad abbandonare i loro campi e a inurbarsi nella città. Ma quando la multinazionale, o chi per essa, se ne va, quella gente resta col culo per terra. E non può tornare indietro perché l’abbandono della campagna ha fatto avanzare la desertificazione, perché il tessuto sociale e solidale che teneva insieme il delicato equilibrio del mondo contadino non esiste più e comunque perché non hanno più il know how di ciò che facevano prima. Ma qualcosa di simile comincia a manifestarsi anche nei Paesi cosiddetti sviluppati che hanno privilegiato l’industria, la finanza, il terziario ai danni dell’agricoltura. Se i cereali scarseggiano solo i Paesi ricchi possono procurarseli, ma a lungo andare diventeranno inabbordabili anche per la maggioranza delle popolazioni di questi Paesi. Sta per avverarsi la profezia di Taranga Totanka, alias il capo pellerossa Toro Seduto:

«Quando avranno inquinato l’ultimo fiume, abbattuto l’ultimo albero, preso l’ultimo bisonte, pescato l’ultimo pesce, solo allora si accorgeranno di non poter mangiare il denaro accumulato nelle loro banche».

Massimo Fini

26 aprile 2008

Il Killer di nome...FARMACO


Continua a farsi sempre più intricata la vicenda legata ad alcuni lotti di eparina “killer” che sembra continuino a mietere vittime negli Stati Uniti e non solo. Il farmaco usato come fluidificante del sangue avrebbe causato ad oggi la morte di 81 pazienti negli USA e seri problemi ad alcuni pazienti diabetici in Germania. Secondo le fonti della Food and Drug Administration americana il farmaco, contaminato da condroitinsolfato ipersolfatato, sarebbe stato prodotto da dodici fabbriche cinesi e successivamente venduto in 11 paesi fra i quali l’Italia. Le autorità cinesi hanno finora negato la responsabilità di quanto accaduto, sostenendo che la contaminazione possa essere intervenuta nelle fabbriche occidentali dove è stato preparato il prodotto finito, e negando anche la corrispondenza tra contaminante e decessi in quanto in Cina non si sarebbe verificato alcun caso di morte. In Italia ad inizio aprile l’Agenzia italiana del farmaco aveva reso noto l’avvenuto ritiro a scopo cautelativo da parte dell’azienda Sanofi Aventis di un lotto del medicinale Clexane T6000 UI a base di enoxaparina.

La vicenda dell’eparina “killer”, raccontata brevemente solo dalle agenzie di stampa invisibili ai più, in quanto giornali e TV sono monopolizzati da questioni esiziali come il toto ministri e il novello vincitore del Grande Fratello, contornate dalla telenovela Alitalia, ripropone il dramma costituito da migliaia di persone che anche nel nostro paese ogni anno si ammalano e muoiono a causa dei farmaci. Come ampiamente dimostrato dalla strage del Vioxx, l’antidolorifico imputato di avere causato nel mondo oltre 130.000 morti, la spregiudicatezza delle case farmaceutiche, molto spesso disposte ad “addomesticare” i risultati delle proprie ricerche al fine di massimizzare i profitti, trova il proprio contraltare nel pressappochismo degli organi preposti al controllo, troppo spesso compiacenti, in quanto legati a doppio filo agli interessi delle grandi corporation del farmaco.

Il malato, rappresentando l’anello debole della catena, si ritrova così inserito all’interno di un meccanismo diabolico nel quale le conseguenze della medicina possono essere molto più gravi di quelle della malattia, senza che gli venga permesso di essere adeguatamente informato riguardo al rischio ferale cui sta andando incontro.

di Marco Cedolin

25 aprile 2008

Salame lui o salami noi?

Parlar di salami e riferirsi al Capo di Governo è segno di democrazia. Si, ma di che tipo? Ho perso la bussola, quella italiana vuol fare SQUOLA!

Altri 300 milioni di euro per Alitalia e i suoi fancazzisti organizzati e sindacalizzati. E così abbiamo un assaggio di quello che farà a noi contribuenti il governo Berlusconi: ci farà pagare le sue vanterie e le sue improvvisazioni.

Air France non andava bene, «inaccettabile», Salame dixit: «Ghe pensi mi», come il vecchio comico milanese Tino Scotti. Aveva la cordata italiana, lui. Che la cordata non ci fosse l’ha mostrato lui stesso quando, dopo il ritiro di Air France, ha impapocchiato: «Parlerò con Sarkozy». Perchè facesse pressioni su Air France onde tornasse al tavolo. Chissà se qualcuno gli ha detto che «Sarkozy», ossia lo Stato francese, di Air France è socio solo al 16%, dunque non in grado di fare pressioni, anche se volesse.

Un lettore sarcastico del Financial Times ha suggerito: Berlusconi provi con «l’amico Mugabe», la Air Zimbabwe è posseduta dallo Stato al 100%. Ma il Cavaliere insiste, ne «ha parlato con Putin», per interessare Aeroflot. Il Salame crede evidentemente che tutti gli altri Paesi siano sotto il dominio di una IRI universale. La sua concezione del pubblico-privato è quella dei DC anni ‘50.

In ogni caso, è il saggio di quel che ci attende: una mano politica sull’economia, non più da «sinistra», ma da «destra». Un peronismo di serie C (e già il peronismo era un fascismo di serie B) (1).

Intanto, per il suo puntiglio avventato, paghiamo noi: 300 milioni sono la metà del gettito di un’imposta come quella di successione. Che sia «un prestito a condizioni di mercato» non ingannerà nessuno, spero.

Alitalia ha un debito di 1,4 miliardi di euro, il doppio della sua capitalizzazione, come volete che restituisca un centesimo. Tre mesi di agonia, per dar tempo all’improvvisatore di impapocchiare un’altra improvvisazione. Sempre più improbabile, dato il rincaro enorme dei carburanti (in USA, compagnie aeree efficienti stanno tagliando, consolidando o chiudendo).
Sinistra l’allegria della Lega: «Abbiamo salvato Malpensa, il Nord». Ignari - ignoranti - che Malpensa è malpensata fin dall’inizio, ed è la causa dei due terzi delle perdite Alitalia. Nessuna cordata reale del mondo reale salverà Malpensa. Patetico lo sforzo dei giornali filo-Salame per assicurarci: la cordata italiana c’è, si sta formando. Basta vedere quelli che hanno dato la «loro disponibilità».
C’è Ligresti, il palazzinaro di Paternò, basta la parola. C’è Tronchetti Provera, la cui capacità è dimostrata dallo stato di Telecom, lui stesso strapieno di debiti. C’è Mario Moretti Polegato, il padrone di Geox. Un edilizio siculo, un fallito praticamente in bancarotta e un calzolaio che prendono in mano una compagnia aerea: luminose speranze per il futuro della compagnia «di bandiera».
La situazione pone una domanda urgente: se il Salame non sia un caso psichiatrico misconosciuto. In fondo, la diagnosi l’ha suggerita lui stesso. L’ho sentito ripetere, euforico, in una radio: «Io non sono mai stanco»; «Io dormo 4 ore per notte»: «Io lavoro 18 ore al giorno». Pieno d’energia, di pensiero positivo, di fiducia in sè. Sono sintomi precisi dell’affezione che si chiama «mania». La mania è il contrario della depressione.
Nella sua forma clinica conclamata, «è in grado di distruggere una vita», scrivono John Rathey e Catherine Johnson (due psichiatri) in «Shadow Syndromes» (sindromi-ombra) (2): «Una persona in crisi maniacale può finire in galera; o può emergere dall’episodio maniacale scoprendo di aver perso tutto - casa, auto, azienda - in un solo incontrollato impulso spendereccio».
Il maniaco tipico è quello che, in un eccesso di euforia parossistica, compra uno yacht a tre alberi senza saper andare a vela, o una Ferrari, naturalmente firmando cambiali che non potrà mai pagare. Ma, avvertono i due psichiatri suddetti, esistono anche forme sub-cliniche di questa affezione. Forme misconosciute, perchè «alle persone non avvertite, la personalità ipo-maniacale non sembra affatto mentalmente disturbata». Anzi. La personalità ipo-maniacale è «aureolata di ottimismo, energia, pensa positivo, ha una vitalità sessuale da far invidia a James Bond».
Poichè questo tipo umano è irruente, «estroverso, pieno di progetti, super-fiducioso in sè, e non conosce il dubbio su se stesso», riesce a «indurre buonumore ed entusiasmo negli altri cui cui viene a contatto», anzi con cui cerca il contatto, in quanto lui andando a «caccia di stimoli», ed essendo «di grande parlantina» (over-talkative) esercita un «carisma» su chi gli sta vicino.
Tanto più che questi personaggi sono proni alla vanteria (boastful), magnoliquenti (bombastic), «più amichevoli e divertenti delle persone normali»; i loro progetti sono sempre grandiosi, ed effettivamente «più produttivi» della media. Il carattere ipomaniaco è «così vantaggioso» nella vita sociale - dove l’imprevidente ha spesso successo, se travolgente e carismatico - e «così attraente», che è difficile considerarla una patologia.

Di fatto, non stupirà sapere che molti politici di successo - trascinatori di folle e di collaboratori, scopatori inesausti anche in tarda età (3), che dormono pochissimo e alle quattro del mattino hanno già letto i giornali e cominciano a dettare disposizioni alle segretarie e ai ministri - sono spesso ipomaniacali. E’ la democrazia stessa che seleziona questi personaggi a preferenza dei meditativi ipo-depressivi (Berlusconi più «popolare» di Tremonti).
L’ipomaniacale è «dominato dalla convinzione che ci sono tante cose da fare», e che «lui ha l’energia pertrasformare dei sogni in realtà». Se è una casalinga, «sarà capace di tinteggiare l’esterno della sua casa da sola in un weekend». Se è un politico, «spesso si sente investito di una missione da Dio, ed essere in missione per conto di Dio è, innegabilmente, una condizione molto gratificante».
E qui arriviamo al Salame, l’Unto del signore, il Presidente-operaio, il «ghe pensi mi», l’esuberante «faccio tutto io», quello che «i miei successi parlano per me», quello della «politica del fare». E’ un bel guaio essere governati da un simile carismatico. Perchè la persona ipo-maniacale ha anche i suoi lati rovinosi se è al potere: essenzialmente, la sua «impulsività improvvisatrice», una «ingenuità» di fondo, la regolare «svalutazione delle difficoltà», la sua «superficialità ottimista» la sua tendenza ad «adottare la negazione come meccanismo di autodifesa».
Come sappiamo, può sparare una gaffe per impulsività allegra, e poi dire che «i giornalisti mi hanno frainteso», anche se c’è la registrazione della sua gaffe.
Segnali tipici dello stato ipomaniacale sono «rapid decision-making, instantly formed partnership, an easy assumption of risk». Ossia: sono rapidi nel prendere decisioni («C’è di meglio che Air France, ora parlo con Putin»), capaci di formare partnership instantanee (come la cordata Alitalia tutta italiota), facili nell’assumersi i rischi. Soprattutto, si assumono spontaneamente, d’impulso, una gran quantità di compiti da adempiere allo stesso tempo (tanto, di notte non dormono): e poi li lasciano a metà, perchè un nuovo progetto li conquista e li entusiasma di più.
L’inconcludenza nutrita di euforica incostanza: Ponte di Messina e grandi opere senza stanziamenti, non so se vi dice qualcosa. Alitalia «nazionale» farà la stessa fine.
Dunque, è facile la previsione. Avremo un governo della spesa allegra. Che naviga a vista, da una euforia ad una improvvisazione improvvida. Che nulla affronta dei problemi veri: la Casta da rimettere in riga, i sindacati da obbligare a pubblicare i bilanci e a pagare le tasse, la riforma della pletorica amministrazione pubblica, tutte cose che richiedono costanza, profondità nell’analisi, e anche carattere. Anzi, verso i sindacati c’è la strategia facilista di non andare allo scontro, di non farseli nemici: strategia subito mandata all’aria da una frase detta d’impulso, irrefrenabile (Alitalia «è colpa loro»). Perchè l’ipomaniacale, che non dubita mai di sè, dà ad altri la colpa di ciò che non riesce a fare: tipico, la colpa è di Casini «che non mi ha consentito...».
L’ipomaniacale può avere puntigli e scoppi d’ira, ma non ha carattere. Tipicamente, abbandona alla Lega gran parte della politica interna, timoroso di un altro tradimento. E ad Israele la politica estera, tramite Frattini, per non farsi nemici quelli lì.
Lo dimostra anche la «durezza» di Berlusconi verso Formigoni: costui, dopo 15 anni di fedele servaggio alla Regione Lombardia, voleva il ministero degli Esteri. Ma gli ebrei ricordano che Formigoni simpatizzò con Saddam Hussein, e quelli non perdonano mai. Mica vorrai sfidarli, Salame. Un altro posto importante per Formigoni, tipo presidenza di una Camera? «Non voglio un altro Casini», perchè Formigoni ha una sua autonomia elettorale, il suo bacino proprio di voti ciellini.
Insomma, il Salame sta seguendo la linea di minor resistenza. Il mandato amplissimo non gli dà nessuna forza e nessun coraggio. Il coraggio, uno non se lo può dare, se non ce l’ha.
Spero si sarà notato, sulla faccenda Alitalia, il silenzio di pietra di Giulio Tremonti, disgraziato ministro di un così euforico premier.
fonte: M. Blondet



1) Tipicamente peronista, dell’intromissione berlusconiana, la motivazione di «salvare l’italianità» della decotta compagnia, l’appello al «patriottismo». Qui, la difesa dell’italianità coincide con la difesa delle neghittosità inefficienti e del pressapochismo. A dover sentire il dovere patriottico di funzionare dovrebbero essere i fancazzisti Alitalia, con tutti i soldi che
il Paese ha profuso per loro. Va ricordato che il fascismo stanziò, per la colossale bonifica pontina, 5.000 lire l’ettaro, e ne risultarono spese alla fine 4.300. Questo è il patriottismo senza virgolette.
2) John J. Ratey M.D. e Catherine Johnson Ph.D, «Shadow syndromes - Recognizing and coping with the hidden psychological disorders that can influence your behavior and silently determine the course of your life», New York, 1997.
Si veda il capitolo «The pathology of elation», pagina 104 e seguenti.
3) Al contrario del soggetto in crisi depressiva la cui sessualità è morta, l’ipomaniacale è perennemente «assatanato di sesso». Erano di questo genere i fratelli Kennedy (le storie dei due uccisi con Marylin Monroe, e il terzo, Ted, coinvolto nel caso della ragazza morta in circostanze allarmanti a Chappaquiddick). Sarkozy presenta questo stesso carattere. Berlusconi attenta regolarmente, a 71 anni, alle virtù delle veline. In genere, i rapporti di questi «assatanati» sono indiscriminati, sbrigativi e ripetitivi, coniglieschi.

24 aprile 2008

Il mercato che si auto - regola


[Il mese scorso] La Federal Reserve ha incrementato gli attuali sforzi per porre termine alla fiorente crisi finanziaria. La Fed ha prima escogitato una iniezione di denaro a beneficio della banca di investimenti Bear Stearns in fallimento, un gigante di 86 anni di Wall Street, e subito dopo ha facilitato l'acquisto della Bear da parte della JP Morgan Chase.

Il prestito di denaro da parte della Fed direttamente ad una banca di investimenti, una mossa senza precedenti, segue le orme dell'approvazione da parte del governo Usa lo scorso mese di un pacchetto di stimolo economico da $ 170 miliardi. Ancora una volta lo Stato si muove in soccorso del cosiddetto libero mercato.

L'economia di mercato viene celebrata tanto per la sua ipotetica capacità naturale di autoregolarsi tanto quanto per la sua associazione teorica con l'efficienza, l'innovazione e la libertà. Ma appena vengono rimossi i paraocchi ideologici della teoria del libero mercato la storia reale dei mercati mostra coerentemente che l'economia capitalista di mercato, incline alla crisi, è tutt'altro che capace di autoregolarsi ed è, in tutti i casi di successo, profondamente dipendente da un esteso ed attivo intervento dello Stato.

Si potrebbe guardare a ruolo dello Stato nello stabilire un mercato sostenibile del lavoro (tramite i Factory Acts ) e nell'assicurare il commercio internazionale nell'Inghilterra del diciannovesimo secolo; nel creare un sistema monetario internazionale stabile all'inizio del ventesimo secolo, compresa la creazione della Federal Reserve Usa, del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale; o nello sviluppare attivamente le vincenti economie esportatrici delle “tigri dell'est asiatico” e della Cina alla fine del ventesimo secolo. Ma l'attuale crisi fornisce un caso di studio sulla fragilità e sulla estrema dipendenza dallo Stato del “libero” mercato.

I guai della Bear, la prima banca di Wall Street a fallire, sono iniziati la scorsa estate quando due dei suoi hedge funds specializzati nel mercato dei mutui subprime sono crollati. La potente Bear, detentrice di debiti 30 volte di più che di capitale, è stata alla fine messa al tappeto da una corsa vecchio stile agli sportelli.

Ad oggi, oltre ad un elevato numero di consumatori attirati da loschi mutui, la debacle dei mutui subprime ha messo fuori combattimento titani come la Countrywide e la Bear Stearns, il fondo speculativo Carlyle Capital, insieme ad altre aziende di prestito più piccole.

L'attuale crisi, però, è qualcosa di più che prestiti tramite mutui dubbi, scommesse sbagliate, e perdita di fiducia nel mercato. Dietro alla crisi dei mutui vi è un sistema regolatore disattento e lo sviluppo di un sistema bancario ombra--complessi strumenti finanziari creati dalla comunità degli investimenti e commerciati privatamente al di fuori della struttura regolatrice esistente.

In termini più ampi, le bolle che si stanno attualmente sgonfiando nel mercato immobiliare e in quello del credito provengono in ultima analisi dalla speculazione, alimentata in maniera significativa da una politica monetaria approssimativa da parte della Fed sin dalla fine degli anni 90. L'attuale crisi di liquidità è iniziata nel momento in cui le bolle sono infine iniziate a scoppiare, una situazione peggiorata dal fatto che i protagonisti chiave sono banche sovraquotate.

La crisi è inerente all'economia di mercato capitalista

Le fondamenta sottostanti a tutti questi problemi macroeconomici si trovano nella economia reale--la produzione di beni e servizi. I problemi nell'economia reale, al contrario di quelli nell'economia cartacea del settore finanziario, sono gli stessi di quando Marx ha per la prima volta articolato una teoria su base storica dell'economia capitalista (mentre altri economisti continuavano a teorizzare le virtù dei mercati completamente liberi); di fatto la contraddizione tra produzione socializzata e appropriazione privata e le tendenze generate dall'anarchia del mercato.

L'anarchia dei mercati, popolati da individui alla ricerca del profitto e imprese che competono all'ultimo sangue, genera rapidamente forti pressioni su agenzie regolatrici quali le banche centrali (come è la Fed). Le banche centrali e altri agenti regolatori possono solo tentare di mitigare le oscillazioni del mercato ed evitare gli effetti peggiori dovuti alle tendenze dell'anarchia di mercato, prevenire cioè episodi quali la Grande Depressione che sono l'esito naturale di mercati non regolamentati: la speculazione porta a bolle speculative e infine alla corsa agli sportelli.

Ad un livello ancora più fondamentale ci sono i problemi risultanti dalla contraddizione tra produzione socializzata e appropriazione privata. Sebbene la produttività delle aziende americane sia una funzione della capacità lavorativa coordinata dei lavoratori, il profitto viene privatamente espropriato dai proprietari e dalle loro organizzazioni.

L'appropriazione privata ha generato livelli estremi di diseguaglianza nei salari; la frazione del lavoro manuale nei guadagni in produttività negli Usa è andata declinando negli ultimi trent'anni, e la retribuzione è di nuovo completamente desincronizzata dai livelli di sforzo e di abilità quanto lo era all'inizio del ventesimo secolo.

La concentrazione della ricchezza nelle mani di una piccola percentuale della popolazione, che genera seri problemi per il potere di acquisto dei normali lavoratori, è stata provata essere una causa fondamentale degli sbilanciamenti economici che hanno portato al crollo del mercato azionario nel 1929.

Più in generale, il problema di far combaciare domanda e offerta, o nello specifico assicurare che un alto livello di domanda vada incontro alle capacità dell'offerta, è un problema duraturo delle economie capitaliste. Fu temporaneamente affrontato dalle politiche Keynesiane di gestione della domanda nei decenni tra la seconda guerra mondiale e i primi anni 70. Da allora la soluzione istituzionale al problema di far incontrare domanda e offerta è stata una economia funzionante sulla spesa di debiti, che includono il deficit commerciale, banche sopravvalutate e consumatori che spendono su crediti finanziati da una combinazione di proprietà e bolle immobiliari.

Queste contraddizioni e problemi nell'economia reale sono intimamente collegati all'attuale crisi. Secondo Stephen S. Roach di Morgan Stanley Asia, “ negli ultimi sei anni i consumatori a basso reddito hanno compensato i deboli incrementi nelle loro buste paga estraendo capitale dalla bolla immobiliare, prendendo prestiti a tasso ribassato che si poggiavano sulla bolla del credito.”

