19 agosto 2007

I furbetti delle Camere: il loro eldorado.



Fare il ragioniere alla Camera è affare certamente impegnativo. E non a caso ci vuole una laurea triennale per accedere al rango. Dall'alto di questa mansione si istruiscono le pratiche per i rimborsi elettorali dei partiti, si preparano le buste paga dei parlamentari, si cura l'amministrazione di Montecitorio. Giusto che si riceva uno stipendio adeguato alle responsabilità del mestiere. Ma fare il presidente della Repubblica, è certamente compito più delicato e importante per le sorti del Paese. E il trattamento economico, soprattutto in tempi nei quali si predica tanto la meritocrazia, dovrebbe tenerne conto. Cosa dicono invece le buste paga degli interessati? Che con i suoi 237 mila 560 euro lordi annui (rivalutati ogni 12 mesi) maturati dopo 35 anni di servizio, il ragioniere di Montecitorio guadagna quasi 20 mila euro in più del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, il cui appannaggio, congelato ai valore del 1999 per le difficoltà dei conti pubblici, è fermo a 218 mila euro lordi l'anno. E come non restare ammirati di fronte agli stenografi del Senato? Sono 60 in tutto e compilano i resoconti dei lavori dell'aula e delle varie commissioni. Svolgono un lavoro ormai in estinzione per via delle nuove tecnologie, ma all'apice della carriera arrivano a guadagnare 253 mila 700 euro lordi l'anno. Molto di più non solo del presidente Napolitano, ma anche del capo del governo Romano Prodi che, tra indennità parlamentare (145 mila 626 euro), stipendio da premier (54 mila 710) e indennità di funzione (11 mila 622), arriva a 212 mila euro lordi l'anno. E di ministri titolati come Massimo D'Alema (Esteri), che riscuote 189 mila 847 euro, e Tommaso Padoa-Schioppa (Economia), che ogni anno incassa 203 mila 394 euro lordi (è la paga dei ministri non parlamentari). Tutti abbondantemente distanziati dallo stenografo e dal ragioniere e addirittura umiliati al cospetto dei compensi dei segretari generali di Senato e Camera, Antonio Malaschini e Ugo Zampetti, che a fine anno arriveranno a incassare rispettivamente 485 mila e 483 mila euro lordi.


Ecco le sorprese che spuntano esaminando i dati sul trattamento economico dei dipendenti di Camera e Senato. E non sono le sole: barbieri ('operatori tecnici') che possono arrivare a guadagnare oltre 133 mila euro lordi l'anno a fronte dei circa 98 mila di un magistrato d'appello con 13 anni di anzianità. E collaboratori tecnici operai che dall'alto dei loro 152 mila euro se la ridono dei professori universitari ordinari a tempo pieno inchiodati, dopo vari anni di carriera, a circa 80 mila euro lordi l'anno. Retribuzioni da favola, insomma, che non hanno uguali nell'universo del pubblico impiego e che si accompagnano a trattamenti pensionistici di assoluto favore perfettamente allineati, in tema di privilegi, ai criticatissimi vitalizi di deputati e senatori. Ma quanti sono questi fortunati dipendenti parlamentari? Quanto guadagnano esattamente? E attraverso quali meccanismi riescono ad ottenere trattamenti economici così favorevoli?

Stipendi d'oro I dipendenti di Camera e Senato (vengono assunti solo per concorso) sono in tutto 2.908, di cui 1.850 a Montecitorio e 1.058 a Palazzo Madama. I primi (dati dei bilanci 2006) costano complessivamente circa 370 milioni di euro, i secondi 198; molto di più di deputati (287) e senatori (133 milioni). Per ambedue i rami del Parlamento le voci che pesano di più nei capitoli di spesa per il personale sono gli stipendi e le pensioni. Per quanto riguarda le retribuzioni, la Camera sborsa ogni anno 210 milioni di euro a fronte dei 130 milioni del Senato. I costi delle pensioni assorbono invece 158 milioni nel bilancio di Montecitorio e 70 milioni a Palazzo Madama. La prima cosa che salta agli occhi, sia alla Camera che al Senato, sono le singolari regole di calcolo di stipendi e pensioni, regole tanto sorprendenti da trasformare i due palazzi in autentiche isole del privilegio. A fissarle, godendo le due strutture dell'autonomia amministrativa garantita agli organi costituzionali, sono stati in passato i due uffici di presidenza di Camera e Senato, composti dai rispettivi presidenti (i predecessori di Fausto Bertinotti e Franco Marini), i loro vice e tre parlamentari-questori.
Per quanto riguarda Montecitorio, i dipendenti sono distribuiti in sei categorie retributive. Da cosa sono costitute esattamente le retribuzioni? Dallo stipendio tabellare (paga base); dalla indennità integrativa speciale (la vecchia contingenza, bloccata al 1996) e da altre voci come gli assegni di anzianità che vengono elargiti nella misura del 10 per cento della paga tabellare al diciassettesimo e al ventitreesimo anno di servizio. Tutte voci che, insieme a una strana "indennità pensionabile, pari al 2,5 per cento delle competenze lorde annue dell'anno precedente", contribuiscono a dare uno straordinaro slancio agli stipendi.

Due commessi sistemano il microfono a
Fausto Bertinotti
Che hanno altre caratteristiche singolari: sono onnicomprensivi (sommano straordinari e lavoro notturno) e vengono pagati per 15 mensilità. Con un riconoscimento aggiuntivo per alcuni incarichi: al segretario generale e ai suoi vice, ai capi ufficio e a tutti coloro che hanno responsabilità di coordinamento, spetta anche un'indennità di funzione (tabella a pag. 51) che varia dagli oltre 46 mila euro lordi l'anno (pari a un netto di 2.206 al mese per 12 mensilità) spettanti al segretario generale Zampetti, ai 7.300 (346 euro netti al mese) assegnati al vice assistente superiore. Di assoluto favore anche le norme che regolano la progressione retributiva all'interno di ciascun fascia, scandita da scatti biennali che variano tra il 2,5 e il 5 per cento. Ma soprattutto dai balzi economici connessi ai passaggi di livello, riconosciuti dopo il superamento di periodiche verifiche di professionalità.

Per quanto riguarda le fasce retributive della Camera (tabella in alto), la prima è costituita dagli operatori tecnici. Ne fanno parte gli addetti alle officine, gli operai, i barbieri, gli autisti e gli inservienti della buvette. Costoro entrano nei ruoli con uno stipendio lordo annuo iniziale di 32 mila 483 euro per arrivare a riscuotere, con 35 anni di servizio, la bellezza di 133 mila 375 euro (pari a 8.675 euro lordi al mese). Davvero ragguardevole se si considera che le loro mansioni sono esclusivamente manuali. Nella seconda categoria sono inquadrati invece gli assistenti, i famosi commessi in divisa e gli addetti alla vigilanza, che iniziano con una paga annuale di 36 mila 876 euro e concludono la carriera con lo stesso stipendio degli operatori tecnici. Il terzo gradino retributivo è rappresentato dai collaboratori tecnici, il gotha del proletariato parlamentare: vi sono compresi gli ex operai che hanno spuntato una qualifica superiore per il fatto di svolgere mansioni più complesse, come quelle relative "alla gestione degli impianti di riscaldamento e condizionamento" del Palazzo: questa aristocrazia operaia inizia con uno stipendio lordo annuo di 32 mila 753 euro e corona la carriera con 152 mila 790 euro (al mese, 9.937 euro lordi). Più su nella scala ci sono i segretari che supportano il lavoro dei funzionari negli uffici e nelle commissioni: ricevono un compenso di oltre 37 mila euro l'anno all'ingresso e se ne vanno dopo 35 anni con oltre 156 mila euro lordi (10.164 euro mensili). Un tetto retributivo d'eccellenza, ma pur sempre modesto se si guarda a quello che avviene nei piani alti della nomenklatura di Montecitorio.

