15 dicembre 2009

Che fine ha fatto il futuro?


marc augè_ fondo magazineAlcuni anni fa era una sorta di moda. Erano comparsi articoli sui giornali e libri che davano indicazioni su come comportarsi e su cosa fare per aderire alla nascente corrente di pensiero. Un vero e proprio movimento che sosteneva la necessità, durante il corso della propria vita di buttare via tutto. In primo luogo il guardaroba. Non con le forme soft a noi note, dettate dalla moda che segue un’oscillazione semestrale che ci impone di modificare solo in parte il nostro vestiario ma con interventi ben più radicali che prevedevano non solo la messa a discarica completa del proprio guardaroba, ma anche lo svuotamento della casa da tutte quelle suppellettili e oggetti che nel corso degli anni tendono a colonizzare tutti gli spazi disponibili sopra i mobili, sulle pareti, sui tavolini, sugli scaffali, perfino in terra.

Questa scuola di pensiero si spingeva a dire che oltre al guardaroba e alla casa bisognava cambiare giro di amicizie, il lavoro, se possibile, fino a ipotizzare un reset pressoché completo del proprio personal computer per espungere tutti quei documenti che, anche qui, in forma virtuale, si condensano come un sottile strato di polvere che tende a riempire tutto, sommergendo ogni cosa senza possibilità di ritrovare quello che è stato sepolto.

Insomma, condensando, una specie di filosofia minimalista che si opponeva a quella cascata di cose che si affollano nella nostra memoria. Una filosofia della scopa che tende a spazzare via la presunta polvere accumulata negli anni. Una filosofia dell’acciaio cromato pronta a ripulire da tutte le incrostazioni il nostro ambiente, il nostro corpo, la nostra mente. Un tentativo lodevole, credevo, di tirare di nuovo a lucido la nostra vita che lentamente si arena con gli anni. Una sorta d’invito alla ripartenza di sacchiana memoria. Abbandonare tutte le meline. Recuperare l’iniziativa e la palla. Buttarsi verso la porta avversaria con rinnovato entusiasmo.

Così, inizialmente, quest’idea mi aveva solleticato. Tra l’altro nel frattempo era uscito Nudi e crudi di Alan Bennett che narra una stravagante storia anche divertente che inizia con i due protagonisti che devono, nello straniamento più totale, reinventarsi un’intera vita e uno stile dopo che sono stati svaligiati in uno strano modo. Tutta la loro casa viene svuotata. Nessun mobile, nessun vestito, nessun quadro, nessuna fotografia viene lasciata. Un azzeramento completo, uno svuotamento che dovrebbe rappresentare, almeno per i fedeli di questa nuova filosofia, un inizio colmo di aspettative e futuro.

Poi, come sempre mi succede, ho cominciato a ruotare intorno a questa idea, con la solita lenta, incessante traiettoria obliqua che disegna centri concentrici. Come uno squalo che ha puntato la preda e si attarda circospetto prima di azzannarla, questa storia del disfarsi di tutto, del resettare, mi è cominciata ad apparire sotto la sua vera luce. Una luce da incubo. Come quelle luci al neon degli obitori, bianche, irreali, fredde. Quelle luci che fanno chiarore ma che ti mettono un brivido nella schiena. Quelle luci cariche di buio insomma, foriere di angoscia.

In fin dei conti, mi sono detto, io non sarei mai capace di disfarmi di tutta quella robaccia inutile che conservo e che non ha nessuna utilità se non ricordarmi un volto, un giorno, una voce.

Mi disturbava soprattutto, in questa nuova filosofia di vita, il reset del personal computer che mi è apparso sotto il suo vero e perverso cono di luce.

Il reset del PC equivale a quella pratica immonda che veniva dispensata a quelli che si chiamavano i matti per indurli ad azzerare il loro io e per riportare la loro mente torturata ad uno stato di tabula rasa su cui poi riedificare una personalità nuova e non più identica all’intricato coacervo di meandri che rappresentava però la loro specificità e ragione: l’elettrochoc. Il reset del PC mi è apparso appunto come l’infamia inferta dall’elettrochoc su quelle menti con le quali non posso che non solidarizzare.