La politica dietro all'economia

Sebbene le crisi siano inerenti al capitalismo, l'attuale crisi, che affonda le sue radici in parte nel sistema bancario ombra, è un esito naturale delle politiche neoliberiste. Il liberismo classico, la dottrina politica della libertà individuale e del governo limitato, è stato l'ordine politico regnante sino a che un mercato non regolamentato implose negli Usa alla fine degli anni 20, dando inizio a una forte depressione mondiale.

Da queste rovine emersero tanto il New Deal che il consenso Keynesiano, che portarono alla nozione condivisa che lo Stato deve giocare un ruolo fondamentale nell'economia: stabilendo una rete di salvataggio e gestendo attivamente la macroeconomia.

Ma mentre i tassi di profitto delle aziende vennero schiacciati e la competizione internazionale si intensificò all'inizio degli anni 70, le condizioni erano mature per un ritorno politico di sostenitori del libero mercato.

Così nacque il neoliberismo, il progetto politico post-Keynesiano di riaffermare--come politica statale ufficiale--la dottrina che il libero commercio e la deregolamentazione sono le vie migliori per assicurare efficienza economica, crescita economica e libertà individuale.

Lontano dall'essere un mercato libero e che si autoregola l'economia neoliberista di oggi è fortemente organizzata dallo Stato e da una varietà di istituzioni, quasi tutte strutturate esplicitamente negli interessi degli investitori contro quelli delle famiglie lavoratrici. La cosiddetta deregolamentazione andrebbe più giustamente chiamata regolamentazione neoliberista.

Lo stesso sistema che sta generando l'attuale crisi finanziaria, e che ha generato la crisi manifatturiera in cui sono stati persi 3,7 milioni di posti di lavoro negli scorsi sette anni, non è affatto il vecchio libero mercato. Piuttosto è capitalismo neoliberista che, nel corso di trent'anni, ha anche generato una crescente diseguaglianza e un'instabilità del mercato del lavoro.

Un ambiente decisionale più sano inizierebbe dal rigettare il dogma dei mercati che si autoregolano, in modo che le istituzioni regolatrici possano essere fortificate e l'investimento pubblico drammaticamente aumentato. Lo Stato dovrebbe anche investire in infrastrutture estremamente necessarie e potrebbe sviluppare una politica industriale orientata all'esportazione per aiutare a bilanciare l'economia guidata dal debito.

Infine, per affrontare gli attuali problemi economici--crisi, scuole e infrastrutture con pochi finanziamenti, diseguaglianza, povertà, ecc.-- dobbiamo rigettare l'intera ideologia del libero mercato. La libertà è qualcosa di più che la scelta tra dozzine di tipi di televisioni. L'efficienza è importante ma accorti investimenti e interventi statali possono aumentare l'efficienza e c'è un ampio spazio per compromessi potenzialmente soddisfacenti tra gli estremi dell'ipercapitalismo in stile americano e dell'economia pianificata in stile sovietico.
di Matt Vidal

23 aprile 2008

La cura dell'Anima: Tra Denaro e Apparenze



Non si sente più parlare di anima. Questo termine, così diffuso e pregnante in altre epoche della storia occidentale non è sulla bocca, almeno nei loro discorsi in pubblico, del Papa, dei cardinali, dei vescovi e neppure dei preti. Ora, io non credo all'anima, ma il Papa, i cardinali, i vescovi, i preti ci dovrebbero credere visto che tutta la cosmogonia cristiana si basa sulla fede nella sua esistenza e che la funzione, diciamo così, istituzionale della Chiesa e dei suoi sacerdoti è proprio "la cura delle anime". Ma non ne parlano mai. Non ne parlano più.

Non si parla nemmeno, sul cotè laico, di spirito, l'antico "pneuma" del pensiero greco, ma questo non è più comprensibile dato l'uso sciagurato che ne hanno fatto Hegel, in Italia Gentile (e per la verità anche Croce) per cui ha finito per assumere un significato vagamente fascista.

Si parla, in compenso, molto del corpo e del suo benessere. Di "beauty farm", di palestre, di materassi , di plantari e anche di prodotti che aiutano la donna, e immagino anche l'uomo, a riacquistare la sua "normale regolarità" (che l'anima , per una bizzarra combinazione alchemica, abbia cambiato la sua sostanza?). Si parla moltissimo di cibo e di cibi il cui destino peraltro è inevitabile e non particolarmente glorioso. Si parla molto di chirurgia estetica che deve fare apparire il nostro corpo sempre giovane, bello e levigato e d'una medicina che deve rendere la nostra vita sempre più longeva e, prima o poi, immortale.

Ma si parla soprattutto di denaro, del Dio Quattrino che è l'unico nume unanimemente adorato, riconosciuto e condiviso, in Occidente, e quindi di economia, di finanza, di derivati, di banche, di carte di credito, di bancomat, di Cin, di Pin, di Iban. In questo nuovo Regno l'uomo ha ancora una parte, ma come sottoprodotto. Non è più propriamente un uomo, ma un "consumatore". È un tramite. È il tubo digerente, il lavandino, il water attraverso cui deve passare il più velocemente possibile ciò che altrettanto rapidamente produce. "Bisogna stimolare i consumi per aumentare la produzione". È il "terminale uomo" del meccanismo. È un target. Un obiettivo. Non è più soggetto, ma un oggetto. Si inventano strategie di marketing sempre più sofisticate, nascono scuole per "personalizzare" i venditori, ma se c'è qualcuno che tituba a ridurre la propria esistenza a quella di rapido defecatore e di Pinocchio nel Paese dei Balocchi si ricorre a metodi più spicci e si reclutano e si schiavizzano schiere di giovani Lucignoli perchè faccia, perbenino e senza protestare, il suo dovere.

Come l'uomo sono ridotti i Paesi e le Nazioni. Un Paese è considerato solo se è un appetibile mercato o è tanto più ganzo quanto più è capace di acquisire nuove "quote di mercato". Un tempo esisteva l'idea di Nazione, di una comunità con valori condivisi. Adesso la Nazione è stata sostituita dalla Produzione.

In occidente si torna a parlare, è vero, e molto di Dio. Ma non mi pare del tutto a sproposito. Se ne fa un uso parecchio utilitaristico. Il Presidente degli Stati Uniti conclude ogni suo discorso con la frase "Dio protegga l'America". E perché non l'Afghanistan? O l'Iraq? L'Iran? O ancor meglio, gli indigeni delle isole Andemane che non hanno mai rotto le scatole a nessuno? Oppure si impetrano da lui e o dalle sue Maestranze favori particolari. Ma perchè mai Dio dovrebbe concederli a questi piuttosto che a quelli? E, curioso che l'epoca del massimo e trionfante scientismo sia anche quella della massima superstizione (Fatima, Lourdes, la Madonna di Czestokowa, quella di Medjugorje, San Gennaro, Padre Pio, eccetera). Ma poi se non esiste più l'anima che senso mai può avere conservare Dio?

L'immateriale è scomparso dal mondo contemporaneo. È stato sostituito dal virtuale che solo apparentemente gli si apparenta. Perché è una parodia masturbatoria del reale. E non ha nulla a che vedere con l'Immateriale. Con lo Spirito. Con l'Anima.

Massimo FIni

L'immaginario colonizzato


Un'intervista a Maurizio Pallante si comincia a parlare di decrescita e vita compatibile.
Ma quali sono i NOSTRI veri bisogni? Quando li capiremo queste domande sono superflue.

«Siamo tossicodipendenti della crescita e del consumo, siamo stati colonizzati nel nostro immaginario, abbiamo subito l'economicizzazione del nostro spirito: e i nuovi profeti ci colpevolizzano se non siamo sufficientemente calcolatori. Ma i drogati, si sa, sono vittime con la tendenza a continuare ad assumere la droga e non a curarsi. Sono le multinazionali come la Nestlé o la Total che finanziano i modi per impedire che noi, drogati del consumo, possiamo curarci». E' l' “eretico”, il francese Serge Latouche, padre della decrescita che parla. E c'è chi condivide anche in Italia.

«Penso che Latouche abbia completamente ragione. – dice Maurizio Pallante, presidente del Movimento per la Decrescita Felice in Italia (per ulteriori approfondimenti sito www.decrescitafelice.it ) e che attualmente svolge un'attività di ricerca e divulgazione scientifica sui rapporti tra ecologia, tecnologia e economia - Anzi molte delle cose che lui ha detto sono di una importanza fondamentale. In particolare l'esigenza di porre la decrescita a fine dell'attività economica e produttiva è un concetto che rompe con uno dei fondamenti delle società industriali avanzate. E' un concetto che non viene accettato perchè non viene fondamentalmente compreso. Ho letto una critica che fa Piero Bianucci all'ultimo libro di Latouche in cui dice, in un esempio iniziale, che i bambini crescono e gli alberi crescono. Però non ha l'onestà intellettuale di dire che gli adulti non crescono più e che gli alberi, da un certo punto in avanti, non crescono più Non è che la crescita è un fattore di qualità, lo può essere in certe condizioni. Mentre invece l'unica crescita che prosegue senza limitazioni è quella tumorale»

Ma che senso ha allora parlare di descrescita? E' utopia? Va contro il Progresso?

«Bisogna saper distinguere che cosa significa realmente progresso e che cosa ci hanno fatto credere che esso significhi. Se come progresso si intende la capacità di accrescere in continuazione la quantità di oggetti materiali e di merci che consumiamo, allora questo è un falso progresso, come diceva già Pasolini. Se invece per progresso si intende un miglioramento delle condizioni di vita generalizzato e tendente ad allargarsi per tutta l'umanità non è possibile proseguire con questo modello: occorre saper distinguere tra i beni (cioè degli oggetti) ed i servizi che rispondono alle esigenze reali degli esseri umani e le merci che invece rispondono all'esigenza del Prodotto Interno Lordo ed all'esigenza di farlo crescere sempre più. I due valori non omogenei. Si può avere un aumento della produzione di merci e una riduzione della qualità della vita»

Ovunque sentiamo parlare di Pil, Prodotto Interno Lordo che dobbiamo far crescere per migliorare la nostra qualità di vita. E' vera allora l'equazione più soldi=più ricchezza= più benessere?

«No, non mi risulta. Assolutamente. Perchè questo concetto non distingue tra l'idea di bene e l'idea di merce. I beni sono degli oggetti, dei servizi, che migliorano le condizioni di vita degli esseri umani, le merci sono degli oggetti e dei servizi che vengono scambiati con denaro.

Il Prodotto interno lordo misura la quantità delle merci ma non verifica se le merci sono dei beni o meno. La capacità di distinguere tra i beni e le merci è fondamentale. Esistono delle merci che non sono beni ed esistono dei beni che non sono merci.

Due esempio: una casa malcostruita per essere riscaldata ha bisogno di 20 litri di gasolio al metro quadrato all'anno. Essa fa crescere il Pil più di una casa ben costruita che ne ha bisogno solo di 7 litri o addirittura meno. Tutta l'energia in più - che nel caso nel rapporto tra una casa da 20 e una casa da 7 litri è di due terzi - è una merce che fa crescere il Pil ma non è un bene perchè si disperde a causa della cattiva coibentazione dell'edificio. Abbiamo quindi una crescita del Prodotto Interno Lordo ma un peggioramento delle condizioni di vita: una casa che consuma 20 litri manda in atmosfera i due terzi di CO2 in più rispetto allo stesso edificio ben costruito.

Esistono anche beni che non sono merci e che non fanno crescere il Pil. Pensiamo ai beni, oggetti e servizi autoprodotti donati per amore: non vengono scambiati per denaro, non fanno crescere il Pil ma soddisfano delle esigenze umane in maniera molto migliore rispetto alle merci equivalenti»

Noi, consumatori grassi e tristi che sperperiamo ovunque; voi fedeli alla Decrescita ed al ritorno alle antiche abitudini contadine di un tempo, forse bucolica, felici e contenti. E' così? Come si può fare affinchè anche i ricchi e sfrenati consumisti siano felici e non tristi?

«Questa cosa non è affatto bucolica, a parte che non c'è niente di negativo vivere in un ambiente sano, naturale. Ma se in questa maniera si pensa di ridicolizzare una aspirazione di un ritorno ad un passato mitico, siamo veramente fuori strada. La decrescita è felice perchè la riduzione della produzione del consumo di merci che non sono beni è un fattore che porta felicità. Essa richiede però più tecnologie rispetto ad una società basata sullo spreco delle risorse. In una casa che consuma 7 litri di gasolio per metro quadro, come dicevo in precedenza, si sta meglio fisicamente in quanto, non disperdendo il calore, le pareti sono calde e il nostro corpo è molto sensibile a quel calore più ancora di quanto non sia sensibile al calore dell'aria della stanza. Ci vogliono dunque tecnologie più avanzate che ci consentano di costruire case che consumano di meno, che ci facciano stare meglio, ci facciano essere più felici e contribuiscano a ridurre l'effetto serra. Esse quindi diventano un fattore - per quanto piccolo che sia - di miglioramento del benessere collettivo»

22 aprile 2008

Un assestamento globale

Liberismo sfrenato? solo per i future, quando si parla di cibo meglio l'economia locale. Ma, se i terreni sono delle multinazionali chi li coltiva?
I nuovi annunaki chi sono?
Lehman Brothers manderà a casa 600 dipendenti. Merrill Lynch ha annunciato che taglierà 4 mila posti di lavoro. Citigroup, dopo aver annunciato 4 mila licenziamenti a gennaio, ha dichiarato che licenzierà altri 9 mila dipendenti nei prossimi dodici mesi. Secondo il Financial Times, alla fine, i disoccupati ex-Citi saranno 25 mila.

La JP Morgan Chase, oltre alle perdite sue, subisce quelle dovute all’acquisto-salvataggio di Bear Stearns: di cui si prepara a sbattere fuori 14 mila dipendenti, e forse - secondo il Wall Street Journal - metà di tutti gli ex impiegati.

Altri grandi istituti bancari americani in rovina stanno licenziando: 3 mila alla Washington Mutual (1,14 miliardi di perdite dichiarate), centinaia alla Wachovia e alla Well Fargo. Le grandi banche d’affari globali hanno annunciato circa 20 mila licenziamenti, di cui 6 mila solo a New York.

In quella che gli USA chiamano la loro più vivace «industria» (la finanza), è un massacro.

Tra USA ed Europa, i posti di lavoro scomparsi nel settore finanziario-speculativo, del credito e dei derivati, si calcolano in 70 mila. Nei prossimi 12-18 mesi il numero può salire in USA a 200 mila, secondo Celent LLC, un centro di ricerca finanziaria; secondo Esperian, un «data provider», a fine 2008 gli operatori finanziari sul lastrico saranno 240 mila, sui 2 milioni di posizioni nel settore bancario commerciale (1).

«Non c’è più tanto bisogno di gente che sa ‘securitizzare’ debiti, dato che per quegli oggetti non c’è più mercato», ha scritto Floyd Norris, giornalista economico del Times. Sono begli stipendi e bonus profumati che scompaiono, e che fornivano il loro frizzante «glamour» a New York e Londra.

«Fino ad ora la crisi è determinata dal settore finanziario», ha spiegato John Thain, presidente esecutivo di Merrill Lynch, «ma dobbiamo ancora vedere l’effetto sul consumatore dei prezzi calanti degli immobili, dei prezzi crescenti dell’energia e del cibo, e della disoccupazione più alta».

Non che tutti i licenziati finanziari finiscano a chiedere l’elemosina. James Cayne, il presidente della Bear Stearns ed autore della sua bancarotta, negli ultimi cinque anni ha guadagnato 155,26 milioni di dollari; anche se, prima di essere sbattuto fuori, ha potuto rivendere le sua azioni nella banca fallita per «soli» 61 milioni di dollari in marzo.

Charles Prince, presidente di Citigroup, e Staney O’Neal, di Merrill, sono stati accompagnati alla porta per aver fatto perdere miliardi di dollari in speculazioni dementi alle loro banche, con un gruzzoletto, rispettivamente, di 68 e di 161 milioni di dollari.

Gli squali, anche feriti a morte, continuano a divorare. Non a caso il costo del metro quadro a Manhattan è salito ancora del 41% in questo anno di crisi.

Sono altri i lavoratori che pagano il prezzo: i 5 mila licenziati alla AT&T, i 1.100 della Volvo Trucks, i 730 della Harley Davidson, i 477 della Siemens Automation, i 356 del Greenville Hospital di Jersey city, i 250 della immobiliare Dutch Housing. A marzo, risulta che 5 milioni di lavoratori - 400 mila più che a novembre - sono in USA a orario e paga ridotte, dato che le aziende hanno meno attività. I redditi salariali sono in declino da sei mesi consecutivi. Lo squalo del capitalismo terminale perde sangue a fiotti, ma continua a divorare.

Gli hedge fund si sono buttati sui mercati-merci, provocando il rialzo speculativo del cibo (il riso è rincarato del 120% nell’anno, di cui il 75% negli ultimi due mesi). Feriti a morte, riescono ancora a fare profitti e a devastare le società con i rincari di alimenti e petrolio.

Al mercato merci di Chicago, che tratta 25 materie prime agricole, il volume dei contratti è cresciuto del 20% da gennaio, superando un milione di contratti al giorno. Gli hedge fund comprano ogni giorno 30 milioni di tonnellate di soya per futura consegna... Naturalmente non si fanno consegnare questa merce voluminosa, ma rivendono i «futures» prima. E’ questo che rende la loro opera distruttiva.

I «futures» agricoli, in mano agli operatori dell’economia reale, servono a stabilizzare i prezzi e a finanziare gli agricoltori con anticipi su raccolti futuri. Gli hedge, comprando e vendendo futures di carta, hanno fatto impazzire questo mercato, condannando alla fame centinaia di milioni di poveracci in Asia, e provocando fenomeni di accaparramento e tesaurizzazione da parte dei Paesi produttori, che temono, se vendono il riso e grano sui mercati mondiali, di non riuscire a sfamare la loro popolazione.

William Pfaff (2) trova «stupefacente che in questa situazione, le istituzioni finanziarie internazionali e i regolatori di Stato non stronchino questa attività parassitaria e anti-sociale». Basterebbe riservare il mercato-merci di Chicago, e gli altri simili, agli operatori reali, quelli che davveno trattano granaglie, e che sono poche decine, e ben noti.

Ma le istituzioni monetarie non lo fanno: «Il mito del mercato imparziale e benefico ha la meglio sull’evidenza contraria». Continua ad operare l’ideologia liberista dogmatica. E’ il capitalismo in agonia che addenta le ultime sue prede.

Perchè mentre i colossi della finanza crollano, e l’economia USA si restringe drasticamente in una depressione che si promette abissale, incapace di punire i colpevoli e di mettere un freno alla follia, si scopre che, nel mondo, certe economie «vecchio stile» stanno sostenendo la tempesta meglio di quelle che si sono adeguate al dogma liberista e che hanno puntato tutto sulla fornitura agli indebitati consumatori USA.

Russia, Brasile e Australia, ricchi di materie prime, se la stanno cavando bene nonostante il rallentamento mondiale. Germania e Giappone, ancora produttori di macchinari industriali «pesanti» per la produzione e non il consumo - l’industria che gli USA hanno abbandonato - continuano a tener testa alla situazione. In Brasile, grazie alla domanda sostenuta dei suoi prodottti: minerale ferroso, caffè, zucchero, i tassi d’interesse sono addirittura calanti.

L’India sta facendo meglio della Cina, perchè ha un forte mercato interno, che non dipende troppo dalle esportazioni in USA. La Cina, con la Thailandia, le Filippine e la Malaysia stanno subendo rallentamenti perchè hanno fidato troppo nell’export in USA. E Paesi come Ungheria e Turchia sono nei guai per essersi indebitati troppo sui mercati finanziari. In generale, se la cavano quei settori europei che hanno compensato l’euro forte rinunciando al mercato americano, e trovandosi altri clienti.

Il mercato USA sta diventando sempre meno rilevante nel mondo. Di più: Dani Rodrik, docente ad Harvard (Kennedy School), ha stabilito che i Paesi - specie dell’America Latina - che hanno seguito i consigli liberalizzatori del Fondo Monetario e della Banca Mondiale, nel 1980-90, hanno sperimentato una crescita «negativa» dello 0,8% (l’Asia, intanto, cresceva del 5,6 %), e di uno stentato 1% fino al 2000.

Poi, alcuni Paesi hanno rigettato le ricette del liberismo e dei suoi custodi globali («privatizza, liberalizza, svaluta») per adottare politiche economiche nazionali, «disapprovate» dal FMI: e stanno crescendo meglio dei vicini, e anche più del Vietnam e della Cina. I Paesi liberati sono: Argentina, Bolivia, Brazile, Cile, Salvador, Messico, Uruguay.

Nel complesso, sta emergendo un «Nuovo Ordine Mondiale», ma ben diverso da quello immaginato dai profeti anglo-americani del mercato-mondo: è in atto uno storico dislocamento di potenza, di influenza politica, di prestigio e di ricchezza reale dall’Occidente ex avanzato al quello che era ex Terzo Mondo, o secondo mondo.
In linea di massima, il potere sta sfuggendo dai Paesi in deficit di energia verso quelli che hanno energia (petrolio, gas, uranio) da vendere (3).

