26 gennaio 2007

La mafia dei baroni



Mafia. Il guaio è che non sono solo i magistrati a usare questo termine. Adesso anche i docenti più disillusi citano il modello di Cosa nostra come unico riferimento per descrivere la gestione dei concorsi nelle università italiane. Proprio nei luoghi dove si dovrebbe costruire il futuro, prospera una figura medievale capace di resistere a ogni riforma: il barone. Un tempo i suoi feudi erano piccoli, poteva controllare direttamente vassalli e valvassori, mentre doveva piegarsi davanti a un solo re, lo Stato. Ora invece il numero dei docenti e degli atenei è esploso. C'è da corteggiare aziende e fondazioni, mentre spesso bisogna anche fare i conti con le Regioni. Così l'ultima generazione di baroni per mantenere intatto il potere ha rinunciato a ogni parvenza di nobiltà accademica e si è organizzata secondo gli schemi dell'onorata società. Questo raccontano gli investigatori di tre procure che hanno radiografato l'assegnazione di decine e decine di poltrone negli atenei di tutta Italia, dalle Alpi alla Sicilia. Un terremoto con epicentro a Bari, Firenze e Bologna che vede indagati un centinaio di professori. E che ha messo alla luce gli stessi giochi di potere in tutti gli atenei scandagliati. Scrive il giudice Giuseppe De Benectis: "I concorsi universitari erano dunque celebrati, discussi e decisi molto prima di quanto la loro effettuazione facesse pensare, a cura di commissari che sembravano simili a pochi 'associati' a una 'cosca' di sapore mafioso". Rincarano la dose i professori Mariano Giaquinta e Angelo Guerraggio: "'Sistema mafioso' vuole dire 'cupole di gestione' delle carriere e degli affari universitari, spesso camuffate come gruppi democratici di rappresentanza o gruppi di ricerca".

Se i giovani più promettenti emigrano non è solo questione di risorse; se la ricerca langue e i policlinici sono sotto accusa, la colpa è anche del 'sistema'. Che fa persino rimpiangere il passato: "Una volta si parlava di 'baroni'. Adesso i numeri (anche dei docenti) sono cresciuti. Al posto del singolo barone ci sono i clan e i loro leader, che non necessariamente sono i migliori dal punto di vista della ricerca...", scrivono sempre Giaquinta e Guerraggio, docenti di matematica che hanno appena pubblicato un saggio coraggioso intitolato 'Ipotesi per l'università'. E continuano: "La situazione non sembra migliorata: baroni per baroni, sistema mafioso per sistema mafioso, forse i vecchi 'mandarini' sapevano maggiormente conciliare il loro interesse con quello generale. La difesa delle posizioni conquistate dal 'gruppo' riusciva, in parte, a diventare anche fattore di progresso. Sicuramente più di quanto accada adesso".



Cattedre immortali
Come nelle cronache del basso impero, i nuovi baroni non si limitano a spadroneggiare nei loro castelli, ma creano alleanze con altri signorotti, in modo da proteggersi l'un l'altro e dilagare nell'immunità. Eppure ci sono state prese di posizione dirompenti, come quella di Gino Giugni, che nell'estate del 2005 denunciò in una lettera aperta ai professori di diritto del lavoro "la gestione combinata nella selezione dei giovani studiosi". Il padre dello Statuto dei lavoratori chiedeva che "tutti i colleghi di buona volontà" unissero il loro impegno "per riportare serenità, trasparenza, e ancor più equità nelle scelte accademiche". Raccolse un plauso tanto ampio quanto generico. Insomma, nessuno ebbe il coraggio di fare un nome o denunciare un concorso specifico. Oggi Giugni spiega a 'L'espresso' di non essere pentito di quella sortita. Da vecchio socialista si sforza di mantenere un ottimismo di principio, ma ammette: "Da quello che mi raccontano, temo che non sia cambiato proprio nulla". La razza barona infatti gode di un privilegio tra i privilegi: quello dell'immortalità accademica. Gli effetti concreti dell'intervento della magistratura sono limitati. Se non totalmente inutili: le sentenze non riescono a scalfire le poltrone. Ai tempi biblici della giustizia penale si sommano le controversie civili e amministrative, con ragnatele di ricorsi incrociati. Alla fine, persino il baronetto riesce quasi sempre a conservare il feudo ereditato dal padre in violazione d'ogni legge. Il caso più assurdo è quello del concorso di otorinolaringoiatria bandito nel 1988: ci sono state dieci sentenze, confermate pure dalla Suprema corte, centinaia di articoli di giornali, almeno quattro libri e una decina di interrogazioni parlamentari. Il professor Motta senior è stato condannato, eppure il professor Motta junior continua a detenere legalmente quel posto da 18 anni. Se l'immortalità è garantita anche nell'immoralità in caso di giudizi definitivi, facile immaginare il colpo di spugna che calerà con l'indulto sugli ultimi scandali universitari. Tutte le accuse di abuso in atti d'ufficio, il reato classico delle selezioni addomesticate, verranno spazzate via: resteranno solo le più gravi, quelle per le quali viene contestata anche l'associazione per delinquere, la corruzione o la concussione.