Insomma la nuova filosofia in nome di una novella promessa di vita ci vuole scippare il passato senza prospettarci un futuro.

Tutto questo mi è affiorato alla mente dopo aver letto Che fine ha fatto il futuro? di Marc Augé edito da Eleuthera che tratta appunto del tempo e di come al tempo della surmodernità il futuro appaia appunto scomparso, scippato da un’accelerazione imposta che lo ha risucchiato sottraendocelo.

In realtà il titolo originale Où est passé l’avenir? molto più di quello dell’edizione italiana pone l’accento sul vero problema del nostro tempo surmodernizzato. Sia il passato che il futuro vengono ingoiati dal nostro tempo che ci regala quella che può ben essere definita come una vera e propria dittatura del presente.

Intendiamoci subito. Che il presente sia l’unica epoca che c’è dato vivere è fuori dubbio, ma che possa, nelle attuali condizioni, essere configurata come una dittatura è altrettanto inequivocabile.

Il presente si può ovviamente eternare, fissando l’attimo e dilatandolo all’infinito per riempire tutto e per fermare il tempo. Splendida rappresentazione di questa benedizione del presente, tra le molte citabili, resta Giosuè che chiede al suo Dio di fermare il corso del sole. “E il sole si fermò”. Rallentandone il ritmo, il tempo rallenta e si dilata permettendoci una piena vita qui e ora. Ma il punto di partenza del testo di Augè è diametralmente opposto a questo rallentamento. La surmodernità impone un’accelerazione sempre maggiore al tempo presente e costringe noi a seguirla se non vogliamo essere espulsi da questo vortice.

L’accelerazione comporta, oltre una certa soglia, che il presente s’imballi, come quando le gambe di un podista, arrivate al loro punto massimo di spinta, non riescono più a mordere il terreno, sprofondando in una sorta di sabbie mobili. È in questa situazione che l’attimo presente, invece di dilatarsi fino a fermare il tempo, diventa solo e semplicemente una scheggia impazzita, inserita in un divenire vorticoso composto di singoli momenti pulsanti sempre meno collegati tra di loro. È come se il film della nostra storia fosse proiettato da una cinepresa che non è in grado di riprodurre tutti i fotogrammi che si susseguono nella pellicola che scorre troppo velocemente per le sue possibilità tecniche. Il proiettore “imballato” ci farà assistere a una proiezione di singoli fotogrammi che vanno sovrapponendosi uno all’altro, ma che sono tra loro scollegati, impedendoci di percepirne il senso. È così che, nell’accelerazione della surmodernità, il nostro racconto si frammenta, si scollega dal passato, non ha più proiezioni sul futuro. L’accelerazione, dopo aver inghiottito il passato e rarefatto il futuro, sminuzza, in singoli atti insignificanti (nel senso di privi di senso), il nostro presente. In questo modo si assiste alla frantumazione del racconto e della storia (individuale e collettiva) in tante schegge, che ci scippano non solo del passato e del futuro ma che trasformano il nostro presente in una corsa, sempre più impazzita, verso un dove che non esiste più. Viviamo come in una comica dei tempi del cinema muto in cui l’esasperato movimento dei protagonisti induceva alle risa. Ognuno di noi assume la tragica maschera priva di sorriso di Buster Keaton.

Marc Augé, dopo aver analizzato in maniera cristallina, la perdita di senso che la surmodernità ha nei confronti dei luoghi, trasformati in non luoghi proprio dalla perdita del loro senso, si fa carico di descrivere anche l’altro parametro fondamentale delle nostre vite: il tempo, fissandone, anche qui, in maniera non equivoca la sua perdita di senso.

Ciò che appare chiaro è che la nascita del non luogo e del non tempo è necessaria alla struttura della surmodernità, che non saprebbe che farsene d’individui ancorati al luogo e al tempo. La surmodernità ha ricreato un tessuto spaziotemporale privo di senso proprio perché ha necessità di avere a disposizione individui privi di senso, o meglio con un unico senso totalitario: quell’uomo a una dimensione che è un dimensione a due teste il produttore/consumatore anonimo che, deprivato del senso dello spazio e del tempo, può essere impiegato (schiavizzato) in qualunque luogo ed in qualunque contesto temporale senza che ne risenta affatto. Si procede dunque verso la più totale e straniante delle trasformazioni, dall’individuo al non-individuo, un accessorio della produzione nonché un tubo digerente inserito nel nuovo panorama del non-spazio e del non-tempo.

