29 gennaio 2012

L’elite globale nasconde 18 trilioni di dollari nelle banche offshore


Di recente, il fatto che Mitt Romney – in corsa per le presidenziali USA – abbia milioni di dollari parcheggiati alle Isole Cayman ha riempito i titoli di tutto il mondo. Ma se passiamo alle banche offshore, i milioni di Romney sono spiccioli. La verità è che l’elite globale sta nascondendo nelle banche offshore una quantità di denaro che è semplicemente inimmaginabile. Stando ad una indagine sconcertante condotta dall’IMF (Fondo Monetario Internazionale), l’elite globale nasconde nelle banche offshore la somma di 18 trilioni di dollari.Tale cifra non tiene in conto i soldi depositati in Svizzera; anche questi sono una cifra incredibile. Per darvi un’idea, tenete a mente che il PIL USA del 2010 è stato di soli 14,5 trilioni di dollari. Dunque, perchè l’elite globale si prende tutta questa fatica di nascondere i soldi nelle banche offshore?

Due sono le ragioni essenziali: la prima è la privacy, la seconda la bassa tassazione.

La privacy è un tema veramente importante per quelli che sono coinvolti in operazioni illegali, tipo il traffico di droga; ma la ragione principale per la quale le persone spostano i loro soldi nelle banche offshore è per evitare le tasse. Alcuni aprono conti in nazioni estere perchè vogliono legalmente ridurre al minimo le proprie tasse, altri invece li aprono perchè vogliono evaderle illegalmente. Sareste veramente sorpresi dallo scoprire quello che grosse aziende e singoli privati fanno per evitare di pagare le tasse. Sfortunatamente, la grande maggioranza di noi non ha le cifre, o le conoscenze, necessarie per giocare a questo gioco, così siamo tassati fino alla disperazione.

Dunque, perchè le chiamano banche offshore (letteralmente fuori costa, ndt)?

Il termine ha origine con riferimento alle banche delle Isole del Canale (della Manica) che erano fuori dalle coste inglesi; ed infatti la maggior parte delle banche offshore sono tuttora collocate su isole. Le Bermuda, le Bahamas, le Isole Cayman e l’Isola di Man ne sono esempi. Altre località con banche offhsore quali il Principato di Monaco non sono minimamente fuori dalle coste, ma il termine è ugualmente valido.

È tradizione che queste centri di banche offshore siano molto attraenti sia per i criminali che per l’elite globale (dov’è la differenza? Ndt) perchè non diranno a nessuno – governi inclusi – del denaro lì parcheggiato chiunque ce l’abbia messo.

In questi giorni, alcuni governi – in particolare quello USA – stanno cercando di cambiare le cose, ma di sicuro la fine del sistema delle banche offshore non la vedremo presto. La quantità di denaro che transita per queste banche è assolutamente incredibile. È stato calcolato che l80% di tutte le transazioni del sistema bancario internazionale abbia luogo per tramite di queste banche offshore. 1,4 trilioni di dollari sono parcheggiati nelle banche offshore delle sole Isole Cayman.

In un articolo del Guardian
si è stimato che un terzo della ricchezza dell’intero pianeta sia depositata in banche offshore, altri ritengono che un quantitativo pari alla metà di tutto il capitale mondiale passi, in un modo o nell’altro, attraverso le banche offshore.

Ovviamente, tutto questo evitare le tassazioni significa che i governi del mondo stanno perdendo una montagna di denaro.

Si calcola che il governo USA perda 100 miliardi di dollari l’anno a causa di queste banche offshore. Altri collocano la cifra molto più in alto. Evitare le tasse è un gioco nel quale l’elite globale è maestra: loro giocano un tipo di gioco completamente diverso da quello che giochiamo tu ed io. Loro non se ne stanno lì fermi, seduti, a farsi spennare dalle tasse. Loro, invece, pagano i migliori esperti ed usano qualsiasi trucco contabile per potersi tenere quanti più soldi possono.

Ai giorni nostri, avvantaggiarsi dei paradisi fiscali offshore non è così complicato da farsi. Quello che segue è un recente articolo pubblicato su Politico...

Uno scenario plausibile è il seguente: affido un mandato ad un consulente. Questi, nel fare il suo lavoro, mi chiama e mi dice che se io firmo una serie di documenti e faccio transitare i miei soldi attraverso una piccola isola dei Caraibi, posso conservare una fetta più grossa dei miei guadagni e pagare meno tasse. Potrei aver guadagnato i miei soldi in America, ma legalmente posso affermare che di fatto sono stati guadagnati in un paradiso fiscale.

È legale, e forse parecchi di noi dovrebbero prenderlo in considerazione.

Dopo tutto, se giochini del genere funzionano con Mitt Romney, perchè non dovrebbero funzionare con noi? Durante una pausa della campagna elettorale, Romney ha detto quanto segue...

«Posso garantire che seguo le leggi fiscali».

Io gli credo fermamente: ma è quello che poi aggiunge che mi fa riflettere...

«E se cè una possibilità di risparmiare sulle tasse, io, come chiunque altro nel nostro Paese, cerco di approfittarne».

Ed io gli credo fermamente anche in questo caso.

La ABC News ha recentemente rivelato che la Bain Capital ha costituito alle Isole Cayman 138 differenti fondi offshore. È una cosa che deve funzionare piuttosto bene se devi ripeterla 138 volte. Ma la Bain Capital è impegnata altrettanto intensamente anche in altri centri con banche offshore.

Una fra le più importanti scatole vuote costituita dalla Bain Capital ai Caraibi, si chiamava Sankaty High Yield Asset Investors Ltd: non aveva nessun ufficio alle Bermuda, neppure aveva lì del personale; però, ha aiutato i clienti della Bain Capital a risparmiare una bella montagna di tasse.

Quanto segue è tratto da un articolo del 2007 pubblicato dal Los Angeles Times

.... Alle Bermuda, Romney era presidente ed unico azionista – per quattro anni – della Sankaty High Yield Asset Investors Ltd., canalizzava i soldi nella famiglia di fondi di investimento a rischio Sankati, della Bain Capital, fondi che investono in titoli di Stato ed obbligazioni societarie, come in mutui bancari.

Come migliaia di analoghe istituzioni finanziarie, Sankati non ha nessun ufficio alle Bermuda. La sua unica presenza consiste in una targhetta presso uno studio legale del centro di Hamilton, la capitale del territorio dell’isola britannica.

«Fondamentalmente è una casella postale», questo ha detto Marc B. Wolpow, che ha lavorato per nove anni con Romney alla Bain Capital e che costituì la Sankai Ltd., nell’ottobre del 1997, senza nemmeno aver mai visitato le Bermuda. «Non cè nessuno lì che vi lavori, a parte degli avvocati».

La quantità di denaro che è attualmente canalizzata dalla Sankaty è semplicemente sconcertante...

Stando ad un portavoce, oggi la Bain Capital gestisce portafogli per 60 miliardi di dollari. La cifra comprende 23 miliardi di dollari di fondi Sankati di credito e debito. Attualmente alle Bermuda sono attive una dozzina di affiliate Sankati, stando ai registri societari.

I fondi di investimento in debiti della Sankati sono strutturati come affiliate nel Delaware, dove producono delle entrate tassabili investendo su titoli obbligazionari a tasso fisso ed altri strumenti di debito. In base alle leggi fiscali, anche le istituzioni USA esentasse possono ricadere in un’aliquota del 35% se investono direttamente in tali fondi; mentre investendo per tramite di una società con sede alle Bermuda, le tasse sono legalmente evitate, questo a detta degli esperti.

Tutto ciò è perfettamente legale.

Nessuno avrà il minimo problema da tali comportamenti.

Tenendo i soldi in banche offshore, gli stessi gestori di questi fondi evitano la tassazione.

Victor Fleischer – un docente di fiscalità alla University of Colorado Law School – ha spiegato recentemente come la cosa funzioni...

«Lidea dietro alcune delle strategie delle Isole Cayman era che i guadagni ottenuti dai gestori dei fondi per gestire il denaro, erano conseguiti offshore nelle Isole Cayman ed il principale beneficio è che tu puoi procrastinare la data di tale tuo guadagno fino a quando non reinvesti nelle stesse Isole Cayman tali tue entrate, ma nemmeno nessuno di tali reinvestimenti sarà tassato, almeno finchè non lo ritiri».

È questo quello che faceva Romney?

Non lo sapremo, finchè non mostrerà le sue dichiarazioni dei redditi e delle tasse pagate.

Quello che invece sappiamo, è che Romney ha milioni di dollari suoi investiti in paradisi fiscali offshore.

Quanto segue proviene da ABC News...

Romney, oltre a pagare il minimo possibile sui suoi guadagni finanziari, ha perlomeno 8 milioni di dollari investiti in almeno 12 fondi registrati alle Isole Cayman. Un altro investimento, che Romney dice sia tra i 5 ed i 25 milioni di dollari, in base al deposito titoli risulta essere domiciliato alle Cayman.

Ma Romney non ha solo soldi domiciliati alle Isole Cayman. Apparentemente ha soldi sparsi fra tutti i vari paradisi fiscali.

Ecco quanto risulta da un articolo su Reuters...

I fondi Bain nei quali Romney ha investito, stando ad un’indagine Reuters su dati azionari, sono sparpagliati dal Delaware alle Isole Cayman, dalle Bermuda all’Irlanda e fino ad Hong Kong.

C’è qualcosa di sbagliato in tutto ciò?

Beh, dipende da come definiamo sbagliato.

Certo quello che Romney fa è perfettamente legale.

Però puzza. Jack Blum – avvocato di Washington – riferendosi alle finanze di Romney ha recentemente detto ad ABC News quanto segue ...

«Le sue finanze personali sono un esempio paradigmatico di cosa non funzioni nel sistema fiscale americano».

Dunque, adesso abbiamo alcuni spunti sul perchè Romney non voglia divulgare le sue vecchie dichiarazioni dei redditi. Come detto in precedenza, però, quello che sta facendo Romney sono pinzillacchere rispetto a quello che fanno i veri ricchi.

Il Congresso USA sta cercando di mettere le mani sulle banche offshore, ma i veri ricchi gli sono sempre due o tre passi avanti. Gli ultra-ricchi si spingono fino a qualsiasi estremo pur di non pagare le tasse.

Di fatto, il Washington Post ha pubblicato che un numero crescente di benestanti sta di fatto rinunciando alla propria cittadinanza piuttosto che fare i conti con l’ira dell’Agenzia delle Entrate (IRS negli USA, ndt).

Gli ultra-ricchi non sono comunque minimamente preoccupati per questo fatto della cittadinanza. Se vogliono influire su di una elezione, possono farlo molto pesantemente semplicemente con una donazione milionaria, piuttosto che mettendo insieme i pochi voti che hanno.

In un precedente articolo, ho descritto come gli ultra-ricchi usino il sistema delle banche offshore come sistema bancario ombra che segue delle regole che la maggior parte della gente neanche sa esistano...

È un sistema bancario ombra della quale la maggioranza degli americani ignora fin la sola esistenza. La maggior parte degli americani non ha le possibilità di costituire, in una mezza dozzina di Paesi esteri, delle società che siano delle scatole vuote in modo da poter filtrare i propri profitti. La maggior parte degli americani non sa nulla di quei complicati piani per evitare le tasse, piani che sono messi a punto da fiscalisti e che si chiamano Double Irish o Dutch Sandwich. La maggior parte degli americani non ha idea di come potrebbe far arrivare alle Bermuda il grosso dei propri guadagni, ed evitare di pagare le tasse.

La maggior parte dell’elite globale non si preoccupa minimamente del fatto che il debito USA sia proiettato a livelli stratosferici: tutto quello di cui si preoccupa è di potersi tenere in tasca quanto più denaro possibile dei propri soldi.

Naturalmente, esistono sempre le eccezioni. Recentemente, Warren Buffett ha staccato un assegno da 49.000 dollari, per il Tesoro USA, per aiutare a ripagare il debito nazionale. Considerando però il fatto che il debito nazionale USA cresce ad un ritmo di più di 100 milioni di dollari l’ora, il suo gesto non cambia molto le cose.

Il nostro sistema è rotto fin nel profondo, e l’elite globale si allontana lasciando cadaveri per strada. Nei decenni, hanno messo a punto con cura le regole in modo che la quantità maggiore possibile di ricchezza finisse nelle loro tasche, e che lì rimanesse.

Naturalmente, se eliminassimo totalmente gli attuali sistemi di tassazione personale e societaria, e li sostituissimo con dei sistemi totalmente nuovi, ci libereremmo in una sola volta di tutti questi trucchi.

Quante probabilità pensate ci siano?
Fonte > The economic collapse

27 gennaio 2012

Il suicidio dell’embargo petrolifero


Il marito che si evira per fare un dispetto alla moglie non è mai stato un esempio di intelligenza. Ma se addirittura non lo fa per sua libera scelta, ma per accontentare un amico capriccioso e prepotente, allora la cosa supera i limiti del demenziale. Purtroppo, però, la metafora sembra essere abbastanza calzante per descrivere l’appoggio dell’Italia all’embargo sul petrolio iraniano votato lunedì scorso dall’Unione europea. Secondo il ministro degli Esteri Giulio Terzi, l’impatto sull’economia italiana delle nuove restrizioni sarà “trascurabile” se non addirittura “nullo”. Ma ieri la FederPetroli Italia ha smentito le parole del ministro, sottolineando che “l’embargo iraniano rappresenterà un grande problema per la situazione petrolifera italiana”. Nel 2011 il nostro Paese ha importato dall’Iran 185mila barili al giorno, pari al 13% del fabbisogno. “Abbiamo altre fonti di approvvigionamento”, ha cercato di rassicurare Terzi, citando ad esempio la Libia, che “sta aumentando le sue forniture”.
Ma l’Iran, sottolineano da FederPetroli, non è solo un importante fornitore. È anche “un produttore di greggio di alta qualità” (ad alto contenuto di zolfo ndr), utilizzato in grandi quantità da molte raffinerie italiane per la produzione di prodotti derivati dalla raffinazione. Entro la fine di giugno queste dovranno abbandonare il petrolio iraniano. E non tutte sono attrezzate per lavorare con altri greggi. “C’è un problema di qualità del greggio, dovremmo fare qualche cambiamento – ha confermato Paolo Scaroni, amministratore delegato dell’Eni – ma le nostre raffinerie saranno in grado di far fronte a queste carenze”.
A questo si aggiunge il problema dei nuovi fornitori. In prima linea c’è l’Arabia Saudita, che da tempo si è detta disposta ad aumentare la produzione per approfittare dell’uscita dallo scenario europeo del nemico iraniano. Tuttavia sarà difficile che i sauditi – consapevoli di trattare da una posizione privilegiata – potranno eguagliare le condizioni vantaggiose offerte dagli iraniani. Ne sa qualcosa la Grecia, a cui Teheran fornisce un quarto del fabbisogno di petrolio e le consente il pagamento a 60 giorni dalla consegna e l’assenza di garanzie finanziarie. “L’adeguamento degli impianti per altri tipi di greggi similari, la scelta di nuovi fornitori e le variabili temporali, comporteranno dei problemi non da poco”, sottolinea il presidente di FederPetroli Michele Marsiglia.
Nel frattempo chi ci guadagna sono i Paesi asiatici che non seguono i diktat statunitensi e continuano a fare affari vantaggiosi con la Repubblica Islamica. Primi fra tutti Cina e India, per le quali l’Iran rappresenta rispettivamente il terzo e il secondo fornitore. “L’India vuole prendere quanto più greggio iraniano è possibile, perché le condizioni sono favorevoli”, ha dichiarato il ministro indiano del Petrolio S. Jaipal Reddy.
Ma anche gli alleati asiatici degli Stati Uniti che si riforniscono di petrolio iraniano stanno temporeggiando sull’adozione dell’embargo. La Corea del Sud, verso la quale sono destinate il 9% delle esportazioni di Teheran, non ha ancora deciso alcun taglio. Mentre il Giappone (che rappresenta il 13% delle esportazioni di greggio iraniano) ha chiesto agli Usa di essere esentato, anche alla luce del recente disastro di Fukushima.
Insomma, mentre noi ci “eviriamo” per accontentare Washington, l’Iran vende il suo petrolio in Asia, per altro a prezzi vantaggiosi. Per noi, invece, il prezzo del carburante è destinato a crescere ulteriormente.

Doppio standard
Mentre l’Eni viene costretta ad abbandonare ogni nuovo progetto in Iran e le raffinerie italiane dovranno adattarsi a greggi di qualità più bassa di quello iraniano, l’inglese Bp ottiene un’importante esenzione per un progetto da 20 miliardi di dollari nel Mar Caspio, che vede coinvolta anche l’azienda petrolifera iraniana Naftiran Intertrade. Lo rivela il Wall Street Journal, precisando che grazie all’intercessione di funzionari di Londra e dell’Unione europea presso il Congresso Usa, il progetto al largo dell’Azerbaijan, noto come Shah Deniz II, non sarà bloccato dalle sanzioni, nonostante la Naftiran ne detenga il 10%.
di Ferdinando Calda

26 gennaio 2012

Previsioni economiche per il 2012




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Un quadro preciso dell’attuale crisi economica e delle possibili conseguenze che l’economia globale e le future misure politiche e finanziarie di Washington potranno avere sul sistema produttivo, sociale e finanziario degli Stati Uniti. Una visione importante che aiuta a capire cosa è accaduto e cosa potrebbe ancora accadere nel cuore malato dell’Impero, quali saranno le conseguenze per i mercati di Eurozona e per la stabilità dell’intero pianeta.

Predire quale sarà il tracciato che gli Stati Uniti d’America e l’economia globale andranno a delineare in questi volatili tempi economici non è facile. Tuttavia, è questo il momento in cui le previsioni acquistano maggior valore. Escluse rare eccezioni, tradizionalmente gli economisti evitano di formulare previsioni oltre le due settimane o, tutt'al più, oltre il mese entrante. La previsione dei principali punti di svolta dell'economia e degli eventi più importanti che potranno provocare maggiori crisi va evitata a tutti i costi. È molto più sicuro rifugiarsi in un diffuso consenso conservatore che fare un passo in là. Tuttavia, questo pregiudizio conservatore contribuisce non poco a rendere incomprensibile quale sarà la piega più probabile che condizioni ed eventi come la crisi economica andranno a prendere.

La ricerca di un riparo sicuro all’ombra del consenso conservatore spiega in parte perché praticamente tutti i 10.000 economisti di professione del mondo non siano riusciti a prevedere l'insorgenza dell’attuale crisi nel 2007. O perché gli stessi si trovarono unanimi nel dichiarare un’imminente ripresa economica dopo il 2009 che non c’è stata. Questa adesione al consenso è anche la ragione per cui gli economisti non sono riusciti, per la terza volta, a prevedere la prossima e ben più profonda crisi economica che quasi certamente si materializzerà entro e non oltre l'inizio del 2013 — e ipoteticamente anche prima, come rivela il sistema finanziario dell'Eurozona.

