15 giugno 2013

I nuovi schiavi della "globalizzazione di Stato"


Ci aspettavamo francamente qualche reazione in più alle ultime notizie  sulle “morti bianche”,  provenienti dalla Cina. Muore un ragazzino  di 14 anni, Liu Fuzong, stroncato dai ritmi del lavoro, dodici ore al giorno, fino a quindici se la produzione lo richiede. Muoiono, suicidi, tre lavoratori della Foxcomm, azienda che assembla telefonini, per i ritmi alti e le pessime condizioni di lavoro. Punte d’iceberg di un’autentica mattanza che, nel 2010, ha provocato, in Cina, seicentomila morti per cause riconducibili a “stress da lavoro”. Numeri grandiosi  e storie terribili  su cui in Occidente il silenzio regna sovrano:  giusto la notizia e niente di più. Nessuna mobilitazione dei mass media, nessun commento preoccupato, nessuna manifestazione di solidarietà da parte dei sindacati. L’imbarazzo domina  sovrano, quasi che la Cina goda di un regime speciale, di una sorta di salvacondotto con duplice firma: quella di un capitalismo internazionale, a cui le delocalizzazioni servono per abbattere i costi di produzione e quella di una sinistra per la quale le vecchie appartenenze contano ancora e pesano psicologicamente (visto che comunque a governare è il Partito Comunista).
In  questo mondo, globalizzato e dove le notizie sono in presa diretta, la questione etica non può non dilatare i suoi confini, costringendo le nostre coscienze ad interrogarsi e a turbarsi per avvenimenti che sono apparentemente  lontani eppure ci sono vicinissimi, non solo perché li vediamo sui nostri schermi ma perché quelle merci, prodotte  nelle regioni della Cina profonda, fanno bella mostra nelle vetrine delle nostre città, per poi venire  da noi acquistate.
Non è di moda parlare di schiavitù. Eppure non c’è altro termine per definire la penosa condizione di milioni di lavoratori e lavoratrici costretti a “vendersi” per qualche spicciolo e per questo rischiare la vita, sotto la pressione dei ritmi imposti dalla produzione. Come per Liu Fuzong, il ragazzino di 14 anni. 
Formalmente la schiavitù non esiste. Ricacciata com’è stata negli oscuri meandri della storia, nelle immagini cinematografiche dei colossal d’annata, tra catene avvilenti e punizioni a colpi di frusta. Sotto la coltre rassicurante dei “diritti dell’uomo”, garantiti per tutti, il fenomeno più che scomparire sì è però modificato, adattandosi alle mutate condizioni socio-economiche del nuovo millennio.
Si è “aggiornato” non perdendo  la sua essenza dominatrice. Perciò ci appare ancora più  brutale di quanto non lo fosse nell’antichità, con il suo insinuarsi e dissimularsi tra le pieghe deboli del mondo moderno; “globale” proprio per la sua capacità di pervadere popoli lontani e diversi tra loro, di segnare destini individuali ed intere comunità (di giovani e di adulti, di uomini e di donne); “cinico” come le reti stese, sotto i balconi delle fabbriche cinesi,  per attutire i lanci suicidi; “anodino” come i formicai produttivi dai colori pastello.
E’ il grande paradosso schiavista di questi anni, così generosamente “liberal”. E’ il paradosso delle centinaia di migliaia di suicidi, dove ad essere polverizzato, insieme alle vite degli operai cinesi, è il falso umanitarismo occidentale, l’incapacità di uscire fuori dal perbenismo dei valori, il silenzio dei vertici istituzionali, tanto insensibili da arrivare a dire – come ha fatto la presidente della Camera, Laura Boldrini – di amare la Cina e di vestire cinese (“Camera con Laura”, intervista a “D-la Repubblica”, 26 aprile 2013).
Un maestro della cultura nazional-sociale, Ernesto Massi, alla fine degli Anni Quaranta del Novecento, così fissava la “questione sociale”: “Potremo ragionare di orientamenti economici quando ci saremo bene intesi sui fini sociali da raggiungere, che sono fini etici: perché il fine di ogni società è il perfezionamento dell’uomo e il bene comune. L’economia invece è la scienza dei mezzi, rispetto all’etica che è la scienza dei fini”.
Di questo “finalismo”, di fronte alle nuove, grandi questioni poste dalla globalizzazione, è inderogabile, oggi, farsi carico. E non solo per prenderne coscienza. Occorre finalmente attivare adeguati strumenti di controllo internazionale. Occorre che anche i sindacati occidentali facciano la loro parte, non lasciando da soli i “nuovi schiavi” del produttivismo globalizzato. Occorre mobilitare tutti gli strumenti informativi perché non siano  il silenzio o peggio il disincanto a trionfare.
Se il campo del confronto è il mercato, esso non può essere insomma lasciato, su scala mondiale, in balia di una lotta senza regole, dove a soccombere saranno sempre i più deboli, uccisi da un profitto senza  regole.