Spulciando il trattamento della fascia superiore, cioè dei dipendenti del cosidetto IV livello, quello dei documentaristi, tecnici e ragionieri (le loro mansioni prevedono"l'istruttoria di elaborati documentali e contabili e attività di ricerca"), ci si imbatte in un balzo prodigioso delle retribuzioni: entrano alla Camera con una paga di 41 mila 432 euro l'anno per andarsene, dopo 35 anni, con 237 mila 560 euro (15.451 euro mensili lordi). Che sono tanti, ma che impallidiscono a fronte dei compensi dei consiglieri parlamentari, il gradino più alto dell'ordinamento del personale di Montecitorio. Sono tutti laureati, svolgono funzioni di organizzazione e direzione amministrativa, oltre che di supporto giuridico-legale agli organi della Camera e ai suoi componenti. Vero che sono sottoposti a due verifiche di professionalità dopo tre e nove anni di servizio (devono tra l'altro "predisporre un eleborato relativo a temi attinenti all'esperienza professionale maturata"), ma i loro stipendi sono di assoluto riguardo: iniziano con una retribuzione annuale di oltre 68 mila euro lordi per toccare, con il massimo dell'anzianità, 356 mila 788 euro, pari a 23.206 euro lordi al mese.
E al Senato? Qui si trattano ancora meglio. Nessuno riesce a spiegarne il motivo, ma le paghe di Palazzo Madama (tabella a pag. 49), per funzioni più o meno analoghe a quelle del personale della Camera, sono da sempre più alte. Pressoché identiche le voci della retribuzione (stipendio tabellare, indennità integrativa speciale, eccetera), unica differenza è lo sviluppo su 36 anni della carriera invece che sui 35 di Montecitorio. Dopodiché è il solito assalto al cielo delle retribuzioni: gli assistenti parlamentari (svolgono mansioni di vigilanza, tecniche e manuali) arrivano a riscuotere oltre 141 mila euro lordi l'anno (pari a 5.222 euro netti mensili); icoadiutori (mansioni di segreteria e archivistica) 170 mila, per uno stipendio netto di 6.194 euro; i segretari parlamentari (istruiscono "eleaborati documentali, tecnici e contabilili che richiedono attività di ricerca e progettazione") superano i 227 mila (8.120 euro netti mensili); gli stenografi (resocontano le sedute e le riunioni degli organi del Senato) saltano a quasi 254 mila (al mese, 9.018 euro netti); mentre i consiglieri possono arrivare a riscuotere a fine carriera la stratosferica cifra di 368 mila euro lordi l'anno (per un mensile netto di 12.871), oltre 12 mila euro in più dei loro pari grado della Camera.

Una commessa parlamentare
porta l'urna per le votazioni in aula
I baby nababbi
A retribuzioni tanto ricche non potevano non corrispondere trattamenti pensionistici altrettanto privilegiati. Ma quale riforma Dini, ma quale scalone di Maroni, ma quale innalzamento a 58 anni dell'età pensionabile come predica Prodi. I dipendenti di Camera e Senato non hanno mai temuto tagli per i loro trattamenti. A Montecitorio e Palazzo Madama continuano a prosperare le pensioni-baby soppresse per tutti gli altri dipendenti pubblici: si lascia il lavoro anche a 50 anni e con modalità di calcolo dell'assegno straordinariamente vantaggiose.

Cominciamo dalla Camera. Qui, per la pensione di vecchiaia, a partire dal 2000 l'età necessaria è stata progressivamente elevata a 65 anni allineandola a quella richiesta a tutti gli altri lavoratori. Per quanto riguarda invece le pensioni di anzianità dei dipendenti in servizio fino al gennaio 2001 (per quelli arrivati dopo si sta discutendo un diverso inquadramento), la situazione si fa più favorevole: è vero che si richiedono 35 anni di contribuzione e 57 anni di età come per gli altri lavoratori dipendenti, ma aggrappandosi alle pieghe del regolamento si può andare a riposo ben prima (dal 1992 a oggi l'età media di pensionamento per anzianità è di 52,9). Avendo prestato almeno20 anni di servizio effettivo (il cosidetto scalpettìo), basta pagare una modesta penalizzazione pari al 2 per cento (il cosidetto décalage) per ogni anno mancante ai 57 e il gioco è fatto. Tenendo conto che nel calcolo della contribuzione vanno considerati anche i riscatti universitari, quelli per il servizio militare e soprattutto i due bienni contributivi generosamente concessi ai dipendenti in occasione dell'anniversario dell'Unità d'Italia e della presa di Porta Pia (dichiarati validi l'ultima volta nel '92 per i dipendenti in servizio dall'allora presidente della Camera Nilde Iotti) ecco che è possibile riscuotere la pensione anche a 50 anni . E con criteri di conteggio di sfacciato favore.

Al posto del sistema contributivo (pensione commisurata ai contributi effettivamente versati) introdotto a partire dal 1995 per il resto dell'universo lavorativo, alla Camera vige ancora un sistema rigorosamente retributivo: pensione commisurata all'ultimo stipendio riscosso. In quale percentuale? Sicuramente il 90 per cento delle competenze tabellari (gli altri lavoratori pubblici si devono accontentare di circa l'80 per cento). Con una ulteriore, graziosa concessione: la cosidetta clausola d'oro che, sebbene eliminata per i miglioramenti relativi allo stato giuridico del personale in carica, aggancia ancora le pensioni degli ex dipendenti agli altri adeguamenti spettanti ai pari grado in servizio.

Ancora più generoso il trattamento di quiescienza riservato ai dipendenti del Senato. A costoro, per andare in pensione, basta raggiungere un parametro denominato quota 109, dietro il quale non si nascondono certo difficoltose asperità, ma piuttosto facilitazioni tanto comode quanto ingiustificate. Cos'è esattamente questa quota? La somma dell'età anagrafica, degli anni di servizio effettivamente svolto, dell'anzianità contributiva che, anche a Palazzo Madama, comprende gli anni riscattati per la laurea, il servizio militare e due bienni figurativi elargiti in passato da vari presidenti del Senato. È proprio applicando questi criteri chequalsiasi dipendente di 53 anni (l'età minima fissata) può chiedere e ottenere l'agognata pensione. Per scalare la fatidica quota 109 gli è sufficente sommare al requisito dell'età 25 anni di servizio effettivo e 31 di contribuzione, facilmente raggiungibili grazie ai riscatti e ai bienni figurativi (non a caso a Palazzo Madama l'età media dei pensionati per anzianità dal '92 a oggi è di 54,8). Ma non è finita: utilizzando la contribuzione figurativa (tra riscatti e bienni, nove anni in tutto), quello stesso dipendente può ottenere la pensione anche a 50 anni con una irrisoria penalizzazione: l'1,5 per cento di riduzione del trattamento complessivo per ognuno dei tre anni mancanti ai 53. Ma nessuna paura: la riduzione non si applica nel caso in cui si possa contare su una anzianità superiore ai 35 anni. Con la solita, importante garanzia per il futuro: la sicurezza di non vedere mai svalutato l'agognato assegno come il resto dei lavoratori dipendenti. Anche al Senato infatti la clausola d'oro manifesta ancora i suoi magici effetti e, nonostante alcune limitazioni introdotte negli ultimi anni, adegua automaticamente le pensioni agli stipendi dei parigrado in servizio.
tratto da l'espresso