I ripetuti fallimenti degli economisti di fronte a tre grandi eventi economici degli ultimi quattro anni sono il risultato della loro adesione a un apparato concettuale che non riesce o non può spiegare quali sono le forze che si muovono dietro la crisi. È il risultato di teorie elaborate in condizioni pre-crisi che oggi non servono più. La carenza di concetti, teorie e modelli è la ragione che ha spinto gli economisti della Casa Bianca di Obama – il Consiglio dei Consulenti Economici — ad assicurare al pubblico, all'inizio del gennaio del 2009, che il pacchetto di stimolo alla ripresa di 787 miliardi di dollari avrebbe creato 6 milioni di posti di lavoro. Queste lacune hanno portato gli economisti della Federal Reserve a ritenere che 2,7 miliardi di dollari in Quantitativi di Facilitazione 1, 2 e 2,5 [1] per il biennio 2009-2011 (“operazione sviluppo”) sarebbero bastati per resuscitare il settore dell'edilizia abitativa e che sono serviti, invece, solo ad alimentare gli speculatori di futures stock [2], titoli spazzatura [3] e di commodity futures [4] di tutto il mondo. E’ la ragione per cui gli economisti del Congressional Budget Office hanno ritenuto che gli sgravi fiscali introdotti l’anno precedente da Obama, per un totale di 802 miliardi di dollari, si sarebbero certamente tradotti in un aumento significativo del PIL e dell'occupazione. Questi sgravi, invece, hanno prodotto una crescita del PIL inferiore all'1% nella prima metà del 2011 e quindi nessuna creazione di nuovi posti di lavoro al netto per il resto dell'anno.

L'ala rotta liberale: “Basta darci più stimoli!”

L'ala liberale dell’uccello senz’ali degli economisti tradizionali continua a sostenere che i programmi di Obama, dal 2009 a oggi, non hanno prodotto una tangibile ripresa economica perché lo stimolo economico è stato insufficiente. L'avanguardia di questo punto di vista ha economisti del calibro di Paul Krugman e altri. Anche Larry Summers, ex Segretario del Tesoro sotto il governo Clinton e Consigliere Capo per la politica economica sotto Obama nel 2009-10, si è unito al coro liberale sostenendo che lo stimolo originale, quello del 2009, avrebbe dovuto essere maggiore di 1 miliardo di dollari o più — e non di 787 miliardi di dollari.

Contrariamente a quanto si dice, i programmi di Obama sono falliti non solo perché hanno messo a disposizione risorse insufficienti, ma anche e soprattutto perché la loro composizione poggia su un’eccezionale miseria e, insieme, un incredibile pessimo tempismo. Riguardo alla composizione dei programmi di Obama di stimolo all’economia, il 70 per cento interessa sgravi fiscali — di cui, la maggior parte, è di tipo finanziario. Questi sgravi sono andati a vantaggio delle corporazioni, dunque, e non degli investimenti negli Stati Uniti per creare posti di lavoro. Circa un altro mezzo trilione di dollari dei programmi di spesa di Obama si compone di sovvenzioni agli Stati, ai distretti scolastici e ai disoccupati. Questi aiuti sono stati progettati per guadagnare tempo e bloccare temporaneamente il crollo dei consumi che si è verificato nel 2008-09 fino a quando gli sgravi fiscali, appunto, avrebbero dovuto mostrare il loro effetto benefico e tradursi, dunque, in un vero e proprio investimento spostando l'economia oltre il livello del recupero di emergenza. Ma così non è stato. Gli sgravi fiscali non sono diventati investimenti. Almeno non negli Stati Uniti. Alcuni sono andati all’estero e hanno creato posti di lavoro in Asia e altrove. Altri sono andati su titoli speculativi — stock, derivati, valute estere, ecc. - che non hanno creato posti di lavoro da nessuna parte. Il resto è andato sul risparmio che si sta ancora accumulando in attesa di essere reinvestito nel riacquisto azionario aziendale, nel pagamento dei dividendi o per eventuali fusioni e acquisizioni che si tradurranno forse in pochi — e non più — posti di lavoro.

Nonostante lo “stimolo” di trilioni di dollari, l'America corporativa continua a sedersi su 2-2,5 miliardi dollari contanti accumulati a fine anno 2011. Le corporazioni multinazionali continuano a detenere altri 1,4 miliardi di dollari nelle filiali off-shore. E per non essere da meno nel gioco dell’accaparramento, dopo aver beneficiato di 9 miliardi di dollari in prestiti liberi ricevuti “per salvataggio” dalla Federal Reserve, le grandi banche continuano a sedersi su altri 1,7 miliardi di dollari di riserva in eccesso distribuendo prestiti goccia a goccia alla piccola impresa e imponendo quindi una conseguente, e ancora ulteriore, scarsità di investimenti che riduce al minimo le possibilità di occupazione.

Nel frattempo, i 370 miliardi di dollari dei sussidi di Obama sono finiti nel giro di 12-18 mesi

Come per gli sgravi fiscali finanziari, i sussidi non creano posti di lavoro. Gli aiuti economici possono temporaneamente salvarne alcuni. Ma non sono una ripresa economica. Ripresa significa creazione di posti di lavoro in proporzione netta significativa ed in genere si fa riferimento a un raggio che va da 300.000 a 500.000 nuovi posti di lavoro ogni mese per un anno. Salvare posti di lavoro è in genere la politica che meglio permette di affrontare una lunga stagnazione economica al meglio.

I restanti 126 miliardi di dollari circa dei programmi di spesa di Obama per il 2009-10 erano stati destinati per piani infrastrutturali a lungo termine — ad esempio, l’aggiornamento della rete elettrica nazionale, progetti di energia alternativa e progetti di costruzione “cotti e mangiati” che non riuscivano a trovare l’immediato finanziamento necessario. Ma anche il programma di spesa per le infrastrutture non ha creato, nell’immediato, posti di lavoro e non ha generato ricchezza nel breve periodo, allo stesso modo dei tagli fiscali e dei sussidi. Composti soprattutto da progetti a partecipazione, la maggior parte dei piani infrastrutturali è a lungo termine, programmato per dare frutti su un arco di dieci anni. Come per gli sgravi fiscali, l'effetto a breve termine di questa spesa destinata al rimodernamento delle infrastrutture ha avuto scarso effetto, se non alcun effetto, in termini di creazione di qualsiasi nuovo posto di lavoro o per la ripresa economica tout court.

La trovata dell’Ala Destra: “Basta darci più soldi da spendere!”

I Repubblicani hanno assunto l’incarico alla Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti dopo le elezioni di medio termine del Novembre 2010 e con esso hanno preso anche l'agenda politica economica. L’elezione ha creato un ambiente ideale per ri-ascesa al potere dell'ala destra degli economisti. I programmi di Obama, sostengono, sono falliti perché hanno prodotto una "mancanza di fiducia”. Questa mancanza di fiducia, hanno detto, si deve all’incertezza sul futuro degli sgravi fiscali finanziari, ad un’eccessiva regolamentazione del mercato, ad una fase di stallo degli accordi di libero scambio con la Corea del Sud, il Panama e la Columbia, ad un deficit pendente ed eccessivo e al debito, al costo troppo alto della Legge per l’Accesso ai Servizi Sanitari del 2010 e altri nonsense economici. I conservatori economisti hanno sostenuto che cambiare queste politiche metterebbe a disposizione delle aziende e delle imprese più capitali da spendere. Più soldi significherebbe dunque più investimenti e più posti di lavoro. L'economia potrebbe dunque recuperare rapidamente.

Quello che quest’ala, tuttavia, ignora convenientemente è che, prima di tutto, un massiccio taglio alla spesa pubblica insieme ad una brusca riduzione del reddito dei consumatori produrrebbe un brusco declino del PIL e nessuna ripresa. Gli economisti conservatori sostengono che questo passaggio sarebbe più che compensato da un aumento degli investimenti delle imprese. Ma questo porta al secondo problema: vale a dire, se le corporazioni già possiedono 2 miliardi di dollari in contanti e le banche un altro 1,7 miliardi di dollari in riserva di eccesso, perché dargli altri contanti e finanziamenti produrrebbe investimenti e crescita? Esattamente: quanti altri trilioni di dollari sono necessari perché ci siano investimenti, prestiti, creazione di posti di lavoro e garanzie di ripresa economica?

Così, come l'ala liberale dell'economia non sa rispondere esattamente alla domanda “quanto ulteriore deficit di spesa è necessario per garantire una ripresa economica sostenuta?”, l’ala della destra conservatrice non può spiegare o non sa rispondere quanto altro denaro serve alle aziende e agli investitori per garantire un ritorno in termini di investimento, posti di lavoro e crescita. Tenuto conto di tali errori fondamentali di entrambe le parti, non è strano che gli economisti, liberali o conservatori che siano, abbiano incontrato grandi difficoltà negli ultimi anni e mostrato scarsa capacità di predizione della nascita e dell'evoluzione dell'attuale crisi economica. Allora, quali sono i probabili scenari che gli Stati Uniti e le economie globali si troveranno di fronte?

Previsioni per il 2012

Gli Stati Uniti vivranno una doppia recessione all’inizio del 2013 o, in caso si verifichi un'altra crisi bancaria in Europa, forse ancora prima, nel 2012

Nonostante il continuo rimbalzo di notizie economiche sui media e sulla stampa specialistica degli ultimi mesi, non c'è nessuna ripresa in corso per l’occupazione, il settore immobiliare o le finanze pubbliche locali. La crescita dell’occupazione è stata ferma, per tutto il 2011, sul raggio 80-100.000 al mese, secondo i dati mensili del Dipartimento del Lavoro. La misura più ampia della disoccupazione, l’indice U-6, è rimasto costante e fermo al 16% o a 25-26 milioni per l'ultimo anno.

Stato e governi locali continueranno a licenziare i lavoratori nella media di 20.000 al mese. Si prevedono scarsi effetti sul piano federale nonostante la tornata elettorale del 2012. Il primo trimestre del 2012 registrerà ancora una volta un significativo rallentamento della crescita del PIL. Nel secondo trimestre del 2012, la crisi del debito dell’Eurozona toccherà la sua punta massima, indebolendo ulteriormente l'economia statunitense. E’ possibile che questa possa scivolare in una fase di recessione, se la crisi dell'Euro è grave. Più probabile, tuttavia, è lo scenario di una doppia recessione che si configura all’inizio del 2013 quando si intensificheranno i tagli al deficit dal Congresso e dall'Amministrazione.

La Federal Reserve avvierà la terza versione del suo programma "Quantitativo di Facilitazione" nel 2012

Questo programma prevede che la Fed stampa denaro per acquistare direttamente titoli dai privati a prezzi gonfiati, superiori al prezzo di mercato, così da supplire la carenza di valuta e fornire altra moneta. Come per le precedenti due versioni del programma, del 2009 e del 2010, il risultato avrà scarso effetto sui settori edilizi, sul mercato del lavoro e sulla crescita generale ma ancora una volta il programma darà una spinta al mercato azionario, obbligazionario e dei derivati e all'inflazione dei prezzi relativi. La tempistica di QF3 sarà guidata dagli eventi europei. La riduzione reale del deficit – debito inizierà subito dopo le elezioni generali del Novembre 2012 o comunque non più tardi del febbraio 2013.

ll taglio del deficit futuro sarà inferiore all’ultimo accordo di accordo di agosto 2011 di 2,2 miliardi di dollari

Ciò si tradurrà in un'altra manovra di tagli alla spesa pubblica di $2-4$ miliardi che per la maggior parte cadrà sulla spesa sociale e i diritti acquisiti come Medicare, Medicaid e il sistema pensionistico e di sicurezza sociale, sugli aiuti alimentari, le prestazioni sussidiarie legate alla disoccupazione, l'istruzione e la Legge per l’Accesso ai Servizi Sanitari del 2010. Le tasse andranno ad incidere direttamente sulla classe media, andando a comprendere anche misure considerate finora come intoccabili come, ad esempio, la deduzione delle rate del mutuo dal reddito annuale complessivo.

Lo sviluppo dell’occupazione continuerà a ristagnare, restando sulla soglia di 24-25 milioni per tutto il 2012, contando anche le false partenze per il recupero di posti di lavoro determinato da fattori statistici stagionali e di altro tipo

Non ci sono programmi efficaci, oggi, per aumentare il fondamentale netto dei posti di lavoro negli Stati Uniti. Gli ulteriori sgravi fiscali per il 2011-12 non stimoleranno gli investimenti o la creazione di nuovi posti di lavoro. Le corporazioni continueranno a rifiutare di rischiare il loro massiccio gruzzolo di contanti di $2 trilioni su investimenti o in posti di lavoro e preferiranno di certo aspettare l'esito delle estensioni fiscali della tassa Bush previsto per la fine del 2012 mantenendo così un ampio cuscino di contante in previsione degli eventi europei e della possibilità di un'altra crisi globale del credito. I prestiti delle banche alle piccole e medie imprese non subiranno grossi cambiamenti e di conseguenza anche la creazione di nuovi investimenti e di nuovi posti di lavoro nelle piccole imprese resteranno ferme anche per il 2012 pure. Contemporaneamente, i governi – i comuni – le scuole continueranno a licenziare circa 20.000 persone al mese — portando il totale del pubblico impiego a quasi 1 milione di occupati in meno rispetto al primo mandato Obama. Cresceranno i numeri del licenziamento e sui licenziamenti il governo federale potrà dare dati significativi nel 2013.

Il Congresso e l'Amministrazione approveranno due manovre fiscali importanti nel 2012

Il primo decreto sarà un piegarsi al ricatto delle multinazionali (e dei contributi alla campagna elettorale) e vedrà ridurre l'aliquota di imposta del 35 per cento per il rimpatrio dei contanti oggi depositati in conti off-shore al riparo dalla tassazione americana. Tale aliquota fiscale varierà tra 5,25% e il 10%, sulla riduzione del 35%. Le multinazionali rimpatrieranno circa la metà dei loro attuali 1,4 miliardi di dollari di profitti off-shore per sfruttare la tariffa più bassa — riavviando gli stessi ricatti che si verificarono nel 2004-05 quando una legge simile ridusse l’aliquota al 5,25% rispetto al 35% al ritorno di circa la metà dei 700 miliardi di dollari scudati in conti all’estero al riparo dalla tassazione.

Il secondo disegno di legge sarà una specie di estensione degli sgravi fiscali previsti dalla tassa Bush che si voterà prima delle elezioni previste per il mese di novembre 2012; o, subito dopo ma comunque entro la fine dell'anno. L’estensione della tassa Bush è un affare per le aziende, per i dirigenti di azienda e il reddito personale dato che l’imposta sul reddito del 35% sarà definitivamente ridotta a meno del 30% in cambio di condoni fiscali non verificabili. La classe media dovrà pagare tasse più alte e la busta paga dei lavoratori oggi meno pagati si ridurrà ulteriormente.

I prezzi delle case continueranno a cadere, saliranno i pignoramenti e il patrimonio netto negativo crescerà

Gli attuali più di 11 milioni di euro di pignoramenti saliranno a oltre 13 milioni. I prezzi delle case continueranno a cadere del 5-10% sui mercati capitali (portando il prezzo del 2006 a meno del 40% in media). Almeno 17 milioni di proprietari di casa sotto ipoteca (sul totale di 54 milioni) vedranno il patrimonio netto in negativo. L'amministrazione di Obama e il Congresso costringeranno gli Stati ad accettare il piano federale che lascia alle banche e agli istituti di credito il diritto di pignorare per “effetto automatico” e illegale per un bene in cambio del credito. L’edilizia residenziale e commerciale continuerà a ristagnare sui livelli attuali.

Le esportazioni e la produzione americana rallenteranno nel 2012

Le esportazioni non supereranno l’attuale soglia di mercato del commercio mondiale e, di conseguenza ciò avrà effetti negativi sulla produzione dei beni di consumo. Le banche dell'Eurozona potrebbero implodere, una o più delle grandi banche statunitensi chiederanno un ulteriore salvataggio alla Federal Reserve e al Tesoro degli Stati Uniti. In caso di fallimento di una o più delle economie sovrane della zona euro, le principali banche di Francia, Austria, Belgio e anche della Germania diventeranno tecnicamente insolventi. In tal caso, il contagio si diffonderà rapidamente alle banche statunitensi. I gruppi più esposti e pronti a chiedere il salvataggio sono Morgan Stanley, Citigroup e Bank of America.

La crisi del debito sovrano della zona euro si stabilizzerà per poi peggiorare ancora

La crisi del debito della zona Euro si stabilizzerà temporaneamente nei primi mesi del 2012 dato che la Banca Centrale Europea segue la Federal Reserve degli Stati Uniti e introduce a sua volta quantitativi di facilitazione monetaria mentre procedono lentamente i negoziati tra gli Stati dell’Euro per la creazione di un'Unione fiscale. Tuttavia, la crisi sovranazionale esploderà di nuovo nella tarda primavera del 2012 dato che Italia e Grecia hanno un grave problema di debito e di rifinanziamento e la crisi bancaria si acuirà in Francia, in Germania e negli altri paesi dell’eurozona. Per risolvere la crisi del debito dell’Euro sarà necessario trovare il triplo o il quadruplo degli attuali 1,5 miliardi di dollari oggi disponibili nei diversi fondi di salvataggio dell’Euro — più di 5 miliardi di dollari.

Due o più banche andranno in fallimento.

Molte banche della zona euro diventeranno tecnicamente insolventi e saranno nazionalizzate dai loro governi e ritirate dal mercato. I principali candidati all’eliminazione includono banche francesi, come Societe Generale e BNP Paribas; la Commerzbank tedesco; l’Unicredit italiana; e forse una o più banche austriache e finlandesi. Le economie tedesca e francese, che hanno già subito forti rallentamenti nell’anno 2011, scivoleranno in recessione nel 2012. Il Regno Unito varerà un secondo turno dei programmi di austerità, introdotti dal governo conservatore di Cameron, che apriranno una fase di recessione.

Il tasso di crescita economica della Cina subirà forti rallentamenti.

Cresciuto costantemente della media del 9-10% negli ultimi anni, il PIL cinese si ridurrà drasticamente nel 2012, potenzialmente alla metà del tasso degli anni precedenti. Le esportazioni dei prodotti cinesi vedranno uan forte contrazione. Anche l’India si rallenterà significativamente. La più grande economia dell'America Latina, il Brasile, entrerà in recessione nel 2012.

Il commercio mondiale sarà lento a cominciare dal 2012.

Dato il rallentamento dell’economia cinese, la continua instabilità della zona euro e il rallentamento della crescita economica degli Stati Uniti il ritmo del commercio mondiale subirà un rallentamento e il mercato generale una forte contrazione. Di conseguenza anche la produzione globale subirà un forte calo.

In sintesi

Riassumendo, le previsioni elencate si basano su un'analisi economica non ortodossa. Questo quadro è la conseguenza della ristrutturazione degli Stati Uniti e dell’economia globale che negli anni ‘80 fu la risposta alla precedente crisi economica degli anni ‘70 e oggi crolla con gli eventi del 2007-08. Talvolta indicata come “neoliberismo”, questa ristrutturazione fu intesa come capacità delle economie capitalistiche di ristrutturare l'economia capitalista globale. Il risultato è una continua volatilità e instabilità economica. L'economia, statunitense e mondiale, continua a riflettere una certa fragilità strutturale grave. Ad oggi, ho definito questa condizione di incertezza come recessione epica di Tipo 1. Ma le recessioni epiche di Tipo 1 hanno la tendenza innata a tramutarsi in Tipo 2 come preludio di una depressione globale. L'anno prossimo rivelerà se questo processo è già iniziato o no dato che gli Stati Uniti e le altre economie deboli e la forte instabilità bancaria dell’Euro faranno il loro corso. Se ci sarà una forte crisi bancaria nell'area dell'euro, la probabilità di una vera depressione globale aumenterà significativamente.

di Jack Rasmus

Jack Rasmus, è autore di “Epic Recession: Prelude to Global Depresion, Obama’s Economiy: Recovery For the Few”, Pluto Press/Palgrave-Macmillan, Marzo 2012 e di un pamphlet edito da Teamsters Union dal titolo "An Alternative Program FOR Economic Recovery” (disponibile all’indirizzo internet: www.kyklos productions.com).

