12 gennaio 2012

Schiavo della finanza, lo Stato non può più spendere per noi



Può sembrare un’eresia, ma non lo è: dalla crisi si può uscire in un solo modo, e cioè aumentando la spesa pubblica. Si aggraverebbe il debito? Inizialmente, sì. Ma investire in settori strategici per produrre lavororisolleverebbe l’economia, la domanda, le entrate fiscali. Servirebbe una piena sovranità statale e monetaria, che gli Stati europei hanno perduto: costretti a farsi prestare denaro dalla finanza privata, vengono dissuasi dall’indebitarsi ulteriormente, pena la crescita esplosiva dei margini speculativi. Lo Stato, unico soggetto nato per spendere a deficit per il benessere reale dei cittadini, è stato imbrigliato: il grande capitale pretende che si comporti non come uno Stato, ma come una famiglia o un’azienda. Neutralizzata la capacità finanziaria dello Stato, i cittadini sono indifesi di fronte alla crisi.

Il premio Nobel Paul Krugman, ostile alla linea di rigore dei governi europei (che considera suicida e votata all’inevitabile macelleria sociale, senza eurosbocchi possibili) ha scritto sul “New York Times” un intervento intitolato “Nessuno capisce cos’è il debito”. Intendeva: nessun economista della scuola preferita dai conservatori, quelli che dagli anni ’80 hanno progressivamente marginalizzato la finanza pubblica a unico vantaggio di quella privata. Il debito cui si riferiva Krugman, scrivono Guido Carandini e Paolo Leon in un’analisi su “Repubblica” ripresa da “Micromega”, è il debito pubblicogenerato dal disavanzo della spesa statale. Chi aborrisce il disavanzo, dice Krugman, teme che possa impoverire i cittadini, costretti a rimborsare il denaro preso a prestito: come se gli Usa fossero una famiglia, alle prese con le rate di un mutuo. Errore: il debito pubblico è istituzionalmente “dovuto” ai cittadini, e in ogni caso la spesa sociale è un investimento che alla lunga produce maggiori entrate.

«L’enorme debito contratto durante la seconda guerra mondiale – scrivono Carandini e Leon, citando Krugman – non è mai stato rimborsato ma è diventato progressivamente irrilevante man mano che l’economia Usa cresceva e con essa i redditi soggetti a tassazione». Inoltre: una famiglia oberata dai debiti deve senz’altro del denaro a qualcuno, mentre il debito pubblico degli Usa è in larga parte denaro «che è dovuto ai suoi stessi cittadini». È vero che a causa del debito contratto per vincere la seconda guerra mondiale i contribuenti sono stati colpiti da un onere eccezionale, ma quel debito «era anche posseduto dai contribuenti che avevano acquistato i titoli del Tesoro americano e quindi non rese più poveri gli americani del dopoguerra». Al contrario: proprio grazie a quel debito, i Paul Krugmancittadini «godettero del più marcato aumento dei redditi e degli standard di vita mai avvenuto nella storia degli Stati Uniti».

Secondo Krugman, quindi, la necessità di stimolare l’occupazione rende sopportabile un aumento del debito assai superiore a quello che la “saggezza convenzionale” ritiene accettabile. Oggi scontiamo tutti la «miope visione degli economisti e dei politici che avversano l’indebitamento statale». Le argomentazioni di Krugman? Per Carandini e Leon sono perfettamente convincenti, anche se non forniscono, di quella “miopia”, una ragione logica. Che invece emerge chiaramente da una diversa teoria, secondo la quale, per sua natura, il capitalismo tende a occultare la relazione tra la dimensione privata-individuale e quella pubblica-statale. Come le due facce di una moneta, l’una nasconde l’altra: il punto di vista della famiglia che si indebita oscura la visione dell’intervento statale, cioè il punto di vista delle sue conseguenze sull’insieme dei cittadini. Come se Stato e cittadini fossero all’oscuro delle conseguenze delle rispettive azioni.

Per superare questa assurda dicotomia, sostengono Carandini e Leon, occorre collocarsi in una terza dimensione, quella collettiva, la sola che «rende evidente la duplice interconnessione pubblico-privato, ignorando la quale si incorre in errori gravi». Le regole ossessive dell’austerità? «Magari buone per le famiglie, ma non per i governi». Basta dare un’occhiata alla composizione del “reddito nazionale”, cioè la somma aritmetica di profitti e salari, ottenuta senza distinguere tra l’obiettivo familiare (il salario) e quello aziendale (il profitto). E’ il cuore della partita in corso: più profitti, a scapito dei salari. Risultato: crollo dei consumi e riduzione del Pil. Nonostante la resistenza delle imprese, se invece si aumentassero i salari a scapito dei profitti si otterrebbero più consumi e quindi una crescita automatica del Paolo Leonprodotto interno lordo. Peccato che che i singoli attori – famiglie e aziende – non ne siano pienamente consapevoli.