18 agosto 2007

Utopia: Una soluzione



Non siamo stati così sciocchi da creare una valuta [collegata all’] oro, di cui non abbiamo disponibilità, ma per ogni marco stampato abbiamo richiesto l’equivalente di un marco in lavoro o in beni prodotti... ci viene da ridere tutte le volte che i nostri finanzieri nazionali sostengono che il valore della valuta deve essere regolato dall’oro o da beni conservati nei forzieri della banca di stato”.
(Adolf Hitler, citato in “Hitler’s Monetary System”, www.rense.com, che cita C. C. Veith, Citadels of Chaos, Meador, 1949)

Quello di Guernsey non fu l’unico governo a risolvere i propri problemi infrastrutturali stampando da solo la propria moneta.
Un modello assai più noto si può trovarlo nella Germania uscita dalla Prima Guerra Mondiale. Quando Hitler arrivò al potere, il paese era completamente, disperatamente in rovina. Il Trattato di Versailles aveva imposto al popolo tedesco risarcimenti che lo avevano distrutto, con i quali si intendeva rimborsare i costi sostenuti nella partecipazione alla guerra per tutti i paesi belligeranti. Costi che ammontavano al triplo del valore di tutte le proprietà esistenti nel paese. La speculazione sul marco tedesco aveva provocato il suo crollo, affrettando l’avvento di uno dei fenomeni d’inflazione più rovinosi della modernità.

Al suo apice, una carriola piena di banconote, per l’equivalente di 100 miliardi di marchi, non bastava a comprare nemmeno un tozzo di pane. Le casse dello stato erano vuote ed enormi quantità di case e di fattorie erano state sequestrate dalle banche e dagli speculatori. La gente viveva nelle baracche e moriva di fame. Nulla di simile era mai accaduto in precedenza: la totale distruzione di una moneta nazionale, che aveva spazzato via i risparmi della gente, le loro attività e l’economia in generale. A peggiorare le cose arrivò, alla fine del decennio, la depressione globale. La Germania non poteva far altro che soccombere alla schiavitù del debito e agli strozzini internazionali.
O almeno così sembrava. Hitler e i Nazional Socialisti, che arrivarono al potere nel 1933, si opposero al cartello delle banche internazionali iniziando a stampare la propria moneta. In questo presero esempio da Abraham Lincoln, che aveva finanziato la Guerra Civile Americana con banconote stampate dallo stato, che venivano chiamate “Greenbacks”. Hitler iniziò il suo programma di credito nazionale elaborando un piano di lavori pubblici. I progetti destinati a essere finanziati comprendevano le infrastrutture contro gli allagamenti, la ristrutturazione di edifici pubblici e case private e la costruzione di nuovi edifici, strade, ponti, canali e strutture portuali. Il costo di tutti questi progetti fu fissato a un miliardo di unità della valuta nazionale. Un miliardo di biglietti di cambio non inflazionati, chiamati Certificati Lavorativi del Tesoro. Questa moneta stampata dal governo non aveva come riferimento l’oro, ma tutto ciò che possedeva un valore concreto. Essenzialmente si trattava di una ricevuta rilasciata in cambio del lavoro e delle opere che venivano consegnate al governo. Hitler diceva: “Per ogni marco che viene stampato, noi abbiamo richiesto l’equivalente di un marco di lavoro svolto o di beni prodotti”. I lavoratori spendevano poi i certificati in altri beni e servizi, creando lavoro per altre persone.
Nell’arco di due anni, il problema della disoccupazione era stato risolto e il paese si era rimesso in piedi. Possedeva una valuta solida e stabile, niente debito, niente inflazione, in un momento in cui milioni di persone negli Stati Uniti e in altri paesi occidentali erano ancora senza lavoro e vivevano di assistenza. La Germania riuscì anche a ripristinare i suoi commerci con l’estero, nonostante le banche estere le negassero credito e dovesse fronteggiare un boicottaggio economico internazionale. Ci riuscì utilizzando il sistema del baratto: beni e servizi venivano scambiati direttamente con gli altri paesi, aggirando le banche internazionali. Questo sistema di scambio diretto avveniva senza creare debito né deficit commerciale. L’esperimento economico della Germania, proprio come quello di Lincoln, ebbe vita breve; ma lasciò alcuni durevoli monumenti al suo successo, come la famosa Autobahn, la prima rete del mondo di autostrade a larga estensione (1).
Di Hjalmar Schacht, che era all’epoca a capo della banca centrale tedesca, viene spesso citato un motto che riassume la versione tedesca del miracolo del “Greenback”. Un banchiere americano gli aveva detto: “Dottor Schacht, lei dovrebbe venire in America. Lì abbiamo un sacco di denaro ed è questo il vero modo di gestire un sistema bancario”. Schacht replicò: “Lei dovrebbe venire a Berlino. Lì non abbiamo denaro. E’ questo il vero modo di gestire un sistema bancario” .
Benché Hitler sia giustamente citato con infamia nei libri di storia, egli fu piuttosto popolare presso il popolo tedesco, almeno nei primi tempi. Stephen Zarlenga, in The Lost Science of Money, afferma che ciò era dovuto al fatto che egli salvò temporaneamente la Germania dalle teorie economiche inglesi. Le teorie secondo le quali il denaro deve essere scambiato sulla base delle riserve aurifere in possesso di un cartello di banche private piuttosto che stampato direttamente dal governo . Secondo il ricercatore canadese Henry Makow, questo fu probabilmente il motivo principale per cui Hitler doveva essere fermato; egli era riuscito a scavalcare i banchieri internazionali e a creare una propria moneta. Makow cita un interrogatorio del 1938 di C. G. Rakovsky, uno dei fondatori del bolscevismo sovietico e intimo di Trotzky, che finì sotto processo nell’URSS di Stalin. Secondo Rakovsky, l’ascesa di Hitler era stata in realtà finanziata dai banchieri internazionali, attraverso il loro agente Hjalmar Schacht, allo scopo di tenere sotto controllo Stalin, che aveva usurpato il potere al loro agente Trotzky. Ma Hitler era poi diventato una minaccia anche maggiore di quella rappresentata da Stalin quando aveva compiuto l’audace passo di iniziare a stampare moneta propria. Rakovsky affermava:
“[Hitler] si era impadronito del privilegio di fabbricare il denaro, e non solo il denaro fisico, ma anche quello finanziario; si era impadronito dell’intoccabile meccanismo della falsificazione e lo aveva messo al lavoro per il bene dello stato... se questa situazione fosse arrivata a infettare anche altri stati... potete ben immaginarne le implicazioni controrivoluzionarie” .
L’economista Henry C. K. Liu ha scritto sull’incredibile trasformazione tedesca:
“I nazisti arrivarono al potere in Germania nel 1933, in un momento in cui l’economia era al collasso totale, con rovinosi obblighi di risarcimento postbellico e zero prospettive per il credito e gli investimenti stranieri. Eppure, attraverso una politica di sovranità monetaria indipendente e un programma di lavori pubblici che garantiva la piena occupazione, il Terzo Reich riuscì a trasformare una Germania in bancarotta, privata perfino di colonie da poter sfruttare, nell’economia più forte d’Europa, in soli quattro anni, ancor prima che iniziassero le spese per gli armamenti” .
In Billions for the Bankers, Debts for the People [Miliardi per le Banche, Debito per i Popoli], (1984), Sheldon Emry commenta:
“Dal 1935 in poi, la Germania iniziò a stampare una moneta libera dal debito e dagli interessi, ed è questo che spiega la sua travolgente ascesa dalla depressione alla condizione di potenza mondiale in soli 5 anni. La Germania finanziò il proprio governo e tutte le operazioni belliche, dal 1935 al 1945, senza aver bisogno di oro né di debito, e fu necessaria l’unione di tutto il mondo capitalista e comunista per distruggere il potere della Germania sull’Europa e riportare l’Europa sotto il tallone dei banchieri. Questa vicenda monetaria non compare oggi più neanche nei testi delle scuole pubbliche”.
tratto da webofdebt ELLEN BROWN

17 agosto 2007

Utopia prossima avventura


Mentre gli eventi quotidiani si svolgono con ritmo sempre più incalzante, qualcuno ripropone il vecchio adagio "devo andare piano perché devo arrivare".
Con lucida interpretazione lavoro e denaro vengono analizzate da un grande incompreso.