Il capitolo finale è riservato da Augé a una speranza positiva e progressiva che corrisponde probabilmente all’ottimismo illuminista che ancora un po’ permea il suo pensiero e che io invece non condivido. Il compito di ristabilire il senso della storia e della nostra storia spetterebbe, per Augè, alla scuola che, come ultimo baluardo dell’insegnamento, dovrebbe preservare, trasferendola, la conoscenza che per sua definizione si opporrebbe all’accelerazione distruttrice di ogni sapere della surmodernità.

È questa flebile speranza di Augé che mi trova in assoluto dissenso.

In un mondo sempre più accelerato, in cui il mito della flessibilità ha travolto ogni cosa, il valore percepito della scuola è cambiato profondamente e il suo annullamento è testimoniato dall’autorità nulla che hanno i professori che almeno formalmente ne sono i sacerdoti.

Il sapere in un mondo ultraflessibile è un impedimento, una tara, un peso che non può essere sopportato da un individuo cui è richiesta l’acquisizione di sempre nuove competenze. L’aggiornamento professionale spinto all’eccesso genera una pletora di analfabeti di ritorno. Individui che non hanno nessun interesse a ricordare le loro sapienze del giorno prima che sono viste come un inutile orpello e un impedimento all’apprendere quello che è necessario oggi. La scuola che, per far sedimentare una qualsivoglia nozione nelle menti degli studenti, deve basare il suo metodo sul ricordo, si scontra apertamente (perdendo la partita) con il nuovo mondo surmoderno che costringe all’apprendimento di nuove competenze con una velocità che non permette la sedimentazione della conoscenza. La surmodernità non cerca il ricordo, ingombrante e impegnativo, ma l’oblio che ci rende vergini per nuove conoscenze ma mutilati e privi di personalità e spessore.

Il metodo è quello del continuo reset delle nostre menti che permette, da un lato, di liberarci dalle conoscenze passate non più utili e, dall’altro, di fare spazio in una mente per forza di cose limitata.

In fin dei conti se si chiede agli abitatori della surmodernità di cambiare lavoro, competenze, casa e abitudini ogni tre mesi non è pensabile adottare un modello di vita che privilegi il lavoro stabile, le relazioni sociali durature, le conoscenze acquisite e sedimentate nella testa. Quello che serve non è una biblioteca nella propria casa, fatta di libri ingombranti, pesanti, difficili da trasferire spazialmente. Quello che serve è un instant book non più cartaceo ma digitale, che può essere letto, utilizzato, dimenticato senza che questo lasci tracce durature in noi. Questo modello ha bisogno di TV e non di libri, di talk show e non di giornali con pagine di approfondimento.

Un tempo si diceva che passato il periodo dei sogni (l’adolescenza) si entrava nel periodo dei segni (l’età adulta) e che ci si doveva alla fine confrontare con le proprie rughe e con le proprie cicatrici interiori. La surmodernità con una promessa fallace: l’eterna giovinezza (considerata come l’indefinita estensione dell’adolescenza), raggiunta con il moto perpetuo patologico della vita precarizzata, con le lusinghe della chirurgia estetica, con le promesse della chimica, ci crocifigge alla ruota incessante del Karma che vorticosamente gira accelerando, trasformandoci in una battigia spazzata dalle onde dove ogni orma impressa nella sabbia dura solo per l’intervallo tra un’onda e un’altra senza lasciar traccia di nessun passaggio.

Così ci vogliono (e a questo bisogna ribellarsi).

di Mario Grossi

2 commenti:

Reginaldo ha detto...

Orgoglioso d'indossare (anche oggi) una magnifica giacca acquistata trent'anni fa: ancora perfetta.

E di leggere ogni sera qualche pagina di un libro scritto più di 700 anni fa, da "il più Saggio dei santi e il più Santo dei saggi".

Ed soprattutto felice d'affidarmi completamente a Qualcuno che, 2000 anni fa, si è rivelato come Via Verità e Vita.

Leon ha detto...

Reginaldo,
dov'è il futuro?