La Cina, bisognosa di materie prime energetiche, sta però solo in teoria nel primo gruppo declinante: perchè usa la sua nuova influenza politica per accordi strategici di Stato, ben lontani dal liberismo alla Adam Smith, per assicurarsi il futuro. Così la Sinopec cinese ha un accordo storico con la Aramco saudita (che un tempo apparteneva alla Exxon e Chevron) per nuove esplorazioni in Arabia; la China National Peroleum collaborerà con Gazprom, il colosso sottto controllo di Stato, per costruire oleo e gasdotti che porteranno il gas russo ai cinesi. La indiana Oil and Natural Gas Corporation (impresa pubblica) sta aiutando il Venezuela a sviluppare i suoi giacimenti di greggio pesante un tempo controllati da Chevron.

Il trasferimento di ricchezza ai fornitori di greggio, gas e metalli è enorme: di 970 miliardi di dollari nel 2006, e sicuramente molto più nel 2008, visti i rincari. Parte rilevante di questa ricchezza viene depositata in fondi sovrani di Stato, che stanno acquistando tutto ciò che vale qualcosa in USA, con dollari svalutati.

Di imprevedibile rilevanza per il futuro è la concentrazione straordinaria del potere energetico: dieci soli Stati possiedono l’82,2% delle riserve mondiali accertate, e solo tre - Russia, Iran e Katar - controllano il 55,8% dell’offerta globale. Un accordo fra Russia e Iran per la divisione pacifica ma «politica» dei mercati, senza concorrenza fra loro (che Teheran ha già proposto) eserciterà una storica tenaglia sui Paesi dell’OCSE, sviluppati, (ex) industrializzati, abituati ad un alto tenore di vita, oggi - specialmente gli USA - a credito.

Inneggia a questo imprevisto nuovo ordine globale un libro che sta facendo furore in Asia: «The new Asia hemisphere - The irresistible shift of global power do the East», di Kishore Mahbubani. Costui, un diplomatico di Singapore, sostiene che i grandi Paesi asiatici, cresciuti al nuovo benessere grazie ai «valori occidentali», libero mercato, proprietà privata e tecnologie comprese, stanno tagliando il cordone ombelicale che li subordinava alla cultura occidentale (4).

Oggi, una imponente «de-occidentalizzazione» sarebbe in corso dalla Cina al Medio Oriente, perchè questi Paesi hanno constatato come la prosperità mondiale venga oggi «messa in pericolo da processi politici occidentali fortemente antagonizzanti e disfunzionali», come le guerre di Bush.

Essi vedono l’ipocrisia con cui «l’Occidente, abitato soltanto dal 12% della popolazione mondiale», si affanna a mantenere il controllo degli organismi del libero commercio globale, dal Fondo Monetario alla Banca Mondiale al WTO, fino al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, «che furono create con l’intento di servire all’umanità».

Insomma, l’Asia non crede più che l’Occidente sia «la parte più civilizzata del mondo», non è più soggiogata dal prestigio culturale di Europa ed USA.
M. Blondet



1) David Walsh, «As losses mount, US banks cut thousands of jobs», World Socialist Website, 19 aprile 2008.
2) William Pfaff, « The speculators driving food price rises», 15 aprile 2008.
3) Michael T. Klare, «The rise of the new energy world order», Asia Times, 17 aprile 2008.
4) Sreeram Chaulia, «Asia pushes, West resists», Asia Times, 19 aprile 2008.

21 aprile 2008

Armi di banalizzazione di massa


Benvenuti a Hollywood. Hollywood non esiste, ecco la tua prima illusione. Tu non sei mai stato a Hollywood. Sei sempre e solo stato davanti alla tua televisione. Ed anche se e quando non sei stato davanti alla televisione, sei stato in mezzo a persone che erano appena state davanti alla loro televisione. Non hai modo di sfuggire a quel flusso di informazioni omogeneizzate. Buttare via la televisione non serve. Ti fanno gli altri il riassunto di quello che ti sei perso. Allora tanto vale guardarla.

La realtà è infinitamente complessa e di questa gigantesca torta il nostro cervello riesce a gustarne meno di una minuscola fetta – qualche briciola nel migliore dei casi. Tuttavia, anche queste briciole di lucida comprensione possono generare confusione ed instabilità. La società umana è un meccanismo troppo complesso per continuare a funzionare se tutti gli ingranaggi che ne fanno parte un bel giorno iniziano a porsi dubbi filosofici sul significato del proprio ruolo. Un idraulico che, riparando il tuo cesso, s’interrogasse sul reale significato dell’esistenza delle onde gravitazionali anziché sull’occlusione delle onde del tuo sciacquone, difficilmente giungerebbe a risolvere il tuo problema in tempo utile per il tuo prossimo bisogno corporale.

Affinché la società funzioni, tutti devono occuparsi esclusivamente delle attività inerenti al proprio ruolo specifico e specialistico e, per tutto ciò che riguarda i grandi problemi, condividere a somme linee una stessa visione del mondo. Sui piccoli dettagli trascurabili è bene litigare – la mia squadra di calcio è più forte della tua, la mia squadra politica è più buona della tua, la mia musica è più figa della tua –, dato che queste pantomime servono a fornire agli individui l’illusione di un’identità di appartenenza ad un gruppo piuttosto che ad un altro, necessità evidentemente codificata nel nostro DNA e che in qualche modo deve trovare una propria realizzazione all’interno di ciascuno di noi. Ma per quello che riguarda le cose davvero importanti, tutti, per evitare che la comunità smetta di funzionare, devono più o meno condividere le stesse nozioni essenziali, se necessario predigerite, preconfezionate, presemplificate, prebanalizzate, in modo da renderle assimilabili da parte di chiunque.

Vi piaccia o no, questo è il mondo nel quale viviamo. Probabilmente, il migliore dei mondi possibile. Ciò non toglie che per molti aspetti faccia parecchio schifo, tuttavia se un mondo migliore fosse possibile, probabilmente esso già esisterebbe. Ciò non vuol dire che non si possa lottare per un mondo migliore, ma questa è un’altra faccenda nella quale adesso non entriamo perché ci porterebbe fuori tema.

Tutto sommato questo libro non ha la presunzione di nutrire la nobile – ma, ahinoi, probabilmente irrealistica nonché folle – ambizione di rendere il mondo un luogo sensibilmente migliore, ma si limita a perseguire il ben più umile e modesto traguardo di fornire ai pochi che hanno un po’ di tempo da perdere qualche elegante utensile in più per godersi in piena coscienza e sino in fondo i nuovi curiosi orrori del mondo. Accontentiamoci ancora una volta di quel che passa il convento!

In uno splendido libro, Elogio dell’imbecille, che in Spagna è meritatamente divenuto un bestseller, lo scrittore e giornalista italiano Pino Aprile dimostra quanto la stupidità sia importante per preservare a tutti i livelli il buon funzionamento della nostra società. La stupidità non sarebbe affatto una carenza di qualcosa – l’intelligenza –, bensì una funzione vera e propria, indispensabile a garantire che uno faccia ciò che deve fare senza porsi tanti perché.

Tuttavia, tanta sana stupidità da sola potrebbe anche non bastare, a volte, per impedire al Grande Giocattolo di rompersi. Bisogna venirle in soccorso, prenderla per mano e condurla con pazienza nella direzione voluta. Perché, se tutte le pecorelle si muovono a casaccio, capirete bene che non si giunge mai da nessuna parte e tanta preziosa stupidità va inutilmente sprecata, il sistema crolla e tanti saluti a tutti.

Fino a cent’anni fa i mass media non esistevano e quelli che iniziavano ad esistere su carta stampata non erano poi tanto di massa, dato che gran parte della gente non sapeva leggere. Soprattutto negli ultimi decenni, però, l’esplosiva diffusione dei sistemi di comunicazione di massa ha interconnesso miliardi di persone in una rete capillare di comunicazioni pressoché istantanee. Per quasi tutta la storia dell’umanità, l’informazione è andata a passo di lumaca, quando circolava. In genere, l’informazione girava assai poco, rimanendo comunque circoscritta a ristrette aree geografiche, ed è proprio in virtù di questi isolamenti che nei millenni si sono differenziate le lingue. I vari popoli, tra loro, non si parlavano proprio, altro che cellulari satellitari e teleselezione! I popoli si frequentavano così poco, in passato, che anche le informazioni genetiche non circolavano tra un popolo e l’altro (a parte occasionali stupri qua e là ad opera dei vincitori delle guerre).

Oggi la musica è diversa. Nel campo delle comunicazioni la differenza rispetto al passato è incommensurabile e questa novità , ovviamente, è gravida di conseguenza importanti. I fenomeni di retroazione, diventati rapidissimi, rendono il sistema infinitamente più instabile. Come il noto «effetto farfalla» dei sistemi caotici (il battito d’ali di una farfalla in Giappone potrebbe innescare un concatenamento di eventi in grado di scatenare un uragano in America), una frase pronunciata a Pinerolo potrebbe innescare una reazione a catena che darà il via alla terza guerra mondiale. Lo so, sembra improbabile, ma molto dipenderebbe anche da chi pronunciasse la frase: mettiamo, ad esempio, che Bush vada una sera a cena a Pinerolo...

In effetti, c’è chi prevede che tra pochi anni questa crescente instabilità renderà il futuro completamente imprevedibile, ma di questo parleremo più avanti.

Per mantenere stabile un sistema caotico come quello dell’umanità attuale è necessario che la visione della realtà sia il più possibile omogenea. I mass media contribuiscono a questo risultato, e di ciò è stato già scritto di tutto, dai quasi dimenticati (o, piuttosto, rimossi) Gustave Le Bon (alla sua Psicologia delle folle non negavano di ispirarsi sia Hitler che Mussolini) ed Edward L. Bernays («padre della persuasione», nonché nipote di Freud) in poi.

I mass media vengono utilizzati moltissimo anche per vendere dentifrici, automobili, assorbenti e merendine, ma ciò che interessa qui è quando essi veicolano quelle che ho definito armi di banalizzazione di massa.

Avrete già sentito parlare delle armi di distrazione di massa. Si tratta di un’espressione di cui si è fatto molto uso, e con buona ragione. Tuttavia, le armi di distrazione di massa sono armi tattiche, finalizzate a distrarre l’attenzione collettiva nella contingenza del loro esercizio. Idealmente, il giorno in cui le armi di distrazione di massa smettessero di ruggire, i milioni di persone distratte potrebbero immediatamente tornare ad accorgersi degli eventi significativi che accadono intorno a loro. Le armi di banalizzazione di massa, diversamente, sono armi di tipo strategico e, una volta entrate efficacemente in azione, hanno un effetto duraturo e difficilmente reversibile. Esse provvedono ad installare nelle menti delle persone versioni ipersemplificate e banalizzate di qualsiasi cosa accada o possa accadere.

L’uomo oggi vive in perfetta simbiosi con i media. I concetti che egli pensa sono in linea di massima tutti stati preventivamente filtrati, selezionati, predigeriti, banalizzati e confezionati dal suo Grande Fratello di fiducia (ce n’è più di uno, ma sotto sotto sono tutti in combutta).

I media veicolano un panorama teatrale del mondo e degli eventi che in esso si succedono. Si tratta di illusioni stilizzate, alle quali gli stessi giornalisti finiscono per credere, almeno in parte. L’uomo accetta più o meno acriticamente questa frittata stilizzata di pseudorealtà, nello stesso modo in cui un bambino accetta ciò che gli raccontano i suoi genitori, credendolo vero.

Qualsiasi elemento di complessità della situazione viene semplificato dalle armi di banalizzazione sino al punto che non ha più alcuna relazione rilevante con il significato originario, al di fuori di una sottile assonanza, ovvero di una etichetta comune per significati ormai lontani anni luce.

Lo so cosa starà pensando il lettore a questo punto, e cioè che, tanto per cambiare, anche in questo libro si sta menando il can per l’aia con discorsi che non stanno né in cielo né in terra, ma che intendono solo portare acqua al mulino dell’autore. Io voglio bene al mio lettore e mi dispiace perderlo, tuttavia è molto tempo che scrivo roba astratta e stravagante ed è inevitabile che qualcosa (o più di qualcosa) mi scappi pure in questo libro. Cercherò di non eccedere.

Il primo obiettivo delle armi di banalizzazione di massa è la semplificazione estrema del processo con cui la gente distingue il bene dal male. Al di là del bene e del male, queste armi si curano di semplificare tutto, ma proprio tutto, ciò che ci viene comunicato per via televisiva.
Il risultato è una specie di disneyzzazione della realtà percepita. I Buoni sono sempre buoni ed i Cattivi sono sempre cattivi con riconoscibilità analoga a quella che i Buoni ed i Cattivi hanno in un cartone animato. Questo destino non tocca solo al Bene ed al Male, ma anche a personaggi ed eventi di qualsiasi genere, i quali, spogliati nelle rappresentazioni massmediatiche di qualsiasi complessità, finiscono inevitabilmente per assomigliarsi al punto da essere intercambiabili. In effetti, vengono tutti ridotti ad una manciata di personaggi stereotipati che compiono azioni comuni, anche quando superficialmente appaiano bizzarre.

Fateci caso, socchiudete metaforicamente gli occhi quando vi guardate in giro e parlate con gli altri o siete davanti alla televisione, e vedrete come la nebbia delle illusioni si diraderà per brevi istanti, permettendovi di scorgere l’autentica natura degli stereotipi che sostituiscono la realtà; il mondo apparirà allora come una sorta di pacchiano cartone animato senza uscita, reso folle dal fatto che a tutti sembra qualcosa di autentico e naturale. Pensate che le mie parole siano state troppo astratte? Aspettate a leggere le prossime!

Qualsiasi cosa oggi avvenga, noi non possiamo evitare di paragonarla istantaneamente con la «mappa» di un avvenimento analogo che già abbiamo nel nostro cervello – un’esperienza fittizia di quell’avvenimento che risiede dentro alla nostra materia grigia anche se non l’abbiamo mai fatta. Quella pseudo-esperienza è entrata nel nostro cervello attraverso il Cavallo di Troia di un film, due film, mille film e diecimila telegiornali che abbiamo visto ed assorbito dalla televisione. Qualsiasi cosa avvenga nel mondo, noi siamo quindi in grado di «comprenderlo» perché lo riconosciamo. Il problema è che in realtà non riconosciamo l’avvenimento in sé, dato che in genere non l’abbiamo vissuto, bensì la rappresentazione stilizzata e semplificata che di esso c’è nel nostro cervello. Quest’ultimo, allenato a semplificare tutto da migliaia e migliaia di ore di devota osservazione televisiva, non si prende la briga di decodificare davvero le informazioni in entrata. A che scopo tanta fatica? Gli basta riconoscere la classe di informazioni in ingresso per balzare immediatamente allo stereotipo mentale, cioè il «pacchetto» di consapevolezza ipersemplificata, corrispondente a quell’argomento.

Anziché la nostra vita, ci ritroviamo quindi grottescamente a vivere una sorta di metafora di essa, dove gran parte di ciò che ci succede lo comprendiamo e rappresentiamo nel nostro teatro mentale sostituendolo con il corrispondente surrogato cliché televisivo.

Un esempio eclatante di questo processo si è avuto proprio con gli attentati dell’11 settembre, vissuti da tutti – addirittura anche dalle stesse persone che si trovavano nelle Torri Gemelle e sono riuscite a scappare – come se si trattasse di un film. Il grande tarlo che cova invisibile nei nostri cervelli è brevemente apparso in tutta la sua potenza proprio quel giorno. Im­magina: tu sei in una delle torri colpite, c’è un incendio e devi scappare per salvarti la vita, e il tuo cervello non trova di meglio che credere che stiano girando un remake de L’inferno di cristallo. Per fortuna zone più profonde ed animali del cervello, forgiate da milioni di anni di evoluzione e selezione naturale, non cascano nell’inganno e ti portano in salvo ugualmente, nonostante quell’altro pezzo di cervello malato insista contro ogni evidenza sul fatto che si tratti di un film. Intrappolati senza scampo nelle metafore hollywoodiane che hanno occupato le nostre menti, ecco la nostra condizione psichica di oggi. Ecco la vittoria finale conseguita dalle armi di banalizzazione di massa. Nessuno è immune. Tranne che in rari momenti di lucidità, non ci accorgiamo di nulla. Il Mostro è dentro di noi e si scatena solo quando serve a lui o agli ingegneri che lo hanno programmato.

Un’esemplare rappresentazione cinematografica di questo stato delle cose la troviamo nel film Natural Born Killers, di Oliver Stone. Mickey e Mallory, gli sballati protagonisti della storia, altro non sono che l’esasperazione dei malati di mente che siamo tutti diventati dopo migliaia di ore di esposizione alle armi di banalizzazione di massa. Per questo film Oliver Stone avrebbe meritato un Nobel – un Oscar non sarebbe stato abbastanza – ed invece gli sono giunte critiche su critiche perché migliaia di normalissimi malati di mente si sarebbero coerentemente riconosciuti nei personaggi del film, mettendosi a scimmiottarne le gesta in giro per gli Stati Uniti.

L’effetto utile del costante uso delle armi di banalizzazione è la stabilizzazione delle grandi masse, le quali, perdute in un mondo fittizio, oppure ancorate ad esso (è una questione di interpretazione), un mondo fatto di illusioni televisive, si comportano in modo abbastanza prevedibile perché il sistema si mantenga stabile.

Poiché le armi di banalizzazione di massa dispensano anche grandi quantità di rappresentazioni del Male, esse inevitabilmente finiscono anche per generare un Male stilizzato, esemplificato, stereotipato e quindi meglio gestibile di un Male esercitato da criminali realmente fantasiosi.

Se queste armi consentono ad una società di essere più stabile, la stessa cosa non si può sempre dire degli individui che di tale società fanno parte.

L’effetto secondario e negativo di questo processo, nel quale le nostre esperienze non riescono più ad essere realmente nostre poiché in effetti si associano dentro le nostre teste a stereotipi, è che al giorno d’oggi gran parte della gente si ritrova ad affrontare grossi problemi di identità.

Qualche neurone intelligente rimane, nel profondo del cervello di tutti noi, ed esso urla la propria disperazione per la carenza di distinzione che le nostre vite palesano. Alla convenienza sociale di conformarci gli uni agli altri si contrappone intimamente un bisogno di affermazione e distinzione individuale. Ciò è alla base delle profonde crisi di identità delle nuove generazioni nella società occidentale e del conseguente emergere di nuove forme di tribalismo metropolitano, argomenti sui quali da anni i sociologi discutono e si guadagnano il pane.

Tutti questi paroloni per dire in sintesi estrema che ci hanno fritto il cervello fin dal primo momento in cui un televisore si è acceso nelle nostre case ed ormai che la frittura è completa, globale ed irreversibile, l’unica forma di parziale e residua sanità mentale perseguibile da un povero cristo è la scelta di una forma di follia alternativa, più personale (o tribale), rispetto alla noiosissima follia in voga nella maggioranza indistinta dei membri della società. In parole povere, l’unico modo per non essere completamente pazzi è – paradossalmente – proprio quello di uscire fuori di testa. Naturalmente anche ciò ha i propri inconvenienti. Talvolta questi prendono la forma di 42 piercing facciali ed un paio di corna subcutanee sul cranio, altre volte le manifestazioni sono meno palesi, ma non meno distintive.

Tornando al nostro tema principale, è perfettamente credibile che il condizionamento alla sospensione dell’incredulità operato sulla popolazione americana da anni ed anni di film catastrofisti hollywoodiani sia alla base della sconcertante attitudine della maggior parte degli americani a non interrogarsi in merito alle stranezze ed inverosimiglianze di cui trabocca la storia ufficiale dell’11 settembre. Essi crederebbero alla consistenza di una realtà inverosimile così come farebbero se stessero guardando il solito film pieno di banalità ed inverosimiglianze. In parte, non credo all’esistenza di un complotto per conseguire questo genere di effetti. Il meccanismo è troppo geniale perché essere umano abbia potuto concepirlo a tavolino. Ritengo piuttosto che il sistema si sia autoorganizzato così.

Tuttavia, anche se gran parte del risultato è spontaneamente conseguito dall’autoorganizzazione della società, un’altra parte è indubbiamente pianificata a tavolino.

Roberto Quaglia

20 aprile 2008

Strapagati: Perchè solo loro?