Diceva Platone che gli errori maggiormente devianti sono quelli iniziali.
Come in artiglieria vale la regola per cui lo spostamento pur minimo della bocca da fuoco, in partenza, causa l'impossibilità che il proiettile centri l'obbiettivo, così, nella logica, l'errata valutazione delle premesse, determina errori irreparabili.
Ebbene, tutta la problematica in materia di lavoro è oggi permeata di fesserie o perché gli addetti ai lavori non hanno letto Platone o perché non hanno fatto servizio militare in artiglieria (ovvero, pur avendolo fatto, non hanno capito un «tubo»).
Dimostrerò ora la validità di questi principi soffermandomi a considerare i tre problemi più scottanti in materia di lavoro:
la conflittualità contrattuale, la disoccupazione, l'immigrazione.
1) La conflittualità contrattuale
L'equivoco di fondo che impedisce ogni possibilità di sostituire alla regola della «conflittualità» quella del «tener fede alla parola data», si basa sulla circostanza che tutta la dinamica dei contratti di lavoro risente ancora dell'equivoco della teoria del plusvalore di Marx.
Marx disse che il datore di lavoro «truffa» a danno del lavoratore il margine di profitto cioè il «reddito di capitale», ossia il «plusvalore».
E' sorto così il sindacato come strumento di rivoluzione per rivendicare nei confronti del datore di lavoro il «plusvalore» sotto forma di «aumento dei salari».
Poiché il salario non è «profitto», ma «costo», l'aumento dei salari non può causare distribuzione di profitto, ma solo «aumento dei costi», con il conseguente «aumento dei prezzi» e quindi della inflazione che causa la ulteriore necessità di aumentare i salari in una spirale senza fine.
Come il cane che si morde la coda.
La soluzione del problema sta nell'attribuire, sotto forma di reddito, il reddito e, sotto forma di salario, il salario.
Il reddito deve essere corrisposto al cittadino come tale senza il corrispettivo del lavoro (altrimenti sarebbe salario) e cioè nella qualità di proprietario e non di lavoratore.
La formula del «tutti proprietari» enunciata nella «Rerum Novarum» era concettualmente esatta.
Senonché il principio rimaneva relegato nella soffitta delle utopie, perché non poteva essere realizzato che togliendo ai ricchi per dare ai poveri.
Di qui la contrapposizione tra destra (tendenzialmente i più ricchi) e sinistra (tendenzialmente i più poveri), in una conflittualità cronica incomponibile.
Oggi, con la definizione del valore monetario come valore indotto, producibile senza altro costo che quello del simbolo, rendendo partecipe ogni cittadino della quota di reddito causato dall'emissione monetaria è possibile attribuire ad ognuno un «reddito di cittadinanza» come contenuto economico di un diritto sociale universale, superando l'antitesi fra destra e sinistra.
In altri termini, una volta dimostrato che la moneta ha valore per il semplice fatto che ci si è messi d'accordo che lo abbia, sarà possibile garantire ad ognuno nella qualità di «proprietario» un diritto della persona con contenuto patrimoniale.
Rafforzata così, una volta per sempre e definitivamente, la posizione del contraente più debole, il contratto di lavoro potrà tornare ad esistere sulla regola del «tener fede alla parola data» perché il lavoratore accetterà il contratto, non perché costretto dallo stato di necessità, ma perché lo ha liberamente voluto.
Egli potrà così accettare un contratto di lavoro anche per una lira al mese.
I contratti collettivi non avranno più ragione di esistere.
La concorrenza della mano d'opera straniera sotto pagata, sarebbe totalmente abolita perché finalmente il mercato tornerebbe ad operare nel rispetto dei fondamentali valori etici, giuridici ed economici di un diritto sociale universale.

2) La disoccupazione
La disoccupazione, così come concepita dai politologi contemporanei è un falso problema.
Il vero problema, infatti, non è la disoccupazione ma «la voglia dilavorare che non c'è più».
Nessun politico ha capito infatti che non stiamo vivendo in regime di «democrazia», ma, di «usurocrazia».
Quando gli economisti ed i politici alla ribalta, pretendono di analizzare le cause della disoccupazione sul principio della insopportabilità dei costi di produzione ignorando la circostanza che la Banca Centrale, all'atto dell'emissione carica il costo del
denaro del 200% prestando il dovuto, ossia addebitando alla collettività il denaro che ad essa dovrebbe essere accreditato, e che questo costo, già enorme di per sè, viene ulteriormente gravato degli interessi bancari e dei prelievi fiscali per raggiungere il
traguardo del 300%, si comprende perché meritano di essere giudicati per quello che sono: un conglomerato di presuntuosi imbecilli.
Per rendersi conto della validità di questi argomenti basti ricordare che quando la moneta era d'oro il portatore ne era il proprietario; con l`avvento dello Stato costituzionale e della moneta nominale ne è diventato inconsapevolmente il debitore.
Solo così si comprende perché «tutti gli usurai sono liberali anche se non tutti i liberali sono usurai», secondo l'intuizione poundiana.
I liberali «non usurai» potevano essere perdonati per la loro ingenuità quando gli eventi storici non avevano ancora evidenziato il trionfo clamoroso dell'usura: ormai non più.
Pretendere di sostenere la giustificazione razionale ed etica di questo regime spacciando sotto il titolo nobilissimo di «democrazia», «l'usurocrazia», trasforma l'ingenuo in «trombone» della politica.
Il vero scopo inconfessato della Rivoluzione Francese è stata la separazione della sovranità monetaria dalla sovranità politica per attribuirla alle soggettività strumentali delle Banche Centrali e trasformare i popoli da proprietari in debitori del loro denaro,
sostituendo alla moneta d'oro la moneta nominale,ossia alla moneta proprietà la moneta debito, ossia al «numero dell'Uomo», il «numero della bestia».
Una volta si lavorava per un profitto: la speranza di conseguirlo causava l'incentivo a lavorare.
Oggi chi più lavora più si indebita.
Ecco perché non solo passa la voglia di lavorare, ma addirittura viene la nausea del lavoro.
E' questa dunque la causa vera della disoccupazione: l'usura.

3) L'immigrazione
Il denaro per gli uomini è come l'acqua per i pesci.
In tempi di siccità i pesci abbandonano le zone asciutte e si rifugiano nelle pozzanghere d'acqua.
Su questa regola elementare, i banchieri dell'ottocento spostarono milioni di uomini dall'Europa all'America del Nord, creando rarità monetaria in Europa ed abbondanza di moneta-carta, di costo nullo, in America.
Oggi i padroni del denaro hanno creato rarità monetaria nelle cosiddette aree depresse - o, per meglio dire, che hanno deciso di deprimere - sicché, come i pesci, i popoli si spostano verso le aree con minore rarità monetaria.
Anche per questo problema dunque la soluzione è abolire l'usura, ossia fare di ogni popolo il proprietario della sua moneta in modo che ognuno possa rimanere in pace a casa sua.