15 dicembre 2009

Che fine ha fatto il futuro?


marc augè_ fondo magazineAlcuni anni fa era una sorta di moda. Erano comparsi articoli sui giornali e libri che davano indicazioni su come comportarsi e su cosa fare per aderire alla nascente corrente di pensiero. Un vero e proprio movimento che sosteneva la necessità, durante il corso della propria vita di buttare via tutto. In primo luogo il guardaroba. Non con le forme soft a noi note, dettate dalla moda che segue un’oscillazione semestrale che ci impone di modificare solo in parte il nostro vestiario ma con interventi ben più radicali che prevedevano non solo la messa a discarica completa del proprio guardaroba, ma anche lo svuotamento della casa da tutte quelle suppellettili e oggetti che nel corso degli anni tendono a colonizzare tutti gli spazi disponibili sopra i mobili, sulle pareti, sui tavolini, sugli scaffali, perfino in terra.

Questa scuola di pensiero si spingeva a dire che oltre al guardaroba e alla casa bisognava cambiare giro di amicizie, il lavoro, se possibile, fino a ipotizzare un reset pressoché completo del proprio personal computer per espungere tutti quei documenti che, anche qui, in forma virtuale, si condensano come un sottile strato di polvere che tende a riempire tutto, sommergendo ogni cosa senza possibilità di ritrovare quello che è stato sepolto.

Insomma, condensando, una specie di filosofia minimalista che si opponeva a quella cascata di cose che si affollano nella nostra memoria. Una filosofia della scopa che tende a spazzare via la presunta polvere accumulata negli anni. Una filosofia dell’acciaio cromato pronta a ripulire da tutte le incrostazioni il nostro ambiente, il nostro corpo, la nostra mente. Un tentativo lodevole, credevo, di tirare di nuovo a lucido la nostra vita che lentamente si arena con gli anni. Una sorta d’invito alla ripartenza di sacchiana memoria. Abbandonare tutte le meline. Recuperare l’iniziativa e la palla. Buttarsi verso la porta avversaria con rinnovato entusiasmo.

Così, inizialmente, quest’idea mi aveva solleticato. Tra l’altro nel frattempo era uscito Nudi e crudi di Alan Bennett che narra una stravagante storia anche divertente che inizia con i due protagonisti che devono, nello straniamento più totale, reinventarsi un’intera vita e uno stile dopo che sono stati svaligiati in uno strano modo. Tutta la loro casa viene svuotata. Nessun mobile, nessun vestito, nessun quadro, nessuna fotografia viene lasciata. Un azzeramento completo, uno svuotamento che dovrebbe rappresentare, almeno per i fedeli di questa nuova filosofia, un inizio colmo di aspettative e futuro.

Poi, come sempre mi succede, ho cominciato a ruotare intorno a questa idea, con la solita lenta, incessante traiettoria obliqua che disegna centri concentrici. Come uno squalo che ha puntato la preda e si attarda circospetto prima di azzannarla, questa storia del disfarsi di tutto, del resettare, mi è cominciata ad apparire sotto la sua vera luce. Una luce da incubo. Come quelle luci al neon degli obitori, bianche, irreali, fredde. Quelle luci che fanno chiarore ma che ti mettono un brivido nella schiena. Quelle luci cariche di buio insomma, foriere di angoscia.

In fin dei conti, mi sono detto, io non sarei mai capace di disfarmi di tutta quella robaccia inutile che conservo e che non ha nessuna utilità se non ricordarmi un volto, un giorno, una voce.

Mi disturbava soprattutto, in questa nuova filosofia di vita, il reset del personal computer che mi è apparso sotto il suo vero e perverso cono di luce.

Il reset del PC equivale a quella pratica immonda che veniva dispensata a quelli che si chiamavano i matti per indurli ad azzerare il loro io e per riportare la loro mente torturata ad uno stato di tabula rasa su cui poi riedificare una personalità nuova e non più identica all’intricato coacervo di meandri che rappresentava però la loro specificità e ragione: l’elettrochoc. Il reset del PC mi è apparso appunto come l’infamia inferta dall’elettrochoc su quelle menti con le quali non posso che non solidarizzare.