NOTE

[1] quantitative easing: “Quantitativi di Facilitazione/Interpolazione” – politica monetaria in cui la Banca Centrale crea denaro al fine di acquistare azioni dalle banche private – vedi: http://en.wikipedia.org/wiki/Quantitative_easing. [torna al testo]

[2] Il future stock permette ad acquirente e venditore di contrattare per una data futura un determinato numero di azioni a un prezzo che viene fissato al momento della stipula del contratto. Il future stock è dunque anche classificato come derivato simmetrico perché entrambe le parti in gioco si impegnano di effettuare una prestazione a una determinata data di scadenza. [torna al testo]

[3] Junk Bond o “titolo spazzatura” offre un alto rendimento con un alto rischio. Tale tipologia di titoli viene emessa da società disposte a pagare tassi di interesse molto elevati pur di ottenere denaro. L'elevato indebitamento della società emittente comporta un’alta probabilità di fallimento della stessa: il risparmiatore rischia quindi di perdere, in tutto o in parte, il capitale versato. [torna al testo]

[4] Una commodity futures è un contratto che obbliga a scambiare una prefissata quantità di merce, in una data prefissata e con un determinato prezzo fissato al momento della contrattazione. Il prezzo futuro non è solo la previsione di un prezzo di mercato, ma include anche le commissioni che coprono i costi di magazzinaggio, l’assicurazione ecc. [torna al testo]

24 gennaio 2012

La verità sul movimento dei forconi





Questo articolo è per spiegare la mia posizione sul movimento dei forconi.Ho avuto bisogno di una presenza assidua nei punti di blocco e tre giorni di dialogo continuo con la gente presente ai caselli per farmi un’idea precisa di quello che sta succedendo e tutt’ora la mia conclusione può essere esposta esclusivamente a livello personale, per non creare conflitti in futuro con tutta la strumentalizzazione che stanno compiendo i media e per quello che rappresenta il lavoro di Lo Sai (http://it-it.facebook.com/losai.net).

Quello che ho visto dall’inizio dell’organizzazione della protesta, nell’assemblea di Catania dove ha partecipato anche il presidente del Palermo Calcio Maurizio Zamparini col famosissimo intervento contro Banche, moneta debito, Monti e media (vedi video più sotto, ndr ), ad oggi è riassumibile in 2 fasi. Nella prima il blocco è stato organizzato dalla massiccia presenza degli autotrasportatori in genere che hanno orchestrato dei blocchi sicuramente d’effetto e di evidente impatto sulla regione. Nella seconda fase, dal secondo giorno in poi, quello che è successo ha quasi dell’incredibile. Si è sviluppato una notevole presenza di ragazzi e padri di famiglia che hanno accompagnato la protesta, come i forconi in maniera pacifica, per tutta la nottata di Giovedì e Venerdì. Il numero dei presenti estranei al movimento e coesi alla protesta nella serata di Venerdì è arrivato a pareggiare il numero di autotrasportatori, tanto che al casello di S.Gregorio di Catania si è notata una massa di gente mista, che non portava né bandiere né colori, nessuno slogan ma un unica voce… Adesso Basta!



Dobbiamo camminare uniti e coesi a sostegno dei nostri diritti e contro le manovre bancarie che stanno schiacciando il paese. Si è vista una massiccia presenza di gente che era consapevole del problema della moneta debito e che era cosciente della soluzione che lo statuto siciliano può portare. In molti si erano informati via facebook tramite le pagine Lo Sai e Informare per Resistere. Nei giorni precedenti la mia presenza insieme a quella dei ragazzi di Lo sai siciliani ha provato a capire le motivazioni di questo blocco, aprendo più volte un dialogo con gli autotrasportatori. Le loro proteste sono per lo più legate alla forte tassazione di benzina e dei diritti degli autotrasportatori che per interrompere questo inizio anno davvero pesante e con una prospettiva futura ancora più nera, chiedevano e chiedono l’applicazione dello statuto Siciliano. Questo per evitare una tassazione così massiccia e per dar forza ad un regolamento regionale che dimezzerebbe teoricamente tutte le spese che i lavoratori stanno subendo e che hanno portato ad una situazione di grave pressione e fame…

Il movimento è stato boicottato da tutti i tg nazionali e da molti regionali, nessuno ne parlava. E quando hanno iniziato a parlarne strumentalizzavano le notizie in modo da far pensare ad una manipolazione di Forza Nuova e Mafia. Adesso io non so se all’origine ci sia stata questa manipolazione, quello che so e che ho visto che le richieste dei trasportatori sono sacrosante e vanno a richiedere quello statuto che potrebbe liberare dalla pressione fiscale e dal debito tutta la regione. Non ho visto bustarelle, non ho visto pressione ai commercianti che volevano aprire la propria attività, non ho visto bandiere o striscioni o ragazzi di forza nuova per tutto il periodo e la mia presenza nei punti strategici dei blocchi. Ma allora perchè boicottare in questa maniera la manifestazione? Io posso solo immaginare il perchè del volere di boicottare questa manifestazione, ma la censura mediatica ha più motivo di esistere nella seconda fase e nei giorni successivi del blocco…

Questo perchè la massiccia presenza dei non autotrasportatori, e dei ragazzi che hanno partecipato ai blocchi era una massa a me anomala in quanto a consapevolezza. Mi sono davvero stupito del fatto che la maggior parte della gente era consapevole di dover protestare per l’attuazione dello statuto al fine di far uscire l’intera regione dalla morsa del debito pubblico e dalla pressione schiavista della BCE. E in che modo? Vi voglio dare alcune notizie su questo statuto… L’Autonomia speciale è quella particolare forma di governo della Regione che fu concessa il 15 maggio 1946 alla Sicilia da re Umberto II di Savoia, disciplinata da uno Statuto speciale (art. 116 della Costituzione Italiana), che la ha dotata di una ampia autonomia politica, legislativa, amministrativa e finanziaria.

Grazie allo Statuto autonomistico, la Regione Siciliana ha competenza esclusiva (cioè le leggi statali non hanno vigore nell’isola), su una serie di materie, tra cui beni culturali, agricoltura, pesca, enti locali, territorio, turismo, polizia forestale[1]. Ogni modifica allo Statuto, trattandosi di legge costituzionale, è sottoposta alla cosiddetta procedura aggravata, cioè a una doppia approvazione, a maggioranza qualificata, da parte delle Camere.

Per quanto riguarda la materia fiscale, la totalità delle imposte riscosse in Sicilia, ai sensi degli articoli 36 e seguenti del proprio Statuto (Legge Costituzionale n.2 del 26 febbraio 1948), è dotata di completa autonomia finanziaria e fiscale. Ma che significa questa ultima frase? Per non annoiarvi troppo suggerisco di andarvi a leggere in toto lo statuto e per comprendere bene la sue funzioni sarebbe utile approfondire tramite le relazioni del prof. Massimo Costa docente universitario e costituzionalista dell’Università di Palermo. Adesso citerò, a mio parere, il punto principale che potrebbe cambiare quell’autonomia finanziaria che tanto ci preme. L’Articolo 41 cita testualmente: 41. Il Governo della Regione ha facoltà di emettere prestiti interni.

L’attuazione di questo statuto a cosa porterebbe? Vi aiuterò a capire meglio la questione sulle riflessioni, appunto del prof.Costa:

La Banca Centrale Regionale sarà totalmente pubblica, con un capitale diviso a metà tra la Regione e i Comuni, con diritto di voto proporzionale al numero degli abitanti ed al prodotto interno lordo, ed emetterà la totalità della moneta spettante alla Sicilia, sia metallica, sia cartacea, sia bancaria. Tutti i proventi dell’emissione monetaria, fissata nei limiti decisi dalle autorità monetarie italiane e, pertanto, ad oggi europee, sono attribuiti direttamente alla Regione, così come le eventuali eccedenze di riserve auree e valutarie. Una quota delle eventuali eccedenze potrà essere riservata ad emissioni monetarie di pregio con funzioni specifiche di riserva di valore, ad alto valore numismatico. La moneta bancaria è emessa integralmente dalla Banca Centrale e poi prestata, anche a interesse puramente simbolico, alle banche private (la riserva frazionaria è dunque posta pari al 100 %) o accreditata direttamente alla Regione, tolte le spese della Banca Centrale ed una congrua quota di accantonamento. Anche la moneta cartacea non è “prestata” alla Regione ma direttamente accreditata alla stessa come sopra.

La Banca Centrale Regionale emetterà, sotto forma di prestito interno infruttifero, anche una moneta complementare regionale avente valore legale solo per le transazioni interne all’isola, accreditando i relativi benefici al 50 % alla Regione ed al 50 % alle persone in condizione non lavorativa quale “reddito di cittadinanza” (minori, studenti universitari, casalinghe, disoccupati, pensionati).


Alla luce di queste analisi suggerirei vivamente a tutta la popolazione siciliana di unirsi alla protesta ai fini di pressare per l’attuazione dello statuto e smetterla di lamentarsi per la mancanza di benzina o alimenti..

In quanto, da qui a poco, questa mancanza potrebbe rivelarsi non indotta dalla protesta ma un reale pericolo che rifletterebbe la situazione Greca che si è venuta a creare all’interno del palcoscenico europeo. Piuttosto che chiedersi chi sta dietro alla protesta sarebbe molto più utile chiedersi dove cazzo sono gli altri movimenti e schieramenti politici regionali che non stanno accompagnando questa richiesta d’aiuto popolare con la soluzione in mano. E’ stato più volte detto che la protesta non vuole ne bandiere ne colori, ma vedere che la gente resta a casa perché non accompagnata dalla propria bandiera è assai più sconfortante e evince la totale mancanza di personalità e carattere di tutta la cittadinanza. Soprattutto alla luce dell’unione a gran voce di tante città italiane che stanno occupando i caselli di tutto il territorio nazionale… Siciliani sarebbe ora di svegliarsi o ORA O MAI PIU’!!

Santo YesMan
Fonte: www.informarexresistere.fr/
di Santo Yesman

Libia-Italia: Mario Monti, cameriere della Goldman Sachs, firma la “Dichiarazione di Tripoli”


Il Presidente del Consiglio Italiano, Mario Monti, accompagnato dal ministro della Difesa Italiana, Giampaolo Di Paola e da quello degli Esteri, Giulio Terzi di Sant’Agata, è stato in Libia, dove ha firmato la “Dichiarazione di Tripoli”.

Questo documento, siglato ufficialmente per “rafforzare il legame di amicizia e collaborazione tra i due Paesi”, non ha alcun valore per il popolo libico.

E non ha alcun valore per due importantissimi motivi:

1) l’attuale governo fantoccio libico non ha alcuna autorità politica e non garantisce nè rappresenta l’unità del popolo libico, ma solo una fazione di esso, parte della quale è cerebrolesa (4 fanatici del “allahuakbar”, i quali con Gheddafi non riuscivano a trafficare e intrallazzare liberamente come volevano), parte della quale è infiltrata di terroristi al-qaedisti (ai quali non interessa nulla della Libia, ma solo le loro elucubrazioni psicopatico-teologiche, e che prendono orudini dal Qatar, cioè dagli USA) e parte della quale (i ratti) si è venduta apertamente ai forestieri, dai quali hanno ottenuto armi, effimero potere, la devastazione della propria terra, ed un pugno di soldi, sporchi del sangue dei fratelli .

2) i libici dovrebbero ormai averlo capito, che i contratti stipulati con l’Italia, sinchè resterà una “colonia americana”, non valgono la carta sulla quale sono stati scritti. Erano stati già stipulati contratti d’amicizia e collaborazione, di rapporti commerciali e politici con l’Italia, recentemente, non più di un paio d’anni fa, con grande esaltazione mediatica del fatto, ricevimenti in pompa magna, baciamano e scambi tra le due nazioni. E cosa è successo poi? Ha rispettato l’Italia gli accordi ancora freschi d’inchiostro? No! Appena il padrone americano ha dato l’ordine, le marionette politiche italiane hanno obbedito, concedendo il suolo italiano come base militare per gli attacchi e bombardamenti aerei compiuti ai danni della Libia, e del popolo libico, da parte di americani, francesi, quatariani, e gli italiani stessi hanno usato i propri aerei per sganciare sulla Libia centinaia di bombe, uccidendo migliaia di persone di una nazione sino a pochi mesi prima “amica”. Se solo avessero una coscienza e non una cloaca al posto del cuore, coloro che erano al comando della portaerei Italia si dovrebbero solo vergognare. Quindi, sinchè l’Italia sarà una colonia americana, gestita da un porcilaio di incapaci e corrotti, qualsiasi contratto con essa stipulato sarà da considerarsi immondizia pura.

Quanto sopra detto vale per stabilire la credibilità che si può dare ai politici italiani eletti secondo i parametri della loro perversa e deviata idea di “democrazia”.

Ma se i politici italiani al governo della nazione, come quelli odierni, non sono stati neppure “democraticamente” eletti dal popolo (neanche con elezioni truffa come quelle con cui gli italiani sono stati presi in giro per anni: basti dire che l’italiano, con l’attuale legge elettorale, non può neppure scegliere la persona da eleggere, ma solo un gruppo, e sarà poi la mafia dei partiti a decidere chi sia il più servizievole da nominare…), ma cooptati, senza elezioni popolari, tra tecnici e uomini di fiducia del gruppo bancario usuraio mondiale Goldman Sachs, nonchè appartenenti a gruppi di potere massonici, come il Gruppo Bilderberg e la Trilateral Commission, di cui Mario Monti fa parte, quale affidabilità potranno mai garantire ai partner con i quali firmano documenti a destra e manca? Zero.

Il precedente Premier italiano, Silvio Berlusconi, era certamente un uomo d’affari, e sicuramente metteva al primo posto “i suoi affari”, i quali però siccome coincidevano anche spesso con quelli italiani (per il semplice fatto che i suoi investimenti sono soprattutto in Italia), parzialmente sarebbero stati positivi, sia per l’Italia che per coloro i quali con lui stipulavano contratti: gli affari devono accontentare entrambe le parti.

Poi Berlusconi commise l’errore di pensare di poter fare “di testa sua”, di fare affari direttamente con le nazioni produttrici di gas e petrolio, illudendosi che, siccome era stato sin’ora un servo fedele, gli avrebbero lasciato un piccolo margine di manovra. Errore: un servo è un servo. Punto. E deve obbedire e fare solo gli interessi del padrone. E siccome Berlusconi era stato un po’ (ma molto poco) riluttante a bombardare la Libia, e un po’ riluttante a massacrare gli italiani di tasse e permettere alle multinazionali anglo-americane (tutte giudaico-sioniste, basta guardare i cognomi di chi le amministra e seguirne le vicende) di rubare le ricchezze italiane ancora rimaste sul mercato, ecco che scattò il ricatto finanziario, e Berlusconi perdette in un sol colpo, durante l’ultimo G20 cui partecipò, parecchi miliardi delle sue azioni in borsa.

Berlusconi capì che era tempo di dimettersi, prima di finire sul lastrico. Ed il comunista a stelle e strisce Giorgio Napolitano (che avvalora il detto popolare “l’erba gramigna non muore mai”) propose al suo posto Mario Monti. Ovviamente tutto lo schieramento politico italiano presente in Parlamento, eccezion fata per la Lega Nord, approvò con un’ovazione (specie le nuove sinistre bancarie americaniste e sioniste che scalpitano per tornare a ricoprire il loro ruolo ufficiale di parassiti di stato e zerbini del capitale apolide).

Si vide così, chiaramente, chi fosse nel libro paga della lobby banchiera: praticamente tutti, esclusa la già citata Lega Nord, e Domenico Scilipoti, che addirittura per marcare la sua disapprovazione si presentò in Parlamento con una fascia nera al braccio in segno di lutto.

Mario Monti, ormai lo sanno anche i sassi, è anche un supervisor della Goldman Sachs; quella stessa Goldman Sachs che aveva creato, attraverso un giro di agenzie di rating e borsistiche a lei collegate, seri problemi agli affari di Berlusconi nonchè la perdita di parecchi miliardi all’Italia (di risparmi dei cittadini italiani). E tutt’ora sta mettendo in ginocchio l’Europa attraverso la moderna catena usuraia di Wall Street e della Borsa mondiale. La stessa Goldman Sachs ricopre una parte importantissima nella gestione e amministrazione dell’americana FED: la stessa Federal Reserve che stampa la moneta americana per venderla al governo USA, contro la quale si era schierato Kennedy e perciò fu assassinato (poco dopo aver fatto stampare oltre 4 miliardi di dollari con la scritta “proprietà del popolo americano” e non della FED); la stessa FED alla quale invece Obama proclamava di voler attribuire maggiori poteri. Che bel Nobel…per l’usura…

La Goldman Sachs, ricordiamolo, è quella struttura diretta da menti israelite che ha abilmente rubato, potremmo dire “con destrezza” il 98% delle ricchezze finanziarie libiche.

I riferiementi a tale affermazione sono pubblici e noti alla stampa internazionale, che ne da’ notizia a questi links [1][2] - [3][4] - [5] – e molti altri ancora…ne stiamo facendo una raccolta in PDF.

Quindi, la Israelo-Americana Goldman Sachs, che ha derubato la Libia, l’Italia e nazioni varie, che si cela quindi dietro agli interessi delle guerre USA nel mondo, essendo che i suoi interessi sono gli stessi, avrebbe messo un suo fedele servitore, Mario Monti (mentre l’altro Mario, Draghi, sempre uomo della Goldman Sachs, è stato posto a capo della Banca Europea) a mettere ordine sulla ‘scena del crimine’ libico. Il partner libico di Mario Monti è poi quell’Abdurrahim el-Keib che ben conosciamo, formatosi negli USA e con lunga esperienza in campo petrolifero presso il Petroleum Institute degli Emirati Arabi Uniti.

Bella squadretta vero?

Il trattato, tra la colonia Italia e la nuova colonia Libia, riguarda non solo accordi economici e finanziari (quelli ormai erano stati rapinati, svenduti o imposti da tempo), ma soprattutto l’apporto italiano nel controllo e repressione della Resistenza libica Verde, quella che impedisce il controllo terroristico totale del territorio libico da parte delle forze traditrici della Jamahiriya, quelle arroccate a Bengasi, e nel disarmo delle sacche ‘ribelli’, composte da quelle fazioni di Nato-mercenari che come schegge impazzite si scontrano per la spartizione del bottino e delle aree petrolifere, come si addice a vere e proprie gangs mafiose, creando ai pupazzi del NTC problemi di gestione interna del potere.

Le Forze armate italiane infatti forniranno sostegno al nuovo governo fantoccio libico del CNT (NTC). Ciò vuol dire nuove armi, militari italiani sul terreno libico, addestramento di assassini e delinquenti comuni, che hanno già fatto tornare la Libia indietro di 60 anni almeno, qualcuno dice all’età della pietra.

L’Italia dovrà fare insomma il lavoro più sporco e più rischioso, a terra, mettendo a rischio giovani vite, come già fatto in altre aree e con altre “missioni di pace”. Certamente anche qui poi ci diranno che è per “la democrazia”.

Oltre al Primo Ministro italiano Mario Monti ed al cameriere delle banche libico Abdurrahim el-Keib, erano infatto presenti i rispettivi titolari della Difesa, e stretta collaborazione è stata garantita dai titolari dei ministeri dello Sviluppo, Corrado Passera e quello dell’Interno, Annamaria Cancellieri.

Presente era anche l’amministratore dell’Eni, Paolo Scaroni. Una presenza simbolica, in quanto, rispetto al trattato di amicizia italo-libico, siglato tra Muammar Gaddafi e Silvio Berlusconi, il governo fantoccio libico del NTC ha fatto sapere che di esso sarà preservata solo la parte relativa al risarcimento che l’Italia si è impegnata a versare per il periodo coloniale. Mentre si conferma invece l’accettazione delle scuse italiane. Certo, non poteva essere diversamente. Come dicono in Italia: cornuti e mazziati, cioè traditi e bastonati.

