04 aprile 2010

Il divario tecnologico nell'economia globale


Etleboro


La teoria del libero scambio, da David Ricardo al modello Heckscher-Ohlin-Samuelson, afferma che i flussi commerciali sono determinati dalle differenze nei costi dei fattori produttivi, lavoro e capitale, nel senso che un Paese si specializza nell’esportazione dei beni che riesce a produrre a costi più bassi. Applicata all’economia globale, legittima il sottosviluppo, perché confina il Terzo Mondo al ruolo di fornitore di materie prime e manodopera a basso costo, e giustifica lo sfruttamento neoimperialista nella misura in cui perpetua quei dislivelli, nei salari e nei tassi interessi, che fanno fluire gli investimenti dove è possibile lucrare maggiori profitti, senza riguardo per il diritto dei popoli all’autosufficienza alimentare e alla sovranità sulle risorse della propria terra.
Ne deriva un capitalismo predatore, in cui la povertà di alcune aree è funzionale alla ricchezza di altre, nonostante i profeti del libero scambio sostengano che i flussi commerciali, generati dalla differenza nel costo dei fattori produttivi, siano fonte di ricchezza per tutte le nazioni. A partire dagli anni sessanta, mentre il pensiero terzomondista d’ispirazione marxista critica lo sfruttamento fondato sul libero scambio, nei think tank del capitalismo in corso di globalizzazione s’avverte l’esigenza di fornire analisi più credibili sulla dinamica dei flussi commerciali. A spiegare i vantaggi dell’interscambio - tra economie avanzate in continua espansione ed economie arretrate, costrette a specializzarsi nella produzione di materie prime agricole e minerarie - interviene Michael Posner (1961) con la teoria del divario tecnologico, secondo cui la diffusione del progresso tecnologico determina i flussi commerciali indipendentemente dalla dotazione dei fattori produttivi. All’origine c’è l’innovazione come fattore di successo. Le imprese, per vincere il conflitto competitivo sul mercato interno, sviluppano nuovi prodotti e li esportano sui mercati esteri fino al momento in cui il nuovo prodotto non venga imitato localmente. In tal caso l’interscambio non è determinato dalla dotazione di fattori produttivi, che può anche essere identica nei Paesi interessati, ma dal carattere di novità dei beni scambiati e dalla diffusione dell’innovazione, che è sempre superiore nel Paese esportatore. In tale modello due tipologie di ritardo assumono particolare rilevanza. Il primo è il ritardo nella domanda estera, che misura il periodo intercorrente tra l’introduzione del nuovo prodotto nel Paese esportatore e l’inizio del suo consumo nel Paese importatore. Il secondo è il ritardo nell’imitazione, che indica l’intervallo temporale tra l’inizio della produzione nel Paese innovatore e l’inizio della produzione nel Paese imitatore, potendo l’imitazione avvenire grazie alla ricerca scientifica sviluppata localmente o mediante l’acquisto di brevetti e licenze di produzione. La differenza tra i due ritardi misura il periodo di tempo in cui il Paese innovatore ed esportatore conserverà i vantaggi del divario tecnologico rispetto al Paese importatore ed imitatore. Viene tuttavia precisato che nessuna particolare innovazione tende a produrre un flusso costante di esportazioni, ad eccezione dei casi in cui un know-how difficilmente trasferibile determini un lungo ritardo nell’imitazione. Soltanto un flusso di innovazioni, costante nel tempo e diffuso in diversi settori industriali, può generare uno stabile volume di esportazioni. A loro volta, i Paesi meno attivi nel processo di innovazione possono colmare il deficit nell’interscambio di nuovi beni mediante l’esportazione di prodotti tradizionali. In sostanza la teoria di Posner cerca di dimostrare l’importanza dell’innovazione tecnologica come fattore competitivo in generale, qualunque siano l’estensione del mercato e la dimensione dell’impresa, ma incontra diversi limiti. In primo luogo non spiega perché, sul mercato interno del Paese innovatore, l’innovazione si concentri in alcuni settori piuttosto che in altri. In secondo luogo non rivela perché, sul mercato mondiale, alcuni Paesi siano innovatori ed altri imitatori. L’unica plausibile spiegazione può ricollegarsi alla decisione di investire risorse nella ricerca e sviluppo. Ma ciò significa affermare che, ragionando in termini di commercio internazionale, sono esportatori di nuovi prodotti soltanto i Paesi ricchi, mentre ragionando in termini di interscambio tra settori, sono innovatori solo i settori ad alta intensità di capitale. Questa circostanza contraddice l’intero schema