Giacinto Auriti

19 agosto 2007

I furbetti delle Camere: il loro eldorado.



Fare il ragioniere alla Camera è affare certamente impegnativo. E non a caso ci vuole una laurea triennale per accedere al rango. Dall'alto di questa mansione si istruiscono le pratiche per i rimborsi elettorali dei partiti, si preparano le buste paga dei parlamentari, si cura l'amministrazione di Montecitorio. Giusto che si riceva uno stipendio adeguato alle responsabilità del mestiere. Ma fare il presidente della Repubblica, è certamente compito più delicato e importante per le sorti del Paese. E il trattamento economico, soprattutto in tempi nei quali si predica tanto la meritocrazia, dovrebbe tenerne conto. Cosa dicono invece le buste paga degli interessati? Che con i suoi 237 mila 560 euro lordi annui (rivalutati ogni 12 mesi) maturati dopo 35 anni di servizio, il ragioniere di Montecitorio guadagna quasi 20 mila euro in più del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, il cui appannaggio, congelato ai valore del 1999 per le difficoltà dei conti pubblici, è fermo a 218 mila euro lordi l'anno. E come non restare ammirati di fronte agli stenografi del Senato? Sono 60 in tutto e compilano i resoconti dei lavori dell'aula e delle varie commissioni. Svolgono un lavoro ormai in estinzione per via delle nuove tecnologie, ma all'apice della carriera arrivano a guadagnare 253 mila 700 euro lordi l'anno. Molto di più non solo del presidente Napolitano, ma anche del capo del governo Romano Prodi che, tra indennità parlamentare (145 mila 626 euro), stipendio da premier (54 mila 710) e indennità di funzione (11 mila 622), arriva a 212 mila euro lordi l'anno. E di ministri titolati come Massimo D'Alema (Esteri), che riscuote 189 mila 847 euro, e Tommaso Padoa-Schioppa (Economia), che ogni anno incassa 203 mila 394 euro lordi (è la paga dei ministri non parlamentari). Tutti abbondantemente distanziati dallo stenografo e dal ragioniere e addirittura umiliati al cospetto dei compensi dei segretari generali di Senato e Camera, Antonio Malaschini e Ugo Zampetti, che a fine anno arriveranno a incassare rispettivamente 485 mila e 483 mila euro lordi.


Ecco le sorprese che spuntano esaminando i dati sul trattamento economico dei dipendenti di Camera e Senato. E non sono le sole: barbieri ('operatori tecnici') che possono arrivare a guadagnare oltre 133 mila euro lordi l'anno a fronte dei circa 98 mila di un magistrato d'appello con 13 anni di anzianità. E collaboratori tecnici operai che dall'alto dei loro 152 mila euro se la ridono dei professori universitari ordinari a tempo pieno inchiodati, dopo vari anni di carriera, a circa 80 mila euro lordi l'anno. Retribuzioni da favola, insomma, che non hanno uguali nell'universo del pubblico impiego e che si accompagnano a trattamenti pensionistici di assoluto favore perfettamente allineati, in tema di privilegi, ai criticatissimi vitalizi di deputati e senatori. Ma quanti sono questi fortunati dipendenti parlamentari? Quanto guadagnano esattamente? E attraverso quali meccanismi riescono ad ottenere trattamenti economici così favorevoli?

Stipendi d'oro I dipendenti di Camera e Senato (vengono assunti solo per concorso) sono in tutto 2.908, di cui 1.850 a Montecitorio e 1.058 a Palazzo Madama. I primi (dati dei bilanci 2006) costano complessivamente circa 370 milioni di euro, i secondi 198; molto di più di deputati (287) e senatori (133 milioni). Per ambedue i rami del Parlamento le voci che pesano di più nei capitoli di spesa per il personale sono gli stipendi e le pensioni. Per quanto riguarda le retribuzioni, la Camera sborsa ogni anno 210 milioni di euro a fronte dei 130 milioni del Senato. I costi delle pensioni assorbono invece 158 milioni nel bilancio di Montecitorio e 70 milioni a Palazzo Madama. La prima cosa che salta agli occhi, sia alla Camera che al Senato, sono le singolari regole di calcolo di stipendi e pensioni, regole tanto sorprendenti da trasformare i due palazzi in autentiche isole del privilegio. A fissarle, godendo le due strutture dell'autonomia amministrativa garantita agli organi costituzionali, sono stati in passato i due uffici di presidenza di Camera e Senato, composti dai rispettivi presidenti (i predecessori di Fausto Bertinotti e Franco Marini), i loro vice e tre parlamentari-questori.
Per quanto riguarda Montecitorio, i dipendenti sono distribuiti in sei categorie retributive. Da cosa sono costitute esattamente le retribuzioni? Dallo stipendio tabellare (paga base); dalla indennità integrativa speciale (la vecchia contingenza, bloccata al 1996) e da altre voci come gli assegni di anzianità che vengono elargiti nella misura del 10 per cento della paga tabellare al diciassettesimo e al ventitreesimo anno di servizio. Tutte voci che, insieme a una strana "indennità pensionabile, pari al 2,5 per cento delle competenze lorde annue dell'anno precedente", contribuiscono a dare uno straordinaro slancio agli stipendi.

Due commessi sistemano il microfono a
Fausto Bertinotti
Che hanno altre caratteristiche singolari: sono onnicomprensivi (sommano straordinari e lavoro notturno) e vengono pagati per 15 mensilità. Con un riconoscimento aggiuntivo per alcuni incarichi: al segretario generale e ai suoi vice, ai capi ufficio e a tutti coloro che hanno responsabilità di coordinamento, spetta anche un'indennità di funzione (tabella a pag. 51) che varia dagli oltre 46 mila euro lordi l'anno (pari a un netto di 2.206 al mese per 12 mensilità) spettanti al segretario generale Zampetti, ai 7.300 (346 euro netti al mese) assegnati al vice assistente superiore. Di assoluto favore anche le norme che regolano la progressione retributiva all'interno di ciascun fascia, scandita da scatti biennali che variano tra il 2,5 e il 5 per cento. Ma soprattutto dai balzi economici connessi ai passaggi di livello, riconosciuti dopo il superamento di periodiche verifiche di professionalità.

Per quanto riguarda le fasce retributive della Camera (tabella in alto), la prima è costituita dagli operatori tecnici. Ne fanno parte gli addetti alle officine, gli operai, i barbieri, gli autisti e gli inservienti della buvette. Costoro entrano nei ruoli con uno stipendio lordo annuo iniziale di 32 mila 483 euro per arrivare a riscuotere, con 35 anni di servizio, la bellezza di 133 mila 375 euro (pari a 8.675 euro lordi al mese). Davvero ragguardevole se si considera che le loro mansioni sono esclusivamente manuali. Nella seconda categoria sono inquadrati invece gli assistenti, i famosi commessi in divisa e gli addetti alla vigilanza, che iniziano con una paga annuale di 36 mila 876 euro e concludono la carriera con lo stesso stipendio degli operatori tecnici. Il terzo gradino retributivo è rappresentato dai collaboratori tecnici, il gotha del proletariato parlamentare: vi sono compresi gli ex operai che hanno spuntato una qualifica superiore per il fatto di svolgere mansioni più complesse, come quelle relative "alla gestione degli impianti di riscaldamento e condizionamento" del Palazzo: questa aristocrazia operaia inizia con uno stipendio lordo annuo di 32 mila 753 euro e corona la carriera con 152 mila 790 euro (al mese, 9.937 euro lordi). Più su nella scala ci sono i segretari che supportano il lavoro dei funzionari negli uffici e nelle commissioni: ricevono un compenso di oltre 37 mila euro l'anno all'ingresso e se ne vanno dopo 35 anni con oltre 156 mila euro lordi (10.164 euro mensili). Un tetto retributivo d'eccellenza, ma pur sempre modesto se si guarda a quello che avviene nei piani alti della nomenklatura di Montecitorio.