Insomma la nuova filosofia in nome di una novella promessa di vita ci vuole scippare il passato senza prospettarci un futuro.

Tutto questo mi è affiorato alla mente dopo aver letto Che fine ha fatto il futuro? di Marc Augé edito da Eleuthera che tratta appunto del tempo e di come al tempo della surmodernità il futuro appaia appunto scomparso, scippato da un’accelerazione imposta che lo ha risucchiato sottraendocelo.

In realtà il titolo originale Où est passé l’avenir? molto più di quello dell’edizione italiana pone l’accento sul vero problema del nostro tempo surmodernizzato. Sia il passato che il futuro vengono ingoiati dal nostro tempo che ci regala quella che può ben essere definita come una vera e propria dittatura del presente.

Intendiamoci subito. Che il presente sia l’unica epoca che c’è dato vivere è fuori dubbio, ma che possa, nelle attuali condizioni, essere configurata come una dittatura è altrettanto inequivocabile.

Il presente si può ovviamente eternare, fissando l’attimo e dilatandolo all’infinito per riempire tutto e per fermare il tempo. Splendida rappresentazione di questa benedizione del presente, tra le molte citabili, resta Giosuè che chiede al suo Dio di fermare il corso del sole. “E il sole si fermò”. Rallentandone il ritmo, il tempo rallenta e si dilata permettendoci una piena vita qui e ora. Ma il punto di partenza del testo di Augè è diametralmente opposto a questo rallentamento. La surmodernità impone un’accelerazione sempre maggiore al tempo presente e costringe noi a seguirla se non vogliamo essere espulsi da questo vortice.

L’accelerazione comporta, oltre una certa soglia, che il presente s’imballi, come quando le gambe di un podista, arrivate al loro punto massimo di spinta, non riescono più a mordere il terreno, sprofondando in una sorta di sabbie mobili. È in questa situazione che l’attimo presente, invece di dilatarsi fino a fermare il tempo, diventa solo e semplicemente una scheggia impazzita, inserita in un divenire vorticoso composto di singoli momenti pulsanti sempre meno collegati tra di loro. È come se il film della nostra storia fosse proiettato da una cinepresa che non è in grado di riprodurre tutti i fotogrammi che si susseguono nella pellicola che scorre troppo velocemente per le sue possibilità tecniche. Il proiettore “imballato” ci farà assistere a una proiezione di singoli fotogrammi che vanno sovrapponendosi uno all’altro, ma che sono tra loro scollegati, impedendoci di percepirne il senso. È così che, nell’accelerazione della surmodernità, il nostro racconto si frammenta, si scollega dal passato, non ha più proiezioni sul futuro. L’accelerazione, dopo aver inghiottito il passato e rarefatto il futuro, sminuzza, in singoli atti insignificanti (nel senso di privi di senso), il nostro presente. In questo modo si assiste alla frantumazione del racconto e della storia (individuale e collettiva) in tante schegge, che ci scippano non solo del passato e del futuro ma che trasformano il nostro presente in una corsa, sempre più impazzita, verso un dove che non esiste più. Viviamo come in una comica dei tempi del cinema muto in cui l’esasperato movimento dei protagonisti induceva alle risa. Ognuno di noi assume la tragica maschera priva di sorriso di Buster Keaton.

Marc Augé, dopo aver analizzato in maniera cristallina, la perdita di senso che la surmodernità ha nei confronti dei luoghi, trasformati in non luoghi proprio dalla perdita del loro senso, si fa carico di descrivere anche l’altro parametro fondamentale delle nostre vite: il tempo, fissandone, anche qui, in maniera non equivoca la sua perdita di senso.

Ciò che appare chiaro è che la nascita del non luogo e del non tempo è necessaria alla struttura della surmodernità, che non saprebbe che farsene d’individui ancorati al luogo e al tempo. La surmodernità ha ricreato un tessuto spaziotemporale privo di senso proprio perché ha necessità di avere a disposizione individui privi di senso, o meglio con un unico senso totalitario: quell’uomo a una dimensione che è un dimensione a due teste il produttore/consumatore anonimo che, deprivato del senso dello spazio e del tempo, può essere impiegato (schiavizzato) in qualunque luogo ed in qualunque contesto temporale senza che ne risenta affatto. Si procede dunque verso la più totale e straniante delle trasformazioni, dall’individuo al non-individuo, un accessorio della produzione nonché un tubo digerente inserito nel nuovo panorama del non-spazio e del non-tempo.