Le commesse più ghiotte ed i contratti più importanti sono nelle mani franco-anglo-americane, e l’Italia è stata usata solo come una serva, a cui lasciare gli avanzi ed a cui affidare compiti sporchi.

I conti tornano, la rapina viene tecnicamente perfezionata: la Libia, dopo una parentesi di indipendenza e progresso in ogni campo, prosperità nazionale ed esempio di riconquista di dignità e riscatto per tutte le nazioni africane, torna ad essere la colonia di sempre. L’Italia, la sua parentesi di libertà se l’è giocata decenni e decenni fa, ed ora non le resta che servire ed obbedire agli ordini dei padroni in kippà, mediterranei e d’oltre oceano.

La dignità del popolo italiano sembra oggi però voler cercare un riscatto nelle insorgenze in corso, che dalla Sicilia stanno in questi giorni lanciando un messaggio chiaro a tutti gli italiani: liberiamoci dai parassiti delle banche, dai loro servi inutili, dal signoraggio bancario che ci sta strangolando. Riprendiamoci l’onore e la dignità, le ricchezze del nostro paese, che da sole basterebbero a dare sicurezza e serenità a tutti gli italiani. Riprendiamoci l’Italia.

Sarà un messaggio che il resto degli italiani saprà cogliere e sviluppare? Riusciranno gli italiani a liberarsi dalla morsa imposta dalla setta usuraia? Si affrancheranno da tutta la propaganda mediatica e cultura viziata, con la quale sono bombardati sin da piccoli? La speranza è che ce la possano fare. La certezza è che questa strada, per la riconquista nazionale e l’onore perso, è lastricata di dolore e sangue.

I libici, quelli veri, che sono la maggioranza della popolazione, che non si sono scordati della Libia che è stata loro distrutta, del benessere che avevano raggiunto, del rispetto che avevano conquistato tra le altre nazioni africane, che hanno visto di che pasta sono fatti i “ribelli” del NTC (un branco di vili traditori, assassini, stupratori e ladri), questo problema almeno non ce l’hanno: loro hanno già sofferto, stanno sofrendo, a migliaia e migliaia imprigionati e torturati a morte dai “liberatori”, stanno già combattendo la loro Resistenza, e le loro strade sono già lastricate di sangue. Non c’è altra strada per liberarsi dalle catene imposte senza scrupolo dai banksters gangsters stranieri e dai loro tirapiedi locali.

Gli italiani non credano che liberarsi degli strozzini planetari, che si sono impadroniti della loro terra, che si sono arroccati come un cancro maligno nei gangli del potere e nelle istituzioni, che sono radicati come sanguisughe sulla pelle della gente che lavora onestamente, sarà cosa facile e indolore: la Resistenza (1) non è un pranzo di gala.


di Filippo Fortunato Pilato


(1) la Resistenza vera, autentica, da non confondersi col termine “resistenza” usurpato dai collaborazionisti, col quale si indica invece l’Italia incaprettata e regalata agli USA del ‘Piano Marshal’…

21 gennaio 2012

Ma che cos'è il mercato? (E il complottismo?)

Risposta di Federico Zamboni a un commento di un lettore, su un tema interessante per tutti.


Gentile Federico,

apprezzo il suo scritto. Epurando l'aspetto di costume (eventuali uomini incappucciati..) dal concetto, il nodo, per dirimere lo stesso, è nel dato oggettivo. Il dato oggettivo è nella prova. Elemento questo che sposta l'evento, dall'ipotesi alla certezza.

Nell'ampliamento sematico del termine.. gli esempi di vita quotidiana da lei riportati sono giustamente congrui... E proprio da tali esempi che è possibile spostare l'asse del discorso nei seguenti termini: "I soggetti che si coalizzano per far carriera guardandosi bene dal dirlo a colleghi o superiori" sono soggetti agenti o prodotto del sistema? In altri termini: sarebbe possibile far carriera se non ci si coalizzasse? Tralascio il giudizio di valore del far carriera che mi è estraneo... Ma se la si vuole fare (la carriera) queste sono le condizioni: coalizzarsi. E nel coalizzarsi è insito l'occulto.

Ora: l'esempio è di fatto generico ma serve ad evidenziare gli aspetti del ragionamento, che per chi scrive, risiedono nel sistema, che, sempre per chi scrive è perfetto sinonimo di mercato.

E allora: le lobby che agiscono nel mercato, sono prodotto dello stesso (traendone, si intende, il maggior profitto possibile, coalizzandosi spesso con fini speculativi) o viceversa esercitano su di esso controllo e direzione? Personalmente, protendo per la prima ipotesi.

Ma che cos'è il mercato? E' sicuramente l'iperproduzione di merci delle multinazionali. E' anche però l'azienda locale che produce beni o servizi. Sono le oligarchie economiche che raggiungono ampi guadagni in modo più o meno lecito, ma anche il semplice operatore finanziario che esercita una professione e consiglia i propri clienti nell'ottenere un guadagno. (Qui conosco la vostra obiezione che tende ad evidenziare che il LAVORO deve generare qualcosa di concreto... però i mercati finanziari, nella loro accezione originaria hanno anchessi un merito che è quello di finanziare le aziende). E ancora: il mercato è l'insieme dei consumatori che acquistano, guidati da desideri indotti, oggetti per sostituire inconsapevolmente desideri primari, ma anche i GAS. Il mercato è l'azienda agricola che produce prodotti biologici ma anche la multinazionale che produce grano. Il mercato, per finire, sono milioni di merci prodotte ed acquistate ma anche il prodotto La Voce del Ribelle che, piaccia o meno è anch'esso un prodotto editoriale e quindi di mercato. Che qualcuno acquista perchè ne ha bisogno, perchè lo trova utile. Perchè per qualcuno, è fonte di identità.

E che differenza c'è tra me che acquisto La voce del Ribelle e chi acquista un capo di abbigliamento di marca?

Una delle risposte è sicuramente nella finalità. Un'altra è nella possibile necessità di consapevolezza. Rimaniamo, però, attenzione, sempre nel concetto di mercato.

E allora: esiste un mercato buono ed uno cattivo? E in altri termini: esiste il giusto e lo sbagliato? Il bene e il male? O semplicemente uno è prodotto dell'altro?

La via d'uscita sono le regole. Mettere regole al mercato. Perchè solo con regole rigide e severe sarà possibile riportare il concetto al suo giusto valore che sta nell'essere uno tra i tanti aspetti dell'esistenza piuttosto che l'esistenza.

Andrea Samassa

R

Caro Andrea, sull’idea che alla base di quello che sta accadendo in campo economico e sociale ci sia un “sistema” sono d’accordo. Così come lo sono sul fatto che la quasi totalità di quelli che si adeguano ai suoi condizionamenti – subendoli per un verso e rafforzandoli per l’altro, come i detenuti che si prestano a fare da sorveglianti e tiranneggiano i loro stessi compagni di prigionia – non fanno altro che muoversi all’interno di regole che non hanno scelto e di meccanismi che li sovrastano e sui quali non hanno nessun potere di modifica.

Ma il punto, e in questo direi che divergiamo, è che secondo me questo sistema non è affatto casuale. E men che meno, al contrario di ciò che postulano i liberisti, è il riflesso di una tendenza “naturale”, e perciò insopprimibile, ad agire in termini utilitaristici, che inducono a imperniare la propria condotta – e persino la propria esistenza – su criteri analoghi a quelli di un’impresa. Si fa quello che è più vantaggioso per sé e non ci si preoccupa delle conseguenze che si producono sugli altri. La generica idea di vantaggio (che si presta anche a una declinazione psicologica, ma su questo tornerò più avanti) si irrigidisce in quella di profitto, ovverosia di beneficio misurabile sotto forma di denaro, spianando la strada alle sue versioni estremizzate che sono il massimo profitto, l’interesse usurario e la speculazione finanziaria.

Una volta che si sia assorbita in profondità questa concezione, fino a non rendersi più conto che non è affatto una modalità spontanea e universale degli esseri umani ma una costruzione teorica quanto mai opinabile, e parecchio sordida, il danno è pressoché irreversibile. I suoi pseudo valori diventeranno gli unici, o quelli dominanti, intorno ai quali organizzare (organizzare!) la propria vita. Al punto che non ci si chiederà più se una certa condotta vada giudicata alla luce di criteri diversi dal guadagno e, nella migliore delle ipotesi, dell’osservanza formale delle leggi.

Se questo sistema non è spontaneo, quindi, non è peregrino ipotizzare che esso sia stato sviluppato, se non proprio ideato a priori, da chi riteneva di potersene servire per raggiungere i propri scopi. Ed è già in questo tratto, o se si vuole in questo vizio d’origine, che affondano le radici dell’attuale, dilagante tendenza all’arbitrio e alla manipolazione. I cosiddetti “complotti”, in fin dei conti, non sono altro che questo: operazioni occulte di particolare gravità, che vengono mascherate da eventi accidentali, attribuiti a nient’altro che all’imponderabile azione delle forze in campo. Le quali, sempre secondo questa rappresentazione auto assolutoria, sono innumerevoli e nella loro essenza indipendenti l’una dall’altra, benché legate tra loro dall’obiettiva e inevitabile condivisione di certe regole del gioco. Detto in una parola, utilizzata di continuo per sintetizzare questa pretesa libertà assoluta che in quanto tale sarebbe refrattaria a qualunque regia complessiva, il celebratissimo “mercato”.

A ben riflettere, invece, la manipolazione per eccellenza è proprio quella che va al di là del caso specifico, per quanto rilevante, e si estende alla realtà nel suo insieme. Il singolo giocatore truffaldino è un semplice baro, e ha una pericolosità limitata. Quello che è davvero temibile è quello che mette in piedi un casinò. O una catena di casinò. Apparentemente sottostà a delle regole, che sono all’incirca le stesse dei suoi clienti-avversari. In realtà le regole sono fatte apposta per favorire lui. Vedi lo zero nel gioco della roulette. O l’elemento statistico negli altri giochi d’azzardo, nonché in quell’apoteosi dell’alea, e perciò dell’ottusità compulsiva di chi ci butta i propri soldi, che sono le slot-machine.

Se poi il nostro biscazziere è davvero furbo, e di solito lo è, allora non si accontenta di fare leva sulle attrattive del gioco in quanto tale, ma vi affianca una serie di ulteriori elementi di pressione psicologica. Che sono tutti, Las Vegas docet, nel segno dell’ebbrezza e dello stordimento. Ovverosia, per abbandonare l’esempio e tornare ai processi economici veri e propri, di quella smania di arricchirsi e di consumare che è l’architrave dell’istupidimento contemporaneo.

Come ricorda Jeremy Rifkin nel suo “La fine del lavoro”, a inizio Novecento i lavoratori statunitensi non erano affatto propensi a lavorare di più solo perché ne avrebbero ricavato un aumento della retribuzione. La loro scala valoriale era un’altra, e anteponeva il tempo libero da dedicare a ciò che preferivano, ivi inclusi gli affetti, al possesso di maggiori quantità di denaro. Ergo, vennero avviate delle massicce campagne pubblicitarie per enfatizzare non solo l’attrattiva di questa o quella merce, ma per instillare la convinzione che un più alto livello di consumo qualificasse in senso positivo l’acquirente e comportasse un riconoscimento sociale. E che, pertanto, fosse più che mai desiderabile.

Come la vogliamo definire, un’operazione di questa natura e di questo calibro? E perché mai non la dovremmo assimilare a un “complotto”, nel senso di una strategia, deliberata, e deteriore, e occulta, che mira a corrompere la popolazione e ad asservirla alle mire di un’oligarchia di sfruttatori?

Un’ultima considerazione, infine, riguardo all’idea che in fondo rientri tutto nel mercato, inteso come l’ambito in cui si iscrive qualsiasi attività umana imperniata sulla cessione di qualcosa che può essere oggetto di compravendita. Cito dal post: «Il mercato è l'insieme dei consumatori che acquistano, guidati da desideri indotti, oggetti per sostituire inconsapevolmente desideri primari, ma anche i GAS. Il mercato è l'azienda agricola che produce prodotti biologici ma anche la multinazionale che produce grano. Il mercato, per finire, sono milioni di merci prodotte ed acquistate ma anche il prodotto La Voce del Ribelle che, piaccia o meno è anch'esso un prodotto editoriale e quindi di mercato. Che qualcuno acquista perchè ne ha bisogno, perchè lo trova utile. Perchè per qualcuno, è fonte di identità.E che differenza c'è tra me che acquisto La voce del Ribelle e chi acquista un capo di abbigliamento di marca?».

Non ci siamo. La Voce del Ribelle non è affatto un prodotto, nel senso che non nasce per conseguire un profitto. Come ha spiegato tante e tante volte Valerio Lo Monaco, quello che noi definiamo “abbonamento”, come si usa dire in ambito editoriale, è in realtà un contributo alla nostra iniziativa, che non si prefigge alcuno scopo di lucro. Noi siamo costretti, nostro malgrado, a fissare un “prezzo” per poter disporre delle risorse necessarie a proseguire l’attività e magari a migliorarla, ma il nostro obiettivo non è certo incassare il più possibile. Saremmo degli idioti assoluti, se fosse così. Perché ci saremmo scelti un mercato che praticamente non esiste, e che d’altronde noi non facciamo nulla per creare, o ampliare, accattivandoci i potenziali lettori a colpi di proclami massimalisti e di requisitorie che fanno leva sull’emotività.

E allora, per rispondere alle domande finali, la risposta è sì. Secondo me esistono eccome «un mercato buono e uno cattivo». Quello che specula sull’avidità materiale, e sull’insicurezza psicologica, è il mercato cattivo. L’altro, che si concentra sul valore intrinseco di ciò che crea (“crea”, non “produce”), è quello buono. E lo è, innanzitutto, perché non nasce come mercato, e dunque per vendere qualcosa a qualcuno e ritrarne un profitto, ma come occasione di scambio reciproco. Il tempo di uno ha generato un bene. Il tempo di un altro ne ha generato uno diverso. Il denaro, finché non si tramuta nel mostro incontrollabile e autoreferenziale che sappiamo, sostituisce il baratto. Ma non ne dimentica la funzione. Non ne tradisce lo spirito. E non esclude il piacere, la gioia, la libertà assoluta e rinfrancante del dono.

di Federico Zamboni

20 gennaio 2012

L'inganno delle liberalizzazioni: siamo cittadini o consumatori?

Rivolta tassisti
La strategia del governo sembra essere quella del "divide et impera": attaccare la cittadinanza sotto la forma di categorie di consumo

“Divide et impera” dicevano gli antichi romani, che usavano la locuzione per intendere il loro modo di governare il territorio italiano e di evitare rivolte da parte delle popolazioni italiche sottomesse. Due millenni e mezzo dopo la strategia sembra essere ancora valida, ed è utilizzata comunemente dal potere. Ne è un esempio il decreto liberalizzazioni che verrà varato oggi.

Dopo la cosiddetta manovra 'salva-Italia', che colpiva tutti più o meno indiscriminatamente – senza ombra della tanto sbandierata equità – dalle parti di palazzo Chigi devono aver pensato che era cosa assai rischiosa inimicarsi l'intera popolazione, coesa, tutta assieme.

Ed ecco che nel nuovo decreto liberalizzazioni si adotta la strategia del motto latino. Non si attacca più un'indistinta cittadinanza, ma tanti suoi piccoli sottogruppi diversi: le categorie. Ciascuna di loro, vedendo i propri interessi attaccati, sarà così portata a reagire separatamente.

Prendiamo l'esempio dei tassisti. Il decreto prevede la liberalizzazione delle licenze, e l'annullamento della territorialità. Chi è in possesso di una licenza adesso – l'avrà pagata attorno ai 150mila euro, prezzo medio in Italia – con ogni probabilità si sarà immaginato, al momento dell'acquisto, di rivenderla a fine carriera, facendosi così una sorta di pensione, o buonuscita che dir si voglia. E la territorialità, ovvero del fatto che ogni licenza fosse limitata ad un determinato territorio in cui esercitare, serviva a proteggere il lavoro dei tassisti “autoctoni”, nei periodi di maggior richiesta.

Dunque immaginiamoci un tassista giunto più o meno ad età pensionabile, senza grandi risparmi da parte. Egli immaginava di trascorrere in pace la vecchiaia grazie ai soldi della licenza, che a suo tempo pagò una cifra ragguardevole, ed invece si ritrova con niente in mano e costretto a lavorare in condizioni peggiori di quelle a cui è sempre stato abituato, gettato nella mischia della competizione nazionale. Non ha diritto di protestare?

E il discorso fatto per i tassisti vale anche per i benzinai, che annunciano scioperi prolungati – fino a dieci giorni – per protesta contro la scelta di intervenire sull'esclusiva di fornitura nella rete carburanti, che rischia di schiacciare gli esercenti fra i pesi dei colossi petroliferi e le richieste dei mercati.

Ma per gli altri cittadini – per i cittadini non tassisti e non benzinai – queste proteste non sono che potenziali disagi. Il fatto è che le categorie sono facili da attaccare. Basta chiamarle caste, convincere i cittadini che quelli di cui godono sono dei privilegi che ricadono sulle loro spalle, che i servizi che offrono potrebbero essere molto più economici ed il gioco è fatto. Con l'aiuto dei media mainstream, si può così far sorgere nella cittadinanza una certa insofferenza nei confronti delle categorie, i cui membri ci appariranno come estremamente egoisti: arroccati a difesa dei propri interessi senza pensare al bene del paese.

Ma osservando la situazione più da vicino ci si accorge che non è così. Pur procedendo separatamente, per compartimenti stagni, la manovra del governo sta compiendo un furto complessivo dei diritti dei lavoratori (e dei cittadini), in nome di più generici diritti dei consumatori. Si sta in pratica compiendo un passo enorme da uno “stato di diritto”, dove ad essere tutelati sono i cittadini in quanto tali, ad uno “stato di mercato”, dove i cittadini sono tutelati solo nella loro dimensione di consumatori.

Il problema è che, se da un lato ci attaccano separatamente, perché ciascuno di noi apparterrà ad una soltanto delle categorie che via via passeranno sotto la macina delle liberalizzazioni, dall'altro si promettono benefici comuni, in quanto tutti rientriamo nella odiosa categoria dei consumatori. Dunque, a meno che non sia la nostra categoria ad essere attaccata in quel preciso momento, con ogni probabilità ci schiereremo dall'altra parte, dal lato dei consumatori, pronti ad attaccare i privilegi delle caste.

Ma siamo davvero consumatori prima che cittadini? E siamo sicuri che il libero mercato sia lo strumento adatto per regolare al meglio le nostre necessità? Torniamo per un attimo ai tassisti. Cosa comporteranno le liberalizzazioni? Probabilmente molti più taxi in giro, a prezzi sicuramente più economici. E chi li utilizzerà? In parte chi fino ad ora si spostava con il proprio mezzo; in buona parte – una parte probabilmente maggiore – chi utilizzava per convenienza, o per mancanza di mezzi propri, i mezzi pubblici.

Ma ha senso, proprio adesso, in piena crisi ambientale, con l'aria delle città sempre più irrespirabile, le riserve di petrolio mondiali giunte agli sgoccioli – e posizionate in luoghi sempre più difficili da raggiungere – incentivare il trasporto privato? Non preferiremmo piuttosto – come cittadini non come consumatori – avere un servizio di trasporto pubblico efficiente, di cui usufruire tutti a costi accessibili, e limitare i taxi ed i mezzi privati alle emergenze ed alle eventualità?