interpretativo di Posner, perché, mentre nei suoi presupposti sottovaluta l’incidenza dei fattori produttivi, nelle sue conclusioni valorizza un elemento, l’innovazione tecnologica, che dipende proprio dalla differente dotazione di un fattore produttivo: il capitale. Le lacune del modello Posner sono colmate dalla teoria del ciclo del prodotto, sviluppata in particolare da Raymond Vernon (1966), che spiega l’interscambio di merci e capitali descrivendo la genesi delle innovazioni e le ragioni che determinano il loro graduale trasferimento dal Paese innovatore ad altri mercati. Il modello presuppone che ciascun bene attraversi fasi successive di standardizzazione. Alcuni elementi - l’impiego dei fattori produttivi, i metodi di lavorazione, il volume delle vendite, il prezzo di mercato - assumono una diversa rilevanza man mano che si passa dalla fase iniziale a quella di maturità del prodotto. L’innovazione di processo e di prodotto favorisce l’esportazione – interscambio di prodotti finiti – o la dislocazione produttiva – interscambio di fattori produttivi, in particolare capitale e risorse naturali. La standardizzazione delle tecnologie favorisce l’inizio della produzione altrove, senza che siano necessarie ingenti spese per la ricerca e sviluppo. Dovunque i nuovi prodotti vengono dapprima lanciati sul mercato interno e poi esportati. Le economie nazionali sono l’ambiente che genera l’innovazione tecnologica e sperimenta, in via prioritaria, la recettività delle sue applicazioni. Una versione alternativa della teoria del ciclo del prodotto viene formulata da S.Hirsch (1967). Per identificare quali sistemi presentano vantaggi comparati ad ogni stadio del ciclo di vita del prodotto, egli divide i vari Paesi in tre categorie - in via di sviluppo, sviluppati, sviluppati ma di piccole dimensioni - ed i fattori produttivi, escludendo le risorse naturali, in cinque gruppi - capitale, lavoro non qualificato, management, conoscenze tecnologiche, economie esterne. La principale discriminante è l’intensità di capitale investito in tecnologia e formazione manageriale. Il mercato interno mantiene la sua fondamentale importanza, sia come sistema di infrastrutture che stimolano la diffusione dell’innovazione, sia come ambiente capace di assorbire l’iniziale offerta di nuove merci. Analizzando la disponibilità dei fattori elencati nei diversi sistemi, Hirsch conclude che i Paesi in via di sviluppo godono di un vantaggio comparato nei prodotti maturi, che richiedono un uso intensivo di lavoro non qualificato. Invece i Paesi sviluppati sono avvantaggiati sia nei beni nuovi che in quelli nuovi ma non ancora standardizzati, in virtù dell’ampia dotazione di capitale, capacità manageriali ed economie esterne. Infine i Paesi sviluppati ma di piccole dimensioni sono specificamente adatti alla sperimentazione di prodotti nuovi, perché hanno grande disponibilità di manodopera qualificata a costi comparativamente più bassi. Il modello Poster-Vernon-Hirsch, idoneo a spiegare l’espansione multinazionale delle aziende occidentali nel trentennio successivo alla seconda guerra mondiale, comincia a perdere efficacia quando, nell’insieme Paesi in via di sviluppo, emergono realtà come i New Industrialized Countries (NIC) ed in particolare le cosiddette tigri asiatiche (Corea del Sud, Filippine, Indonesia, Malesia, Thailandia). Attraendo investimenti esteri diretti - con normative fiscali, ambientali e sindacali particolarmente favorevoli alle multinazionali straniere - tali sistemi si specializzano nella manifattura di prodotti o semilavorati destinati non ai rispettivi mercati interni - come presupponevano sia Vernon che Hirsch - ma a mercati diversi, compreso il mercato interno della casamadre. A trainare la crescita, non sono lo scambio di merci e/o fattori produttivi tra economie nazionali, entro i cui confini ciascuna impresa circoscrive una catena del valore ininterrotta. A gonfiare i dati sul commercio mondiale, sono il flusso di beni tra società dello stesso gruppo transnazionale, o tra queste e i loro partner locali. Nella competizione globale, enfatizzare l’innovazione tecnologica piuttosto che la manodopera a basso costo come segreto del successo, è un falso argomento, usato dagli stessi apologeti della globalizzazione, per sviare i discorsi dalla dinamica dell’accumulazione di capitale come fattore competitivo e sistema di sfruttamento, adombrando il ruolo delle banche come centri di potere economico e politico, dal momento che sono esse che creano moneta e la trasformano in capitale, in sostanziale autonomia rispetto ai governi.