Il capitolo finale è riservato da Augé a una speranza positiva e progressiva che corrisponde probabilmente all’ottimismo illuminista che ancora un po’ permea il suo pensiero e che io invece non condivido. Il compito di ristabilire il senso della storia e della nostra storia spetterebbe, per Augè, alla scuola che, come ultimo baluardo dell’insegnamento, dovrebbe preservare, trasferendola, la conoscenza che per sua definizione si opporrebbe all’accelerazione distruttrice di ogni sapere della surmodernità.

È questa flebile speranza di Augé che mi trova in assoluto dissenso.

In un mondo sempre più accelerato, in cui il mito della flessibilità ha travolto ogni cosa, il valore percepito della scuola è cambiato profondamente e il suo annullamento è testimoniato dall’autorità nulla che hanno i professori che almeno formalmente ne sono i sacerdoti.

Il sapere in un mondo ultraflessibile è un impedimento, una tara, un peso che non può essere sopportato da un individuo cui è richiesta l’acquisizione di sempre nuove competenze. L’aggiornamento professionale spinto all’eccesso genera una pletora di analfabeti di ritorno. Individui che non hanno nessun interesse a ricordare le loro sapienze del giorno prima che sono viste come un inutile orpello e un impedimento all’apprendere quello che è necessario oggi. La scuola che, per far sedimentare una qualsivoglia nozione nelle menti degli studenti, deve basare il suo metodo sul ricordo, si scontra apertamente (perdendo la partita) con il nuovo mondo surmoderno che costringe all’apprendimento di nuove competenze con una velocità che non permette la sedimentazione della conoscenza. La surmodernità non cerca il ricordo, ingombrante e impegnativo, ma l’oblio che ci rende vergini per nuove conoscenze ma mutilati e privi di personalità e spessore.

Il metodo è quello del continuo reset delle nostre menti che permette, da un lato, di liberarci dalle conoscenze passate non più utili e, dall’altro, di fare spazio in una mente per forza di cose limitata.

In fin dei conti se si chiede agli abitatori della surmodernità di cambiare lavoro, competenze, casa e abitudini ogni tre mesi non è pensabile adottare un modello di vita che privilegi il lavoro stabile, le relazioni sociali durature, le conoscenze acquisite e sedimentate nella testa. Quello che serve non è una biblioteca nella propria casa, fatta di libri ingombranti, pesanti, difficili da trasferire spazialmente. Quello che serve è un instant book non più cartaceo ma digitale, che può essere letto, utilizzato, dimenticato senza che questo lasci tracce durature in noi. Questo modello ha bisogno di TV e non di libri, di talk show e non di giornali con pagine di approfondimento.

Un tempo si diceva che passato il periodo dei sogni (l’adolescenza) si entrava nel periodo dei segni (l’età adulta) e che ci si doveva alla fine confrontare con le proprie rughe e con le proprie cicatrici interiori. La surmodernità con una promessa fallace: l’eterna giovinezza (considerata come l’indefinita estensione dell’adolescenza), raggiunta con il moto perpetuo patologico della vita precarizzata, con le lusinghe della chirurgia estetica, con le promesse della chimica, ci crocifigge alla ruota incessante del Karma che vorticosamente gira accelerando, trasformandoci in una battigia spazzata dalle onde dove ogni orma impressa nella sabbia dura solo per l’intervallo tra un’onda e un’altra senza lasciar traccia di nessun passaggio.

Così ci vogliono (e a questo bisogna ribellarsi).

di Mario Grossi

2 commenti:

Reginaldo ha detto...

Orgoglioso d'indossare (anche oggi) una magnifica giacca acquistata trent'anni fa: ancora perfetta.

E di leggere ogni sera qualche pagina di un libro scritto più di 700 anni fa, da "il più Saggio dei santi e il più Santo dei saggi".

Ed soprattutto felice d'affidarmi completamente a Qualcuno che, 2000 anni fa, si è rivelato come Via Verità e Vita.

Leon ha detto...

Reginaldo,
dov'è il futuro?