«Ecco dunque che questo famoso Pil non dipende né dai comportamenti individuali, come sostiene la scienza economica prevalente, né da autonome azioni pubbliche, ma da comportamenti politici, sindacali e/o lobbistici che influiscono in larga misura proprio sulle politiche economiche e di distribuzione dei redditi da parte degli Stati, e quindi sul tipo di spesa pubblica che essi attuano». Per Carandini e Leon, se gli Stati «mettono in atto politiche di austerità quando la crisi è di domanda, seguendo l’istinto individuale che nellacrisi spinge per il risparmio, allora la crisi non è battuta». Se invece aumentano la spesa pubblica a favore di attività produttive, si comportano come nel dopoguerra: l’iniziale aggravio dell’indebitamento non impoverisce affatto la comunità. Al contrario, la arricchisce: più salari, più profitti, più Pil. Ad una condizione: la sovranità finanziaria pubblica, che mette lo Stato al riparo dall’affanno di dover conseguire benefici immediati.

Per investire sulla collettività nazionale spendendo a deficit, e vederne i risultati concreti in termini economici, lo Stato ha infatti bisogno di tempo: ieri ce l’aveva, oggi non più. Il problema? I mercati finanziari e il loro predominio a livello globale. Se anche, anziché ridurla come fa adesso, lo Stato decidesse di accrescere la spesa pubblica per stimolare la produzione e l’occupazione, il maggiore indebitamento che ne deriverebbe «non avrebbe come effetto immediato l’aumento del Pil, ma dovrebbe misurarsi con la speculazione finanziaria che, incapace di prevederne gli effetti positivi nel periodo più lungo, ne farebbe salire il costo (lo spread) tanto da vanificarne gli effetti positivi». Carandini e Leon non hanno dubbi: «Questa è la trappola in cui si trovano oggi tutti i Paesi, compreso il nostro, nei quali la sovranità è stata svuotata da poteri metanazionali e da una cultura economica e politica incapace di sollevare lo sguardo a livello collettivo e di dominare il rischio di una prolungata recessione, assai pericolosa per le nostre democrazie».

di Giorgio Cattaneo

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12 gennaio 2012

Schiavo della finanza, lo Stato non può più spendere per noi



Può sembrare un’eresia, ma non lo è: dalla crisi si può uscire in un solo modo, e cioè aumentando la spesa pubblica. Si aggraverebbe il debito? Inizialmente, sì. Ma investire in settori strategici per produrre lavororisolleverebbe l’economia, la domanda, le entrate fiscali. Servirebbe una piena sovranità statale e monetaria, che gli Stati europei hanno perduto: costretti a farsi prestare denaro dalla finanza privata, vengono dissuasi dall’indebitarsi ulteriormente, pena la crescita esplosiva dei margini speculativi. Lo Stato, unico soggetto nato per spendere a deficit per il benessere reale dei cittadini, è stato imbrigliato: il grande capitale pretende che si comporti non come uno Stato, ma come una famiglia o un’azienda. Neutralizzata la capacità finanziaria dello Stato, i cittadini sono indifesi di fronte alla crisi.

Il premio Nobel Paul Krugman, ostile alla linea di rigore dei governi europei (che considera suicida e votata all’inevitabile macelleria sociale, senza eurosbocchi possibili) ha scritto sul “New York Times” un intervento intitolato “Nessuno capisce cos’è il debito”. Intendeva: nessun economista della scuola preferita dai conservatori, quelli che dagli anni ’80 hanno progressivamente marginalizzato la finanza pubblica a unico vantaggio di quella privata. Il debito cui si riferiva Krugman, scrivono Guido Carandini e Paolo Leon in un’analisi su “Repubblica” ripresa da “Micromega”, è il debito pubblicogenerato dal disavanzo della spesa statale. Chi aborrisce il disavanzo, dice Krugman, teme che possa impoverire i cittadini, costretti a rimborsare il denaro preso a prestito: come se gli Usa fossero una famiglia, alle prese con le rate di un mutuo. Errore: il debito pubblico è istituzionalmente “dovuto” ai cittadini, e in ogni caso la spesa sociale è un investimento che alla lunga produce maggiori entrate.