Ma i mercati non ascoltano i cittadini ma solo i consumatori. Non sanno cosa “è meglio”, solo cosa è “più conveniente”. Sono un meccanismo ottuso, che risponde soltanto a stimoli economici. È contro questo sistema che dobbiamo ribellarci, tutti assieme, mettendo da parte le categorie. Essere cittadini, una volta tanto.

di Andrea Degl'Innocenti

29 gennaio 2012

L’elite globale nasconde 18 trilioni di dollari nelle banche offshore


Di recente, il fatto che Mitt Romney – in corsa per le presidenziali USA – abbia milioni di dollari parcheggiati alle Isole Cayman ha riempito i titoli di tutto il mondo. Ma se passiamo alle banche offshore, i milioni di Romney sono spiccioli. La verità è che l’elite globale sta nascondendo nelle banche offshore una quantità di denaro che è semplicemente inimmaginabile. Stando ad una indagine sconcertante condotta dall’IMF (Fondo Monetario Internazionale), l’elite globale nasconde nelle banche offshore la somma di 18 trilioni di dollari.Tale cifra non tiene in conto i soldi depositati in Svizzera; anche questi sono una cifra incredibile. Per darvi un’idea, tenete a mente che il PIL USA del 2010 è stato di soli 14,5 trilioni di dollari. Dunque, perchè l’elite globale si prende tutta questa fatica di nascondere i soldi nelle banche offshore?

Due sono le ragioni essenziali: la prima è la privacy, la seconda la bassa tassazione.

La privacy è un tema veramente importante per quelli che sono coinvolti in operazioni illegali, tipo il traffico di droga; ma la ragione principale per la quale le persone spostano i loro soldi nelle banche offshore è per evitare le tasse. Alcuni aprono conti in nazioni estere perchè vogliono legalmente ridurre al minimo le proprie tasse, altri invece li aprono perchè vogliono evaderle illegalmente. Sareste veramente sorpresi dallo scoprire quello che grosse aziende e singoli privati fanno per evitare di pagare le tasse. Sfortunatamente, la grande maggioranza di noi non ha le cifre, o le conoscenze, necessarie per giocare a questo gioco, così siamo tassati fino alla disperazione.

Dunque, perchè le chiamano banche offshore (letteralmente fuori costa, ndt)?

Il termine ha origine con riferimento alle banche delle Isole del Canale (della Manica) che erano fuori dalle coste inglesi; ed infatti la maggior parte delle banche offshore sono tuttora collocate su isole. Le Bermuda, le Bahamas, le Isole Cayman e l’Isola di Man ne sono esempi. Altre località con banche offhsore quali il Principato di Monaco non sono minimamente fuori dalle coste, ma il termine è ugualmente valido.

È tradizione che queste centri di banche offshore siano molto attraenti sia per i criminali che per l’elite globale (dov’è la differenza? Ndt) perchè non diranno a nessuno – governi inclusi – del denaro lì parcheggiato chiunque ce l’abbia messo.

In questi giorni, alcuni governi – in particolare quello USA – stanno cercando di cambiare le cose, ma di sicuro la fine del sistema delle banche offshore non la vedremo presto. La quantità di denaro che transita per queste banche è assolutamente incredibile. È stato calcolato che l80% di tutte le transazioni del sistema bancario internazionale abbia luogo per tramite di queste banche offshore. 1,4 trilioni di dollari sono parcheggiati nelle banche offshore delle sole Isole Cayman.

In un articolo del Guardian
si è stimato che un terzo della ricchezza dell’intero pianeta sia depositata in banche offshore, altri ritengono che un quantitativo pari alla metà di tutto il capitale mondiale passi, in un modo o nell’altro, attraverso le banche offshore.

Ovviamente, tutto questo evitare le tassazioni significa che i governi del mondo stanno perdendo una montagna di denaro.

Si calcola che il governo USA perda 100 miliardi di dollari l’anno a causa di queste banche offshore. Altri collocano la cifra molto più in alto. Evitare le tasse è un gioco nel quale l’elite globale è maestra: loro giocano un tipo di gioco completamente diverso da quello che giochiamo tu ed io. Loro non se ne stanno lì fermi, seduti, a farsi spennare dalle tasse. Loro, invece, pagano i migliori esperti ed usano qualsiasi trucco contabile per potersi tenere quanti più soldi possono.

Ai giorni nostri, avvantaggiarsi dei paradisi fiscali offshore non è così complicato da farsi. Quello che segue è un recente articolo pubblicato su Politico...

Uno scenario plausibile è il seguente: affido un mandato ad un consulente. Questi, nel fare il suo lavoro, mi chiama e mi dice che se io firmo una serie di documenti e faccio transitare i miei soldi attraverso una piccola isola dei Caraibi, posso conservare una fetta più grossa dei miei guadagni e pagare meno tasse. Potrei aver guadagnato i miei soldi in America, ma legalmente posso affermare che di fatto sono stati guadagnati in un paradiso fiscale.

È legale, e forse parecchi di noi dovrebbero prenderlo in considerazione.

Dopo tutto, se giochini del genere funzionano con Mitt Romney, perchè non dovrebbero funzionare con noi? Durante una pausa della campagna elettorale, Romney ha detto quanto segue...

«Posso garantire che seguo le leggi fiscali».

Io gli credo fermamente: ma è quello che poi aggiunge che mi fa riflettere...

«E se cè una possibilità di risparmiare sulle tasse, io, come chiunque altro nel nostro Paese, cerco di approfittarne».

Ed io gli credo fermamente anche in questo caso.

La ABC News ha recentemente rivelato che la Bain Capital ha costituito alle Isole Cayman 138 differenti fondi offshore. È una cosa che deve funzionare piuttosto bene se devi ripeterla 138 volte. Ma la Bain Capital è impegnata altrettanto intensamente anche in altri centri con banche offshore.

Una fra le più importanti scatole vuote costituita dalla Bain Capital ai Caraibi, si chiamava Sankaty High Yield Asset Investors Ltd: non aveva nessun ufficio alle Bermuda, neppure aveva lì del personale; però, ha aiutato i clienti della Bain Capital a risparmiare una bella montagna di tasse.

Quanto segue è tratto da un articolo del 2007 pubblicato dal Los Angeles Times

.... Alle Bermuda, Romney era presidente ed unico azionista – per quattro anni – della Sankaty High Yield Asset Investors Ltd., canalizzava i soldi nella famiglia di fondi di investimento a rischio Sankati, della Bain Capital, fondi che investono in titoli di Stato ed obbligazioni societarie, come in mutui bancari.

Come migliaia di analoghe istituzioni finanziarie, Sankati non ha nessun ufficio alle Bermuda. La sua unica presenza consiste in una targhetta presso uno studio legale del centro di Hamilton, la capitale del territorio dell’isola britannica.

«Fondamentalmente è una casella postale», questo ha detto Marc B. Wolpow, che ha lavorato per nove anni con Romney alla Bain Capital e che costituì la Sankai Ltd., nell’ottobre del 1997, senza nemmeno aver mai visitato le Bermuda. «Non cè nessuno lì che vi lavori, a parte degli avvocati».

La quantità di denaro che è attualmente canalizzata dalla Sankaty è semplicemente sconcertante...

Stando ad un portavoce, oggi la Bain Capital gestisce portafogli per 60 miliardi di dollari. La cifra comprende 23 miliardi di dollari di fondi Sankati di credito e debito. Attualmente alle Bermuda sono attive una dozzina di affiliate Sankati, stando ai registri societari.

I fondi di investimento in debiti della Sankati sono strutturati come affiliate nel Delaware, dove producono delle entrate tassabili investendo su titoli obbligazionari a tasso fisso ed altri strumenti di debito. In base alle leggi fiscali, anche le istituzioni USA esentasse possono ricadere in un’aliquota del 35% se investono direttamente in tali fondi; mentre investendo per tramite di una società con sede alle Bermuda, le tasse sono legalmente evitate, questo a detta degli esperti.

Tutto ciò è perfettamente legale.

Nessuno avrà il minimo problema da tali comportamenti.

Tenendo i soldi in banche offshore, gli stessi gestori di questi fondi evitano la tassazione.

Victor Fleischer – un docente di fiscalità alla University of Colorado Law School – ha spiegato recentemente come la cosa funzioni...

«Lidea dietro alcune delle strategie delle Isole Cayman era che i guadagni ottenuti dai gestori dei fondi per gestire il denaro, erano conseguiti offshore nelle Isole Cayman ed il principale beneficio è che tu puoi procrastinare la data di tale tuo guadagno fino a quando non reinvesti nelle stesse Isole Cayman tali tue entrate, ma nemmeno nessuno di tali reinvestimenti sarà tassato, almeno finchè non lo ritiri».

È questo quello che faceva Romney?

Non lo sapremo, finchè non mostrerà le sue dichiarazioni dei redditi e delle tasse pagate.

Quello che invece sappiamo, è che Romney ha milioni di dollari suoi investiti in paradisi fiscali offshore.

Quanto segue proviene da ABC News...

Romney, oltre a pagare il minimo possibile sui suoi guadagni finanziari, ha perlomeno 8 milioni di dollari investiti in almeno 12 fondi registrati alle Isole Cayman. Un altro investimento, che Romney dice sia tra i 5 ed i 25 milioni di dollari, in base al deposito titoli risulta essere domiciliato alle Cayman.

Ma Romney non ha solo soldi domiciliati alle Isole Cayman. Apparentemente ha soldi sparsi fra tutti i vari paradisi fiscali.

Ecco quanto risulta da un articolo su Reuters...

I fondi Bain nei quali Romney ha investito, stando ad un’indagine Reuters su dati azionari, sono sparpagliati dal Delaware alle Isole Cayman, dalle Bermuda all’Irlanda e fino ad Hong Kong.

C’è qualcosa di sbagliato in tutto ciò?

Beh, dipende da come definiamo sbagliato.

Certo quello che Romney fa è perfettamente legale.

Però puzza. Jack Blum – avvocato di Washington – riferendosi alle finanze di Romney ha recentemente detto ad ABC News quanto segue ...

«Le sue finanze personali sono un esempio paradigmatico di cosa non funzioni nel sistema fiscale americano».

Dunque, adesso abbiamo alcuni spunti sul perchè Romney non voglia divulgare le sue vecchie dichiarazioni dei redditi. Come detto in precedenza, però, quello che sta facendo Romney sono pinzillacchere rispetto a quello che fanno i veri ricchi.

Il Congresso USA sta cercando di mettere le mani sulle banche offshore, ma i veri ricchi gli sono sempre due o tre passi avanti. Gli ultra-ricchi si spingono fino a qualsiasi estremo pur di non pagare le tasse.

Di fatto, il Washington Post ha pubblicato che un numero crescente di benestanti sta di fatto rinunciando alla propria cittadinanza piuttosto che fare i conti con l’ira dell’Agenzia delle Entrate (IRS negli USA, ndt).

Gli ultra-ricchi non sono comunque minimamente preoccupati per questo fatto della cittadinanza. Se vogliono influire su di una elezione, possono farlo molto pesantemente semplicemente con una donazione milionaria, piuttosto che mettendo insieme i pochi voti che hanno.

In un precedente articolo, ho descritto come gli ultra-ricchi usino il sistema delle banche offshore come sistema bancario ombra che segue delle regole che la maggior parte della gente neanche sa esistano...

È un sistema bancario ombra della quale la maggioranza degli americani ignora fin la sola esistenza. La maggior parte degli americani non ha le possibilità di costituire, in una mezza dozzina di Paesi esteri, delle società che siano delle scatole vuote in modo da poter filtrare i propri profitti. La maggior parte degli americani non sa nulla di quei complicati piani per evitare le tasse, piani che sono messi a punto da fiscalisti e che si chiamano Double Irish o Dutch Sandwich. La maggior parte degli americani non ha idea di come potrebbe far arrivare alle Bermuda il grosso dei propri guadagni, ed evitare di pagare le tasse.

La maggior parte dell’elite globale non si preoccupa minimamente del fatto che il debito USA sia proiettato a livelli stratosferici: tutto quello di cui si preoccupa è di potersi tenere in tasca quanto più denaro possibile dei propri soldi.

Naturalmente, esistono sempre le eccezioni. Recentemente, Warren Buffett ha staccato un assegno da 49.000 dollari, per il Tesoro USA, per aiutare a ripagare il debito nazionale. Considerando però il fatto che il debito nazionale USA cresce ad un ritmo di più di 100 milioni di dollari l’ora, il suo gesto non cambia molto le cose.

Il nostro sistema è rotto fin nel profondo, e l’elite globale si allontana lasciando cadaveri per strada. Nei decenni, hanno messo a punto con cura le regole in modo che la quantità maggiore possibile di ricchezza finisse nelle loro tasche, e che lì rimanesse.

Naturalmente, se eliminassimo totalmente gli attuali sistemi di tassazione personale e societaria, e li sostituissimo con dei sistemi totalmente nuovi, ci libereremmo in una sola volta di tutti questi trucchi.

Quante probabilità pensate ci siano?
Fonte > The economic collapse

27 gennaio 2012

Il suicidio dell’embargo petrolifero


Il marito che si evira per fare un dispetto alla moglie non è mai stato un esempio di intelligenza. Ma se addirittura non lo fa per sua libera scelta, ma per accontentare un amico capriccioso e prepotente, allora la cosa supera i limiti del demenziale. Purtroppo, però, la metafora sembra essere abbastanza calzante per descrivere l’appoggio dell’Italia all’embargo sul petrolio iraniano votato lunedì scorso dall’Unione europea. Secondo il ministro degli Esteri Giulio Terzi, l’impatto sull’economia italiana delle nuove restrizioni sarà “trascurabile” se non addirittura “nullo”. Ma ieri la FederPetroli Italia ha smentito le parole del ministro, sottolineando che “l’embargo iraniano rappresenterà un grande problema per la situazione petrolifera italiana”. Nel 2011 il nostro Paese ha importato dall’Iran 185mila barili al giorno, pari al 13% del fabbisogno. “Abbiamo altre fonti di approvvigionamento”, ha cercato di rassicurare Terzi, citando ad esempio la Libia, che “sta aumentando le sue forniture”.
Ma l’Iran, sottolineano da FederPetroli, non è solo un importante fornitore. È anche “un produttore di greggio di alta qualità” (ad alto contenuto di zolfo ndr), utilizzato in grandi quantità da molte raffinerie italiane per la produzione di prodotti derivati dalla raffinazione. Entro la fine di giugno queste dovranno abbandonare il petrolio iraniano. E non tutte sono attrezzate per lavorare con altri greggi. “C’è un problema di qualità del greggio, dovremmo fare qualche cambiamento – ha confermato Paolo Scaroni, amministratore delegato dell’Eni – ma le nostre raffinerie saranno in grado di far fronte a queste carenze”.
A questo si aggiunge il problema dei nuovi fornitori. In prima linea c’è l’Arabia Saudita, che da tempo si è detta disposta ad aumentare la produzione per approfittare dell’uscita dallo scenario europeo del nemico iraniano. Tuttavia sarà difficile che i sauditi – consapevoli di trattare da una posizione privilegiata – potranno eguagliare le condizioni vantaggiose offerte dagli iraniani. Ne sa qualcosa la Grecia, a cui Teheran fornisce un quarto del fabbisogno di petrolio e le consente il pagamento a 60 giorni dalla consegna e l’assenza di garanzie finanziarie. “L’adeguamento degli impianti per altri tipi di greggi similari, la scelta di nuovi fornitori e le variabili temporali, comporteranno dei problemi non da poco”, sottolinea il presidente di FederPetroli Michele Marsiglia.
Nel frattempo chi ci guadagna sono i Paesi asiatici che non seguono i diktat statunitensi e continuano a fare affari vantaggiosi con la Repubblica Islamica. Primi fra tutti Cina e India, per le quali l’Iran rappresenta rispettivamente il terzo e il secondo fornitore. “L’India vuole prendere quanto più greggio iraniano è possibile, perché le condizioni sono favorevoli”, ha dichiarato il ministro indiano del Petrolio S. Jaipal Reddy.
Ma anche gli alleati asiatici degli Stati Uniti che si riforniscono di petrolio iraniano stanno temporeggiando sull’adozione dell’embargo. La Corea del Sud, verso la quale sono destinate il 9% delle esportazioni di Teheran, non ha ancora deciso alcun taglio. Mentre il Giappone (che rappresenta il 13% delle esportazioni di greggio iraniano) ha chiesto agli Usa di essere esentato, anche alla luce del recente disastro di Fukushima.
Insomma, mentre noi ci “eviriamo” per accontentare Washington, l’Iran vende il suo petrolio in Asia, per altro a prezzi vantaggiosi. Per noi, invece, il prezzo del carburante è destinato a crescere ulteriormente.

Doppio standard
Mentre l’Eni viene costretta ad abbandonare ogni nuovo progetto in Iran e le raffinerie italiane dovranno adattarsi a greggi di qualità più bassa di quello iraniano, l’inglese Bp ottiene un’importante esenzione per un progetto da 20 miliardi di dollari nel Mar Caspio, che vede coinvolta anche l’azienda petrolifera iraniana Naftiran Intertrade. Lo rivela il Wall Street Journal, precisando che grazie all’intercessione di funzionari di Londra e dell’Unione europea presso il Congresso Usa, il progetto al largo dell’Azerbaijan, noto come Shah Deniz II, non sarà bloccato dalle sanzioni, nonostante la Naftiran ne detenga il 10%.
di Ferdinando Calda

26 gennaio 2012

Previsioni economiche per il 2012




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Un quadro preciso dell’attuale crisi economica e delle possibili conseguenze che l’economia globale e le future misure politiche e finanziarie di Washington potranno avere sul sistema produttivo, sociale e finanziario degli Stati Uniti. Una visione importante che aiuta a capire cosa è accaduto e cosa potrebbe ancora accadere nel cuore malato dell’Impero, quali saranno le conseguenze per i mercati di Eurozona e per la stabilità dell’intero pianeta.

Predire quale sarà il tracciato che gli Stati Uniti d’America e l’economia globale andranno a delineare in questi volatili tempi economici non è facile. Tuttavia, è questo il momento in cui le previsioni acquistano maggior valore. Escluse rare eccezioni, tradizionalmente gli economisti evitano di formulare previsioni oltre le due settimane o, tutt'al più, oltre il mese entrante. La previsione dei principali punti di svolta dell'economia e degli eventi più importanti che potranno provocare maggiori crisi va evitata a tutti i costi. È molto più sicuro rifugiarsi in un diffuso consenso conservatore che fare un passo in là. Tuttavia, questo pregiudizio conservatore contribuisce non poco a rendere incomprensibile quale sarà la piega più probabile che condizioni ed eventi come la crisi economica andranno a prendere.

La ricerca di un riparo sicuro all’ombra del consenso conservatore spiega in parte perché praticamente tutti i 10.000 economisti di professione del mondo non siano riusciti a prevedere l'insorgenza dell’attuale crisi nel 2007. O perché gli stessi si trovarono unanimi nel dichiarare un’imminente ripresa economica dopo il 2009 che non c’è stata. Questa adesione al consenso è anche la ragione per cui gli economisti non sono riusciti, per la terza volta, a prevedere la prossima e ben più profonda crisi economica che quasi certamente si materializzerà entro e non oltre l'inizio del 2013 — e ipoteticamente anche prima, come rivela il sistema finanziario dell'Eurozona.