Fonte: l'espresso

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26 gennaio 2007

La mafia dei baroni



Mafia. Il guaio è che non sono solo i magistrati a usare questo termine. Adesso anche i docenti più disillusi citano il modello di Cosa nostra come unico riferimento per descrivere la gestione dei concorsi nelle università italiane. Proprio nei luoghi dove si dovrebbe costruire il futuro, prospera una figura medievale capace di resistere a ogni riforma: il barone. Un tempo i suoi feudi erano piccoli, poteva controllare direttamente vassalli e valvassori, mentre doveva piegarsi davanti a un solo re, lo Stato. Ora invece il numero dei docenti e degli atenei è esploso. C'è da corteggiare aziende e fondazioni, mentre spesso bisogna anche fare i conti con le Regioni. Così l'ultima generazione di baroni per mantenere intatto il potere ha rinunciato a ogni parvenza di nobiltà accademica e si è organizzata secondo gli schemi dell'onorata società. Questo raccontano gli investigatori di tre procure che hanno radiografato l'assegnazione di decine e decine di poltrone negli atenei di tutta Italia, dalle Alpi alla Sicilia. Un terremoto con epicentro a Bari, Firenze e Bologna che vede indagati un centinaio di professori. E che ha messo alla luce gli stessi giochi di potere in tutti gli atenei scandagliati. Scrive il giudice Giuseppe De Benectis: "I concorsi universitari erano dunque celebrati, discussi e decisi molto prima di quanto la loro effettuazione facesse pensare, a cura di commissari che sembravano simili a pochi 'associati' a una 'cosca' di sapore mafioso". Rincarano la dose i professori Mariano Giaquinta e Angelo Guerraggio: "'Sistema mafioso' vuole dire 'cupole di gestione' delle carriere e degli affari universitari, spesso camuffate come gruppi democratici di rappresentanza o gruppi di ricerca".

Se i giovani più promettenti emigrano non è solo questione di risorse; se la ricerca langue e i policlinici sono sotto accusa, la colpa è anche del 'sistema'. Che fa persino rimpiangere il passato: "Una volta si parlava di 'baroni'. Adesso i numeri (anche dei docenti) sono cresciuti. Al posto del singolo barone ci sono i clan e i loro leader, che non necessariamente sono i migliori dal punto di vista della ricerca...", scrivono sempre Giaquinta e Guerraggio, docenti di matematica che hanno appena pubblicato un saggio coraggioso intitolato 'Ipotesi per l'università'. E continuano: "La situazione non sembra migliorata: baroni per baroni, sistema mafioso per sistema mafioso, forse i vecchi 'mandarini' sapevano maggiormente conciliare il loro interesse con quello generale. La difesa delle posizioni conquistate dal 'gruppo' riusciva, in parte, a diventare anche fattore di progresso. Sicuramente più di quanto accada adesso".



Cattedre immortali
Come nelle cronache del basso impero, i nuovi baroni non si limitano a spadroneggiare nei loro castelli, ma creano alleanze con altri signorotti, in modo da proteggersi l'un l'altro e dilagare nell'immunità. Eppure ci sono state prese di posizione dirompenti, come quella di Gino Giugni, che nell'estate del 2005 denunciò in una lettera aperta ai professori di diritto del lavoro "la gestione combinata nella selezione dei giovani studiosi". Il padre dello Statuto dei lavoratori chiedeva che "tutti i colleghi di buona volontà" unissero il loro impegno "per riportare serenità, trasparenza, e ancor più equità nelle scelte accademiche". Raccolse un plauso tanto ampio quanto generico. Insomma, nessuno ebbe il coraggio di fare un nome o denunciare un concorso specifico. Oggi Giugni spiega a 'L'espresso' di non essere pentito di quella sortita. Da vecchio socialista si sforza di mantenere un ottimismo di principio, ma ammette: "Da quello che mi raccontano, temo che non sia cambiato proprio nulla". La razza barona infatti gode di un privilegio tra i privilegi: quello dell'immortalità accademica. Gli effetti concreti dell'intervento della magistratura sono limitati. Se non totalmente inutili: le sentenze non riescono a scalfire le poltrone. Ai tempi biblici della giustizia penale si sommano le controversie civili e amministrative, con ragnatele di ricorsi incrociati. Alla fine, persino il baronetto riesce quasi sempre a conservare il feudo ereditato dal padre in violazione d'ogni legge. Il caso più assurdo è quello del concorso di otorinolaringoiatria bandito nel 1988: ci sono state dieci sentenze, confermate pure dalla Suprema corte, centinaia di articoli di giornali, almeno quattro libri e una decina di interrogazioni parlamentari. Il professor Motta senior è stato condannato, eppure il professor Motta junior continua a detenere legalmente quel posto da 18 anni. Se l'immortalità è garantita anche nell'immoralità in caso di giudizi definitivi, facile immaginare il colpo di spugna che calerà con l'indulto sugli ultimi scandali universitari. Tutte le accuse di abuso in atti d'ufficio, il reato classico delle selezioni addomesticate, verranno spazzate via: resteranno solo le più gravi, quelle per le quali viene contestata anche l'associazione per delinquere, la corruzione o la concussione.

Fonte: l'espresso

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