Consiglieri pagati troppo e male: si rischia che siano comprati coi gettoni di presenza

Quasi dieci milioni pagati a Riccardo Ruggiero (9.915.000 euro per la precisione), più una transazione tombale da 2 milioni per evitare successive rivendicazioni del manager. Altri 4,4 milioni di buonuscita per il vicepresidente Carlo Buora, che ha portato a casa anche 4 milioni per sottoscrivere un patto di non concorrenza con Telecom. Ieri in assemblea s'è discusso dei compensi d'oro del management: specie perché i risultati dell'ultimo anno (con un calo del titolo del 38%) proprio d'oro non sono. Luigi Zingales, consigliere indipendente riconfermato nella lista di Assogestioni, ha definito nel suo intervento "scandalose" le buonuscite di Buora e Ruggiero. La somma corrisposta a Buora, ha spiegato il consigliere "è stata il risultato di un accordo fatto nel 2006". Viceversa Ruggiero "era un dipendente della società. La sua buonuscita non è stata decisa dal cda ma da Buora, che lo ha trattato come un dipendente, con tutti i vantaggi e le tutele del caso". Zingales è più soddisfatto della gestione Telco. "L'ad Bernabè non è dipendente della società e quindi non avrà tali vantaggi. Sia per Galateri che per Bernabè, come da codice civile, l'eventuale buoniscita corrisponde a un anno di salario, come prevedono gli standar europei. Di questo sono soddisfatto". Ma ciò che più sta a cuore a Zingales è che si stabilisca un legame diretto tra le stock option e l'andamento del titolo. Per i nuovi vertici, spiega "abbiamo voluto aumentare la parte variabile della remunerazione, legandola ai risultati e alla soddisfazione dei clienti. Il 30% del bonus di Bernabè dipende da come riuscirà a migliorare la soddisfazione dei clienti" e dall'andamento del titolo a Piazza Affari: "Se battiamo l'indice delle tlc si prendono le stock option, altrimenti no". Secondo Zingales, tra l'altro, il sistema di retribuzione dei consiglieri d'amministrazione non è "corretto". "Ci pagano troppo e male", ha spiegato mettendosi nel numero, con il rischio che gli indipendenti vengano "comprati con i gettoni di presenza". Poi la battuta: "Nel nuovo cda il problema non si pone perché gli indipendenti sono quasi spariti". Secondo il professore, è giusto che anche i consiglieri siano pagati almeno in parte in funzione dell'andamento del titolo. E dovrebbero possedere azioni della società: "Se sarò rieletto investirò in Telecom metà del mio compenso. Spero mi seguano tutti, compresi presidente e ad". Di compensi ha parlato anche il presidente Adusbef, Elio Lannutti, intervenendo a nome dell'associazione per condannare le "scandalose retribuzioni" pagate dalla precedente gestione targata Pirelli ad alcuni manager, nonostante i risultati "fallimentari". Ha chiesto un'azione di responsabilità nei loro confronti: tra l'altro alcuni manager del passato, ha aggiunto, "hanno tuttora incarichi strategici". Criticando la gestione di Tronchetti Provera, Lannutti ha poi fatto riferimento al patrimonio immobiliare del gruppo Telecom, che ha sostenuto essere stato "saccheggiato" da Pirelli "in un conflitto di interessi che le Procure dovranno prima o poi chiarire".

"siglieri pagati troppo e male: si rischia che siano comprati coi gettoni di presenza" [FIRMA]MARCO SODANO Quasi dieci milioni pagati a Riccardo Ruggiero (9.915.000 euro per la precisione), più una transazione tombale da 2 milioni per evitare successive rivendicazioni del manager. Altri 4,4 milioni di buonuscita per il vicepresidente Carlo Buora, che ha portato a casa anche 4 milioni per sottoscrivere un patto di non concorrenza con Telecom. Ieri in assemblea s'è discusso dei compensi d'oro del management: specie perché i risultati dell'ultimo anno (con un calo del titolo del 38%) proprio d'oro non sono. Luigi Zingales, consigliere indipendente riconfermato nella lista di Assogestioni, ha definito nel suo intervento "scandalose" le buonuscite di Buora e Ruggiero. La somma corrisposta a Buora, ha spiegato il consigliere "è stata il risultato di un accordo fatto nel 2006". Viceversa Ruggiero "era un dipendente della società. La sua buonuscita non è stata decisa dal cda ma da Buora, che lo ha trattato come un dipendente, con tutti i vantaggi e le tutele del caso". Zingales è più soddisfatto della gestione Telco. "L'ad Bernabè non è dipendente della società e quindi non avrà tali vantaggi. Sia per Galateri che per Bernabè, come da codice civile, l'eventuale buoniscita corrisponde a un anno di salario, come prevedono gli standar europei. Di questo sono soddisfatto". Ma ciò che più sta a cuore a Zingales è che si stabilisca un legame diretto tra le stock option e l'andamento del titolo. Per i nuovi vertici, spiega "abbiamo voluto aumentare la parte variabile della remunerazione, legandola ai risultati e alla soddisfazione dei clienti.

Il 30% del bonus di Bernabè dipende da come riuscirà a migliorare la soddisfazione dei clienti" e dall'andamento del titolo a Piazza Affari: "Se battiamo l'indice delle tlc si prendono le stock option, altrimenti no". Secondo Zingales, tra l'altro, il sistema di retribuzione dei consiglieri d'amministrazione non è "corretto". "Ci pagano troppo e male", ha spiegato mettendosi nel numero, con il rischio che gli indipendenti vengano "comprati con i gettoni di presenza". Poi la battuta: "Nel nuovo cda il problema non si pone perché gli indipendenti sono quasi spariti". Secondo il professore, è giusto che anche i consiglieri siano pagati almeno in parte in funzione dell'andamento del titolo. E dovrebbero possedere azioni della società: "Se sarò rieletto investirò in Telecom metà del mio compenso. Spero mi seguano tutti, compresi presidente e ad". Di compensi ha parlato anche il presidente Adusbef, Elio Lannutti, intervenendo a nome dell'associazione per condannare le "scandalose retribuzioni" pagate dalla precedente gestione targata Pirelli ad alcuni manager, nonostante i risultati "fallimentari". Ha chiesto un'azione di responsabilità nei loro confronti: tra l'altro alcuni manager del passato, ha aggiunto, "hanno tuttora incarichi strategici". Criticando la gestione di Tronchetti Provera, Lannutti ha poi fatto riferimento al patrimonio immobiliare del gruppo Telecom, che ha sostenuto essere stato "saccheggiato" da Pirelli "in un conflitto di interessi che le Procure dovranno prima o poi chiarire".
Marco Sodano

19 aprile 2008

NOI, I FORZATI DEL DESIDERIO


Che bella cosa fare il giornalista,si scrive un articolo per altro condivisibile,e chi lo legge pensa come bravo che mente ,ecc..ma poi nella realtà il giornalista fà il contrario di cio che si scrive.

Perché il consumismo è un vizio? Un vizio nuovo, perché sconosciuto alle generazioni che ci hanno preceduto. Non è forse vero che il consumo sollecita la produzione aiuta la crescita che tutti i paesi assumono come indicatore di benessere e si allarmano quando oscilla intorno allo zero?

Perché il consumismo è un vizio se è vero che mette alla porta di tutti una serie di scelte personali che un tempo erano riservate solo ai ricchi?

E cioè una varietà di alimenti che i nostri vecchi si sognavano, possibilità d’abbigliamento sconosciute alle generazioni precedenti, una serie infinita di elettrodomestici che riducono la fatica in casa regalando a chi ci vive, tempo libero per altre e più proficue attività?

Perché il consumismo è un vizio? Perché crea in noi una mentalità a tal punto nichilista da farci ritenere che solo adottando, in maniera metodica, e su ampia scala, il principio del consumo e della distruzione degli oggetti, possiamo garantirci identità, stato sociale , esercizio della libertà e benessere. Ma vediamo le cose più da vicino.

1. La circolarità produzione consumo. E’ noto che produzione e consumo sono due aspetti di un medesimo processo, dove decisivo è il carattere “circolare” del processo, nel senso che non solo si producono merci per soddisfare bisogni, ma si producono anche bisogni per garantire la continuità della produzione delle merci.

Là infatti dove la produzione non tollera interruzioni, le merci “hanno bisogno” di essere consumate, e se il bisogno non è spontaneo, se di queste merci non si sente il bisogno, occorrerà che questo bisogno si “prodotto”.

A ciò provvede la pubblicità, che ha il compito di pareggiare il nostro bisogno di merci con il bisogno delle merci di essere consumate. I suoi inviti sono esplicite richieste a rinunciare agli oggetti che già possediamo, e che magari ancora svolgono un buon servizio, perché altri nel frattempo ne sono sopraggiunti, altri che “non si può non avere”. In una società opulenta come la nostra, dove l’identità di ciascuno è sempre più consegnata agli oggetti che possiede, i quali non solo sostituibili, ma “devono” essere sostituiti, ogni pubblicità è un appello alla distruzione.

2. Il principio della distruzione. Si tratta della distruzione, ma se l’espressione vi pare troppo forte usiamo pure la parola “consumo”, che non è la “fine” naturale di ogni prodotto, ma “il suo fine”. E questo non solo perché altrimenti si interromperebbe la catena produttiva, ma perché il progresso tecnico, sopravanzando le sue produzioni, rende obsoleti i prodotti, la cui fine non segna la conclusione di un’esistenza, ma fin dall’inizio ne costituisce lo scopo. In questo processo la produzione economica usa i consumatori come i suoi alleati per garantire la mortalità dei suoi prodotti, che poi la garanzia della sua immortalità.

Come condizione essenziale della produzione e del progresso tecnico, il consumo costretto a diventare “consumo forzato”, comincia a profilarsi come figura della distruttività, e la distruttività come un imperativo funzionale dell’apparato economico. Il “rispetto”, che Kant indicava come fondamento della legge morale, è disfunzionale al mondo dell’economia che, creando un mondo di cose sostituibili con modelli più avanzati, produce di continuo “un mondo da buttar via”. E siccome è molto improbabile che un’umanità, educata alla più spietata mancanza di rispetto nei confronti delle cose, mantenga questa virtù nei confronti degli uomini, non possiamo non convenire con Gunther Anders per il quale: “ L’umanità che tratta il mondo come un mondo da buttar via, tratta anche se stessa come un‘umanità da buttar via”.

3. L’inconsistenza delle cose. Che ne è delle cose, della loro consistenza, della loro durata, della loro stabilità? Da sempre le cose si consumano e diventano inutilizzabili, ma, nel ciclo produzione-consumo che non può interrompersi, esse sono pensate in vista di una loro rapida inutilizzabilità. Infatti è prevista non solo la loro transitorietà, ma addirittura la loro “data di scadenza” che è necessario sia il più possibile a breve termine. E così invece di limitarsi a concludere la loro esistenza, la fine delle cose è pensata sin dall’inizio come il loro scopo.

In questo processo, dove il principio della distruzione è immanente alla produzione, l’”uso” delle cose deve coincidere il più possibile con la loro “usura”. E se questo non è possibile per l’intero prodotto perché nessuno l’acquisterebbe, è sufficiente che lo sia per i pezzi di ricambio, il cui costo deve essere portato a livelli tali che persino piccole riparazioni vengano a costare, se non di più, almeno come un nuovo acquisto. Se questo non basta sarà la pubblicità a persuaderci che anche se la nostra automobile tecnicamente funziona ancora nel migliore dei modi, è il caso di sostituirla, perché “socialmente inadatta” e in ogni caso “non idonea al nostro prestigio”.

4. Il dissolvimento della durata temporale. Il tratto nichilista dell’economia consumista che vive della negazione del mondo da essa prodotto perché la sua permanenza significherebbe la sua fine, destruttura nei consumatori la dimensione del tempo, sostituendo alla durata temporale, che è fatta di passato, presente e futuro, la precarietà di un assoluto presente che non deve avere alcun rapporto col passato e col futuro.

E allora oltre alla produzione forzata del bisogno, ben oltre i limiti della sua rigenerazione fisiologica, il consumismo utilizza strategie, come ad esempio la moda, per opporsi alla resistenza dei prodotti, in modo da rendere ciò che è ancora “materialmente” utilizzabile, “socialmente” inutilizzabile, e perciò bisognoso di essere sostituito. E questo non vale solo per le innovazioni tecnologiche (televisioni, computer, cellulari), o per il guardaroba femminile (e oggi anche maschile), ma, e qui precipitiamo nell’assurdo, anche per gli armamenti.

Se un armamento resta inutilizzato per mancanza di guerre e quindi di potenziali acquirenti, o si inventano conflitti per “ragioni umanitarie”, o si producono armi “migliori” che rendono obsolete quelle precedenti. Anche se si fatica a capire in che cosa consista il “miglioramento” in una situazione in cui, con le armi a disposizione, già esiste per l’umanità la possibilità di sterminare se stessa in modo totale. Che senso ha in questo caso mettere sul mercato qualcosa di “meglio”?

5. La crisi dell’identità personale. Viene ora da chiedersi: quali sono gli effetti della cultura del consumismo sulla costruzione e sul mantenimento dell’identità personale? Disastrosi. Perché là dove le cose perdono la loro consistenza, il mondo diventa evanescente e con il mondo al nostra identità. Infatti, là dove gli oggetti durevoli sono sostituiti da prodotti destinati all’obsolescenza immediata, l’individuo, senza più punti di riferimento o luoghi di ancoraggio per la sua identità, perde la continuità della sua vita psichica, perché quell’ordine di riferimenti costanti, che è alla base della propria identità, si dissolve in una serie di riflessi fugaci, che sono le uniche risposte possibili a quel senso diffuso di irrealtà che la cultura del consumismo diffonde come immagine del mondo.

Là infatti dove un mondo fidato di oggetti e di sentimenti durevoli viene via via sostituito da un mondo popolato da immagini sfarfallanti, che si dissolvono con la stessa rapidità con cui appaiono, diventa sempre più difficile distinguere tra sogno e realtà, tra immaginazione e dati di fatto.

6. L’evanescenza della libertà. In una cultura del consumo dove nulla è durevole, la libertà non è più la scelta di una linea d’azione che porta all’individuazione, ma è la scelta di mantenersi aperta la libertà di scegliere, dove è sottinteso che le identità possono essere indossate e scartate come la cultura del consumo ci ha insegnato a fare con gli abiti.

Ma là dove la scelta non produce differenze, non modifica il corso delle cose, non avvia una catena di eventi che può risultare irreversibile, perché tutto è intercambiabile: dalle relazioni agli amanti, dai lavori ai vicini di casa, allora anche i rapporti fra gli uomini riproducono alla lettera i rapporti con i prodotti di consumo, dove il principio dell’”usa e getta” regola sia le “relazioni matrimoniali” sia le ”relazioni senza impegno”.

Che fare? Nulla. Perché l’identità personale a cui fare appello per arginare gli inconvenienti del consumismo non c’è più, essendo stata a sua volta risolta in un insieme di bisogni e desideri programmati dal mercato.

A differenza dei ”vizi capitali”che segnalano una “deviazione” della personalità i “nuovi vizi” ne segnalano il “dissolvimento” ,che tra l’altro non è neppure avvertito, perché investe indiscriminatamente tutti. I “nuovi vizi”, infatti, non sono personali, ma tendenze collettive, a cui l’individuo non può opporre una efficace resistenza individuale, pena l’esclusione sociale. E allora perché parlarne? Per esserne almeno consapevoli, e non scambiare come “valori della modernità” Quelli che invece sono solo i suoi disastrosi inconvenienti.

Umberto Galimberti

30 aprile 2008

Un popolo camaleontico

Il carro dei vincitori non riesce ad accogliere tutti i "saltatori". Immagini e pensieri che ritornano a luglio 2006 dove la nazionale di calcio conquistò la vetta più elevata. A roma non bastarono pullman scoperti per contenere tutta la folla. Adesso, è lo stesso caso. Un popolo che per forza o debolezza si adatta alla situazione vincente del caso. E' un bene o un male? Penso che non sia nè l'uno, nè l'altro è il DNA.

Spiaceva quasi, l’altroieri, sentire l’intera piazza San Carlo che sfanculava ogni dieci minuti Johnny Raiotta, il direttore del Tg1 che fa rimpiangere Mimun. Troppi vaffa per un solo ometto. Poi però uno rincasava, cercava il servizio del Tg1 di mezza sera su una manifestazione criticabilissima come tutte, ma imponente, che in un giorno ha raccolto 500mila firme per tre referendum. Invece, sorpresa (si fa per dire): nessun servizio, nessuna notizia, nemmeno una parola.

Molti e giusti servizi sul 25 aprile dei politici, sulle elezioni a Roma, sul caro-prezzi, sul ragazzino annegato, poi largo spazio alle due vere notizie del giorno: le torte in faccia al direttore del New York Times e la mostra riminese su Romolo e Remo (anzi, per dirla col novello premier, Remolo). Seguiva un pallosissimo Tv7 con lo stesso Raiotta, Tremonti, la Bonino e Mieli che discutevano per ore e ore di nonsisabenechecosa. Raiotta indossava eccezionalmente...
una giacca, forse per riguardo verso il direttore del Corriere. Questo sì che è servizio pubblico. Così, nel tentativo maldestro di contrastare - oscurandolo - il V-Day sull’informazione, Johnny Raiotta del Kansas City ne confermava e rafforzava le ragioni.

E anche i giornali di ieri facevano a gara nel dimostrare che Grillo, anche quando esagera, non esagera mai abbastanza. Il Giornale della ditta, giustamente allarmato dal referendum per cancellare la legge Gasparri, sguinzaglia per il terzo giorno consecutivo un piccolo sicario con le mèches in una strepitosa inchiesta a puntate: “La vera vita di Grillo”. Finora il segugio ossigenato ha scoperto, nell’ordine, che Grillo: da giovane andava a letto con ragazze; alcuni suoi amici, invidiosi, parlano male di lui; la sua villa a Genova consuma energia elettrica; ha avuto un tragico incidente stradale; è genovese e dunque tirchio (fosse nato ad Ankara, fumerebbe come un turco); nel suo orto ha sistemato una melanzana di plastica; ha avuto un figlio “nato purtroppo con dei problemi motori” (il giornalista è un cultore della privacy); e, quando fa spettacoli a pagamento, pretende addirittura di essere pagato. Insomma, un delinquente. E siamo solo alla terza puntata: chissà quali altri delitti il Pulitzer arcoriano - già difensore di Craxi, Berlusconi, Dell’Utri e Mangano - scoprirà a carico di Grillo.

Nell’attesa, il Giornale ha mandato al V2-Day un inviato di punta, Tony Damascelli. Il quale, mentre il Cainano riceve il camerata Ciarrapico, paragona Grillo a Mussolini chiamandolo Benito e poi si duole perché piazza San Carlo ha applaudito a lungo Montanelli (fondatore del Giornale quand’era una cosa seria) e Biagi, definito graziosamente “il grande disoccupato”. La scelta di inviare Damascelli non è casuale, trattandosi di un giornalista sospeso dall’Ordine dei Giornalisti perché spiava un collega del suo stesso quotidiano, Franco Ordine, spifferando in anteprima quel che scriveva all’amico Moggi. Siccome l’Ordine non è una cosa seria, lo spione non fu cacciato, ma solo sospeso per 4 mesi. E siccome Il Giornale non è (più) una cosa seria, anziché licenziarlo l’ha spostato in cronaca. E l’ha mandato al V-Day che aveva di mira, fra l’altro, l’Ordine dei Giornalisti. Geniale.

Il Foglio, per dimostrare l’ottima salute di cui gode l’informazione, pubblicava proprio ieri un articolo di Roberto Ciuni, ex P2. Ma, oltre ai giornalisti-cimice, abbiamo pure i giornalisti-medium. Quelli che non han bisogno di assistere a un fatto per raccontarlo: prescindono dal fattore spazio-temporale. Il Riformista, alla vigilia del V-Day, già sapeva che sarebbe stata una manifestazione terroristica, “con minacce in stile Br ai giornalisti servi” (“Le Grillate rosse”). Ecco chi erano i 100 mila in piazza San Carlo: brigatisti. Francesco Merlo se ne sta addirittura a Parigi: di lì, armato di un telescopio potentissimo, riesce a vedere e a spiegare agli italiani quel che accade in Italia. Ieri ha scritto su Repubblica che “in Italia c’è sovrapproduzione di informazione” (testuale): ce ne vorrebbe un po’ meno, ecco.

Quanto a Grillo, è “in crisi” (2 milioni di persone in 45 piazze) e “non riesce a far ridere” (strano: ridevano tutti). Poi, citando Alberoni (mica uno qualsiasi: Alberoni), ha sostenuto che “in piazza c’erano umori che non s’identificano con Grillo”. Ecco, Merlo è così bravo che, appollaiato tra Montmartre e gli Champs Elysées, riesce a penetrare la mente e gli umori dei cittadini in piazza a Torino, Milano, Bologna, Roma. E spiega loro che cosa effettivamente pensano. Più che un giornalista, un paragnosta. Finchè potrà contare su fenomeni così, l’informazione in Italia è salva. Di che si lamentano, allora, Grillo e gli italiani?

fonte:by voglioscendere

29 aprile 2008

La Trilaterale: i manager del nuovo ordine mondiale





Mentre i media, riparlano di stupri e veline, qualcuno si organizza per far saltare in banco. Naturalmente è tutto legale, come se per legge si vuole imporre un pensiero o un modo di agire. Non è dittatura, è persuasione che attraversa le menti, diciamo virtuale per non dire occulta.

Le riunioni del G8 o quelle del World Economic Forum di Davos sono oggetto di grande attenzione da parte dei mass media e dei movimenti no-global.

Quelle della Commissione Trilaterale, assai più importanti per le sorti del mondo, avvengono invece nel silenzio mediatico più totale. Nessuno se ne accorge, nessuno ne parla, nessuno protesta contro questo organo privato di concertazione e orientamento della politica mondiale che riunisce l’élite politico-economica di Stati Uniti, Europa e Giappone (da cui il nome): duecento tra capi di Stato e di governo, ministri, grandi banchieri, manager delle più grandi multinazionali, economisti, militari si riuniscono ogni anno per quattro giorni in una città della triade, per decidere a porte chiuse le linee guida di politica internazionale ed economica che i singoli governi devono poi seguire.

Quest’anno la riunione si tiene a Washington. I lavori, iniziati venerdì, si concludono oggi.