I ripetuti fallimenti degli economisti di fronte a tre grandi eventi economici degli ultimi quattro anni sono il risultato della loro adesione a un apparato concettuale che non riesce o non può spiegare quali sono le forze che si muovono dietro la crisi. È il risultato di teorie elaborate in condizioni pre-crisi che oggi non servono più. La carenza di concetti, teorie e modelli è la ragione che ha spinto gli economisti della Casa Bianca di Obama – il Consiglio dei Consulenti Economici — ad assicurare al pubblico, all'inizio del gennaio del 2009, che il pacchetto di stimolo alla ripresa di 787 miliardi di dollari avrebbe creato 6 milioni di posti di lavoro. Queste lacune hanno portato gli economisti della Federal Reserve a ritenere che 2,7 miliardi di dollari in Quantitativi di Facilitazione 1, 2 e 2,5 [1] per il biennio 2009-2011 (“operazione sviluppo”) sarebbero bastati per resuscitare il settore dell'edilizia abitativa e che sono serviti, invece, solo ad alimentare gli speculatori di futures stock [2], titoli spazzatura [3] e di commodity futures [4] di tutto il mondo. E’ la ragione per cui gli economisti del Congressional Budget Office hanno ritenuto che gli sgravi fiscali introdotti l’anno precedente da Obama, per un totale di 802 miliardi di dollari, si sarebbero certamente tradotti in un aumento significativo del PIL e dell'occupazione. Questi sgravi, invece, hanno prodotto una crescita del PIL inferiore all'1% nella prima metà del 2011 e quindi nessuna creazione di nuovi posti di lavoro al netto per il resto dell'anno.

L'ala rotta liberale: “Basta darci più stimoli!”

L'ala liberale dell’uccello senz’ali degli economisti tradizionali continua a sostenere che i programmi di Obama, dal 2009 a oggi, non hanno prodotto una tangibile ripresa economica perché lo stimolo economico è stato insufficiente. L'avanguardia di questo punto di vista ha economisti del calibro di Paul Krugman e altri. Anche Larry Summers, ex Segretario del Tesoro sotto il governo Clinton e Consigliere Capo per la politica economica sotto Obama nel 2009-10, si è unito al coro liberale sostenendo che lo stimolo originale, quello del 2009, avrebbe dovuto essere maggiore di 1 miliardo di dollari o più — e non di 787 miliardi di dollari.

Contrariamente a quanto si dice, i programmi di Obama sono falliti non solo perché hanno messo a disposizione risorse insufficienti, ma anche e soprattutto perché la loro composizione poggia su un’eccezionale miseria e, insieme, un incredibile pessimo tempismo. Riguardo alla composizione dei programmi di Obama di stimolo all’economia, il 70 per cento interessa sgravi fiscali — di cui, la maggior parte, è di tipo finanziario. Questi sgravi sono andati a vantaggio delle corporazioni, dunque, e non degli investimenti negli Stati Uniti per creare posti di lavoro. Circa un altro mezzo trilione di dollari dei programmi di spesa di Obama si compone di sovvenzioni agli Stati, ai distretti scolastici e ai disoccupati. Questi aiuti sono stati progettati per guadagnare tempo e bloccare temporaneamente il crollo dei consumi che si è verificato nel 2008-09 fino a quando gli sgravi fiscali, appunto, avrebbero dovuto mostrare il loro effetto benefico e tradursi, dunque, in un vero e proprio investimento spostando l'economia oltre il livello del recupero di emergenza. Ma così non è stato. Gli sgravi fiscali non sono diventati investimenti. Almeno non negli Stati Uniti. Alcuni sono andati all’estero e hanno creato posti di lavoro in Asia e altrove. Altri sono andati su titoli speculativi — stock, derivati, valute estere, ecc. - che non hanno creato posti di lavoro da nessuna parte. Il resto è andato sul risparmio che si sta ancora accumulando in attesa di essere reinvestito nel riacquisto azionario aziendale, nel pagamento dei dividendi o per eventuali fusioni e acquisizioni che si tradurranno forse in pochi — e non più — posti di lavoro.

Nonostante lo “stimolo” di trilioni di dollari, l'America corporativa continua a sedersi su 2-2,5 miliardi dollari contanti accumulati a fine anno 2011. Le corporazioni multinazionali continuano a detenere altri 1,4 miliardi di dollari nelle filiali off-shore. E per non essere da meno nel gioco dell’accaparramento, dopo aver beneficiato di 9 miliardi di dollari in prestiti liberi ricevuti “per salvataggio” dalla Federal Reserve, le grandi banche continuano a sedersi su altri 1,7 miliardi di dollari di riserva in eccesso distribuendo prestiti goccia a goccia alla piccola impresa e imponendo quindi una conseguente, e ancora ulteriore, scarsità di investimenti che riduce al minimo le possibilità di occupazione.

Nel frattempo, i 370 miliardi di dollari dei sussidi di Obama sono finiti nel giro di 12-18 mesi

Come per gli sgravi fiscali finanziari, i sussidi non creano posti di lavoro. Gli aiuti economici possono temporaneamente salvarne alcuni. Ma non sono una ripresa economica. Ripresa significa creazione di posti di lavoro in proporzione netta significativa ed in genere si fa riferimento a un raggio che va da 300.000 a 500.000 nuovi posti di lavoro ogni mese per un anno. Salvare posti di lavoro è in genere la politica che meglio permette di affrontare una lunga stagnazione economica al meglio.

I restanti 126 miliardi di dollari circa dei programmi di spesa di Obama per il 2009-10 erano stati destinati per piani infrastrutturali a lungo termine — ad esempio, l’aggiornamento della rete elettrica nazionale, progetti di energia alternativa e progetti di costruzione “cotti e mangiati” che non riuscivano a trovare l’immediato finanziamento necessario. Ma anche il programma di spesa per le infrastrutture non ha creato, nell’immediato, posti di lavoro e non ha generato ricchezza nel breve periodo, allo stesso modo dei tagli fiscali e dei sussidi. Composti soprattutto da progetti a partecipazione, la maggior parte dei piani infrastrutturali è a lungo termine, programmato per dare frutti su un arco di dieci anni. Come per gli sgravi fiscali, l'effetto a breve termine di questa spesa destinata al rimodernamento delle infrastrutture ha avuto scarso effetto, se non alcun effetto, in termini di creazione di qualsiasi nuovo posto di lavoro o per la ripresa economica tout court.

La trovata dell’Ala Destra: “Basta darci più soldi da spendere!”

I Repubblicani hanno assunto l’incarico alla Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti dopo le elezioni di medio termine del Novembre 2010 e con esso hanno preso anche l'agenda politica economica. L’elezione ha creato un ambiente ideale per ri-ascesa al potere dell'ala destra degli economisti. I programmi di Obama, sostengono, sono falliti perché hanno prodotto una "mancanza di fiducia”. Questa mancanza di fiducia, hanno detto, si deve all’incertezza sul futuro degli sgravi fiscali finanziari, ad un’eccessiva regolamentazione del mercato, ad una fase di stallo degli accordi di libero scambio con la Corea del Sud, il Panama e la Columbia, ad un deficit pendente ed eccessivo e al debito, al costo troppo alto della Legge per l’Accesso ai Servizi Sanitari del 2010 e altri nonsense economici. I conservatori economisti hanno sostenuto che cambiare queste politiche metterebbe a disposizione delle aziende e delle imprese più capitali da spendere. Più soldi significherebbe dunque più investimenti e più posti di lavoro. L'economia potrebbe dunque recuperare rapidamente.

Quello che quest’ala, tuttavia, ignora convenientemente è che, prima di tutto, un massiccio taglio alla spesa pubblica insieme ad una brusca riduzione del reddito dei consumatori produrrebbe un brusco declino del PIL e nessuna ripresa. Gli economisti conservatori sostengono che questo passaggio sarebbe più che compensato da un aumento degli investimenti delle imprese. Ma questo porta al secondo problema: vale a dire, se le corporazioni già possiedono 2 miliardi di dollari in contanti e le banche un altro 1,7 miliardi di dollari in riserva di eccesso, perché dargli altri contanti e finanziamenti produrrebbe investimenti e crescita? Esattamente: quanti altri trilioni di dollari sono necessari perché ci siano investimenti, prestiti, creazione di posti di lavoro e garanzie di ripresa economica?

Così, come l'ala liberale dell'economia non sa rispondere esattamente alla domanda “quanto ulteriore deficit di spesa è necessario per garantire una ripresa economica sostenuta?”, l’ala della destra conservatrice non può spiegare o non sa rispondere quanto altro denaro serve alle aziende e agli investitori per garantire un ritorno in termini di investimento, posti di lavoro e crescita. Tenuto conto di tali errori fondamentali di entrambe le parti, non è strano che gli economisti, liberali o conservatori che siano, abbiano incontrato grandi difficoltà negli ultimi anni e mostrato scarsa capacità di predizione della nascita e dell'evoluzione dell'attuale crisi economica. Allora, quali sono i probabili scenari che gli Stati Uniti e le economie globali si troveranno di fronte?

Previsioni per il 2012

Gli Stati Uniti vivranno una doppia recessione all’inizio del 2013 o, in caso si verifichi un'altra crisi bancaria in Europa, forse ancora prima, nel 2012

Nonostante il continuo rimbalzo di notizie economiche sui media e sulla stampa specialistica degli ultimi mesi, non c'è nessuna ripresa in corso per l’occupazione, il settore immobiliare o le finanze pubbliche locali. La crescita dell’occupazione è stata ferma, per tutto il 2011, sul raggio 80-100.000 al mese, secondo i dati mensili del Dipartimento del Lavoro. La misura più ampia della disoccupazione, l’indice U-6, è rimasto costante e fermo al 16% o a 25-26 milioni per l'ultimo anno.

Stato e governi locali continueranno a licenziare i lavoratori nella media di 20.000 al mese. Si prevedono scarsi effetti sul piano federale nonostante la tornata elettorale del 2012. Il primo trimestre del 2012 registrerà ancora una volta un significativo rallentamento della crescita del PIL. Nel secondo trimestre del 2012, la crisi del debito dell’Eurozona toccherà la sua punta massima, indebolendo ulteriormente l'economia statunitense. E’ possibile che questa possa scivolare in una fase di recessione, se la crisi dell'Euro è grave. Più probabile, tuttavia, è lo scenario di una doppia recessione che si configura all’inizio del 2013 quando si intensificheranno i tagli al deficit dal Congresso e dall'Amministrazione.

La Federal Reserve avvierà la terza versione del suo programma "Quantitativo di Facilitazione" nel 2012

Questo programma prevede che la Fed stampa denaro per acquistare direttamente titoli dai privati a prezzi gonfiati, superiori al prezzo di mercato, così da supplire la carenza di valuta e fornire altra moneta. Come per le precedenti due versioni del programma, del 2009 e del 2010, il risultato avrà scarso effetto sui settori edilizi, sul mercato del lavoro e sulla crescita generale ma ancora una volta il programma darà una spinta al mercato azionario, obbligazionario e dei derivati e all'inflazione dei prezzi relativi. La tempistica di QF3 sarà guidata dagli eventi europei. La riduzione reale del deficit – debito inizierà subito dopo le elezioni generali del Novembre 2012 o comunque non più tardi del febbraio 2013.

ll taglio del deficit futuro sarà inferiore all’ultimo accordo di accordo di agosto 2011 di 2,2 miliardi di dollari

Ciò si tradurrà in un'altra manovra di tagli alla spesa pubblica di $2-4$ miliardi che per la maggior parte cadrà sulla spesa sociale e i diritti acquisiti come Medicare, Medicaid e il sistema pensionistico e di sicurezza sociale, sugli aiuti alimentari, le prestazioni sussidiarie legate alla disoccupazione, l'istruzione e la Legge per l’Accesso ai Servizi Sanitari del 2010. Le tasse andranno ad incidere direttamente sulla classe media, andando a comprendere anche misure considerate finora come intoccabili come, ad esempio, la deduzione delle rate del mutuo dal reddito annuale complessivo.

Lo sviluppo dell’occupazione continuerà a ristagnare, restando sulla soglia di 24-25 milioni per tutto il 2012, contando anche le false partenze per il recupero di posti di lavoro determinato da fattori statistici stagionali e di altro tipo

Non ci sono programmi efficaci, oggi, per aumentare il fondamentale netto dei posti di lavoro negli Stati Uniti. Gli ulteriori sgravi fiscali per il 2011-12 non stimoleranno gli investimenti o la creazione di nuovi posti di lavoro. Le corporazioni continueranno a rifiutare di rischiare il loro massiccio gruzzolo di contanti di $2 trilioni su investimenti o in posti di lavoro e preferiranno di certo aspettare l'esito delle estensioni fiscali della tassa Bush previsto per la fine del 2012 mantenendo così un ampio cuscino di contante in previsione degli eventi europei e della possibilità di un'altra crisi globale del credito. I prestiti delle banche alle piccole e medie imprese non subiranno grossi cambiamenti e di conseguenza anche la creazione di nuovi investimenti e di nuovi posti di lavoro nelle piccole imprese resteranno ferme anche per il 2012 pure. Contemporaneamente, i governi – i comuni – le scuole continueranno a licenziare circa 20.000 persone al mese — portando il totale del pubblico impiego a quasi 1 milione di occupati in meno rispetto al primo mandato Obama. Cresceranno i numeri del licenziamento e sui licenziamenti il governo federale potrà dare dati significativi nel 2013.

Il Congresso e l'Amministrazione approveranno due manovre fiscali importanti nel 2012

Il primo decreto sarà un piegarsi al ricatto delle multinazionali (e dei contributi alla campagna elettorale) e vedrà ridurre l'aliquota di imposta del 35 per cento per il rimpatrio dei contanti oggi depositati in conti off-shore al riparo dalla tassazione americana. Tale aliquota fiscale varierà tra 5,25% e il 10%, sulla riduzione del 35%. Le multinazionali rimpatrieranno circa la metà dei loro attuali 1,4 miliardi di dollari di profitti off-shore per sfruttare la tariffa più bassa — riavviando gli stessi ricatti che si verificarono nel 2004-05 quando una legge simile ridusse l’aliquota al 5,25% rispetto al 35% al ritorno di circa la metà dei 700 miliardi di dollari scudati in conti all’estero al riparo dalla tassazione.

Il secondo disegno di legge sarà una specie di estensione degli sgravi fiscali previsti dalla tassa Bush che si voterà prima delle elezioni previste per il mese di novembre 2012; o, subito dopo ma comunque entro la fine dell'anno. L’estensione della tassa Bush è un affare per le aziende, per i dirigenti di azienda e il reddito personale dato che l’imposta sul reddito del 35% sarà definitivamente ridotta a meno del 30% in cambio di condoni fiscali non verificabili. La classe media dovrà pagare tasse più alte e la busta paga dei lavoratori oggi meno pagati si ridurrà ulteriormente.

I prezzi delle case continueranno a cadere, saliranno i pignoramenti e il patrimonio netto negativo crescerà

Gli attuali più di 11 milioni di euro di pignoramenti saliranno a oltre 13 milioni. I prezzi delle case continueranno a cadere del 5-10% sui mercati capitali (portando il prezzo del 2006 a meno del 40% in media). Almeno 17 milioni di proprietari di casa sotto ipoteca (sul totale di 54 milioni) vedranno il patrimonio netto in negativo. L'amministrazione di Obama e il Congresso costringeranno gli Stati ad accettare il piano federale che lascia alle banche e agli istituti di credito il diritto di pignorare per “effetto automatico” e illegale per un bene in cambio del credito. L’edilizia residenziale e commerciale continuerà a ristagnare sui livelli attuali.

Le esportazioni e la produzione americana rallenteranno nel 2012

Le esportazioni non supereranno l’attuale soglia di mercato del commercio mondiale e, di conseguenza ciò avrà effetti negativi sulla produzione dei beni di consumo. Le banche dell'Eurozona potrebbero implodere, una o più delle grandi banche statunitensi chiederanno un ulteriore salvataggio alla Federal Reserve e al Tesoro degli Stati Uniti. In caso di fallimento di una o più delle economie sovrane della zona euro, le principali banche di Francia, Austria, Belgio e anche della Germania diventeranno tecnicamente insolventi. In tal caso, il contagio si diffonderà rapidamente alle banche statunitensi. I gruppi più esposti e pronti a chiedere il salvataggio sono Morgan Stanley, Citigroup e Bank of America.

La crisi del debito sovrano della zona euro si stabilizzerà per poi peggiorare ancora

La crisi del debito della zona Euro si stabilizzerà temporaneamente nei primi mesi del 2012 dato che la Banca Centrale Europea segue la Federal Reserve degli Stati Uniti e introduce a sua volta quantitativi di facilitazione monetaria mentre procedono lentamente i negoziati tra gli Stati dell’Euro per la creazione di un'Unione fiscale. Tuttavia, la crisi sovranazionale esploderà di nuovo nella tarda primavera del 2012 dato che Italia e Grecia hanno un grave problema di debito e di rifinanziamento e la crisi bancaria si acuirà in Francia, in Germania e negli altri paesi dell’eurozona. Per risolvere la crisi del debito dell’Euro sarà necessario trovare il triplo o il quadruplo degli attuali 1,5 miliardi di dollari oggi disponibili nei diversi fondi di salvataggio dell’Euro — più di 5 miliardi di dollari.

Due o più banche andranno in fallimento.

Molte banche della zona euro diventeranno tecnicamente insolventi e saranno nazionalizzate dai loro governi e ritirate dal mercato. I principali candidati all’eliminazione includono banche francesi, come Societe Generale e BNP Paribas; la Commerzbank tedesco; l’Unicredit italiana; e forse una o più banche austriache e finlandesi. Le economie tedesca e francese, che hanno già subito forti rallentamenti nell’anno 2011, scivoleranno in recessione nel 2012. Il Regno Unito varerà un secondo turno dei programmi di austerità, introdotti dal governo conservatore di Cameron, che apriranno una fase di recessione.

Il tasso di crescita economica della Cina subirà forti rallentamenti.

Cresciuto costantemente della media del 9-10% negli ultimi anni, il PIL cinese si ridurrà drasticamente nel 2012, potenzialmente alla metà del tasso degli anni precedenti. Le esportazioni dei prodotti cinesi vedranno uan forte contrazione. Anche l’India si rallenterà significativamente. La più grande economia dell'America Latina, il Brasile, entrerà in recessione nel 2012.

Il commercio mondiale sarà lento a cominciare dal 2012.

Dato il rallentamento dell’economia cinese, la continua instabilità della zona euro e il rallentamento della crescita economica degli Stati Uniti il ritmo del commercio mondiale subirà un rallentamento e il mercato generale una forte contrazione. Di conseguenza anche la produzione globale subirà un forte calo.

In sintesi

Riassumendo, le previsioni elencate si basano su un'analisi economica non ortodossa. Questo quadro è la conseguenza della ristrutturazione degli Stati Uniti e dell’economia globale che negli anni ‘80 fu la risposta alla precedente crisi economica degli anni ‘70 e oggi crolla con gli eventi del 2007-08. Talvolta indicata come “neoliberismo”, questa ristrutturazione fu intesa come capacità delle economie capitalistiche di ristrutturare l'economia capitalista globale. Il risultato è una continua volatilità e instabilità economica. L'economia, statunitense e mondiale, continua a riflettere una certa fragilità strutturale grave. Ad oggi, ho definito questa condizione di incertezza come recessione epica di Tipo 1. Ma le recessioni epiche di Tipo 1 hanno la tendenza innata a tramutarsi in Tipo 2 come preludio di una depressione globale. L'anno prossimo rivelerà se questo processo è già iniziato o no dato che gli Stati Uniti e le altre economie deboli e la forte instabilità bancaria dell’Euro faranno il loro corso. Se ci sarà una forte crisi bancaria nell'area dell'euro, la probabilità di una vera depressione globale aumenterà significativamente.

di Jack Rasmus

Jack Rasmus, è autore di “Epic Recession: Prelude to Global Depresion, Obama’s Economiy: Recovery For the Few”, Pluto Press/Palgrave-Macmillan, Marzo 2012 e di un pamphlet edito da Teamsters Union dal titolo "An Alternative Program FOR Economic Recovery” (disponibile all’indirizzo internet: www.kyklos productions.com).