«L’enorme debito contratto durante la seconda guerra mondiale – scrivono Carandini e Leon, citando Krugman – non è mai stato rimborsato ma è diventato progressivamente irrilevante man mano che l’economia Usa cresceva e con essa i redditi soggetti a tassazione». Inoltre: una famiglia oberata dai debiti deve senz’altro del denaro a qualcuno, mentre il debito pubblico degli Usa è in larga parte denaro «che è dovuto ai suoi stessi cittadini». È vero che a causa del debito contratto per vincere la seconda guerra mondiale i contribuenti sono stati colpiti da un onere eccezionale, ma quel debito «era anche posseduto dai contribuenti che avevano acquistato i titoli del Tesoro americano e quindi non rese più poveri gli americani del dopoguerra». Al contrario: proprio grazie a quel debito, i Paul Krugmancittadini «godettero del più marcato aumento dei redditi e degli standard di vita mai avvenuto nella storia degli Stati Uniti».

Secondo Krugman, quindi, la necessità di stimolare l’occupazione rende sopportabile un aumento del debito assai superiore a quello che la “saggezza convenzionale” ritiene accettabile. Oggi scontiamo tutti la «miope visione degli economisti e dei politici che avversano l’indebitamento statale». Le argomentazioni di Krugman? Per Carandini e Leon sono perfettamente convincenti, anche se non forniscono, di quella “miopia”, una ragione logica. Che invece emerge chiaramente da una diversa teoria, secondo la quale, per sua natura, il capitalismo tende a occultare la relazione tra la dimensione privata-individuale e quella pubblica-statale. Come le due facce di una moneta, l’una nasconde l’altra: il punto di vista della famiglia che si indebita oscura la visione dell’intervento statale, cioè il punto di vista delle sue conseguenze sull’insieme dei cittadini. Come se Stato e cittadini fossero all’oscuro delle conseguenze delle rispettive azioni.

Per superare questa assurda dicotomia, sostengono Carandini e Leon, occorre collocarsi in una terza dimensione, quella collettiva, la sola che «rende evidente la duplice interconnessione pubblico-privato, ignorando la quale si incorre in errori gravi». Le regole ossessive dell’austerità? «Magari buone per le famiglie, ma non per i governi». Basta dare un’occhiata alla composizione del “reddito nazionale”, cioè la somma aritmetica di profitti e salari, ottenuta senza distinguere tra l’obiettivo familiare (il salario) e quello aziendale (il profitto). E’ il cuore della partita in corso: più profitti, a scapito dei salari. Risultato: crollo dei consumi e riduzione del Pil. Nonostante la resistenza delle imprese, se invece si aumentassero i salari a scapito dei profitti si otterrebbero più consumi e quindi una crescita automatica del Paolo Leonprodotto interno lordo. Peccato che che i singoli attori – famiglie e aziende – non ne siano pienamente consapevoli.

«Ecco dunque che questo famoso Pil non dipende né dai comportamenti individuali, come sostiene la scienza economica prevalente, né da autonome azioni pubbliche, ma da comportamenti politici, sindacali e/o lobbistici che influiscono in larga misura proprio sulle politiche economiche e di distribuzione dei redditi da parte degli Stati, e quindi sul tipo di spesa pubblica che essi attuano». Per Carandini e Leon, se gli Stati «mettono in atto politiche di austerità quando la crisi è di domanda, seguendo l’istinto individuale che nellacrisi spinge per il risparmio, allora la crisi non è battuta». Se invece aumentano la spesa pubblica a favore di attività produttive, si comportano come nel dopoguerra: l’iniziale aggravio dell’indebitamento non impoverisce affatto la comunità. Al contrario, la arricchisce: più salari, più profitti, più Pil. Ad una condizione: la sovranità finanziaria pubblica, che mette lo Stato al riparo dall’affanno di dover conseguire benefici immediati.

Per investire sulla collettività nazionale spendendo a deficit, e vederne i risultati concreti in termini economici, lo Stato ha infatti bisogno di tempo: ieri ce l’aveva, oggi non più. Il problema? I mercati finanziari e il loro predominio a livello globale. Se anche, anziché ridurla come fa adesso, lo Stato decidesse di accrescere la spesa pubblica per stimolare la produzione e l’occupazione, il maggiore indebitamento che ne deriverebbe «non avrebbe come effetto immediato l’aumento del Pil, ma dovrebbe misurarsi con la speculazione finanziaria che, incapace di prevederne gli effetti positivi nel periodo più lungo, ne farebbe salire il costo (lo spread) tanto da vanificarne gli effetti positivi». Carandini e Leon non hanno dubbi: «Questa è la trappola in cui si trovano oggi tutti i Paesi, compreso il nostro, nei quali la sovranità è stata svuotata da poteri metanazionali e da una cultura economica e politica incapace di sollevare lo sguardo a livello collettivo e di dominare il rischio di una prolungata recessione, assai pericolosa per le nostre democrazie».

di Giorgio Cattaneo

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