Il governo mondiale dei ‘migliori’. La Commissione Trilaterale è stata fondata nel 1973 dall’attuale presidente onorario dell’organizzazione, David Rockefeller, patriarca della potente dinastia bancaria e convinto ‘mondialista’, assieme a Zbigniew Brzezinski, uno dei principali architetti della guerra al terrorismo post-11 settembre, oggi consigliere di Barak Obama.

La stampa statunitense dell’epoca definì la Tilaterale una “filiazione diretta” del Gruppo Bilderberg, società segreta internazionale di cui condivide membri e ideologia: quella di un ordine mondiale gestito da una ristretta aristocrazia economico-politica soprannazionale.

Scrive il filosofo e sociologo francese Gilbert Larochelle, “la cittadella trilaterale è un luogo protetto dove i ‘migliori’, nella loro ispirata superiorità, elaborano criteri per poi inviarli verso il basso”.

Una sorta di massoneria internazionale. La Trilaterale non è un’organizzazione segreta, ma è caratterizzata dalla riservatezza tipica delle organizzazioni massoniche.

Ha un sito web molto discreto dove si trovano luoghi e date delle riunioni e dove si possono ordinare i ‘Trialoghi’, gli atti pubblici di quelle riunioni – che però, lo ricordiamo, si svolgono a porte chiuse, quindi non è detto che venga pubblicato proprio tutto.

La maggiore riservatezza riguarda i suoi membri: le liste aggiornate dei partecipanti sono pubbliche solo in teoria: noi l’abbiamo richiesta tempo fa, senza avere risposta.

Linee guida per la politica mondiale. Dai Trialoghi pubblicati finora emerge che nelle riunioni della Trilaterale si prendono decisioni ‘quadro’ in materia di globalizzazione dei mercati, politica energetica, finanza internazionale, liberalizzazione delle economie. Ma si discute anche crisi internazionali e guerre, gestione del dissenso e limitazione degli “eccessi della democrazia”. Il tema dipende dalle contingenze storiche.

Ad esempio, dopo gli attentati dell’11 settembre, la riunione annuale del 2002 fu dominata da Dick Cheney, Donald Rumsfeld, Colin Powell e Alan Greenspan che sollecitavano una “risposta globale” al terrorismo che vedesse impegnati tutti i Paesi occidentali sotto la guida degli Stati Uniti.

I saggi illuminati. Politica estera e militare, economica, finanziaria e sociale di ogni governo devono seguire le direttive imposte da questi ‘esperti’.

Su Le Monde Diplomatique del novembre 2003, l’autore di un articolo sulla Commissione Trilaterale – il professore Olivier Boiral – scriveva: “Come i re filosofi della città platonica, che contemplavano il mondo delle idee per infondere la loro trascendente saggezza nella gestione degli affari terrestri, l’élite che si riunisce all’interno di questa istituzione molto poco democratica si adopera nel definire i criteri di un ‘buon governo’ internazionale. Veicola un ideale platonico di ordine e controllo, assicurato da una classe privilegiata di tecnocrati che mette la propria competenza e la propria esperienza al di sopra delle profane rivendicazioni dei semplici cittadini”.

di Enrico Piovesana

28 aprile 2008

Parole giuste e parole ingiuste



Il potere delle parole. Chi pubblica le parole pensa di essere Parola. Ma chi pubblica falsità come sarà tranquillo con la sua coscienza. E, chi non pubblica sapendo che certi fatti non devono essere pubblicato sono schiavi o servi del Destino?

Ci sono parole e parole.
Ci sono parole usate per raccontare fatti e parole usate per orientare consensi, elettorali e non.
Parole trasparenti e parole oscure. Parole che vogliamo definire, con un’espressione forse non corretta ma che ci piace, “giuste” e “ingiuste”.

Spesso i giornalisti, che con le parole lavorano, complici del potere o dei poteri, usano le seconde, quelle ingiuste; talora ne inventano di sana pianta così da creare polveroni che mascherino o nascondano del tutto la verità.
E non parlo solo di silenzi, censure, falsità, imbrogli belli e buoni che quasi sempre raggiungono lettori ignari sotto forma di interi articoli.
Parlo proprio di parole, di semplici brevi parole, coniate dalla cattiva politica e adottate dalla cattiva stampa, nella migliore dell’ipotesi per pigrizia, nella peggiore per complice disonestà.

Vi ricordate di...
Bettino Craxi, tangentista della prima ora che per sfuggire al processo, scappò in Tunisia dove visse finché il diabete glielo permise, nella sua bellissima villa sul mare?

Uno che scappa per non subire condanne o comunque per non incappare nelle maglie della giustizia, secondo la lingua italiana, la logica e la coscienza, è un “latitante”.
Ebbene la stampa ne ha fatto un “esule”.

E che dire della guerra preventiva?
Invenzione del governo americano per giustificare un’aggressione sulla base di una presunzione di colpevolezza creata ad hoc, che gli irakeni – i magazzini stipati di armi chimiche – stessero per sferrare un attacco micidiale contro l’Occidente.
E talora le “guerre” diventano addirittura “missioni di pace”.

Non basta.
Ci sono altri ossimori della vergogna.

Il fuoco amico, ad esempio, per addolcire la pillola dell’errore del commilitone.
Amico il cavolo. La gente muore e mai nessuno è morto per amicizia.
Ed anche le bombe intelligenti. Stupidi ordigni che seminano il terrore.
E a proposito di terrore.
L’Occidente bolla – e a ragione – come terroristi, estremisti e integralisti islamici che con l’esplosivo fanno saltare e si fanno saltare in aria.
E’ chiaro che la definizione calza a pennello a chi semina morte con attentati. Perché terrore semina anche quando mette in gioco la sua stessa vita.

Ma forse hanno seminato meno terrore, le atomiche su Hiroshima e Nagasaki?
Le incursioni nei villaggi e i bombardamenti di napaln in Vietnam?
Gli interventi della Cia per appoggiare o rovesciare governi?
L’embargo per il quale sono stati negati presidi essenziali a popolazioni inermi?
Le ultime guerre che hanno allineato dietro gli Usa altri i paesi dell’“Occidente civile” sono state spacciate come esportazioni di democrazia e difesa di libertà.

Ma abbiamo visto il terrore negli occhi di donne e bambini.
Peccato che nessun giornalista abbia definito terroristi i governi Usa.
Ada Mollica

Denaro non commestibile


In vari Paesi del Terzo Mondo, da Haiti all’Honduras all’Egitto, ci sono state delle rivolte per il pane, come nel cinquecento di manzoniana memoria. Ma la fame comincia a lambire anche Paesi sviluppati come l’Italia se è vero che parecchie persone, gente perbene, soprattutto anziani, vengono sorpresi a rubare cibo nei supermercati. Com’é possibile?

IL MODELLO di sviluppooccidentale ha distrutto, con la sua penetrazione, le economie di sussistenza (autoproduzione e autoconsumo) dei Paesi che noi chiamiamo Terzo Mondo, su cui quelle popolazioni

avevano vissuto, e a volte prosperato, per secoli e millenni. Ciò ha costretto quegli agricoltori ad abbandonare i loro campi e a inurbarsi nella città. Ma quando la multinazionale, o chi per essa, se ne va, quella gente resta col culo per terra. E non può tornare indietro perché l’abbandono della campagna ha fatto avanzare la desertificazione, perché il tessuto sociale e solidale che teneva insieme il delicato equilibrio del mondo contadino non esiste più e comunque perché non hanno più il know how di ciò che facevano prima. Ma qualcosa di simile comincia a manifestarsi anche nei Paesi cosiddetti sviluppati che hanno privilegiato l’industria, la finanza, il terziario ai danni dell’agricoltura. Se i cereali scarseggiano solo i Paesi ricchi possono procurarseli, ma a lungo andare diventeranno inabbordabili anche per la maggioranza delle popolazioni di questi Paesi. Sta per avverarsi la profezia di Taranga Totanka, alias il capo pellerossa Toro Seduto:

«Quando avranno inquinato l’ultimo fiume, abbattuto l’ultimo albero, preso l’ultimo bisonte, pescato l’ultimo pesce, solo allora si accorgeranno di non poter mangiare il denaro accumulato nelle loro banche».

Massimo Fini

26 aprile 2008

Il Killer di nome...FARMACO


Continua a farsi sempre più intricata la vicenda legata ad alcuni lotti di eparina “killer” che sembra continuino a mietere vittime negli Stati Uniti e non solo. Il farmaco usato come fluidificante del sangue avrebbe causato ad oggi la morte di 81 pazienti negli USA e seri problemi ad alcuni pazienti diabetici in Germania. Secondo le fonti della Food and Drug Administration americana il farmaco, contaminato da condroitinsolfato ipersolfatato, sarebbe stato prodotto da dodici fabbriche cinesi e successivamente venduto in 11 paesi fra i quali l’Italia. Le autorità cinesi hanno finora negato la responsabilità di quanto accaduto, sostenendo che la contaminazione possa essere intervenuta nelle fabbriche occidentali dove è stato preparato il prodotto finito, e negando anche la corrispondenza tra contaminante e decessi in quanto in Cina non si sarebbe verificato alcun caso di morte. In Italia ad inizio aprile l’Agenzia italiana del farmaco aveva reso noto l’avvenuto ritiro a scopo cautelativo da parte dell’azienda Sanofi Aventis di un lotto del medicinale Clexane T6000 UI a base di enoxaparina.

La vicenda dell’eparina “killer”, raccontata brevemente solo dalle agenzie di stampa invisibili ai più, in quanto giornali e TV sono monopolizzati da questioni esiziali come il toto ministri e il novello vincitore del Grande Fratello, contornate dalla telenovela Alitalia, ripropone il dramma costituito da migliaia di persone che anche nel nostro paese ogni anno si ammalano e muoiono a causa dei farmaci. Come ampiamente dimostrato dalla strage del Vioxx, l’antidolorifico imputato di avere causato nel mondo oltre 130.000 morti, la spregiudicatezza delle case farmaceutiche, molto spesso disposte ad “addomesticare” i risultati delle proprie ricerche al fine di massimizzare i profitti, trova il proprio contraltare nel pressappochismo degli organi preposti al controllo, troppo spesso compiacenti, in quanto legati a doppio filo agli interessi delle grandi corporation del farmaco.

Il malato, rappresentando l’anello debole della catena, si ritrova così inserito all’interno di un meccanismo diabolico nel quale le conseguenze della medicina possono essere molto più gravi di quelle della malattia, senza che gli venga permesso di essere adeguatamente informato riguardo al rischio ferale cui sta andando incontro.

di Marco Cedolin

25 aprile 2008

Salame lui o salami noi?

Parlar di salami e riferirsi al Capo di Governo è segno di democrazia. Si, ma di che tipo? Ho perso la bussola, quella italiana vuol fare SQUOLA!

Altri 300 milioni di euro per Alitalia e i suoi fancazzisti organizzati e sindacalizzati. E così abbiamo un assaggio di quello che farà a noi contribuenti il governo Berlusconi: ci farà pagare le sue vanterie e le sue improvvisazioni.

Air France non andava bene, «inaccettabile», Salame dixit: «Ghe pensi mi», come il vecchio comico milanese Tino Scotti. Aveva la cordata italiana, lui. Che la cordata non ci fosse l’ha mostrato lui stesso quando, dopo il ritiro di Air France, ha impapocchiato: «Parlerò con Sarkozy». Perchè facesse pressioni su Air France onde tornasse al tavolo. Chissà se qualcuno gli ha detto che «Sarkozy», ossia lo Stato francese, di Air France è socio solo al 16%, dunque non in grado di fare pressioni, anche se volesse.

Un lettore sarcastico del Financial Times ha suggerito: Berlusconi provi con «l’amico Mugabe», la Air Zimbabwe è posseduta dallo Stato al 100%. Ma il Cavaliere insiste, ne «ha parlato con Putin», per interessare Aeroflot. Il Salame crede evidentemente che tutti gli altri Paesi siano sotto il dominio di una IRI universale. La sua concezione del pubblico-privato è quella dei DC anni ‘50.

In ogni caso, è il saggio di quel che ci attende: una mano politica sull’economia, non più da «sinistra», ma da «destra». Un peronismo di serie C (e già il peronismo era un fascismo di serie B) (1).

Intanto, per il suo puntiglio avventato, paghiamo noi: 300 milioni sono la metà del gettito di un’imposta come quella di successione. Che sia «un prestito a condizioni di mercato» non ingannerà nessuno, spero.

Alitalia ha un debito di 1,4 miliardi di euro, il doppio della sua capitalizzazione, come volete che restituisca un centesimo. Tre mesi di agonia, per dar tempo all’improvvisatore di impapocchiare un’altra improvvisazione. Sempre più improbabile, dato il rincaro enorme dei carburanti (in USA, compagnie aeree efficienti stanno tagliando, consolidando o chiudendo).
Sinistra l’allegria della Lega: «Abbiamo salvato Malpensa, il Nord». Ignari - ignoranti - che Malpensa è malpensata fin dall’inizio, ed è la causa dei due terzi delle perdite Alitalia. Nessuna cordata reale del mondo reale salverà Malpensa. Patetico lo sforzo dei giornali filo-Salame per assicurarci: la cordata italiana c’è, si sta formando. Basta vedere quelli che hanno dato la «loro disponibilità».
C’è Ligresti, il palazzinaro di Paternò, basta la parola. C’è Tronchetti Provera, la cui capacità è dimostrata dallo stato di Telecom, lui stesso strapieno di debiti. C’è Mario Moretti Polegato, il padrone di Geox. Un edilizio siculo, un fallito praticamente in bancarotta e un calzolaio che prendono in mano una compagnia aerea: luminose speranze per il futuro della compagnia «di bandiera».
La situazione pone una domanda urgente: se il Salame non sia un caso psichiatrico misconosciuto. In fondo, la diagnosi l’ha suggerita lui stesso. L’ho sentito ripetere, euforico, in una radio: «Io non sono mai stanco»; «Io dormo 4 ore per notte»: «Io lavoro 18 ore al giorno». Pieno d’energia, di pensiero positivo, di fiducia in sè. Sono sintomi precisi dell’affezione che si chiama «mania». La mania è il contrario della depressione.
Nella sua forma clinica conclamata, «è in grado di distruggere una vita», scrivono John Rathey e Catherine Johnson (due psichiatri) in «Shadow Syndromes» (sindromi-ombra) (2): «Una persona in crisi maniacale può finire in galera; o può emergere dall’episodio maniacale scoprendo di aver perso tutto - casa, auto, azienda - in un solo incontrollato impulso spendereccio».
Il maniaco tipico è quello che, in un eccesso di euforia parossistica, compra uno yacht a tre alberi senza saper andare a vela, o una Ferrari, naturalmente firmando cambiali che non potrà mai pagare. Ma, avvertono i due psichiatri suddetti, esistono anche forme sub-cliniche di questa affezione. Forme misconosciute, perchè «alle persone non avvertite, la personalità ipo-maniacale non sembra affatto mentalmente disturbata». Anzi. La personalità ipo-maniacale è «aureolata di ottimismo, energia, pensa positivo, ha una vitalità sessuale da far invidia a James Bond».
Poichè questo tipo umano è irruente, «estroverso, pieno di progetti, super-fiducioso in sè, e non conosce il dubbio su se stesso», riesce a «indurre buonumore ed entusiasmo negli altri cui cui viene a contatto», anzi con cui cerca il contatto, in quanto lui andando a «caccia di stimoli», ed essendo «di grande parlantina» (over-talkative) esercita un «carisma» su chi gli sta vicino.
Tanto più che questi personaggi sono proni alla vanteria (boastful), magnoliquenti (bombastic), «più amichevoli e divertenti delle persone normali»; i loro progetti sono sempre grandiosi, ed effettivamente «più produttivi» della media. Il carattere ipomaniaco è «così vantaggioso» nella vita sociale - dove l’imprevidente ha spesso successo, se travolgente e carismatico - e «così attraente», che è difficile considerarla una patologia.

Di fatto, non stupirà sapere che molti politici di successo - trascinatori di folle e di collaboratori, scopatori inesausti anche in tarda età (3), che dormono pochissimo e alle quattro del mattino hanno già letto i giornali e cominciano a dettare disposizioni alle segretarie e ai ministri - sono spesso ipomaniacali. E’ la democrazia stessa che seleziona questi personaggi a preferenza dei meditativi ipo-depressivi (Berlusconi più «popolare» di Tremonti).
L’ipomaniacale è «dominato dalla convinzione che ci sono tante cose da fare», e che «lui ha l’energia pertrasformare dei sogni in realtà». Se è una casalinga, «sarà capace di tinteggiare l’esterno della sua casa da sola in un weekend». Se è un politico, «spesso si sente investito di una missione da Dio, ed essere in missione per conto di Dio è, innegabilmente, una condizione molto gratificante».
E qui arriviamo al Salame, l’Unto del signore, il Presidente-operaio, il «ghe pensi mi», l’esuberante «faccio tutto io», quello che «i miei successi parlano per me», quello della «politica del fare». E’ un bel guaio essere governati da un simile carismatico. Perchè la persona ipo-maniacale ha anche i suoi lati rovinosi se è al potere: essenzialmente, la sua «impulsività improvvisatrice», una «ingenuità» di fondo, la regolare «svalutazione delle difficoltà», la sua «superficialità ottimista» la sua tendenza ad «adottare la negazione come meccanismo di autodifesa».
Come sappiamo, può sparare una gaffe per impulsività allegra, e poi dire che «i giornalisti mi hanno frainteso», anche se c’è la registrazione della sua gaffe.
Segnali tipici dello stato ipomaniacale sono «rapid decision-making, instantly formed partnership, an easy assumption of risk». Ossia: sono rapidi nel prendere decisioni («C’è di meglio che Air France, ora parlo con Putin»), capaci di formare partnership instantanee (come la cordata Alitalia tutta italiota), facili nell’assumersi i rischi. Soprattutto, si assumono spontaneamente, d’impulso, una gran quantità di compiti da adempiere allo stesso tempo (tanto, di notte non dormono): e poi li lasciano a metà, perchè un nuovo progetto li conquista e li entusiasma di più.
L’inconcludenza nutrita di euforica incostanza: Ponte di Messina e grandi opere senza stanziamenti, non so se vi dice qualcosa. Alitalia «nazionale» farà la stessa fine.
Dunque, è facile la previsione. Avremo un governo della spesa allegra. Che naviga a vista, da una euforia ad una improvvisazione improvvida. Che nulla affronta dei problemi veri: la Casta da rimettere in riga, i sindacati da obbligare a pubblicare i bilanci e a pagare le tasse, la riforma della pletorica amministrazione pubblica, tutte cose che richiedono costanza, profondità nell’analisi, e anche carattere. Anzi, verso i sindacati c’è la strategia facilista di non andare allo scontro, di non farseli nemici: strategia subito mandata all’aria da una frase detta d’impulso, irrefrenabile (Alitalia «è colpa loro»). Perchè l’ipomaniacale, che non dubita mai di sè, dà ad altri la colpa di ciò che non riesce a fare: tipico, la colpa è di Casini «che non mi ha consentito...».
L’ipomaniacale può avere puntigli e scoppi d’ira, ma non ha carattere. Tipicamente, abbandona alla Lega gran parte della politica interna, timoroso di un altro tradimento. E ad Israele la politica estera, tramite Frattini, per non farsi nemici quelli lì.
Lo dimostra anche la «durezza» di Berlusconi verso Formigoni: costui, dopo 15 anni di fedele servaggio alla Regione Lombardia, voleva il ministero degli Esteri. Ma gli ebrei ricordano che Formigoni simpatizzò con Saddam Hussein, e quelli non perdonano mai. Mica vorrai sfidarli, Salame. Un altro posto importante per Formigoni, tipo presidenza di una Camera? «Non voglio un altro Casini», perchè Formigoni ha una sua autonomia elettorale, il suo bacino proprio di voti ciellini.
Insomma, il Salame sta seguendo la linea di minor resistenza. Il mandato amplissimo non gli dà nessuna forza e nessun coraggio. Il coraggio, uno non se lo può dare, se non ce l’ha.
Spero si sarà notato, sulla faccenda Alitalia, il silenzio di pietra di Giulio Tremonti, disgraziato ministro di un così euforico premier.
fonte: M. Blondet



1) Tipicamente peronista, dell’intromissione berlusconiana, la motivazione di «salvare l’italianità» della decotta compagnia, l’appello al «patriottismo». Qui, la difesa dell’italianità coincide con la difesa delle neghittosità inefficienti e del pressapochismo. A dover sentire il dovere patriottico di funzionare dovrebbero essere i fancazzisti Alitalia, con tutti i soldi che
il Paese ha profuso per loro. Va ricordato che il fascismo stanziò, per la colossale bonifica pontina, 5.000 lire l’ettaro, e ne risultarono spese alla fine 4.300. Questo è il patriottismo senza virgolette.
2) John J. Ratey M.D. e Catherine Johnson Ph.D, «Shadow syndromes - Recognizing and coping with the hidden psychological disorders that can influence your behavior and silently determine the course of your life», New York, 1997.
Si veda il capitolo «The pathology of elation», pagina 104 e seguenti.
3) Al contrario del soggetto in crisi depressiva la cui sessualità è morta, l’ipomaniacale è perennemente «assatanato di sesso». Erano di questo genere i fratelli Kennedy (le storie dei due uccisi con Marylin Monroe, e il terzo, Ted, coinvolto nel caso della ragazza morta in circostanze allarmanti a Chappaquiddick). Sarkozy presenta questo stesso carattere. Berlusconi attenta regolarmente, a 71 anni, alle virtù delle veline. In genere, i rapporti di questi «assatanati» sono indiscriminati, sbrigativi e ripetitivi, coniglieschi.