Raffaele Ragni

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04 aprile 2010

Il divario tecnologico nell'economia globale


Etleboro


La teoria del libero scambio, da David Ricardo al modello Heckscher-Ohlin-Samuelson, afferma che i flussi commerciali sono determinati dalle differenze nei costi dei fattori produttivi, lavoro e capitale, nel senso che un Paese si specializza nell’esportazione dei beni che riesce a produrre a costi più bassi. Applicata all’economia globale, legittima il sottosviluppo, perché confina il Terzo Mondo al ruolo di fornitore di materie prime e manodopera a basso costo, e giustifica lo sfruttamento neoimperialista nella misura in cui perpetua quei dislivelli, nei salari e nei tassi interessi, che fanno fluire gli investimenti dove è possibile lucrare maggiori profitti, senza riguardo per il diritto dei popoli all’autosufficienza alimentare e alla sovranità sulle risorse della propria terra.
Ne deriva un capitalismo predatore, in cui la povertà di alcune aree è funzionale alla ricchezza di altre, nonostante i profeti del libero scambio sostengano che i flussi commerciali, generati dalla differenza nel costo dei fattori produttivi, siano fonte di ricchezza per tutte le nazioni. A partire dagli anni sessanta, mentre il pensiero terzomondista d’ispirazione marxista critica lo sfruttamento fondato sul libero scambio, nei think tank del capitalismo in corso di globalizzazione s’avverte l’esigenza di fornire analisi più credibili sulla dinamica dei flussi commerciali. A spiegare i vantaggi dell’interscambio - tra economie avanzate in continua espansione ed economie arretrate, costrette a specializzarsi nella produzione di materie prime agricole e minerarie - interviene Michael Posner (1961) con la teoria del divario tecnologico, secondo cui la diffusione del progresso tecnologico determina i flussi commerciali indipendentemente dalla dotazione dei fattori produttivi. All’origine c’è l’innovazione come fattore di successo. Le imprese, per vincere il conflitto competitivo sul mercato interno, sviluppano nuovi prodotti e li esportano sui mercati esteri fino al momento in cui il nuovo prodotto non venga imitato localmente. In tal caso l’interscambio non è determinato dalla dotazione di fattori produttivi, che può anche essere identica nei Paesi interessati, ma dal carattere di novità dei beni scambiati e dalla diffusione dell’innovazione, che è sempre superiore nel Paese esportatore. In tale modello due tipologie di ritardo assumono particolare rilevanza. Il primo è il ritardo nella domanda estera, che misura il periodo intercorrente tra l’introduzione del nuovo prodotto nel Paese esportatore e l’inizio del suo consumo nel Paese importatore. Il secondo è il ritardo nell’imitazione, che indica l’intervallo temporale tra l’inizio della produzione nel Paese innovatore e l’inizio della produzione nel Paese imitatore, potendo l’imitazione avvenire grazie alla ricerca scientifica sviluppata localmente o mediante l’acquisto di brevetti e licenze di produzione. La differenza tra i due ritardi misura il periodo di tempo in cui il Paese innovatore ed esportatore conserverà i vantaggi del divario tecnologico rispetto al Paese importatore ed imitatore. Viene tuttavia precisato che nessuna particolare innovazione tende a produrre un flusso costante di esportazioni, ad eccezione dei casi in cui un know-how difficilmente trasferibile determini un lungo ritardo nell’imitazione. Soltanto un flusso di innovazioni, costante nel tempo e diffuso in diversi settori industriali, può generare uno stabile volume di esportazioni. A loro volta, i Paesi meno attivi nel processo di innovazione possono colmare il deficit nell’interscambio di nuovi beni mediante l’esportazione di prodotti tradizionali. In sostanza la teoria di Posner cerca di dimostrare l’importanza dell’innovazione tecnologica come fattore competitivo in generale, qualunque siano l’estensione del mercato e la dimensione dell’impresa, ma incontra diversi limiti. In primo luogo non spiega perché, sul mercato interno del Paese innovatore, l’innovazione si concentri in alcuni settori piuttosto che in altri. In secondo luogo non rivela perché, sul mercato mondiale, alcuni Paesi siano innovatori ed altri imitatori. L’unica plausibile spiegazione può ricollegarsi alla decisione di investire risorse nella ricerca e sviluppo. Ma ciò significa affermare che, ragionando in termini di commercio internazionale, sono esportatori di nuovi prodotti soltanto i Paesi ricchi, mentre ragionando in termini di interscambio tra settori, sono innovatori solo i settori ad alta intensità di capitale. Questa circostanza contraddice l’intero schema