Spulciando il trattamento della fascia superiore, cioè dei dipendenti del cosidetto IV livello, quello dei documentaristi, tecnici e ragionieri (le loro mansioni prevedono"l'istruttoria di elaborati documentali e contabili e attività di ricerca"), ci si imbatte in un balzo prodigioso delle retribuzioni: entrano alla Camera con una paga di 41 mila 432 euro l'anno per andarsene, dopo 35 anni, con 237 mila 560 euro (15.451 euro mensili lordi). Che sono tanti, ma che impallidiscono a fronte dei compensi dei consiglieri parlamentari, il gradino più alto dell'ordinamento del personale di Montecitorio. Sono tutti laureati, svolgono funzioni di organizzazione e direzione amministrativa, oltre che di supporto giuridico-legale agli organi della Camera e ai suoi componenti. Vero che sono sottoposti a due verifiche di professionalità dopo tre e nove anni di servizio (devono tra l'altro "predisporre un eleborato relativo a temi attinenti all'esperienza professionale maturata"), ma i loro stipendi sono di assoluto riguardo: iniziano con una retribuzione annuale di oltre 68 mila euro lordi per toccare, con il massimo dell'anzianità, 356 mila 788 euro, pari a 23.206 euro lordi al mese.
E al Senato? Qui si trattano ancora meglio. Nessuno riesce a spiegarne il motivo, ma le paghe di Palazzo Madama (tabella a pag. 49), per funzioni più o meno analoghe a quelle del personale della Camera, sono da sempre più alte. Pressoché identiche le voci della retribuzione (stipendio tabellare, indennità integrativa speciale, eccetera), unica differenza è lo sviluppo su 36 anni della carriera invece che sui 35 di Montecitorio. Dopodiché è il solito assalto al cielo delle retribuzioni: gli assistenti parlamentari (svolgono mansioni di vigilanza, tecniche e manuali) arrivano a riscuotere oltre 141 mila euro lordi l'anno (pari a 5.222 euro netti mensili); icoadiutori (mansioni di segreteria e archivistica) 170 mila, per uno stipendio netto di 6.194 euro; i segretari parlamentari (istruiscono "eleaborati documentali, tecnici e contabilili che richiedono attività di ricerca e progettazione") superano i 227 mila (8.120 euro netti mensili); gli stenografi (resocontano le sedute e le riunioni degli organi del Senato) saltano a quasi 254 mila (al mese, 9.018 euro netti); mentre i consiglieri possono arrivare a riscuotere a fine carriera la stratosferica cifra di 368 mila euro lordi l'anno (per un mensile netto di 12.871), oltre 12 mila euro in più dei loro pari grado della Camera.

Una commessa parlamentare
porta l'urna per le votazioni in aula
I baby nababbi
A retribuzioni tanto ricche non potevano non corrispondere trattamenti pensionistici altrettanto privilegiati. Ma quale riforma Dini, ma quale scalone di Maroni, ma quale innalzamento a 58 anni dell'età pensionabile come predica Prodi. I dipendenti di Camera e Senato non hanno mai temuto tagli per i loro trattamenti. A Montecitorio e Palazzo Madama continuano a prosperare le pensioni-baby soppresse per tutti gli altri dipendenti pubblici: si lascia il lavoro anche a 50 anni e con modalità di calcolo dell'assegno straordinariamente vantaggiose.

Cominciamo dalla Camera. Qui, per la pensione di vecchiaia, a partire dal 2000 l'età necessaria è stata progressivamente elevata a 65 anni allineandola a quella richiesta a tutti gli altri lavoratori. Per quanto riguarda invece le pensioni di anzianità dei dipendenti in servizio fino al gennaio 2001 (per quelli arrivati dopo si sta discutendo un diverso inquadramento), la situazione si fa più favorevole: è vero che si richiedono 35 anni di contribuzione e 57 anni di età come per gli altri lavoratori dipendenti, ma aggrappandosi alle pieghe del regolamento si può andare a riposo ben prima (dal 1992 a oggi l'età media di pensionamento per anzianità è di 52,9). Avendo prestato almeno20 anni di servizio effettivo (il cosidetto scalpettìo), basta pagare una modesta penalizzazione pari al 2 per cento (il cosidetto décalage) per ogni anno mancante ai 57 e il gioco è fatto. Tenendo conto che nel calcolo della contribuzione vanno considerati anche i riscatti universitari, quelli per il servizio militare e soprattutto i due bienni contributivi generosamente concessi ai dipendenti in occasione dell'anniversario dell'Unità d'Italia e della presa di Porta Pia (dichiarati validi l'ultima volta nel '92 per i dipendenti in servizio dall'allora presidente della Camera Nilde Iotti) ecco che è possibile riscuotere la pensione anche a 50 anni . E con criteri di conteggio di sfacciato favore.

Al posto del sistema contributivo (pensione commisurata ai contributi effettivamente versati) introdotto a partire dal 1995 per il resto dell'universo lavorativo, alla Camera vige ancora un sistema rigorosamente retributivo: pensione commisurata all'ultimo stipendio riscosso. In quale percentuale? Sicuramente il 90 per cento delle competenze tabellari (gli altri lavoratori pubblici si devono accontentare di circa l'80 per cento). Con una ulteriore, graziosa concessione: la cosidetta clausola d'oro che, sebbene eliminata per i miglioramenti relativi allo stato giuridico del personale in carica, aggancia ancora le pensioni degli ex dipendenti agli altri adeguamenti spettanti ai pari grado in servizio.

Ancora più generoso il trattamento di quiescienza riservato ai dipendenti del Senato. A costoro, per andare in pensione, basta raggiungere un parametro denominato quota 109, dietro il quale non si nascondono certo difficoltose asperità, ma piuttosto facilitazioni tanto comode quanto ingiustificate. Cos'è esattamente questa quota? La somma dell'età anagrafica, degli anni di servizio effettivamente svolto, dell'anzianità contributiva che, anche a Palazzo Madama, comprende gli anni riscattati per la laurea, il servizio militare e due bienni figurativi elargiti in passato da vari presidenti del Senato. È proprio applicando questi criteri chequalsiasi dipendente di 53 anni (l'età minima fissata) può chiedere e ottenere l'agognata pensione. Per scalare la fatidica quota 109 gli è sufficente sommare al requisito dell'età 25 anni di servizio effettivo e 31 di contribuzione, facilmente raggiungibili grazie ai riscatti e ai bienni figurativi (non a caso a Palazzo Madama l'età media dei pensionati per anzianità dal '92 a oggi è di 54,8). Ma non è finita: utilizzando la contribuzione figurativa (tra riscatti e bienni, nove anni in tutto), quello stesso dipendente può ottenere la pensione anche a 50 anni con una irrisoria penalizzazione: l'1,5 per cento di riduzione del trattamento complessivo per ognuno dei tre anni mancanti ai 53. Ma nessuna paura: la riduzione non si applica nel caso in cui si possa contare su una anzianità superiore ai 35 anni. Con la solita, importante garanzia per il futuro: la sicurezza di non vedere mai svalutato l'agognato assegno come il resto dei lavoratori dipendenti. Anche al Senato infatti la clausola d'oro manifesta ancora i suoi magici effetti e, nonostante alcune limitazioni introdotte negli ultimi anni, adegua automaticamente le pensioni agli stipendi dei parigrado in servizio.
tratto da l'espresso