24 aprile 2008

Il mercato che si auto - regola


[Il mese scorso] La Federal Reserve ha incrementato gli attuali sforzi per porre termine alla fiorente crisi finanziaria. La Fed ha prima escogitato una iniezione di denaro a beneficio della banca di investimenti Bear Stearns in fallimento, un gigante di 86 anni di Wall Street, e subito dopo ha facilitato l'acquisto della Bear da parte della JP Morgan Chase.

Il prestito di denaro da parte della Fed direttamente ad una banca di investimenti, una mossa senza precedenti, segue le orme dell'approvazione da parte del governo Usa lo scorso mese di un pacchetto di stimolo economico da $ 170 miliardi. Ancora una volta lo Stato si muove in soccorso del cosiddetto libero mercato.

L'economia di mercato viene celebrata tanto per la sua ipotetica capacità naturale di autoregolarsi tanto quanto per la sua associazione teorica con l'efficienza, l'innovazione e la libertà. Ma appena vengono rimossi i paraocchi ideologici della teoria del libero mercato la storia reale dei mercati mostra coerentemente che l'economia capitalista di mercato, incline alla crisi, è tutt'altro che capace di autoregolarsi ed è, in tutti i casi di successo, profondamente dipendente da un esteso ed attivo intervento dello Stato.

Si potrebbe guardare a ruolo dello Stato nello stabilire un mercato sostenibile del lavoro (tramite i Factory Acts ) e nell'assicurare il commercio internazionale nell'Inghilterra del diciannovesimo secolo; nel creare un sistema monetario internazionale stabile all'inizio del ventesimo secolo, compresa la creazione della Federal Reserve Usa, del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale; o nello sviluppare attivamente le vincenti economie esportatrici delle “tigri dell'est asiatico” e della Cina alla fine del ventesimo secolo. Ma l'attuale crisi fornisce un caso di studio sulla fragilità e sulla estrema dipendenza dallo Stato del “libero” mercato.

I guai della Bear, la prima banca di Wall Street a fallire, sono iniziati la scorsa estate quando due dei suoi hedge funds specializzati nel mercato dei mutui subprime sono crollati. La potente Bear, detentrice di debiti 30 volte di più che di capitale, è stata alla fine messa al tappeto da una corsa vecchio stile agli sportelli.

Ad oggi, oltre ad un elevato numero di consumatori attirati da loschi mutui, la debacle dei mutui subprime ha messo fuori combattimento titani come la Countrywide e la Bear Stearns, il fondo speculativo Carlyle Capital, insieme ad altre aziende di prestito più piccole.

L'attuale crisi, però, è qualcosa di più che prestiti tramite mutui dubbi, scommesse sbagliate, e perdita di fiducia nel mercato. Dietro alla crisi dei mutui vi è un sistema regolatore disattento e lo sviluppo di un sistema bancario ombra--complessi strumenti finanziari creati dalla comunità degli investimenti e commerciati privatamente al di fuori della struttura regolatrice esistente.

In termini più ampi, le bolle che si stanno attualmente sgonfiando nel mercato immobiliare e in quello del credito provengono in ultima analisi dalla speculazione, alimentata in maniera significativa da una politica monetaria approssimativa da parte della Fed sin dalla fine degli anni 90. L'attuale crisi di liquidità è iniziata nel momento in cui le bolle sono infine iniziate a scoppiare, una situazione peggiorata dal fatto che i protagonisti chiave sono banche sovraquotate.

La crisi è inerente all'economia di mercato capitalista

Le fondamenta sottostanti a tutti questi problemi macroeconomici si trovano nella economia reale--la produzione di beni e servizi. I problemi nell'economia reale, al contrario di quelli nell'economia cartacea del settore finanziario, sono gli stessi di quando Marx ha per la prima volta articolato una teoria su base storica dell'economia capitalista (mentre altri economisti continuavano a teorizzare le virtù dei mercati completamente liberi); di fatto la contraddizione tra produzione socializzata e appropriazione privata e le tendenze generate dall'anarchia del mercato.

L'anarchia dei mercati, popolati da individui alla ricerca del profitto e imprese che competono all'ultimo sangue, genera rapidamente forti pressioni su agenzie regolatrici quali le banche centrali (come è la Fed). Le banche centrali e altri agenti regolatori possono solo tentare di mitigare le oscillazioni del mercato ed evitare gli effetti peggiori dovuti alle tendenze dell'anarchia di mercato, prevenire cioè episodi quali la Grande Depressione che sono l'esito naturale di mercati non regolamentati: la speculazione porta a bolle speculative e infine alla corsa agli sportelli.

Ad un livello ancora più fondamentale ci sono i problemi risultanti dalla contraddizione tra produzione socializzata e appropriazione privata. Sebbene la produttività delle aziende americane sia una funzione della capacità lavorativa coordinata dei lavoratori, il profitto viene privatamente espropriato dai proprietari e dalle loro organizzazioni.

L'appropriazione privata ha generato livelli estremi di diseguaglianza nei salari; la frazione del lavoro manuale nei guadagni in produttività negli Usa è andata declinando negli ultimi trent'anni, e la retribuzione è di nuovo completamente desincronizzata dai livelli di sforzo e di abilità quanto lo era all'inizio del ventesimo secolo.

La concentrazione della ricchezza nelle mani di una piccola percentuale della popolazione, che genera seri problemi per il potere di acquisto dei normali lavoratori, è stata provata essere una causa fondamentale degli sbilanciamenti economici che hanno portato al crollo del mercato azionario nel 1929.

Più in generale, il problema di far combaciare domanda e offerta, o nello specifico assicurare che un alto livello di domanda vada incontro alle capacità dell'offerta, è un problema duraturo delle economie capitaliste. Fu temporaneamente affrontato dalle politiche Keynesiane di gestione della domanda nei decenni tra la seconda guerra mondiale e i primi anni 70. Da allora la soluzione istituzionale al problema di far incontrare domanda e offerta è stata una economia funzionante sulla spesa di debiti, che includono il deficit commerciale, banche sopravvalutate e consumatori che spendono su crediti finanziati da una combinazione di proprietà e bolle immobiliari.

Queste contraddizioni e problemi nell'economia reale sono intimamente collegati all'attuale crisi. Secondo Stephen S. Roach di Morgan Stanley Asia, “ negli ultimi sei anni i consumatori a basso reddito hanno compensato i deboli incrementi nelle loro buste paga estraendo capitale dalla bolla immobiliare, prendendo prestiti a tasso ribassato che si poggiavano sulla bolla del credito.”

La politica dietro all'economia

Sebbene le crisi siano inerenti al capitalismo, l'attuale crisi, che affonda le sue radici in parte nel sistema bancario ombra, è un esito naturale delle politiche neoliberiste. Il liberismo classico, la dottrina politica della libertà individuale e del governo limitato, è stato l'ordine politico regnante sino a che un mercato non regolamentato implose negli Usa alla fine degli anni 20, dando inizio a una forte depressione mondiale.

Da queste rovine emersero tanto il New Deal che il consenso Keynesiano, che portarono alla nozione condivisa che lo Stato deve giocare un ruolo fondamentale nell'economia: stabilendo una rete di salvataggio e gestendo attivamente la macroeconomia.

Ma mentre i tassi di profitto delle aziende vennero schiacciati e la competizione internazionale si intensificò all'inizio degli anni 70, le condizioni erano mature per un ritorno politico di sostenitori del libero mercato.

Così nacque il neoliberismo, il progetto politico post-Keynesiano di riaffermare--come politica statale ufficiale--la dottrina che il libero commercio e la deregolamentazione sono le vie migliori per assicurare efficienza economica, crescita economica e libertà individuale.

Lontano dall'essere un mercato libero e che si autoregola l'economia neoliberista di oggi è fortemente organizzata dallo Stato e da una varietà di istituzioni, quasi tutte strutturate esplicitamente negli interessi degli investitori contro quelli delle famiglie lavoratrici. La cosiddetta deregolamentazione andrebbe più giustamente chiamata regolamentazione neoliberista.

Lo stesso sistema che sta generando l'attuale crisi finanziaria, e che ha generato la crisi manifatturiera in cui sono stati persi 3,7 milioni di posti di lavoro negli scorsi sette anni, non è affatto il vecchio libero mercato. Piuttosto è capitalismo neoliberista che, nel corso di trent'anni, ha anche generato una crescente diseguaglianza e un'instabilità del mercato del lavoro.

Un ambiente decisionale più sano inizierebbe dal rigettare il dogma dei mercati che si autoregolano, in modo che le istituzioni regolatrici possano essere fortificate e l'investimento pubblico drammaticamente aumentato. Lo Stato dovrebbe anche investire in infrastrutture estremamente necessarie e potrebbe sviluppare una politica industriale orientata all'esportazione per aiutare a bilanciare l'economia guidata dal debito.

Infine, per affrontare gli attuali problemi economici--crisi, scuole e infrastrutture con pochi finanziamenti, diseguaglianza, povertà, ecc.-- dobbiamo rigettare l'intera ideologia del libero mercato. La libertà è qualcosa di più che la scelta tra dozzine di tipi di televisioni. L'efficienza è importante ma accorti investimenti e interventi statali possono aumentare l'efficienza e c'è un ampio spazio per compromessi potenzialmente soddisfacenti tra gli estremi dell'ipercapitalismo in stile americano e dell'economia pianificata in stile sovietico.
di Matt Vidal

23 aprile 2008

La cura dell'Anima: Tra Denaro e Apparenze



Non si sente più parlare di anima. Questo termine, così diffuso e pregnante in altre epoche della storia occidentale non è sulla bocca, almeno nei loro discorsi in pubblico, del Papa, dei cardinali, dei vescovi e neppure dei preti. Ora, io non credo all'anima, ma il Papa, i cardinali, i vescovi, i preti ci dovrebbero credere visto che tutta la cosmogonia cristiana si basa sulla fede nella sua esistenza e che la funzione, diciamo così, istituzionale della Chiesa e dei suoi sacerdoti è proprio "la cura delle anime". Ma non ne parlano mai. Non ne parlano più.

Non si parla nemmeno, sul cotè laico, di spirito, l'antico "pneuma" del pensiero greco, ma questo non è più comprensibile dato l'uso sciagurato che ne hanno fatto Hegel, in Italia Gentile (e per la verità anche Croce) per cui ha finito per assumere un significato vagamente fascista.

Si parla, in compenso, molto del corpo e del suo benessere. Di "beauty farm", di palestre, di materassi , di plantari e anche di prodotti che aiutano la donna, e immagino anche l'uomo, a riacquistare la sua "normale regolarità" (che l'anima , per una bizzarra combinazione alchemica, abbia cambiato la sua sostanza?). Si parla moltissimo di cibo e di cibi il cui destino peraltro è inevitabile e non particolarmente glorioso. Si parla molto di chirurgia estetica che deve fare apparire il nostro corpo sempre giovane, bello e levigato e d'una medicina che deve rendere la nostra vita sempre più longeva e, prima o poi, immortale.

Ma si parla soprattutto di denaro, del Dio Quattrino che è l'unico nume unanimemente adorato, riconosciuto e condiviso, in Occidente, e quindi di economia, di finanza, di derivati, di banche, di carte di credito, di bancomat, di Cin, di Pin, di Iban. In questo nuovo Regno l'uomo ha ancora una parte, ma come sottoprodotto. Non è più propriamente un uomo, ma un "consumatore". È un tramite. È il tubo digerente, il lavandino, il water attraverso cui deve passare il più velocemente possibile ciò che altrettanto rapidamente produce. "Bisogna stimolare i consumi per aumentare la produzione". È il "terminale uomo" del meccanismo. È un target. Un obiettivo. Non è più soggetto, ma un oggetto. Si inventano strategie di marketing sempre più sofisticate, nascono scuole per "personalizzare" i venditori, ma se c'è qualcuno che tituba a ridurre la propria esistenza a quella di rapido defecatore e di Pinocchio nel Paese dei Balocchi si ricorre a metodi più spicci e si reclutano e si schiavizzano schiere di giovani Lucignoli perchè faccia, perbenino e senza protestare, il suo dovere.

Come l'uomo sono ridotti i Paesi e le Nazioni. Un Paese è considerato solo se è un appetibile mercato o è tanto più ganzo quanto più è capace di acquisire nuove "quote di mercato". Un tempo esisteva l'idea di Nazione, di una comunità con valori condivisi. Adesso la Nazione è stata sostituita dalla Produzione.

In occidente si torna a parlare, è vero, e molto di Dio. Ma non mi pare del tutto a sproposito. Se ne fa un uso parecchio utilitaristico. Il Presidente degli Stati Uniti conclude ogni suo discorso con la frase "Dio protegga l'America". E perché non l'Afghanistan? O l'Iraq? L'Iran? O ancor meglio, gli indigeni delle isole Andemane che non hanno mai rotto le scatole a nessuno? Oppure si impetrano da lui e o dalle sue Maestranze favori particolari. Ma perchè mai Dio dovrebbe concederli a questi piuttosto che a quelli? E, curioso che l'epoca del massimo e trionfante scientismo sia anche quella della massima superstizione (Fatima, Lourdes, la Madonna di Czestokowa, quella di Medjugorje, San Gennaro, Padre Pio, eccetera). Ma poi se non esiste più l'anima che senso mai può avere conservare Dio?

L'immateriale è scomparso dal mondo contemporaneo. È stato sostituito dal virtuale che solo apparentemente gli si apparenta. Perché è una parodia masturbatoria del reale. E non ha nulla a che vedere con l'Immateriale. Con lo Spirito. Con l'Anima.

Massimo FIni

L'immaginario colonizzato


Un'intervista a Maurizio Pallante si comincia a parlare di decrescita e vita compatibile.
Ma quali sono i NOSTRI veri bisogni? Quando li capiremo queste domande sono superflue.

«Siamo tossicodipendenti della crescita e del consumo, siamo stati colonizzati nel nostro immaginario, abbiamo subito l'economicizzazione del nostro spirito: e i nuovi profeti ci colpevolizzano se non siamo sufficientemente calcolatori. Ma i drogati, si sa, sono vittime con la tendenza a continuare ad assumere la droga e non a curarsi. Sono le multinazionali come la Nestlé o la Total che finanziano i modi per impedire che noi, drogati del consumo, possiamo curarci». E' l' “eretico”, il francese Serge Latouche, padre della decrescita che parla. E c'è chi condivide anche in Italia.

«Penso che Latouche abbia completamente ragione. – dice Maurizio Pallante, presidente del Movimento per la Decrescita Felice in Italia (per ulteriori approfondimenti sito www.decrescitafelice.it ) e che attualmente svolge un'attività di ricerca e divulgazione scientifica sui rapporti tra ecologia, tecnologia e economia - Anzi molte delle cose che lui ha detto sono di una importanza fondamentale. In particolare l'esigenza di porre la decrescita a fine dell'attività economica e produttiva è un concetto che rompe con uno dei fondamenti delle società industriali avanzate. E' un concetto che non viene accettato perchè non viene fondamentalmente compreso. Ho letto una critica che fa Piero Bianucci all'ultimo libro di Latouche in cui dice, in un esempio iniziale, che i bambini crescono e gli alberi crescono. Però non ha l'onestà intellettuale di dire che gli adulti non crescono più e che gli alberi, da un certo punto in avanti, non crescono più Non è che la crescita è un fattore di qualità, lo può essere in certe condizioni. Mentre invece l'unica crescita che prosegue senza limitazioni è quella tumorale»

Ma che senso ha allora parlare di descrescita? E' utopia? Va contro il Progresso?

«Bisogna saper distinguere che cosa significa realmente progresso e che cosa ci hanno fatto credere che esso significhi. Se come progresso si intende la capacità di accrescere in continuazione la quantità di oggetti materiali e di merci che consumiamo, allora questo è un falso progresso, come diceva già Pasolini. Se invece per progresso si intende un miglioramento delle condizioni di vita generalizzato e tendente ad allargarsi per tutta l'umanità non è possibile proseguire con questo modello: occorre saper distinguere tra i beni (cioè degli oggetti) ed i servizi che rispondono alle esigenze reali degli esseri umani e le merci che invece rispondono all'esigenza del Prodotto Interno Lordo ed all'esigenza di farlo crescere sempre più. I due valori non omogenei. Si può avere un aumento della produzione di merci e una riduzione della qualità della vita»

Ovunque sentiamo parlare di Pil, Prodotto Interno Lordo che dobbiamo far crescere per migliorare la nostra qualità di vita. E' vera allora l'equazione più soldi=più ricchezza= più benessere?

«No, non mi risulta. Assolutamente. Perchè questo concetto non distingue tra l'idea di bene e l'idea di merce. I beni sono degli oggetti, dei servizi, che migliorano le condizioni di vita degli esseri umani, le merci sono degli oggetti e dei servizi che vengono scambiati con denaro.

Il Prodotto interno lordo misura la quantità delle merci ma non verifica se le merci sono dei beni o meno. La capacità di distinguere tra i beni e le merci è fondamentale. Esistono delle merci che non sono beni ed esistono dei beni che non sono merci.

Due esempio: una casa malcostruita per essere riscaldata ha bisogno di 20 litri di gasolio al metro quadrato all'anno. Essa fa crescere il Pil più di una casa ben costruita che ne ha bisogno solo di 7 litri o addirittura meno. Tutta l'energia in più - che nel caso nel rapporto tra una casa da 20 e una casa da 7 litri è di due terzi - è una merce che fa crescere il Pil ma non è un bene perchè si disperde a causa della cattiva coibentazione dell'edificio. Abbiamo quindi una crescita del Prodotto Interno Lordo ma un peggioramento delle condizioni di vita: una casa che consuma 20 litri manda in atmosfera i due terzi di CO2 in più rispetto allo stesso edificio ben costruito.

Esistono anche beni che non sono merci e che non fanno crescere il Pil. Pensiamo ai beni, oggetti e servizi autoprodotti donati per amore: non vengono scambiati per denaro, non fanno crescere il Pil ma soddisfano delle esigenze umane in maniera molto migliore rispetto alle merci equivalenti»

Noi, consumatori grassi e tristi che sperperiamo ovunque; voi fedeli alla Decrescita ed al ritorno alle antiche abitudini contadine di un tempo, forse bucolica, felici e contenti. E' così? Come si può fare affinchè anche i ricchi e sfrenati consumisti siano felici e non tristi?

«Questa cosa non è affatto bucolica, a parte che non c'è niente di negativo vivere in un ambiente sano, naturale. Ma se in questa maniera si pensa di ridicolizzare una aspirazione di un ritorno ad un passato mitico, siamo veramente fuori strada. La decrescita è felice perchè la riduzione della produzione del consumo di merci che non sono beni è un fattore che porta felicità. Essa richiede però più tecnologie rispetto ad una società basata sullo spreco delle risorse. In una casa che consuma 7 litri di gasolio per metro quadro, come dicevo in precedenza, si sta meglio fisicamente in quanto, non disperdendo il calore, le pareti sono calde e il nostro corpo è molto sensibile a quel calore più ancora di quanto non sia sensibile al calore dell'aria della stanza. Ci vogliono dunque tecnologie più avanzate che ci consentano di costruire case che consumano di meno, che ci facciano stare meglio, ci facciano essere più felici e contribuiscano a ridurre l'effetto serra. Esse quindi diventano un fattore - per quanto piccolo che sia - di miglioramento del benessere collettivo»

22 aprile 2008

Un assestamento globale

Liberismo sfrenato? solo per i future, quando si parla di cibo meglio l'economia locale. Ma, se i terreni sono delle multinazionali chi li coltiva?
I nuovi annunaki chi sono?
Lehman Brothers manderà a casa 600 dipendenti. Merrill Lynch ha annunciato che taglierà 4 mila posti di lavoro. Citigroup, dopo aver annunciato 4 mila licenziamenti a gennaio, ha dichiarato che licenzierà altri 9 mila dipendenti nei prossimi dodici mesi. Secondo il Financial Times, alla fine, i disoccupati ex-Citi saranno 25 mila.

La JP Morgan Chase, oltre alle perdite sue, subisce quelle dovute all’acquisto-salvataggio di Bear Stearns: di cui si prepara a sbattere fuori 14 mila dipendenti, e forse - secondo il Wall Street Journal - metà di tutti gli ex impiegati.

Altri grandi istituti bancari americani in rovina stanno licenziando: 3 mila alla Washington Mutual (1,14 miliardi di perdite dichiarate), centinaia alla Wachovia e alla Well Fargo. Le grandi banche d’affari globali hanno annunciato circa 20 mila licenziamenti, di cui 6 mila solo a New York.

In quella che gli USA chiamano la loro più vivace «industria» (la finanza), è un massacro.

Tra USA ed Europa, i posti di lavoro scomparsi nel settore finanziario-speculativo, del credito e dei derivati, si calcolano in 70 mila. Nei prossimi 12-18 mesi il numero può salire in USA a 200 mila, secondo Celent LLC, un centro di ricerca finanziaria; secondo Esperian, un «data provider», a fine 2008 gli operatori finanziari sul lastrico saranno 240 mila, sui 2 milioni di posizioni nel settore bancario commerciale (1).