NOTE

[1] quantitative easing: “Quantitativi di Facilitazione/Interpolazione” – politica monetaria in cui la Banca Centrale crea denaro al fine di acquistare azioni dalle banche private – vedi: http://en.wikipedia.org/wiki/Quantitative_easing. [torna al testo]

[2] Il future stock permette ad acquirente e venditore di contrattare per una data futura un determinato numero di azioni a un prezzo che viene fissato al momento della stipula del contratto. Il future stock è dunque anche classificato come derivato simmetrico perché entrambe le parti in gioco si impegnano di effettuare una prestazione a una determinata data di scadenza. [torna al testo]

[3] Junk Bond o “titolo spazzatura” offre un alto rendimento con un alto rischio. Tale tipologia di titoli viene emessa da società disposte a pagare tassi di interesse molto elevati pur di ottenere denaro. L'elevato indebitamento della società emittente comporta un’alta probabilità di fallimento della stessa: il risparmiatore rischia quindi di perdere, in tutto o in parte, il capitale versato. [torna al testo]

[4] Una commodity futures è un contratto che obbliga a scambiare una prefissata quantità di merce, in una data prefissata e con un determinato prezzo fissato al momento della contrattazione. Il prezzo futuro non è solo la previsione di un prezzo di mercato, ma include anche le commissioni che coprono i costi di magazzinaggio, l’assicurazione ecc. [torna al testo]

24 gennaio 2012

La verità sul movimento dei forconi





Questo articolo è per spiegare la mia posizione sul movimento dei forconi.Ho avuto bisogno di una presenza assidua nei punti di blocco e tre giorni di dialogo continuo con la gente presente ai caselli per farmi un’idea precisa di quello che sta succedendo e tutt’ora la mia conclusione può essere esposta esclusivamente a livello personale, per non creare conflitti in futuro con tutta la strumentalizzazione che stanno compiendo i media e per quello che rappresenta il lavoro di Lo Sai (http://it-it.facebook.com/losai.net).

Quello che ho visto dall’inizio dell’organizzazione della protesta, nell’assemblea di Catania dove ha partecipato anche il presidente del Palermo Calcio Maurizio Zamparini col famosissimo intervento contro Banche, moneta debito, Monti e media (vedi video più sotto, ndr ), ad oggi è riassumibile in 2 fasi. Nella prima il blocco è stato organizzato dalla massiccia presenza degli autotrasportatori in genere che hanno orchestrato dei blocchi sicuramente d’effetto e di evidente impatto sulla regione. Nella seconda fase, dal secondo giorno in poi, quello che è successo ha quasi dell’incredibile. Si è sviluppato una notevole presenza di ragazzi e padri di famiglia che hanno accompagnato la protesta, come i forconi in maniera pacifica, per tutta la nottata di Giovedì e Venerdì. Il numero dei presenti estranei al movimento e coesi alla protesta nella serata di Venerdì è arrivato a pareggiare il numero di autotrasportatori, tanto che al casello di S.Gregorio di Catania si è notata una massa di gente mista, che non portava né bandiere né colori, nessuno slogan ma un unica voce… Adesso Basta!



Dobbiamo camminare uniti e coesi a sostegno dei nostri diritti e contro le manovre bancarie che stanno schiacciando il paese. Si è vista una massiccia presenza di gente che era consapevole del problema della moneta debito e che era cosciente della soluzione che lo statuto siciliano può portare. In molti si erano informati via facebook tramite le pagine Lo Sai e Informare per Resistere. Nei giorni precedenti la mia presenza insieme a quella dei ragazzi di Lo sai siciliani ha provato a capire le motivazioni di questo blocco, aprendo più volte un dialogo con gli autotrasportatori. Le loro proteste sono per lo più legate alla forte tassazione di benzina e dei diritti degli autotrasportatori che per interrompere questo inizio anno davvero pesante e con una prospettiva futura ancora più nera, chiedevano e chiedono l’applicazione dello statuto Siciliano. Questo per evitare una tassazione così massiccia e per dar forza ad un regolamento regionale che dimezzerebbe teoricamente tutte le spese che i lavoratori stanno subendo e che hanno portato ad una situazione di grave pressione e fame…

Il movimento è stato boicottato da tutti i tg nazionali e da molti regionali, nessuno ne parlava. E quando hanno iniziato a parlarne strumentalizzavano le notizie in modo da far pensare ad una manipolazione di Forza Nuova e Mafia. Adesso io non so se all’origine ci sia stata questa manipolazione, quello che so e che ho visto che le richieste dei trasportatori sono sacrosante e vanno a richiedere quello statuto che potrebbe liberare dalla pressione fiscale e dal debito tutta la regione. Non ho visto bustarelle, non ho visto pressione ai commercianti che volevano aprire la propria attività, non ho visto bandiere o striscioni o ragazzi di forza nuova per tutto il periodo e la mia presenza nei punti strategici dei blocchi. Ma allora perchè boicottare in questa maniera la manifestazione? Io posso solo immaginare il perchè del volere di boicottare questa manifestazione, ma la censura mediatica ha più motivo di esistere nella seconda fase e nei giorni successivi del blocco…

Questo perchè la massiccia presenza dei non autotrasportatori, e dei ragazzi che hanno partecipato ai blocchi era una massa a me anomala in quanto a consapevolezza. Mi sono davvero stupito del fatto che la maggior parte della gente era consapevole di dover protestare per l’attuazione dello statuto al fine di far uscire l’intera regione dalla morsa del debito pubblico e dalla pressione schiavista della BCE. E in che modo? Vi voglio dare alcune notizie su questo statuto… L’Autonomia speciale è quella particolare forma di governo della Regione che fu concessa il 15 maggio 1946 alla Sicilia da re Umberto II di Savoia, disciplinata da uno Statuto speciale (art. 116 della Costituzione Italiana), che la ha dotata di una ampia autonomia politica, legislativa, amministrativa e finanziaria.

Grazie allo Statuto autonomistico, la Regione Siciliana ha competenza esclusiva (cioè le leggi statali non hanno vigore nell’isola), su una serie di materie, tra cui beni culturali, agricoltura, pesca, enti locali, territorio, turismo, polizia forestale[1]. Ogni modifica allo Statuto, trattandosi di legge costituzionale, è sottoposta alla cosiddetta procedura aggravata, cioè a una doppia approvazione, a maggioranza qualificata, da parte delle Camere.

Per quanto riguarda la materia fiscale, la totalità delle imposte riscosse in Sicilia, ai sensi degli articoli 36 e seguenti del proprio Statuto (Legge Costituzionale n.2 del 26 febbraio 1948), è dotata di completa autonomia finanziaria e fiscale. Ma che significa questa ultima frase? Per non annoiarvi troppo suggerisco di andarvi a leggere in toto lo statuto e per comprendere bene la sue funzioni sarebbe utile approfondire tramite le relazioni del prof. Massimo Costa docente universitario e costituzionalista dell’Università di Palermo. Adesso citerò, a mio parere, il punto principale che potrebbe cambiare quell’autonomia finanziaria che tanto ci preme. L’Articolo 41 cita testualmente: 41. Il Governo della Regione ha facoltà di emettere prestiti interni.

L’attuazione di questo statuto a cosa porterebbe? Vi aiuterò a capire meglio la questione sulle riflessioni, appunto del prof.Costa:

La Banca Centrale Regionale sarà totalmente pubblica, con un capitale diviso a metà tra la Regione e i Comuni, con diritto di voto proporzionale al numero degli abitanti ed al prodotto interno lordo, ed emetterà la totalità della moneta spettante alla Sicilia, sia metallica, sia cartacea, sia bancaria. Tutti i proventi dell’emissione monetaria, fissata nei limiti decisi dalle autorità monetarie italiane e, pertanto, ad oggi europee, sono attribuiti direttamente alla Regione, così come le eventuali eccedenze di riserve auree e valutarie. Una quota delle eventuali eccedenze potrà essere riservata ad emissioni monetarie di pregio con funzioni specifiche di riserva di valore, ad alto valore numismatico. La moneta bancaria è emessa integralmente dalla Banca Centrale e poi prestata, anche a interesse puramente simbolico, alle banche private (la riserva frazionaria è dunque posta pari al 100 %) o accreditata direttamente alla Regione, tolte le spese della Banca Centrale ed una congrua quota di accantonamento. Anche la moneta cartacea non è “prestata” alla Regione ma direttamente accreditata alla stessa come sopra.

La Banca Centrale Regionale emetterà, sotto forma di prestito interno infruttifero, anche una moneta complementare regionale avente valore legale solo per le transazioni interne all’isola, accreditando i relativi benefici al 50 % alla Regione ed al 50 % alle persone in condizione non lavorativa quale “reddito di cittadinanza” (minori, studenti universitari, casalinghe, disoccupati, pensionati).


Alla luce di queste analisi suggerirei vivamente a tutta la popolazione siciliana di unirsi alla protesta ai fini di pressare per l’attuazione dello statuto e smetterla di lamentarsi per la mancanza di benzina o alimenti..

In quanto, da qui a poco, questa mancanza potrebbe rivelarsi non indotta dalla protesta ma un reale pericolo che rifletterebbe la situazione Greca che si è venuta a creare all’interno del palcoscenico europeo. Piuttosto che chiedersi chi sta dietro alla protesta sarebbe molto più utile chiedersi dove cazzo sono gli altri movimenti e schieramenti politici regionali che non stanno accompagnando questa richiesta d’aiuto popolare con la soluzione in mano. E’ stato più volte detto che la protesta non vuole ne bandiere ne colori, ma vedere che la gente resta a casa perché non accompagnata dalla propria bandiera è assai più sconfortante e evince la totale mancanza di personalità e carattere di tutta la cittadinanza. Soprattutto alla luce dell’unione a gran voce di tante città italiane che stanno occupando i caselli di tutto il territorio nazionale… Siciliani sarebbe ora di svegliarsi o ORA O MAI PIU’!!

Santo YesMan
Fonte: www.informarexresistere.fr/
di Santo Yesman

Libia-Italia: Mario Monti, cameriere della Goldman Sachs, firma la “Dichiarazione di Tripoli”


Il Presidente del Consiglio Italiano, Mario Monti, accompagnato dal ministro della Difesa Italiana, Giampaolo Di Paola e da quello degli Esteri, Giulio Terzi di Sant’Agata, è stato in Libia, dove ha firmato la “Dichiarazione di Tripoli”.

Questo documento, siglato ufficialmente per “rafforzare il legame di amicizia e collaborazione tra i due Paesi”, non ha alcun valore per il popolo libico.

E non ha alcun valore per due importantissimi motivi:

1) l’attuale governo fantoccio libico non ha alcuna autorità politica e non garantisce nè rappresenta l’unità del popolo libico, ma solo una fazione di esso, parte della quale è cerebrolesa (4 fanatici del “allahuakbar”, i quali con Gheddafi non riuscivano a trafficare e intrallazzare liberamente come volevano), parte della quale è infiltrata di terroristi al-qaedisti (ai quali non interessa nulla della Libia, ma solo le loro elucubrazioni psicopatico-teologiche, e che prendono orudini dal Qatar, cioè dagli USA) e parte della quale (i ratti) si è venduta apertamente ai forestieri, dai quali hanno ottenuto armi, effimero potere, la devastazione della propria terra, ed un pugno di soldi, sporchi del sangue dei fratelli .

2) i libici dovrebbero ormai averlo capito, che i contratti stipulati con l’Italia, sinchè resterà una “colonia americana”, non valgono la carta sulla quale sono stati scritti. Erano stati già stipulati contratti d’amicizia e collaborazione, di rapporti commerciali e politici con l’Italia, recentemente, non più di un paio d’anni fa, con grande esaltazione mediatica del fatto, ricevimenti in pompa magna, baciamano e scambi tra le due nazioni. E cosa è successo poi? Ha rispettato l’Italia gli accordi ancora freschi d’inchiostro? No! Appena il padrone americano ha dato l’ordine, le marionette politiche italiane hanno obbedito, concedendo il suolo italiano come base militare per gli attacchi e bombardamenti aerei compiuti ai danni della Libia, e del popolo libico, da parte di americani, francesi, quatariani, e gli italiani stessi hanno usato i propri aerei per sganciare sulla Libia centinaia di bombe, uccidendo migliaia di persone di una nazione sino a pochi mesi prima “amica”. Se solo avessero una coscienza e non una cloaca al posto del cuore, coloro che erano al comando della portaerei Italia si dovrebbero solo vergognare. Quindi, sinchè l’Italia sarà una colonia americana, gestita da un porcilaio di incapaci e corrotti, qualsiasi contratto con essa stipulato sarà da considerarsi immondizia pura.

Quanto sopra detto vale per stabilire la credibilità che si può dare ai politici italiani eletti secondo i parametri della loro perversa e deviata idea di “democrazia”.

Ma se i politici italiani al governo della nazione, come quelli odierni, non sono stati neppure “democraticamente” eletti dal popolo (neanche con elezioni truffa come quelle con cui gli italiani sono stati presi in giro per anni: basti dire che l’italiano, con l’attuale legge elettorale, non può neppure scegliere la persona da eleggere, ma solo un gruppo, e sarà poi la mafia dei partiti a decidere chi sia il più servizievole da nominare…), ma cooptati, senza elezioni popolari, tra tecnici e uomini di fiducia del gruppo bancario usuraio mondiale Goldman Sachs, nonchè appartenenti a gruppi di potere massonici, come il Gruppo Bilderberg e la Trilateral Commission, di cui Mario Monti fa parte, quale affidabilità potranno mai garantire ai partner con i quali firmano documenti a destra e manca? Zero.

Il precedente Premier italiano, Silvio Berlusconi, era certamente un uomo d’affari, e sicuramente metteva al primo posto “i suoi affari”, i quali però siccome coincidevano anche spesso con quelli italiani (per il semplice fatto che i suoi investimenti sono soprattutto in Italia), parzialmente sarebbero stati positivi, sia per l’Italia che per coloro i quali con lui stipulavano contratti: gli affari devono accontentare entrambe le parti.

Poi Berlusconi commise l’errore di pensare di poter fare “di testa sua”, di fare affari direttamente con le nazioni produttrici di gas e petrolio, illudendosi che, siccome era stato sin’ora un servo fedele, gli avrebbero lasciato un piccolo margine di manovra. Errore: un servo è un servo. Punto. E deve obbedire e fare solo gli interessi del padrone. E siccome Berlusconi era stato un po’ (ma molto poco) riluttante a bombardare la Libia, e un po’ riluttante a massacrare gli italiani di tasse e permettere alle multinazionali anglo-americane (tutte giudaico-sioniste, basta guardare i cognomi di chi le amministra e seguirne le vicende) di rubare le ricchezze italiane ancora rimaste sul mercato, ecco che scattò il ricatto finanziario, e Berlusconi perdette in un sol colpo, durante l’ultimo G20 cui partecipò, parecchi miliardi delle sue azioni in borsa.

Berlusconi capì che era tempo di dimettersi, prima di finire sul lastrico. Ed il comunista a stelle e strisce Giorgio Napolitano (che avvalora il detto popolare “l’erba gramigna non muore mai”) propose al suo posto Mario Monti. Ovviamente tutto lo schieramento politico italiano presente in Parlamento, eccezion fata per la Lega Nord, approvò con un’ovazione (specie le nuove sinistre bancarie americaniste e sioniste che scalpitano per tornare a ricoprire il loro ruolo ufficiale di parassiti di stato e zerbini del capitale apolide).

Si vide così, chiaramente, chi fosse nel libro paga della lobby banchiera: praticamente tutti, esclusa la già citata Lega Nord, e Domenico Scilipoti, che addirittura per marcare la sua disapprovazione si presentò in Parlamento con una fascia nera al braccio in segno di lutto.

Mario Monti, ormai lo sanno anche i sassi, è anche un supervisor della Goldman Sachs; quella stessa Goldman Sachs che aveva creato, attraverso un giro di agenzie di rating e borsistiche a lei collegate, seri problemi agli affari di Berlusconi nonchè la perdita di parecchi miliardi all’Italia (di risparmi dei cittadini italiani). E tutt’ora sta mettendo in ginocchio l’Europa attraverso la moderna catena usuraia di Wall Street e della Borsa mondiale. La stessa Goldman Sachs ricopre una parte importantissima nella gestione e amministrazione dell’americana FED: la stessa Federal Reserve che stampa la moneta americana per venderla al governo USA, contro la quale si era schierato Kennedy e perciò fu assassinato (poco dopo aver fatto stampare oltre 4 miliardi di dollari con la scritta “proprietà del popolo americano” e non della FED); la stessa FED alla quale invece Obama proclamava di voler attribuire maggiori poteri. Che bel Nobel…per l’usura…

La Goldman Sachs, ricordiamolo, è quella struttura diretta da menti israelite che ha abilmente rubato, potremmo dire “con destrezza” il 98% delle ricchezze finanziarie libiche.

I riferiementi a tale affermazione sono pubblici e noti alla stampa internazionale, che ne da’ notizia a questi links [1][2] - [3][4] - [5] – e molti altri ancora…ne stiamo facendo una raccolta in PDF.

Quindi, la Israelo-Americana Goldman Sachs, che ha derubato la Libia, l’Italia e nazioni varie, che si cela quindi dietro agli interessi delle guerre USA nel mondo, essendo che i suoi interessi sono gli stessi, avrebbe messo un suo fedele servitore, Mario Monti (mentre l’altro Mario, Draghi, sempre uomo della Goldman Sachs, è stato posto a capo della Banca Europea) a mettere ordine sulla ‘scena del crimine’ libico. Il partner libico di Mario Monti è poi quell’Abdurrahim el-Keib che ben conosciamo, formatosi negli USA e con lunga esperienza in campo petrolifero presso il Petroleum Institute degli Emirati Arabi Uniti.

Bella squadretta vero?

Il trattato, tra la colonia Italia e la nuova colonia Libia, riguarda non solo accordi economici e finanziari (quelli ormai erano stati rapinati, svenduti o imposti da tempo), ma soprattutto l’apporto italiano nel controllo e repressione della Resistenza libica Verde, quella che impedisce il controllo terroristico totale del territorio libico da parte delle forze traditrici della Jamahiriya, quelle arroccate a Bengasi, e nel disarmo delle sacche ‘ribelli’, composte da quelle fazioni di Nato-mercenari che come schegge impazzite si scontrano per la spartizione del bottino e delle aree petrolifere, come si addice a vere e proprie gangs mafiose, creando ai pupazzi del NTC problemi di gestione interna del potere.

Le Forze armate italiane infatti forniranno sostegno al nuovo governo fantoccio libico del CNT (NTC). Ciò vuol dire nuove armi, militari italiani sul terreno libico, addestramento di assassini e delinquenti comuni, che hanno già fatto tornare la Libia indietro di 60 anni almeno, qualcuno dice all’età della pietra.

L’Italia dovrà fare insomma il lavoro più sporco e più rischioso, a terra, mettendo a rischio giovani vite, come già fatto in altre aree e con altre “missioni di pace”. Certamente anche qui poi ci diranno che è per “la democrazia”.

Oltre al Primo Ministro italiano Mario Monti ed al cameriere delle banche libico Abdurrahim el-Keib, erano infatto presenti i rispettivi titolari della Difesa, e stretta collaborazione è stata garantita dai titolari dei ministeri dello Sviluppo, Corrado Passera e quello dell’Interno, Annamaria Cancellieri.

Presente era anche l’amministratore dell’Eni, Paolo Scaroni. Una presenza simbolica, in quanto, rispetto al trattato di amicizia italo-libico, siglato tra Muammar Gaddafi e Silvio Berlusconi, il governo fantoccio libico del NTC ha fatto sapere che di esso sarà preservata solo la parte relativa al risarcimento che l’Italia si è impegnata a versare per il periodo coloniale. Mentre si conferma invece l’accettazione delle scuse italiane. Certo, non poteva essere diversamente. Come dicono in Italia: cornuti e mazziati, cioè traditi e bastonati.