18 agosto 2007

Utopia: Una soluzione



Non siamo stati così sciocchi da creare una valuta [collegata all’] oro, di cui non abbiamo disponibilità, ma per ogni marco stampato abbiamo richiesto l’equivalente di un marco in lavoro o in beni prodotti... ci viene da ridere tutte le volte che i nostri finanzieri nazionali sostengono che il valore della valuta deve essere regolato dall’oro o da beni conservati nei forzieri della banca di stato”.
(Adolf Hitler, citato in “Hitler’s Monetary System”, www.rense.com, che cita C. C. Veith, Citadels of Chaos, Meador, 1949)

Quello di Guernsey non fu l’unico governo a risolvere i propri problemi infrastrutturali stampando da solo la propria moneta.
Un modello assai più noto si può trovarlo nella Germania uscita dalla Prima Guerra Mondiale. Quando Hitler arrivò al potere, il paese era completamente, disperatamente in rovina. Il Trattato di Versailles aveva imposto al popolo tedesco risarcimenti che lo avevano distrutto, con i quali si intendeva rimborsare i costi sostenuti nella partecipazione alla guerra per tutti i paesi belligeranti. Costi che ammontavano al triplo del valore di tutte le proprietà esistenti nel paese. La speculazione sul marco tedesco aveva provocato il suo crollo, affrettando l’avvento di uno dei fenomeni d’inflazione più rovinosi della modernità.

Al suo apice, una carriola piena di banconote, per l’equivalente di 100 miliardi di marchi, non bastava a comprare nemmeno un tozzo di pane. Le casse dello stato erano vuote ed enormi quantità di case e di fattorie erano state sequestrate dalle banche e dagli speculatori. La gente viveva nelle baracche e moriva di fame. Nulla di simile era mai accaduto in precedenza: la totale distruzione di una moneta nazionale, che aveva spazzato via i risparmi della gente, le loro attività e l’economia in generale. A peggiorare le cose arrivò, alla fine del decennio, la depressione globale. La Germania non poteva far altro che soccombere alla schiavitù del debito e agli strozzini internazionali.
O almeno così sembrava. Hitler e i Nazional Socialisti, che arrivarono al potere nel 1933, si opposero al cartello delle banche internazionali iniziando a stampare la propria moneta. In questo presero esempio da Abraham Lincoln, che aveva finanziato la Guerra Civile Americana con banconote stampate dallo stato, che venivano chiamate “Greenbacks”. Hitler iniziò il suo programma di credito nazionale elaborando un piano di lavori pubblici. I progetti destinati a essere finanziati comprendevano le infrastrutture contro gli allagamenti, la ristrutturazione di edifici pubblici e case private e la costruzione di nuovi edifici, strade, ponti, canali e strutture portuali. Il costo di tutti questi progetti fu fissato a un miliardo di unità della valuta nazionale. Un miliardo di biglietti di cambio non inflazionati, chiamati Certificati Lavorativi del Tesoro. Questa moneta stampata dal governo non aveva come riferimento l’oro, ma tutto ciò che possedeva un valore concreto. Essenzialmente si trattava di una ricevuta rilasciata in cambio del lavoro e delle opere che venivano consegnate al governo. Hitler diceva: “Per ogni marco che viene stampato, noi abbiamo richiesto l’equivalente di un marco di lavoro svolto o di beni prodotti”. I lavoratori spendevano poi i certificati in altri beni e servizi, creando lavoro per altre persone.
Nell’arco di due anni, il problema della disoccupazione era stato risolto e il paese si era rimesso in piedi. Possedeva una valuta solida e stabile, niente debito, niente inflazione, in un momento in cui milioni di persone negli Stati Uniti e in altri paesi occidentali erano ancora senza lavoro e vivevano di assistenza. La Germania riuscì anche a ripristinare i suoi commerci con l’estero, nonostante le banche estere le negassero credito e dovesse fronteggiare un boicottaggio economico internazionale. Ci riuscì utilizzando il sistema del baratto: beni e servizi venivano scambiati direttamente con gli altri paesi, aggirando le banche internazionali. Questo sistema di scambio diretto avveniva senza creare debito né deficit commerciale. L’esperimento economico della Germania, proprio come quello di Lincoln, ebbe vita breve; ma lasciò alcuni durevoli monumenti al suo successo, come la famosa Autobahn, la prima rete del mondo di autostrade a larga estensione (1).
Di Hjalmar Schacht, che era all’epoca a capo della banca centrale tedesca, viene spesso citato un motto che riassume la versione tedesca del miracolo del “Greenback”. Un banchiere americano gli aveva detto: “Dottor Schacht, lei dovrebbe venire in America. Lì abbiamo un sacco di denaro ed è questo il vero modo di gestire un sistema bancario”. Schacht replicò: “Lei dovrebbe venire a Berlino. Lì non abbiamo denaro. E’ questo il vero modo di gestire un sistema bancario” .
Benché Hitler sia giustamente citato con infamia nei libri di storia, egli fu piuttosto popolare presso il popolo tedesco, almeno nei primi tempi. Stephen Zarlenga, in The Lost Science of Money, afferma che ciò era dovuto al fatto che egli salvò temporaneamente la Germania dalle teorie economiche inglesi. Le teorie secondo le quali il denaro deve essere scambiato sulla base delle riserve aurifere in possesso di un cartello di banche private piuttosto che stampato direttamente dal governo . Secondo il ricercatore canadese Henry Makow, questo fu probabilmente il motivo principale per cui Hitler doveva essere fermato; egli era riuscito a scavalcare i banchieri internazionali e a creare una propria moneta. Makow cita un interrogatorio del 1938 di C. G. Rakovsky, uno dei fondatori del bolscevismo sovietico e intimo di Trotzky, che finì sotto processo nell’URSS di Stalin. Secondo Rakovsky, l’ascesa di Hitler era stata in realtà finanziata dai banchieri internazionali, attraverso il loro agente Hjalmar Schacht, allo scopo di tenere sotto controllo Stalin, che aveva usurpato il potere al loro agente Trotzky. Ma Hitler era poi diventato una minaccia anche maggiore di quella rappresentata da Stalin quando aveva compiuto l’audace passo di iniziare a stampare moneta propria. Rakovsky affermava:
“[Hitler] si era impadronito del privilegio di fabbricare il denaro, e non solo il denaro fisico, ma anche quello finanziario; si era impadronito dell’intoccabile meccanismo della falsificazione e lo aveva messo al lavoro per il bene dello stato... se questa situazione fosse arrivata a infettare anche altri stati... potete ben immaginarne le implicazioni controrivoluzionarie” .
L’economista Henry C. K. Liu ha scritto sull’incredibile trasformazione tedesca:
“I nazisti arrivarono al potere in Germania nel 1933, in un momento in cui l’economia era al collasso totale, con rovinosi obblighi di risarcimento postbellico e zero prospettive per il credito e gli investimenti stranieri. Eppure, attraverso una politica di sovranità monetaria indipendente e un programma di lavori pubblici che garantiva la piena occupazione, il Terzo Reich riuscì a trasformare una Germania in bancarotta, privata perfino di colonie da poter sfruttare, nell’economia più forte d’Europa, in soli quattro anni, ancor prima che iniziassero le spese per gli armamenti” .
In Billions for the Bankers, Debts for the People [Miliardi per le Banche, Debito per i Popoli], (1984), Sheldon Emry commenta:
“Dal 1935 in poi, la Germania iniziò a stampare una moneta libera dal debito e dagli interessi, ed è questo che spiega la sua travolgente ascesa dalla depressione alla condizione di potenza mondiale in soli 5 anni. La Germania finanziò il proprio governo e tutte le operazioni belliche, dal 1935 al 1945, senza aver bisogno di oro né di debito, e fu necessaria l’unione di tutto il mondo capitalista e comunista per distruggere il potere della Germania sull’Europa e riportare l’Europa sotto il tallone dei banchieri. Questa vicenda monetaria non compare oggi più neanche nei testi delle scuole pubbliche”.
tratto da webofdebt ELLEN BROWN

17 agosto 2007

Utopia prossima avventura


Mentre gli eventi quotidiani si svolgono con ritmo sempre più incalzante, qualcuno ripropone il vecchio adagio "devo andare piano perché devo arrivare".
Con lucida interpretazione lavoro e denaro vengono analizzate da un grande incompreso.