«Non c’è più tanto bisogno di gente che sa ‘securitizzare’ debiti, dato che per quegli oggetti non c’è più mercato», ha scritto Floyd Norris, giornalista economico del Times. Sono begli stipendi e bonus profumati che scompaiono, e che fornivano il loro frizzante «glamour» a New York e Londra.

«Fino ad ora la crisi è determinata dal settore finanziario», ha spiegato John Thain, presidente esecutivo di Merrill Lynch, «ma dobbiamo ancora vedere l’effetto sul consumatore dei prezzi calanti degli immobili, dei prezzi crescenti dell’energia e del cibo, e della disoccupazione più alta».

Non che tutti i licenziati finanziari finiscano a chiedere l’elemosina. James Cayne, il presidente della Bear Stearns ed autore della sua bancarotta, negli ultimi cinque anni ha guadagnato 155,26 milioni di dollari; anche se, prima di essere sbattuto fuori, ha potuto rivendere le sua azioni nella banca fallita per «soli» 61 milioni di dollari in marzo.

Charles Prince, presidente di Citigroup, e Staney O’Neal, di Merrill, sono stati accompagnati alla porta per aver fatto perdere miliardi di dollari in speculazioni dementi alle loro banche, con un gruzzoletto, rispettivamente, di 68 e di 161 milioni di dollari.

Gli squali, anche feriti a morte, continuano a divorare. Non a caso il costo del metro quadro a Manhattan è salito ancora del 41% in questo anno di crisi.

Sono altri i lavoratori che pagano il prezzo: i 5 mila licenziati alla AT&T, i 1.100 della Volvo Trucks, i 730 della Harley Davidson, i 477 della Siemens Automation, i 356 del Greenville Hospital di Jersey city, i 250 della immobiliare Dutch Housing. A marzo, risulta che 5 milioni di lavoratori - 400 mila più che a novembre - sono in USA a orario e paga ridotte, dato che le aziende hanno meno attività. I redditi salariali sono in declino da sei mesi consecutivi. Lo squalo del capitalismo terminale perde sangue a fiotti, ma continua a divorare.

Gli hedge fund si sono buttati sui mercati-merci, provocando il rialzo speculativo del cibo (il riso è rincarato del 120% nell’anno, di cui il 75% negli ultimi due mesi). Feriti a morte, riescono ancora a fare profitti e a devastare le società con i rincari di alimenti e petrolio.

Al mercato merci di Chicago, che tratta 25 materie prime agricole, il volume dei contratti è cresciuto del 20% da gennaio, superando un milione di contratti al giorno. Gli hedge fund comprano ogni giorno 30 milioni di tonnellate di soya per futura consegna... Naturalmente non si fanno consegnare questa merce voluminosa, ma rivendono i «futures» prima. E’ questo che rende la loro opera distruttiva.

I «futures» agricoli, in mano agli operatori dell’economia reale, servono a stabilizzare i prezzi e a finanziare gli agricoltori con anticipi su raccolti futuri. Gli hedge, comprando e vendendo futures di carta, hanno fatto impazzire questo mercato, condannando alla fame centinaia di milioni di poveracci in Asia, e provocando fenomeni di accaparramento e tesaurizzazione da parte dei Paesi produttori, che temono, se vendono il riso e grano sui mercati mondiali, di non riuscire a sfamare la loro popolazione.

William Pfaff (2) trova «stupefacente che in questa situazione, le istituzioni finanziarie internazionali e i regolatori di Stato non stronchino questa attività parassitaria e anti-sociale». Basterebbe riservare il mercato-merci di Chicago, e gli altri simili, agli operatori reali, quelli che davveno trattano granaglie, e che sono poche decine, e ben noti.

Ma le istituzioni monetarie non lo fanno: «Il mito del mercato imparziale e benefico ha la meglio sull’evidenza contraria». Continua ad operare l’ideologia liberista dogmatica. E’ il capitalismo in agonia che addenta le ultime sue prede.

Perchè mentre i colossi della finanza crollano, e l’economia USA si restringe drasticamente in una depressione che si promette abissale, incapace di punire i colpevoli e di mettere un freno alla follia, si scopre che, nel mondo, certe economie «vecchio stile» stanno sostenendo la tempesta meglio di quelle che si sono adeguate al dogma liberista e che hanno puntato tutto sulla fornitura agli indebitati consumatori USA.

Russia, Brasile e Australia, ricchi di materie prime, se la stanno cavando bene nonostante il rallentamento mondiale. Germania e Giappone, ancora produttori di macchinari industriali «pesanti» per la produzione e non il consumo - l’industria che gli USA hanno abbandonato - continuano a tener testa alla situazione. In Brasile, grazie alla domanda sostenuta dei suoi prodottti: minerale ferroso, caffè, zucchero, i tassi d’interesse sono addirittura calanti.

L’India sta facendo meglio della Cina, perchè ha un forte mercato interno, che non dipende troppo dalle esportazioni in USA. La Cina, con la Thailandia, le Filippine e la Malaysia stanno subendo rallentamenti perchè hanno fidato troppo nell’export in USA. E Paesi come Ungheria e Turchia sono nei guai per essersi indebitati troppo sui mercati finanziari. In generale, se la cavano quei settori europei che hanno compensato l’euro forte rinunciando al mercato americano, e trovandosi altri clienti.

Il mercato USA sta diventando sempre meno rilevante nel mondo. Di più: Dani Rodrik, docente ad Harvard (Kennedy School), ha stabilito che i Paesi - specie dell’America Latina - che hanno seguito i consigli liberalizzatori del Fondo Monetario e della Banca Mondiale, nel 1980-90, hanno sperimentato una crescita «negativa» dello 0,8% (l’Asia, intanto, cresceva del 5,6 %), e di uno stentato 1% fino al 2000.

Poi, alcuni Paesi hanno rigettato le ricette del liberismo e dei suoi custodi globali («privatizza, liberalizza, svaluta») per adottare politiche economiche nazionali, «disapprovate» dal FMI: e stanno crescendo meglio dei vicini, e anche più del Vietnam e della Cina. I Paesi liberati sono: Argentina, Bolivia, Brazile, Cile, Salvador, Messico, Uruguay.

Nel complesso, sta emergendo un «Nuovo Ordine Mondiale», ma ben diverso da quello immaginato dai profeti anglo-americani del mercato-mondo: è in atto uno storico dislocamento di potenza, di influenza politica, di prestigio e di ricchezza reale dall’Occidente ex avanzato al quello che era ex Terzo Mondo, o secondo mondo.
In linea di massima, il potere sta sfuggendo dai Paesi in deficit di energia verso quelli che hanno energia (petrolio, gas, uranio) da vendere (3).

La Cina, bisognosa di materie prime energetiche, sta però solo in teoria nel primo gruppo declinante: perchè usa la sua nuova influenza politica per accordi strategici di Stato, ben lontani dal liberismo alla Adam Smith, per assicurarsi il futuro. Così la Sinopec cinese ha un accordo storico con la Aramco saudita (che un tempo apparteneva alla Exxon e Chevron) per nuove esplorazioni in Arabia; la China National Peroleum collaborerà con Gazprom, il colosso sottto controllo di Stato, per costruire oleo e gasdotti che porteranno il gas russo ai cinesi. La indiana Oil and Natural Gas Corporation (impresa pubblica) sta aiutando il Venezuela a sviluppare i suoi giacimenti di greggio pesante un tempo controllati da Chevron.

Il trasferimento di ricchezza ai fornitori di greggio, gas e metalli è enorme: di 970 miliardi di dollari nel 2006, e sicuramente molto più nel 2008, visti i rincari. Parte rilevante di questa ricchezza viene depositata in fondi sovrani di Stato, che stanno acquistando tutto ciò che vale qualcosa in USA, con dollari svalutati.

Di imprevedibile rilevanza per il futuro è la concentrazione straordinaria del potere energetico: dieci soli Stati possiedono l’82,2% delle riserve mondiali accertate, e solo tre - Russia, Iran e Katar - controllano il 55,8% dell’offerta globale. Un accordo fra Russia e Iran per la divisione pacifica ma «politica» dei mercati, senza concorrenza fra loro (che Teheran ha già proposto) eserciterà una storica tenaglia sui Paesi dell’OCSE, sviluppati, (ex) industrializzati, abituati ad un alto tenore di vita, oggi - specialmente gli USA - a credito.

Inneggia a questo imprevisto nuovo ordine globale un libro che sta facendo furore in Asia: «The new Asia hemisphere - The irresistible shift of global power do the East», di Kishore Mahbubani. Costui, un diplomatico di Singapore, sostiene che i grandi Paesi asiatici, cresciuti al nuovo benessere grazie ai «valori occidentali», libero mercato, proprietà privata e tecnologie comprese, stanno tagliando il cordone ombelicale che li subordinava alla cultura occidentale (4).

Oggi, una imponente «de-occidentalizzazione» sarebbe in corso dalla Cina al Medio Oriente, perchè questi Paesi hanno constatato come la prosperità mondiale venga oggi «messa in pericolo da processi politici occidentali fortemente antagonizzanti e disfunzionali», come le guerre di Bush.

Essi vedono l’ipocrisia con cui «l’Occidente, abitato soltanto dal 12% della popolazione mondiale», si affanna a mantenere il controllo degli organismi del libero commercio globale, dal Fondo Monetario alla Banca Mondiale al WTO, fino al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, «che furono create con l’intento di servire all’umanità».

Insomma, l’Asia non crede più che l’Occidente sia «la parte più civilizzata del mondo», non è più soggiogata dal prestigio culturale di Europa ed USA.
M. Blondet



1) David Walsh, «As losses mount, US banks cut thousands of jobs», World Socialist Website, 19 aprile 2008.
2) William Pfaff, « The speculators driving food price rises», 15 aprile 2008.
3) Michael T. Klare, «The rise of the new energy world order», Asia Times, 17 aprile 2008.
4) Sreeram Chaulia, «Asia pushes, West resists», Asia Times, 19 aprile 2008.

21 aprile 2008

Armi di banalizzazione di massa


Benvenuti a Hollywood. Hollywood non esiste, ecco la tua prima illusione. Tu non sei mai stato a Hollywood. Sei sempre e solo stato davanti alla tua televisione. Ed anche se e quando non sei stato davanti alla televisione, sei stato in mezzo a persone che erano appena state davanti alla loro televisione. Non hai modo di sfuggire a quel flusso di informazioni omogeneizzate. Buttare via la televisione non serve. Ti fanno gli altri il riassunto di quello che ti sei perso. Allora tanto vale guardarla.

La realtà è infinitamente complessa e di questa gigantesca torta il nostro cervello riesce a gustarne meno di una minuscola fetta – qualche briciola nel migliore dei casi. Tuttavia, anche queste briciole di lucida comprensione possono generare confusione ed instabilità. La società umana è un meccanismo troppo complesso per continuare a funzionare se tutti gli ingranaggi che ne fanno parte un bel giorno iniziano a porsi dubbi filosofici sul significato del proprio ruolo. Un idraulico che, riparando il tuo cesso, s’interrogasse sul reale significato dell’esistenza delle onde gravitazionali anziché sull’occlusione delle onde del tuo sciacquone, difficilmente giungerebbe a risolvere il tuo problema in tempo utile per il tuo prossimo bisogno corporale.

Affinché la società funzioni, tutti devono occuparsi esclusivamente delle attività inerenti al proprio ruolo specifico e specialistico e, per tutto ciò che riguarda i grandi problemi, condividere a somme linee una stessa visione del mondo. Sui piccoli dettagli trascurabili è bene litigare – la mia squadra di calcio è più forte della tua, la mia squadra politica è più buona della tua, la mia musica è più figa della tua –, dato che queste pantomime servono a fornire agli individui l’illusione di un’identità di appartenenza ad un gruppo piuttosto che ad un altro, necessità evidentemente codificata nel nostro DNA e che in qualche modo deve trovare una propria realizzazione all’interno di ciascuno di noi. Ma per quello che riguarda le cose davvero importanti, tutti, per evitare che la comunità smetta di funzionare, devono più o meno condividere le stesse nozioni essenziali, se necessario predigerite, preconfezionate, presemplificate, prebanalizzate, in modo da renderle assimilabili da parte di chiunque.

Vi piaccia o no, questo è il mondo nel quale viviamo. Probabilmente, il migliore dei mondi possibile. Ciò non toglie che per molti aspetti faccia parecchio schifo, tuttavia se un mondo migliore fosse possibile, probabilmente esso già esisterebbe. Ciò non vuol dire che non si possa lottare per un mondo migliore, ma questa è un’altra faccenda nella quale adesso non entriamo perché ci porterebbe fuori tema.

Tutto sommato questo libro non ha la presunzione di nutrire la nobile – ma, ahinoi, probabilmente irrealistica nonché folle – ambizione di rendere il mondo un luogo sensibilmente migliore, ma si limita a perseguire il ben più umile e modesto traguardo di fornire ai pochi che hanno un po’ di tempo da perdere qualche elegante utensile in più per godersi in piena coscienza e sino in fondo i nuovi curiosi orrori del mondo. Accontentiamoci ancora una volta di quel che passa il convento!

In uno splendido libro, Elogio dell’imbecille, che in Spagna è meritatamente divenuto un bestseller, lo scrittore e giornalista italiano Pino Aprile dimostra quanto la stupidità sia importante per preservare a tutti i livelli il buon funzionamento della nostra società. La stupidità non sarebbe affatto una carenza di qualcosa – l’intelligenza –, bensì una funzione vera e propria, indispensabile a garantire che uno faccia ciò che deve fare senza porsi tanti perché.

Tuttavia, tanta sana stupidità da sola potrebbe anche non bastare, a volte, per impedire al Grande Giocattolo di rompersi. Bisogna venirle in soccorso, prenderla per mano e condurla con pazienza nella direzione voluta. Perché, se tutte le pecorelle si muovono a casaccio, capirete bene che non si giunge mai da nessuna parte e tanta preziosa stupidità va inutilmente sprecata, il sistema crolla e tanti saluti a tutti.

Fino a cent’anni fa i mass media non esistevano e quelli che iniziavano ad esistere su carta stampata non erano poi tanto di massa, dato che gran parte della gente non sapeva leggere. Soprattutto negli ultimi decenni, però, l’esplosiva diffusione dei sistemi di comunicazione di massa ha interconnesso miliardi di persone in una rete capillare di comunicazioni pressoché istantanee. Per quasi tutta la storia dell’umanità, l’informazione è andata a passo di lumaca, quando circolava. In genere, l’informazione girava assai poco, rimanendo comunque circoscritta a ristrette aree geografiche, ed è proprio in virtù di questi isolamenti che nei millenni si sono differenziate le lingue. I vari popoli, tra loro, non si parlavano proprio, altro che cellulari satellitari e teleselezione! I popoli si frequentavano così poco, in passato, che anche le informazioni genetiche non circolavano tra un popolo e l’altro (a parte occasionali stupri qua e là ad opera dei vincitori delle guerre).

Oggi la musica è diversa. Nel campo delle comunicazioni la differenza rispetto al passato è incommensurabile e questa novità , ovviamente, è gravida di conseguenza importanti. I fenomeni di retroazione, diventati rapidissimi, rendono il sistema infinitamente più instabile. Come il noto «effetto farfalla» dei sistemi caotici (il battito d’ali di una farfalla in Giappone potrebbe innescare un concatenamento di eventi in grado di scatenare un uragano in America), una frase pronunciata a Pinerolo potrebbe innescare una reazione a catena che darà il via alla terza guerra mondiale. Lo so, sembra improbabile, ma molto dipenderebbe anche da chi pronunciasse la frase: mettiamo, ad esempio, che Bush vada una sera a cena a Pinerolo...

In effetti, c’è chi prevede che tra pochi anni questa crescente instabilità renderà il futuro completamente imprevedibile, ma di questo parleremo più avanti.

Per mantenere stabile un sistema caotico come quello dell’umanità attuale è necessario che la visione della realtà sia il più possibile omogenea. I mass media contribuiscono a questo risultato, e di ciò è stato già scritto di tutto, dai quasi dimenticati (o, piuttosto, rimossi) Gustave Le Bon (alla sua Psicologia delle folle non negavano di ispirarsi sia Hitler che Mussolini) ed Edward L. Bernays («padre della persuasione», nonché nipote di Freud) in poi.

I mass media vengono utilizzati moltissimo anche per vendere dentifrici, automobili, assorbenti e merendine, ma ciò che interessa qui è quando essi veicolano quelle che ho definito armi di banalizzazione di massa.

Avrete già sentito parlare delle armi di distrazione di massa. Si tratta di un’espressione di cui si è fatto molto uso, e con buona ragione. Tuttavia, le armi di distrazione di massa sono armi tattiche, finalizzate a distrarre l’attenzione collettiva nella contingenza del loro esercizio. Idealmente, il giorno in cui le armi di distrazione di massa smettessero di ruggire, i milioni di persone distratte potrebbero immediatamente tornare ad accorgersi degli eventi significativi che accadono intorno a loro. Le armi di banalizzazione di massa, diversamente, sono armi di tipo strategico e, una volta entrate efficacemente in azione, hanno un effetto duraturo e difficilmente reversibile. Esse provvedono ad installare nelle menti delle persone versioni ipersemplificate e banalizzate di qualsiasi cosa accada o possa accadere.

L’uomo oggi vive in perfetta simbiosi con i media. I concetti che egli pensa sono in linea di massima tutti stati preventivamente filtrati, selezionati, predigeriti, banalizzati e confezionati dal suo Grande Fratello di fiducia (ce n’è più di uno, ma sotto sotto sono tutti in combutta).

I media veicolano un panorama teatrale del mondo e degli eventi che in esso si succedono. Si tratta di illusioni stilizzate, alle quali gli stessi giornalisti finiscono per credere, almeno in parte. L’uomo accetta più o meno acriticamente questa frittata stilizzata di pseudorealtà, nello stesso modo in cui un bambino accetta ciò che gli raccontano i suoi genitori, credendolo vero.

Qualsiasi elemento di complessità della situazione viene semplificato dalle armi di banalizzazione sino al punto che non ha più alcuna relazione rilevante con il significato originario, al di fuori di una sottile assonanza, ovvero di una etichetta comune per significati ormai lontani anni luce.

Lo so cosa starà pensando il lettore a questo punto, e cioè che, tanto per cambiare, anche in questo libro si sta menando il can per l’aia con discorsi che non stanno né in cielo né in terra, ma che intendono solo portare acqua al mulino dell’autore. Io voglio bene al mio lettore e mi dispiace perderlo, tuttavia è molto tempo che scrivo roba astratta e stravagante ed è inevitabile che qualcosa (o più di qualcosa) mi scappi pure in questo libro. Cercherò di non eccedere.

Il primo obiettivo delle armi di banalizzazione di massa è la semplificazione estrema del processo con cui la gente distingue il bene dal male. Al di là del bene e del male, queste armi si curano di semplificare tutto, ma proprio tutto, ciò che ci viene comunicato per via televisiva.
Il risultato è una specie di disneyzzazione della realtà percepita. I Buoni sono sempre buoni ed i Cattivi sono sempre cattivi con riconoscibilità analoga a quella che i Buoni ed i Cattivi hanno in un cartone animato. Questo destino non tocca solo al Bene ed al Male, ma anche a personaggi ed eventi di qualsiasi genere, i quali, spogliati nelle rappresentazioni massmediatiche di qualsiasi complessità, finiscono inevitabilmente per assomigliarsi al punto da essere intercambiabili. In effetti, vengono tutti ridotti ad una manciata di personaggi stereotipati che compiono azioni comuni, anche quando superficialmente appaiano bizzarre.

Fateci caso, socchiudete metaforicamente gli occhi quando vi guardate in giro e parlate con gli altri o siete davanti alla televisione, e vedrete come la nebbia delle illusioni si diraderà per brevi istanti, permettendovi di scorgere l’autentica natura degli stereotipi che sostituiscono la realtà; il mondo apparirà allora come una sorta di pacchiano cartone animato senza uscita, reso folle dal fatto che a tutti sembra qualcosa di autentico e naturale. Pensate che le mie parole siano state troppo astratte? Aspettate a leggere le prossime!

Qualsiasi cosa oggi avvenga, noi non possiamo evitare di paragonarla istantaneamente con la «mappa» di un avvenimento analogo che già abbiamo nel nostro cervello – un’esperienza fittizia di quell’avvenimento che risiede dentro alla nostra materia grigia anche se non l’abbiamo mai fatta. Quella pseudo-esperienza è entrata nel nostro cervello attraverso il Cavallo di Troia di un film, due film, mille film e diecimila telegiornali che abbiamo visto ed assorbito dalla televisione. Qualsiasi cosa avvenga nel mondo, noi siamo quindi in grado di «comprenderlo» perché lo riconosciamo. Il problema è che in realtà non riconosciamo l’avvenimento in sé, dato che in genere non l’abbiamo vissuto, bensì la rappresentazione stilizzata e semplificata che di esso c’è nel nostro cervello. Quest’ultimo, allenato a semplificare tutto da migliaia e migliaia di ore di devota osservazione televisiva, non si prende la briga di decodificare davvero le informazioni in entrata. A che scopo tanta fatica? Gli basta riconoscere la classe di informazioni in ingresso per balzare immediatamente allo stereotipo mentale, cioè il «pacchetto» di consapevolezza ipersemplificata, corrispondente a quell’argomento.