Le commesse più ghiotte ed i contratti più importanti sono nelle mani franco-anglo-americane, e l’Italia è stata usata solo come una serva, a cui lasciare gli avanzi ed a cui affidare compiti sporchi.

I conti tornano, la rapina viene tecnicamente perfezionata: la Libia, dopo una parentesi di indipendenza e progresso in ogni campo, prosperità nazionale ed esempio di riconquista di dignità e riscatto per tutte le nazioni africane, torna ad essere la colonia di sempre. L’Italia, la sua parentesi di libertà se l’è giocata decenni e decenni fa, ed ora non le resta che servire ed obbedire agli ordini dei padroni in kippà, mediterranei e d’oltre oceano.

La dignità del popolo italiano sembra oggi però voler cercare un riscatto nelle insorgenze in corso, che dalla Sicilia stanno in questi giorni lanciando un messaggio chiaro a tutti gli italiani: liberiamoci dai parassiti delle banche, dai loro servi inutili, dal signoraggio bancario che ci sta strangolando. Riprendiamoci l’onore e la dignità, le ricchezze del nostro paese, che da sole basterebbero a dare sicurezza e serenità a tutti gli italiani. Riprendiamoci l’Italia.

Sarà un messaggio che il resto degli italiani saprà cogliere e sviluppare? Riusciranno gli italiani a liberarsi dalla morsa imposta dalla setta usuraia? Si affrancheranno da tutta la propaganda mediatica e cultura viziata, con la quale sono bombardati sin da piccoli? La speranza è che ce la possano fare. La certezza è che questa strada, per la riconquista nazionale e l’onore perso, è lastricata di dolore e sangue.

I libici, quelli veri, che sono la maggioranza della popolazione, che non si sono scordati della Libia che è stata loro distrutta, del benessere che avevano raggiunto, del rispetto che avevano conquistato tra le altre nazioni africane, che hanno visto di che pasta sono fatti i “ribelli” del NTC (un branco di vili traditori, assassini, stupratori e ladri), questo problema almeno non ce l’hanno: loro hanno già sofferto, stanno sofrendo, a migliaia e migliaia imprigionati e torturati a morte dai “liberatori”, stanno già combattendo la loro Resistenza, e le loro strade sono già lastricate di sangue. Non c’è altra strada per liberarsi dalle catene imposte senza scrupolo dai banksters gangsters stranieri e dai loro tirapiedi locali.

Gli italiani non credano che liberarsi degli strozzini planetari, che si sono impadroniti della loro terra, che si sono arroccati come un cancro maligno nei gangli del potere e nelle istituzioni, che sono radicati come sanguisughe sulla pelle della gente che lavora onestamente, sarà cosa facile e indolore: la Resistenza (1) non è un pranzo di gala.


di Filippo Fortunato Pilato


(1) la Resistenza vera, autentica, da non confondersi col termine “resistenza” usurpato dai collaborazionisti, col quale si indica invece l’Italia incaprettata e regalata agli USA del ‘Piano Marshal’…

21 gennaio 2012

Ma che cos'è il mercato? (E il complottismo?)

Risposta di Federico Zamboni a un commento di un lettore, su un tema interessante per tutti.


Gentile Federico,

apprezzo il suo scritto. Epurando l'aspetto di costume (eventuali uomini incappucciati..) dal concetto, il nodo, per dirimere lo stesso, è nel dato oggettivo. Il dato oggettivo è nella prova. Elemento questo che sposta l'evento, dall'ipotesi alla certezza.

Nell'ampliamento sematico del termine.. gli esempi di vita quotidiana da lei riportati sono giustamente congrui... E proprio da tali esempi che è possibile spostare l'asse del discorso nei seguenti termini: "I soggetti che si coalizzano per far carriera guardandosi bene dal dirlo a colleghi o superiori" sono soggetti agenti o prodotto del sistema? In altri termini: sarebbe possibile far carriera se non ci si coalizzasse? Tralascio il giudizio di valore del far carriera che mi è estraneo... Ma se la si vuole fare (la carriera) queste sono le condizioni: coalizzarsi. E nel coalizzarsi è insito l'occulto.

Ora: l'esempio è di fatto generico ma serve ad evidenziare gli aspetti del ragionamento, che per chi scrive, risiedono nel sistema, che, sempre per chi scrive è perfetto sinonimo di mercato.

E allora: le lobby che agiscono nel mercato, sono prodotto dello stesso (traendone, si intende, il maggior profitto possibile, coalizzandosi spesso con fini speculativi) o viceversa esercitano su di esso controllo e direzione? Personalmente, protendo per la prima ipotesi.

Ma che cos'è il mercato? E' sicuramente l'iperproduzione di merci delle multinazionali. E' anche però l'azienda locale che produce beni o servizi. Sono le oligarchie economiche che raggiungono ampi guadagni in modo più o meno lecito, ma anche il semplice operatore finanziario che esercita una professione e consiglia i propri clienti nell'ottenere un guadagno. (Qui conosco la vostra obiezione che tende ad evidenziare che il LAVORO deve generare qualcosa di concreto... però i mercati finanziari, nella loro accezione originaria hanno anchessi un merito che è quello di finanziare le aziende). E ancora: il mercato è l'insieme dei consumatori che acquistano, guidati da desideri indotti, oggetti per sostituire inconsapevolmente desideri primari, ma anche i GAS. Il mercato è l'azienda agricola che produce prodotti biologici ma anche la multinazionale che produce grano. Il mercato, per finire, sono milioni di merci prodotte ed acquistate ma anche il prodotto La Voce del Ribelle che, piaccia o meno è anch'esso un prodotto editoriale e quindi di mercato. Che qualcuno acquista perchè ne ha bisogno, perchè lo trova utile. Perchè per qualcuno, è fonte di identità.

E che differenza c'è tra me che acquisto La voce del Ribelle e chi acquista un capo di abbigliamento di marca?

Una delle risposte è sicuramente nella finalità. Un'altra è nella possibile necessità di consapevolezza. Rimaniamo, però, attenzione, sempre nel concetto di mercato.

E allora: esiste un mercato buono ed uno cattivo? E in altri termini: esiste il giusto e lo sbagliato? Il bene e il male? O semplicemente uno è prodotto dell'altro?

La via d'uscita sono le regole. Mettere regole al mercato. Perchè solo con regole rigide e severe sarà possibile riportare il concetto al suo giusto valore che sta nell'essere uno tra i tanti aspetti dell'esistenza piuttosto che l'esistenza.

Andrea Samassa

R

Caro Andrea, sull’idea che alla base di quello che sta accadendo in campo economico e sociale ci sia un “sistema” sono d’accordo. Così come lo sono sul fatto che la quasi totalità di quelli che si adeguano ai suoi condizionamenti – subendoli per un verso e rafforzandoli per l’altro, come i detenuti che si prestano a fare da sorveglianti e tiranneggiano i loro stessi compagni di prigionia – non fanno altro che muoversi all’interno di regole che non hanno scelto e di meccanismi che li sovrastano e sui quali non hanno nessun potere di modifica.

Ma il punto, e in questo direi che divergiamo, è che secondo me questo sistema non è affatto casuale. E men che meno, al contrario di ciò che postulano i liberisti, è il riflesso di una tendenza “naturale”, e perciò insopprimibile, ad agire in termini utilitaristici, che inducono a imperniare la propria condotta – e persino la propria esistenza – su criteri analoghi a quelli di un’impresa. Si fa quello che è più vantaggioso per sé e non ci si preoccupa delle conseguenze che si producono sugli altri. La generica idea di vantaggio (che si presta anche a una declinazione psicologica, ma su questo tornerò più avanti) si irrigidisce in quella di profitto, ovverosia di beneficio misurabile sotto forma di denaro, spianando la strada alle sue versioni estremizzate che sono il massimo profitto, l’interesse usurario e la speculazione finanziaria.

Una volta che si sia assorbita in profondità questa concezione, fino a non rendersi più conto che non è affatto una modalità spontanea e universale degli esseri umani ma una costruzione teorica quanto mai opinabile, e parecchio sordida, il danno è pressoché irreversibile. I suoi pseudo valori diventeranno gli unici, o quelli dominanti, intorno ai quali organizzare (organizzare!) la propria vita. Al punto che non ci si chiederà più se una certa condotta vada giudicata alla luce di criteri diversi dal guadagno e, nella migliore delle ipotesi, dell’osservanza formale delle leggi.

Se questo sistema non è spontaneo, quindi, non è peregrino ipotizzare che esso sia stato sviluppato, se non proprio ideato a priori, da chi riteneva di potersene servire per raggiungere i propri scopi. Ed è già in questo tratto, o se si vuole in questo vizio d’origine, che affondano le radici dell’attuale, dilagante tendenza all’arbitrio e alla manipolazione. I cosiddetti “complotti”, in fin dei conti, non sono altro che questo: operazioni occulte di particolare gravità, che vengono mascherate da eventi accidentali, attribuiti a nient’altro che all’imponderabile azione delle forze in campo. Le quali, sempre secondo questa rappresentazione auto assolutoria, sono innumerevoli e nella loro essenza indipendenti l’una dall’altra, benché legate tra loro dall’obiettiva e inevitabile condivisione di certe regole del gioco. Detto in una parola, utilizzata di continuo per sintetizzare questa pretesa libertà assoluta che in quanto tale sarebbe refrattaria a qualunque regia complessiva, il celebratissimo “mercato”.

A ben riflettere, invece, la manipolazione per eccellenza è proprio quella che va al di là del caso specifico, per quanto rilevante, e si estende alla realtà nel suo insieme. Il singolo giocatore truffaldino è un semplice baro, e ha una pericolosità limitata. Quello che è davvero temibile è quello che mette in piedi un casinò. O una catena di casinò. Apparentemente sottostà a delle regole, che sono all’incirca le stesse dei suoi clienti-avversari. In realtà le regole sono fatte apposta per favorire lui. Vedi lo zero nel gioco della roulette. O l’elemento statistico negli altri giochi d’azzardo, nonché in quell’apoteosi dell’alea, e perciò dell’ottusità compulsiva di chi ci butta i propri soldi, che sono le slot-machine.

Se poi il nostro biscazziere è davvero furbo, e di solito lo è, allora non si accontenta di fare leva sulle attrattive del gioco in quanto tale, ma vi affianca una serie di ulteriori elementi di pressione psicologica. Che sono tutti, Las Vegas docet, nel segno dell’ebbrezza e dello stordimento. Ovverosia, per abbandonare l’esempio e tornare ai processi economici veri e propri, di quella smania di arricchirsi e di consumare che è l’architrave dell’istupidimento contemporaneo.

Come ricorda Jeremy Rifkin nel suo “La fine del lavoro”, a inizio Novecento i lavoratori statunitensi non erano affatto propensi a lavorare di più solo perché ne avrebbero ricavato un aumento della retribuzione. La loro scala valoriale era un’altra, e anteponeva il tempo libero da dedicare a ciò che preferivano, ivi inclusi gli affetti, al possesso di maggiori quantità di denaro. Ergo, vennero avviate delle massicce campagne pubblicitarie per enfatizzare non solo l’attrattiva di questa o quella merce, ma per instillare la convinzione che un più alto livello di consumo qualificasse in senso positivo l’acquirente e comportasse un riconoscimento sociale. E che, pertanto, fosse più che mai desiderabile.

Come la vogliamo definire, un’operazione di questa natura e di questo calibro? E perché mai non la dovremmo assimilare a un “complotto”, nel senso di una strategia, deliberata, e deteriore, e occulta, che mira a corrompere la popolazione e ad asservirla alle mire di un’oligarchia di sfruttatori?

Un’ultima considerazione, infine, riguardo all’idea che in fondo rientri tutto nel mercato, inteso come l’ambito in cui si iscrive qualsiasi attività umana imperniata sulla cessione di qualcosa che può essere oggetto di compravendita. Cito dal post: «Il mercato è l'insieme dei consumatori che acquistano, guidati da desideri indotti, oggetti per sostituire inconsapevolmente desideri primari, ma anche i GAS. Il mercato è l'azienda agricola che produce prodotti biologici ma anche la multinazionale che produce grano. Il mercato, per finire, sono milioni di merci prodotte ed acquistate ma anche il prodotto La Voce del Ribelle che, piaccia o meno è anch'esso un prodotto editoriale e quindi di mercato. Che qualcuno acquista perchè ne ha bisogno, perchè lo trova utile. Perchè per qualcuno, è fonte di identità.E che differenza c'è tra me che acquisto La voce del Ribelle e chi acquista un capo di abbigliamento di marca?».

Non ci siamo. La Voce del Ribelle non è affatto un prodotto, nel senso che non nasce per conseguire un profitto. Come ha spiegato tante e tante volte Valerio Lo Monaco, quello che noi definiamo “abbonamento”, come si usa dire in ambito editoriale, è in realtà un contributo alla nostra iniziativa, che non si prefigge alcuno scopo di lucro. Noi siamo costretti, nostro malgrado, a fissare un “prezzo” per poter disporre delle risorse necessarie a proseguire l’attività e magari a migliorarla, ma il nostro obiettivo non è certo incassare il più possibile. Saremmo degli idioti assoluti, se fosse così. Perché ci saremmo scelti un mercato che praticamente non esiste, e che d’altronde noi non facciamo nulla per creare, o ampliare, accattivandoci i potenziali lettori a colpi di proclami massimalisti e di requisitorie che fanno leva sull’emotività.

E allora, per rispondere alle domande finali, la risposta è sì. Secondo me esistono eccome «un mercato buono e uno cattivo». Quello che specula sull’avidità materiale, e sull’insicurezza psicologica, è il mercato cattivo. L’altro, che si concentra sul valore intrinseco di ciò che crea (“crea”, non “produce”), è quello buono. E lo è, innanzitutto, perché non nasce come mercato, e dunque per vendere qualcosa a qualcuno e ritrarne un profitto, ma come occasione di scambio reciproco. Il tempo di uno ha generato un bene. Il tempo di un altro ne ha generato uno diverso. Il denaro, finché non si tramuta nel mostro incontrollabile e autoreferenziale che sappiamo, sostituisce il baratto. Ma non ne dimentica la funzione. Non ne tradisce lo spirito. E non esclude il piacere, la gioia, la libertà assoluta e rinfrancante del dono.

di Federico Zamboni

20 gennaio 2012

L'inganno delle liberalizzazioni: siamo cittadini o consumatori?

Rivolta tassisti
La strategia del governo sembra essere quella del "divide et impera": attaccare la cittadinanza sotto la forma di categorie di consumo

“Divide et impera” dicevano gli antichi romani, che usavano la locuzione per intendere il loro modo di governare il territorio italiano e di evitare rivolte da parte delle popolazioni italiche sottomesse. Due millenni e mezzo dopo la strategia sembra essere ancora valida, ed è utilizzata comunemente dal potere. Ne è un esempio il decreto liberalizzazioni che verrà varato oggi.

Dopo la cosiddetta manovra 'salva-Italia', che colpiva tutti più o meno indiscriminatamente – senza ombra della tanto sbandierata equità – dalle parti di palazzo Chigi devono aver pensato che era cosa assai rischiosa inimicarsi l'intera popolazione, coesa, tutta assieme.

Ed ecco che nel nuovo decreto liberalizzazioni si adotta la strategia del motto latino. Non si attacca più un'indistinta cittadinanza, ma tanti suoi piccoli sottogruppi diversi: le categorie. Ciascuna di loro, vedendo i propri interessi attaccati, sarà così portata a reagire separatamente.

Prendiamo l'esempio dei tassisti. Il decreto prevede la liberalizzazione delle licenze, e l'annullamento della territorialità. Chi è in possesso di una licenza adesso – l'avrà pagata attorno ai 150mila euro, prezzo medio in Italia – con ogni probabilità si sarà immaginato, al momento dell'acquisto, di rivenderla a fine carriera, facendosi così una sorta di pensione, o buonuscita che dir si voglia. E la territorialità, ovvero del fatto che ogni licenza fosse limitata ad un determinato territorio in cui esercitare, serviva a proteggere il lavoro dei tassisti “autoctoni”, nei periodi di maggior richiesta.

Dunque immaginiamoci un tassista giunto più o meno ad età pensionabile, senza grandi risparmi da parte. Egli immaginava di trascorrere in pace la vecchiaia grazie ai soldi della licenza, che a suo tempo pagò una cifra ragguardevole, ed invece si ritrova con niente in mano e costretto a lavorare in condizioni peggiori di quelle a cui è sempre stato abituato, gettato nella mischia della competizione nazionale. Non ha diritto di protestare?

E il discorso fatto per i tassisti vale anche per i benzinai, che annunciano scioperi prolungati – fino a dieci giorni – per protesta contro la scelta di intervenire sull'esclusiva di fornitura nella rete carburanti, che rischia di schiacciare gli esercenti fra i pesi dei colossi petroliferi e le richieste dei mercati.

Ma per gli altri cittadini – per i cittadini non tassisti e non benzinai – queste proteste non sono che potenziali disagi. Il fatto è che le categorie sono facili da attaccare. Basta chiamarle caste, convincere i cittadini che quelli di cui godono sono dei privilegi che ricadono sulle loro spalle, che i servizi che offrono potrebbero essere molto più economici ed il gioco è fatto. Con l'aiuto dei media mainstream, si può così far sorgere nella cittadinanza una certa insofferenza nei confronti delle categorie, i cui membri ci appariranno come estremamente egoisti: arroccati a difesa dei propri interessi senza pensare al bene del paese.

Ma osservando la situazione più da vicino ci si accorge che non è così. Pur procedendo separatamente, per compartimenti stagni, la manovra del governo sta compiendo un furto complessivo dei diritti dei lavoratori (e dei cittadini), in nome di più generici diritti dei consumatori. Si sta in pratica compiendo un passo enorme da uno “stato di diritto”, dove ad essere tutelati sono i cittadini in quanto tali, ad uno “stato di mercato”, dove i cittadini sono tutelati solo nella loro dimensione di consumatori.

Il problema è che, se da un lato ci attaccano separatamente, perché ciascuno di noi apparterrà ad una soltanto delle categorie che via via passeranno sotto la macina delle liberalizzazioni, dall'altro si promettono benefici comuni, in quanto tutti rientriamo nella odiosa categoria dei consumatori. Dunque, a meno che non sia la nostra categoria ad essere attaccata in quel preciso momento, con ogni probabilità ci schiereremo dall'altra parte, dal lato dei consumatori, pronti ad attaccare i privilegi delle caste.

Ma siamo davvero consumatori prima che cittadini? E siamo sicuri che il libero mercato sia lo strumento adatto per regolare al meglio le nostre necessità? Torniamo per un attimo ai tassisti. Cosa comporteranno le liberalizzazioni? Probabilmente molti più taxi in giro, a prezzi sicuramente più economici. E chi li utilizzerà? In parte chi fino ad ora si spostava con il proprio mezzo; in buona parte – una parte probabilmente maggiore – chi utilizzava per convenienza, o per mancanza di mezzi propri, i mezzi pubblici.

Ma ha senso, proprio adesso, in piena crisi ambientale, con l'aria delle città sempre più irrespirabile, le riserve di petrolio mondiali giunte agli sgoccioli – e posizionate in luoghi sempre più difficili da raggiungere – incentivare il trasporto privato? Non preferiremmo piuttosto – come cittadini non come consumatori – avere un servizio di trasporto pubblico efficiente, di cui usufruire tutti a costi accessibili, e limitare i taxi ed i mezzi privati alle emergenze ed alle eventualità?

Ma i mercati non ascoltano i cittadini ma solo i consumatori. Non sanno cosa “è meglio”, solo cosa è “più conveniente”. Sono un meccanismo ottuso, che risponde soltanto a stimoli economici. È contro questo sistema che dobbiamo ribellarci, tutti assieme, mettendo da parte le categorie. Essere cittadini, una volta tanto.

di Andrea Degl'Innocenti