interpretativo di Posner, perché, mentre nei suoi presupposti sottovaluta l’incidenza dei fattori produttivi, nelle sue conclusioni valorizza un elemento, l’innovazione tecnologica, che dipende proprio dalla differente dotazione di un fattore produttivo: il capitale. Le lacune del modello Posner sono colmate dalla teoria del ciclo del prodotto, sviluppata in particolare da Raymond Vernon (1966), che spiega l’interscambio di merci e capitali descrivendo la genesi delle innovazioni e le ragioni che determinano il loro graduale trasferimento dal Paese innovatore ad altri mercati. Il modello presuppone che ciascun bene attraversi fasi successive di standardizzazione. Alcuni elementi - l’impiego dei fattori produttivi, i metodi di lavorazione, il volume delle vendite, il prezzo di mercato - assumono una diversa rilevanza man mano che si passa dalla fase iniziale a quella di maturità del prodotto. L’innovazione di processo e di prodotto favorisce l’esportazione – interscambio di prodotti finiti – o la dislocazione produttiva – interscambio di fattori produttivi, in particolare capitale e risorse naturali. La standardizzazione delle tecnologie favorisce l’inizio della produzione altrove, senza che siano necessarie ingenti spese per la ricerca e sviluppo. Dovunque i nuovi prodotti vengono dapprima lanciati sul mercato interno e poi esportati. Le economie nazionali sono l’ambiente che genera l’innovazione tecnologica e sperimenta, in via prioritaria, la recettività delle sue applicazioni. Una versione alternativa della teoria del ciclo del prodotto viene formulata da S.Hirsch (1967). Per identificare quali sistemi presentano vantaggi comparati ad ogni stadio del ciclo di vita del prodotto, egli divide i vari Paesi in tre categorie - in via di sviluppo, sviluppati, sviluppati ma di piccole dimensioni - ed i fattori produttivi, escludendo le risorse naturali, in cinque gruppi - capitale, lavoro non qualificato, management, conoscenze tecnologiche, economie esterne. La principale discriminante è l’intensità di capitale investito in tecnologia e formazione manageriale. Il mercato interno mantiene la sua fondamentale importanza, sia come sistema di infrastrutture che stimolano la diffusione dell’innovazione, sia come ambiente capace di assorbire l’iniziale offerta di nuove merci. Analizzando la disponibilità dei fattori elencati nei diversi sistemi, Hirsch conclude che i Paesi in via di sviluppo godono di un vantaggio comparato nei prodotti maturi, che richiedono un uso intensivo di lavoro non qualificato. Invece i Paesi sviluppati sono avvantaggiati sia nei beni nuovi che in quelli nuovi ma non ancora standardizzati, in virtù dell’ampia dotazione di capitale, capacità manageriali ed economie esterne. Infine i Paesi sviluppati ma di piccole dimensioni sono specificamente adatti alla sperimentazione di prodotti nuovi, perché hanno grande disponibilità di manodopera qualificata a costi comparativamente più bassi. Il modello Poster-Vernon-Hirsch, idoneo a spiegare l’espansione multinazionale delle aziende occidentali nel trentennio successivo alla seconda guerra mondiale, comincia a perdere efficacia quando, nell’insieme Paesi in via di sviluppo, emergono realtà come i New Industrialized Countries (NIC) ed in particolare le cosiddette tigri asiatiche (Corea del Sud, Filippine, Indonesia, Malesia, Thailandia). Attraendo investimenti esteri diretti - con normative fiscali, ambientali e sindacali particolarmente favorevoli alle multinazionali straniere - tali sistemi si specializzano nella manifattura di prodotti o semilavorati destinati non ai rispettivi mercati interni - come presupponevano sia Vernon che Hirsch - ma a mercati diversi, compreso il mercato interno della casamadre. A trainare la crescita, non sono lo scambio di merci e/o fattori produttivi tra economie nazionali, entro i cui confini ciascuna impresa circoscrive una catena del valore ininterrotta. A gonfiare i dati sul commercio mondiale, sono il flusso di beni tra società dello stesso gruppo transnazionale, o tra queste e i loro partner locali. Nella competizione globale, enfatizzare l’innovazione tecnologica piuttosto che la manodopera a basso costo come segreto del successo, è un falso argomento, usato dagli stessi apologeti della globalizzazione, per sviare i discorsi dalla dinamica dell’accumulazione di capitale come fattore competitivo e sistema di sfruttamento, adombrando il ruolo delle banche come centri di potere economico e politico, dal momento che sono esse che creano moneta e la trasformano in capitale, in sostanziale autonomia rispetto ai governi.

Raffaele Ragni

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