Anziché la nostra vita, ci ritroviamo quindi grottescamente a vivere una sorta di metafora di essa, dove gran parte di ciò che ci succede lo comprendiamo e rappresentiamo nel nostro teatro mentale sostituendolo con il corrispondente surrogato cliché televisivo.

Un esempio eclatante di questo processo si è avuto proprio con gli attentati dell’11 settembre, vissuti da tutti – addirittura anche dalle stesse persone che si trovavano nelle Torri Gemelle e sono riuscite a scappare – come se si trattasse di un film. Il grande tarlo che cova invisibile nei nostri cervelli è brevemente apparso in tutta la sua potenza proprio quel giorno. Im­magina: tu sei in una delle torri colpite, c’è un incendio e devi scappare per salvarti la vita, e il tuo cervello non trova di meglio che credere che stiano girando un remake de L’inferno di cristallo. Per fortuna zone più profonde ed animali del cervello, forgiate da milioni di anni di evoluzione e selezione naturale, non cascano nell’inganno e ti portano in salvo ugualmente, nonostante quell’altro pezzo di cervello malato insista contro ogni evidenza sul fatto che si tratti di un film. Intrappolati senza scampo nelle metafore hollywoodiane che hanno occupato le nostre menti, ecco la nostra condizione psichica di oggi. Ecco la vittoria finale conseguita dalle armi di banalizzazione di massa. Nessuno è immune. Tranne che in rari momenti di lucidità, non ci accorgiamo di nulla. Il Mostro è dentro di noi e si scatena solo quando serve a lui o agli ingegneri che lo hanno programmato.

Un’esemplare rappresentazione cinematografica di questo stato delle cose la troviamo nel film Natural Born Killers, di Oliver Stone. Mickey e Mallory, gli sballati protagonisti della storia, altro non sono che l’esasperazione dei malati di mente che siamo tutti diventati dopo migliaia di ore di esposizione alle armi di banalizzazione di massa. Per questo film Oliver Stone avrebbe meritato un Nobel – un Oscar non sarebbe stato abbastanza – ed invece gli sono giunte critiche su critiche perché migliaia di normalissimi malati di mente si sarebbero coerentemente riconosciuti nei personaggi del film, mettendosi a scimmiottarne le gesta in giro per gli Stati Uniti.

L’effetto utile del costante uso delle armi di banalizzazione è la stabilizzazione delle grandi masse, le quali, perdute in un mondo fittizio, oppure ancorate ad esso (è una questione di interpretazione), un mondo fatto di illusioni televisive, si comportano in modo abbastanza prevedibile perché il sistema si mantenga stabile.

Poiché le armi di banalizzazione di massa dispensano anche grandi quantità di rappresentazioni del Male, esse inevitabilmente finiscono anche per generare un Male stilizzato, esemplificato, stereotipato e quindi meglio gestibile di un Male esercitato da criminali realmente fantasiosi.

Se queste armi consentono ad una società di essere più stabile, la stessa cosa non si può sempre dire degli individui che di tale società fanno parte.

L’effetto secondario e negativo di questo processo, nel quale le nostre esperienze non riescono più ad essere realmente nostre poiché in effetti si associano dentro le nostre teste a stereotipi, è che al giorno d’oggi gran parte della gente si ritrova ad affrontare grossi problemi di identità.

Qualche neurone intelligente rimane, nel profondo del cervello di tutti noi, ed esso urla la propria disperazione per la carenza di distinzione che le nostre vite palesano. Alla convenienza sociale di conformarci gli uni agli altri si contrappone intimamente un bisogno di affermazione e distinzione individuale. Ciò è alla base delle profonde crisi di identità delle nuove generazioni nella società occidentale e del conseguente emergere di nuove forme di tribalismo metropolitano, argomenti sui quali da anni i sociologi discutono e si guadagnano il pane.

Tutti questi paroloni per dire in sintesi estrema che ci hanno fritto il cervello fin dal primo momento in cui un televisore si è acceso nelle nostre case ed ormai che la frittura è completa, globale ed irreversibile, l’unica forma di parziale e residua sanità mentale perseguibile da un povero cristo è la scelta di una forma di follia alternativa, più personale (o tribale), rispetto alla noiosissima follia in voga nella maggioranza indistinta dei membri della società. In parole povere, l’unico modo per non essere completamente pazzi è – paradossalmente – proprio quello di uscire fuori di testa. Naturalmente anche ciò ha i propri inconvenienti. Talvolta questi prendono la forma di 42 piercing facciali ed un paio di corna subcutanee sul cranio, altre volte le manifestazioni sono meno palesi, ma non meno distintive.

Tornando al nostro tema principale, è perfettamente credibile che il condizionamento alla sospensione dell’incredulità operato sulla popolazione americana da anni ed anni di film catastrofisti hollywoodiani sia alla base della sconcertante attitudine della maggior parte degli americani a non interrogarsi in merito alle stranezze ed inverosimiglianze di cui trabocca la storia ufficiale dell’11 settembre. Essi crederebbero alla consistenza di una realtà inverosimile così come farebbero se stessero guardando il solito film pieno di banalità ed inverosimiglianze. In parte, non credo all’esistenza di un complotto per conseguire questo genere di effetti. Il meccanismo è troppo geniale perché essere umano abbia potuto concepirlo a tavolino. Ritengo piuttosto che il sistema si sia autoorganizzato così.

Tuttavia, anche se gran parte del risultato è spontaneamente conseguito dall’autoorganizzazione della società, un’altra parte è indubbiamente pianificata a tavolino.

Roberto Quaglia

20 aprile 2008

Strapagati: Perchè solo loro?


Consiglieri pagati troppo e male: si rischia che siano comprati coi gettoni di presenza

Quasi dieci milioni pagati a Riccardo Ruggiero (9.915.000 euro per la precisione), più una transazione tombale da 2 milioni per evitare successive rivendicazioni del manager. Altri 4,4 milioni di buonuscita per il vicepresidente Carlo Buora, che ha portato a casa anche 4 milioni per sottoscrivere un patto di non concorrenza con Telecom. Ieri in assemblea s'è discusso dei compensi d'oro del management: specie perché i risultati dell'ultimo anno (con un calo del titolo del 38%) proprio d'oro non sono. Luigi Zingales, consigliere indipendente riconfermato nella lista di Assogestioni, ha definito nel suo intervento "scandalose" le buonuscite di Buora e Ruggiero. La somma corrisposta a Buora, ha spiegato il consigliere "è stata il risultato di un accordo fatto nel 2006". Viceversa Ruggiero "era un dipendente della società. La sua buonuscita non è stata decisa dal cda ma da Buora, che lo ha trattato come un dipendente, con tutti i vantaggi e le tutele del caso". Zingales è più soddisfatto della gestione Telco. "L'ad Bernabè non è dipendente della società e quindi non avrà tali vantaggi. Sia per Galateri che per Bernabè, come da codice civile, l'eventuale buoniscita corrisponde a un anno di salario, come prevedono gli standar europei. Di questo sono soddisfatto". Ma ciò che più sta a cuore a Zingales è che si stabilisca un legame diretto tra le stock option e l'andamento del titolo. Per i nuovi vertici, spiega "abbiamo voluto aumentare la parte variabile della remunerazione, legandola ai risultati e alla soddisfazione dei clienti. Il 30% del bonus di Bernabè dipende da come riuscirà a migliorare la soddisfazione dei clienti" e dall'andamento del titolo a Piazza Affari: "Se battiamo l'indice delle tlc si prendono le stock option, altrimenti no". Secondo Zingales, tra l'altro, il sistema di retribuzione dei consiglieri d'amministrazione non è "corretto". "Ci pagano troppo e male", ha spiegato mettendosi nel numero, con il rischio che gli indipendenti vengano "comprati con i gettoni di presenza". Poi la battuta: "Nel nuovo cda il problema non si pone perché gli indipendenti sono quasi spariti". Secondo il professore, è giusto che anche i consiglieri siano pagati almeno in parte in funzione dell'andamento del titolo. E dovrebbero possedere azioni della società: "Se sarò rieletto investirò in Telecom metà del mio compenso. Spero mi seguano tutti, compresi presidente e ad". Di compensi ha parlato anche il presidente Adusbef, Elio Lannutti, intervenendo a nome dell'associazione per condannare le "scandalose retribuzioni" pagate dalla precedente gestione targata Pirelli ad alcuni manager, nonostante i risultati "fallimentari". Ha chiesto un'azione di responsabilità nei loro confronti: tra l'altro alcuni manager del passato, ha aggiunto, "hanno tuttora incarichi strategici". Criticando la gestione di Tronchetti Provera, Lannutti ha poi fatto riferimento al patrimonio immobiliare del gruppo Telecom, che ha sostenuto essere stato "saccheggiato" da Pirelli "in un conflitto di interessi che le Procure dovranno prima o poi chiarire".

"siglieri pagati troppo e male: si rischia che siano comprati coi gettoni di presenza" [FIRMA]MARCO SODANO Quasi dieci milioni pagati a Riccardo Ruggiero (9.915.000 euro per la precisione), più una transazione tombale da 2 milioni per evitare successive rivendicazioni del manager. Altri 4,4 milioni di buonuscita per il vicepresidente Carlo Buora, che ha portato a casa anche 4 milioni per sottoscrivere un patto di non concorrenza con Telecom. Ieri in assemblea s'è discusso dei compensi d'oro del management: specie perché i risultati dell'ultimo anno (con un calo del titolo del 38%) proprio d'oro non sono. Luigi Zingales, consigliere indipendente riconfermato nella lista di Assogestioni, ha definito nel suo intervento "scandalose" le buonuscite di Buora e Ruggiero. La somma corrisposta a Buora, ha spiegato il consigliere "è stata il risultato di un accordo fatto nel 2006". Viceversa Ruggiero "era un dipendente della società. La sua buonuscita non è stata decisa dal cda ma da Buora, che lo ha trattato come un dipendente, con tutti i vantaggi e le tutele del caso". Zingales è più soddisfatto della gestione Telco. "L'ad Bernabè non è dipendente della società e quindi non avrà tali vantaggi. Sia per Galateri che per Bernabè, come da codice civile, l'eventuale buoniscita corrisponde a un anno di salario, come prevedono gli standar europei. Di questo sono soddisfatto". Ma ciò che più sta a cuore a Zingales è che si stabilisca un legame diretto tra le stock option e l'andamento del titolo. Per i nuovi vertici, spiega "abbiamo voluto aumentare la parte variabile della remunerazione, legandola ai risultati e alla soddisfazione dei clienti.

Il 30% del bonus di Bernabè dipende da come riuscirà a migliorare la soddisfazione dei clienti" e dall'andamento del titolo a Piazza Affari: "Se battiamo l'indice delle tlc si prendono le stock option, altrimenti no". Secondo Zingales, tra l'altro, il sistema di retribuzione dei consiglieri d'amministrazione non è "corretto". "Ci pagano troppo e male", ha spiegato mettendosi nel numero, con il rischio che gli indipendenti vengano "comprati con i gettoni di presenza". Poi la battuta: "Nel nuovo cda il problema non si pone perché gli indipendenti sono quasi spariti". Secondo il professore, è giusto che anche i consiglieri siano pagati almeno in parte in funzione dell'andamento del titolo. E dovrebbero possedere azioni della società: "Se sarò rieletto investirò in Telecom metà del mio compenso. Spero mi seguano tutti, compresi presidente e ad". Di compensi ha parlato anche il presidente Adusbef, Elio Lannutti, intervenendo a nome dell'associazione per condannare le "scandalose retribuzioni" pagate dalla precedente gestione targata Pirelli ad alcuni manager, nonostante i risultati "fallimentari". Ha chiesto un'azione di responsabilità nei loro confronti: tra l'altro alcuni manager del passato, ha aggiunto, "hanno tuttora incarichi strategici". Criticando la gestione di Tronchetti Provera, Lannutti ha poi fatto riferimento al patrimonio immobiliare del gruppo Telecom, che ha sostenuto essere stato "saccheggiato" da Pirelli "in un conflitto di interessi che le Procure dovranno prima o poi chiarire".
Marco Sodano

19 aprile 2008

NOI, I FORZATI DEL DESIDERIO


Che bella cosa fare il giornalista,si scrive un articolo per altro condivisibile,e chi lo legge pensa come bravo che mente ,ecc..ma poi nella realtà il giornalista fà il contrario di cio che si scrive.

Perché il consumismo è un vizio? Un vizio nuovo, perché sconosciuto alle generazioni che ci hanno preceduto. Non è forse vero che il consumo sollecita la produzione aiuta la crescita che tutti i paesi assumono come indicatore di benessere e si allarmano quando oscilla intorno allo zero?

Perché il consumismo è un vizio se è vero che mette alla porta di tutti una serie di scelte personali che un tempo erano riservate solo ai ricchi?

E cioè una varietà di alimenti che i nostri vecchi si sognavano, possibilità d’abbigliamento sconosciute alle generazioni precedenti, una serie infinita di elettrodomestici che riducono la fatica in casa regalando a chi ci vive, tempo libero per altre e più proficue attività?

Perché il consumismo è un vizio? Perché crea in noi una mentalità a tal punto nichilista da farci ritenere che solo adottando, in maniera metodica, e su ampia scala, il principio del consumo e della distruzione degli oggetti, possiamo garantirci identità, stato sociale , esercizio della libertà e benessere. Ma vediamo le cose più da vicino.

1. La circolarità produzione consumo. E’ noto che produzione e consumo sono due aspetti di un medesimo processo, dove decisivo è il carattere “circolare” del processo, nel senso che non solo si producono merci per soddisfare bisogni, ma si producono anche bisogni per garantire la continuità della produzione delle merci.

Là infatti dove la produzione non tollera interruzioni, le merci “hanno bisogno” di essere consumate, e se il bisogno non è spontaneo, se di queste merci non si sente il bisogno, occorrerà che questo bisogno si “prodotto”.

A ciò provvede la pubblicità, che ha il compito di pareggiare il nostro bisogno di merci con il bisogno delle merci di essere consumate. I suoi inviti sono esplicite richieste a rinunciare agli oggetti che già possediamo, e che magari ancora svolgono un buon servizio, perché altri nel frattempo ne sono sopraggiunti, altri che “non si può non avere”. In una società opulenta come la nostra, dove l’identità di ciascuno è sempre più consegnata agli oggetti che possiede, i quali non solo sostituibili, ma “devono” essere sostituiti, ogni pubblicità è un appello alla distruzione.

2. Il principio della distruzione. Si tratta della distruzione, ma se l’espressione vi pare troppo forte usiamo pure la parola “consumo”, che non è la “fine” naturale di ogni prodotto, ma “il suo fine”. E questo non solo perché altrimenti si interromperebbe la catena produttiva, ma perché il progresso tecnico, sopravanzando le sue produzioni, rende obsoleti i prodotti, la cui fine non segna la conclusione di un’esistenza, ma fin dall’inizio ne costituisce lo scopo. In questo processo la produzione economica usa i consumatori come i suoi alleati per garantire la mortalità dei suoi prodotti, che poi la garanzia della sua immortalità.

Come condizione essenziale della produzione e del progresso tecnico, il consumo costretto a diventare “consumo forzato”, comincia a profilarsi come figura della distruttività, e la distruttività come un imperativo funzionale dell’apparato economico. Il “rispetto”, che Kant indicava come fondamento della legge morale, è disfunzionale al mondo dell’economia che, creando un mondo di cose sostituibili con modelli più avanzati, produce di continuo “un mondo da buttar via”. E siccome è molto improbabile che un’umanità, educata alla più spietata mancanza di rispetto nei confronti delle cose, mantenga questa virtù nei confronti degli uomini, non possiamo non convenire con Gunther Anders per il quale: “ L’umanità che tratta il mondo come un mondo da buttar via, tratta anche se stessa come un‘umanità da buttar via”.

3. L’inconsistenza delle cose. Che ne è delle cose, della loro consistenza, della loro durata, della loro stabilità? Da sempre le cose si consumano e diventano inutilizzabili, ma, nel ciclo produzione-consumo che non può interrompersi, esse sono pensate in vista di una loro rapida inutilizzabilità. Infatti è prevista non solo la loro transitorietà, ma addirittura la loro “data di scadenza” che è necessario sia il più possibile a breve termine. E così invece di limitarsi a concludere la loro esistenza, la fine delle cose è pensata sin dall’inizio come il loro scopo.

In questo processo, dove il principio della distruzione è immanente alla produzione, l’”uso” delle cose deve coincidere il più possibile con la loro “usura”. E se questo non è possibile per l’intero prodotto perché nessuno l’acquisterebbe, è sufficiente che lo sia per i pezzi di ricambio, il cui costo deve essere portato a livelli tali che persino piccole riparazioni vengano a costare, se non di più, almeno come un nuovo acquisto. Se questo non basta sarà la pubblicità a persuaderci che anche se la nostra automobile tecnicamente funziona ancora nel migliore dei modi, è il caso di sostituirla, perché “socialmente inadatta” e in ogni caso “non idonea al nostro prestigio”.

4. Il dissolvimento della durata temporale. Il tratto nichilista dell’economia consumista che vive della negazione del mondo da essa prodotto perché la sua permanenza significherebbe la sua fine, destruttura nei consumatori la dimensione del tempo, sostituendo alla durata temporale, che è fatta di passato, presente e futuro, la precarietà di un assoluto presente che non deve avere alcun rapporto col passato e col futuro.

E allora oltre alla produzione forzata del bisogno, ben oltre i limiti della sua rigenerazione fisiologica, il consumismo utilizza strategie, come ad esempio la moda, per opporsi alla resistenza dei prodotti, in modo da rendere ciò che è ancora “materialmente” utilizzabile, “socialmente” inutilizzabile, e perciò bisognoso di essere sostituito. E questo non vale solo per le innovazioni tecnologiche (televisioni, computer, cellulari), o per il guardaroba femminile (e oggi anche maschile), ma, e qui precipitiamo nell’assurdo, anche per gli armamenti.

Se un armamento resta inutilizzato per mancanza di guerre e quindi di potenziali acquirenti, o si inventano conflitti per “ragioni umanitarie”, o si producono armi “migliori” che rendono obsolete quelle precedenti. Anche se si fatica a capire in che cosa consista il “miglioramento” in una situazione in cui, con le armi a disposizione, già esiste per l’umanità la possibilità di sterminare se stessa in modo totale. Che senso ha in questo caso mettere sul mercato qualcosa di “meglio”?

5. La crisi dell’identità personale. Viene ora da chiedersi: quali sono gli effetti della cultura del consumismo sulla costruzione e sul mantenimento dell’identità personale? Disastrosi. Perché là dove le cose perdono la loro consistenza, il mondo diventa evanescente e con il mondo al nostra identità. Infatti, là dove gli oggetti durevoli sono sostituiti da prodotti destinati all’obsolescenza immediata, l’individuo, senza più punti di riferimento o luoghi di ancoraggio per la sua identità, perde la continuità della sua vita psichica, perché quell’ordine di riferimenti costanti, che è alla base della propria identità, si dissolve in una serie di riflessi fugaci, che sono le uniche risposte possibili a quel senso diffuso di irrealtà che la cultura del consumismo diffonde come immagine del mondo.

Là infatti dove un mondo fidato di oggetti e di sentimenti durevoli viene via via sostituito da un mondo popolato da immagini sfarfallanti, che si dissolvono con la stessa rapidità con cui appaiono, diventa sempre più difficile distinguere tra sogno e realtà, tra immaginazione e dati di fatto.

6. L’evanescenza della libertà. In una cultura del consumo dove nulla è durevole, la libertà non è più la scelta di una linea d’azione che porta all’individuazione, ma è la scelta di mantenersi aperta la libertà di scegliere, dove è sottinteso che le identità possono essere indossate e scartate come la cultura del consumo ci ha insegnato a fare con gli abiti.

Ma là dove la scelta non produce differenze, non modifica il corso delle cose, non avvia una catena di eventi che può risultare irreversibile, perché tutto è intercambiabile: dalle relazioni agli amanti, dai lavori ai vicini di casa, allora anche i rapporti fra gli uomini riproducono alla lettera i rapporti con i prodotti di consumo, dove il principio dell’”usa e getta” regola sia le “relazioni matrimoniali” sia le ”relazioni senza impegno”.

Che fare? Nulla. Perché l’identità personale a cui fare appello per arginare gli inconvenienti del consumismo non c’è più, essendo stata a sua volta risolta in un insieme di bisogni e desideri programmati dal mercato.

A differenza dei ”vizi capitali”che segnalano una “deviazione” della personalità i “nuovi vizi” ne segnalano il “dissolvimento” ,che tra l’altro non è neppure avvertito, perché investe indiscriminatamente tutti. I “nuovi vizi”, infatti, non sono personali, ma tendenze collettive, a cui l’individuo non può opporre una efficace resistenza individuale, pena l’esclusione sociale. E allora perché parlarne? Per esserne almeno consapevoli, e non scambiare come “valori della modernità” Quelli che invece sono solo i suoi disastrosi inconvenienti.

Umberto Galimberti