Diceva Platone che gli errori maggiormente devianti sono quelli iniziali.
Come in artiglieria vale la regola per cui lo spostamento pur minimo della bocca da fuoco, in partenza, causa l'impossibilità che il proiettile centri l'obbiettivo, così, nella logica, l'errata valutazione delle premesse, determina errori irreparabili.
Ebbene, tutta la problematica in materia di lavoro è oggi permeata di fesserie o perché gli addetti ai lavori non hanno letto Platone o perché non hanno fatto servizio militare in artiglieria (ovvero, pur avendolo fatto, non hanno capito un «tubo»).
Dimostrerò ora la validità di questi principi soffermandomi a considerare i tre problemi più scottanti in materia di lavoro:
la conflittualità contrattuale, la disoccupazione, l'immigrazione.
1) La conflittualità contrattuale
L'equivoco di fondo che impedisce ogni possibilità di sostituire alla regola della «conflittualità» quella del «tener fede alla parola data», si basa sulla circostanza che tutta la dinamica dei contratti di lavoro risente ancora dell'equivoco della teoria del plusvalore di Marx.
Marx disse che il datore di lavoro «truffa» a danno del lavoratore il margine di profitto cioè il «reddito di capitale», ossia il «plusvalore».
E' sorto così il sindacato come strumento di rivoluzione per rivendicare nei confronti del datore di lavoro il «plusvalore» sotto forma di «aumento dei salari».
Poiché il salario non è «profitto», ma «costo», l'aumento dei salari non può causare distribuzione di profitto, ma solo «aumento dei costi», con il conseguente «aumento dei prezzi» e quindi della inflazione che causa la ulteriore necessità di aumentare i salari in una spirale senza fine.
Come il cane che si morde la coda.
La soluzione del problema sta nell'attribuire, sotto forma di reddito, il reddito e, sotto forma di salario, il salario.
Il reddito deve essere corrisposto al cittadino come tale senza il corrispettivo del lavoro (altrimenti sarebbe salario) e cioè nella qualità di proprietario e non di lavoratore.
La formula del «tutti proprietari» enunciata nella «Rerum Novarum» era concettualmente esatta.
Senonché il principio rimaneva relegato nella soffitta delle utopie, perché non poteva essere realizzato che togliendo ai ricchi per dare ai poveri.
Di qui la contrapposizione tra destra (tendenzialmente i più ricchi) e sinistra (tendenzialmente i più poveri), in una conflittualità cronica incomponibile.
Oggi, con la definizione del valore monetario come valore indotto, producibile senza altro costo che quello del simbolo, rendendo partecipe ogni cittadino della quota di reddito causato dall'emissione monetaria è possibile attribuire ad ognuno un «reddito di cittadinanza» come contenuto economico di un diritto sociale universale, superando l'antitesi fra destra e sinistra.
In altri termini, una volta dimostrato che la moneta ha valore per il semplice fatto che ci si è messi d'accordo che lo abbia, sarà possibile garantire ad ognuno nella qualità di «proprietario» un diritto della persona con contenuto patrimoniale.
Rafforzata così, una volta per sempre e definitivamente, la posizione del contraente più debole, il contratto di lavoro potrà tornare ad esistere sulla regola del «tener fede alla parola data» perché il lavoratore accetterà il contratto, non perché costretto dallo stato di necessità, ma perché lo ha liberamente voluto.
Egli potrà così accettare un contratto di lavoro anche per una lira al mese.
I contratti collettivi non avranno più ragione di esistere.
La concorrenza della mano d'opera straniera sotto pagata, sarebbe totalmente abolita perché finalmente il mercato tornerebbe ad operare nel rispetto dei fondamentali valori etici, giuridici ed economici di un diritto sociale universale.

2) La disoccupazione
La disoccupazione, così come concepita dai politologi contemporanei è un falso problema.
Il vero problema, infatti, non è la disoccupazione ma «la voglia dilavorare che non c'è più».
Nessun politico ha capito infatti che non stiamo vivendo in regime di «democrazia», ma, di «usurocrazia».
Quando gli economisti ed i politici alla ribalta, pretendono di analizzare le cause della disoccupazione sul principio della insopportabilità dei costi di produzione ignorando la circostanza che la Banca Centrale, all'atto dell'emissione carica il costo del
denaro del 200% prestando il dovuto, ossia addebitando alla collettività il denaro che ad essa dovrebbe essere accreditato, e che questo costo, già enorme di per sè, viene ulteriormente gravato degli interessi bancari e dei prelievi fiscali per raggiungere il
traguardo del 300%, si comprende perché meritano di essere giudicati per quello che sono: un conglomerato di presuntuosi imbecilli.
Per rendersi conto della validità di questi argomenti basti ricordare che quando la moneta era d'oro il portatore ne era il proprietario; con l`avvento dello Stato costituzionale e della moneta nominale ne è diventato inconsapevolmente il debitore.
Solo così si comprende perché «tutti gli usurai sono liberali anche se non tutti i liberali sono usurai», secondo l'intuizione poundiana.
I liberali «non usurai» potevano essere perdonati per la loro ingenuità quando gli eventi storici non avevano ancora evidenziato il trionfo clamoroso dell'usura: ormai non più.
Pretendere di sostenere la giustificazione razionale ed etica di questo regime spacciando sotto il titolo nobilissimo di «democrazia», «l'usurocrazia», trasforma l'ingenuo in «trombone» della politica.
Il vero scopo inconfessato della Rivoluzione Francese è stata la separazione della sovranità monetaria dalla sovranità politica per attribuirla alle soggettività strumentali delle Banche Centrali e trasformare i popoli da proprietari in debitori del loro denaro,
sostituendo alla moneta d'oro la moneta nominale,ossia alla moneta proprietà la moneta debito, ossia al «numero dell'Uomo», il «numero della bestia».
Una volta si lavorava per un profitto: la speranza di conseguirlo causava l'incentivo a lavorare.
Oggi chi più lavora più si indebita.
Ecco perché non solo passa la voglia di lavorare, ma addirittura viene la nausea del lavoro.
E' questa dunque la causa vera della disoccupazione: l'usura.

3) L'immigrazione
Il denaro per gli uomini è come l'acqua per i pesci.
In tempi di siccità i pesci abbandonano le zone asciutte e si rifugiano nelle pozzanghere d'acqua.
Su questa regola elementare, i banchieri dell'ottocento spostarono milioni di uomini dall'Europa all'America del Nord, creando rarità monetaria in Europa ed abbondanza di moneta-carta, di costo nullo, in America.
Oggi i padroni del denaro hanno creato rarità monetaria nelle cosiddette aree depresse - o, per meglio dire, che hanno deciso di deprimere - sicché, come i pesci, i popoli si spostano verso le aree con minore rarità monetaria.
Anche per questo problema dunque la soluzione è abolire l'usura, ossia fare di ogni popolo il proprietario della sua moneta in modo che ognuno possa rimanere in pace a casa sua.

Giacinto Auriti