                                                                   di    Mario Bozzi Sentieri  

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15 giugno 2013

I nuovi schiavi della "globalizzazione di Stato"


Ci aspettavamo francamente qualche reazione in più alle ultime notizie  sulle “morti bianche”,  provenienti dalla Cina. Muore un ragazzino  di 14 anni, Liu Fuzong, stroncato dai ritmi del lavoro, dodici ore al giorno, fino a quindici se la produzione lo richiede. Muoiono, suicidi, tre lavoratori della Foxcomm, azienda che assembla telefonini, per i ritmi alti e le pessime condizioni di lavoro. Punte d’iceberg di un’autentica mattanza che, nel 2010, ha provocato, in Cina, seicentomila morti per cause riconducibili a “stress da lavoro”. Numeri grandiosi  e storie terribili  su cui in Occidente il silenzio regna sovrano:  giusto la notizia e niente di più. Nessuna mobilitazione dei mass media, nessun commento preoccupato, nessuna manifestazione di solidarietà da parte dei sindacati. L’imbarazzo domina  sovrano, quasi che la Cina goda di un regime speciale, di una sorta di salvacondotto con duplice firma: quella di un capitalismo internazionale, a cui le delocalizzazioni servono per abbattere i costi di produzione e quella di una sinistra per la quale le vecchie appartenenze contano ancora e pesano psicologicamente (visto che comunque a governare è il Partito Comunista).
In  questo mondo, globalizzato e dove le notizie sono in presa diretta, la questione etica non può non dilatare i suoi confini, costringendo le nostre coscienze ad interrogarsi e a turbarsi per avvenimenti che sono apparentemente  lontani eppure ci sono vicinissimi, non solo perché li vediamo sui nostri schermi ma perché quelle merci, prodotte  nelle regioni della Cina profonda, fanno bella mostra nelle vetrine delle nostre città, per poi venire  da noi acquistate.
Non è di moda parlare di schiavitù. Eppure non c’è altro termine per definire la penosa condizione di milioni di lavoratori e lavoratrici costretti a “vendersi” per qualche spicciolo e per questo rischiare la vita, sotto la pressione dei ritmi imposti dalla produzione. Come per Liu Fuzong, il ragazzino di 14 anni. 
Formalmente la schiavitù non esiste. Ricacciata com’è stata negli oscuri meandri della storia, nelle immagini cinematografiche dei colossal d’annata, tra catene avvilenti e punizioni a colpi di frusta. Sotto la coltre rassicurante dei “diritti dell’uomo”, garantiti per tutti, il fenomeno più che scomparire sì è però modificato, adattandosi alle mutate condizioni socio-economiche del nuovo millennio.
Si è “aggiornato” non perdendo  la sua essenza dominatrice. Perciò ci appare ancora più  brutale di quanto non lo fosse nell’antichità, con il suo insinuarsi e dissimularsi tra le pieghe deboli del mondo moderno; “globale” proprio per la sua capacità di pervadere popoli lontani e diversi tra loro, di segnare destini individuali ed intere comunità (di giovani e di adulti, di uomini e di donne); “cinico” come le reti stese, sotto i balconi delle fabbriche cinesi,  per attutire i lanci suicidi; “anodino” come i formicai produttivi dai colori pastello.
E’ il grande paradosso schiavista di questi anni, così generosamente “liberal”. E’ il paradosso delle centinaia di migliaia di suicidi, dove ad essere polverizzato, insieme alle vite degli operai cinesi, è il falso umanitarismo occidentale, l’incapacità di uscire fuori dal perbenismo dei valori, il silenzio dei vertici istituzionali, tanto insensibili da arrivare a dire – come ha fatto la presidente della Camera, Laura Boldrini – di amare la Cina e di vestire cinese (“Camera con Laura”, intervista a “D-la Repubblica”, 26 aprile 2013).
Un maestro della cultura nazional-sociale, Ernesto Massi, alla fine degli Anni Quaranta del Novecento, così fissava la “questione sociale”: “Potremo ragionare di orientamenti economici quando ci saremo bene intesi sui fini sociali da raggiungere, che sono fini etici: perché il fine di ogni società è il perfezionamento dell’uomo e il bene comune. L’economia invece è la scienza dei mezzi, rispetto all’etica che è la scienza dei fini”.
Di questo “finalismo”, di fronte alle nuove, grandi questioni poste dalla globalizzazione, è inderogabile, oggi, farsi carico. E non solo per prenderne coscienza. Occorre finalmente attivare adeguati strumenti di controllo internazionale. Occorre che anche i sindacati occidentali facciano la loro parte, non lasciando da soli i “nuovi schiavi” del produttivismo globalizzato. Occorre mobilitare tutti gli strumenti informativi perché non siano  il silenzio o peggio il disincanto a trionfare.
Se il campo del confronto è il mercato, esso non può essere insomma lasciato, su scala mondiale, in balia di una lotta senza regole, dove a soccombere saranno sempre i più deboli, uccisi da un profitto senza  regole.



                                                                   di    Mario Bozzi Sentieri  

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