25 febbraio 2008

L’Europa e Gaza: una vergogna da nascondere



Il governo israeliano «sta ricevendo forti segnali che USA ed Europa sono molto irritate dalla mancanza di progressi nei negoziati coi palestinesi».
Lo scrive il quotidiano ebraico Haaretz, che descrive come gli ambasciatori israeliani in Europa abbiamo mandato numerosi telegrammi cifrati segnalando al ministero degli Esteri (Tzipi Livni) come molti Stati europei minaccino di rivedere il loro atteggiamento verso Hamas, in relazione alla situazione umanitaria creata a Gaza dal blocco sionista.

I rapporti cifrati - alcuni dei quali l’inviato di Haaretz dice di aver letto personalmente - si appuntano con allarme sull’ultima riunione del Quartetto per il Medio Oriente, tenuta a Berlino
l’11 febbraio.
C’erano l’americano David Welch (assistente di Condoleezza Rice per il Medio Oriente),
Mark Otte, che è l’inviato della UE per la pace, Robert Serry, l’inviato dell’ONU, e il russo
Sergei Yakovlev, responsabile del Medio Oriente per Mosca.
Il Quartetto dovrebbe monitorare i progressi del «processo di pace» secondo il ruolino di marcia messo a punto ad Annapolis.

In quella riunione, si sono sentite frasi piuttosto lontane dal solito servilismo verso Sion.
Serry, l’europeo, «Ha criticato Israele fin dall’inizio della seduta», riporta Haaretz: «Siamo molto preoccupati della situazione a Gaza, specie sotto il profilo umanitario», ha esordito: «Si deve trovare una soluzione».
E ha denunciato che l’assedio israeliano impedisce persino ai soccorritori dell’ONU di portare aiuto ai palestinesi.

Otte, l’inviato della UE, è stato duro: «Non solo nulla migliora sul terreno, ma il comportamento di Israele diventa sempre peggiore, e sempre più inadempiente verso le obbligazioni della road map» che Olmert ha accettato ad Annapolis.
Otte ha sottolineato che non solo Israele ha chiuso a Gerusalemme Est le istituzioni dell’Autorità Palesinese (il futuro «governo» collaborazionista con cui Sion dovrebbe trattare), ma ha prolungato di sei mesi l’ordine di chiusura, il che non indica né buona volontà né buona fede.
«Per cui, dobbiamo considerare un cambio di politica in tutto ciò che riguarda Gaza», ha concluso Otto.
Il che significa fare qualche apertura ad Hamas, ciò che Israele assolutamente non vuole - essendo riuscita ad imporre l’equazione «Hamas eguale terrorismo islamico» - e che le sue lobby nei vari Stati si prodigano per impedire.

Il russo Yakovlev ha detto, a nome del suo Paese, che bisogna fare in modo che i palestinesi formino un governo di unità nazionale (Autorità e Hamas), altra cosa che Israele non vuole.
Ma senza una riconciliazione tra Hamas e Fatah, ha detto Yakovlev, «la striscia di Gaza diventa una bomba a orologeria che distruggerà il processo di Annapolis».

Persino David Welch ha criticato le azioni israeliane a Gaza, dicendo che gli Stati Uniti le disapprovano, anche se ha ricordato i razzi Kassam che continuano a cadere sul villaggio di Sderot, la scusa con cui Israele si rifiuta di proseguire il negoziato, e a cui risponde con bombardamenti e missili e omicidi mirati con danni collaterali di civili massacrati.
In ogni caso, Welch ha detto anche: il Quartetto deve esigere da Israele a riapertura dei valichi di Gaza.

Evidentemente gli occidentali cominciano a vergognarsi di assistere senza protestare, anzi cooperandovi, al lento sterminio per fame del milione e mezzo di abitanti di Gaza.
Haaretz rivela che solo «grazie ad una massiccia offensiva diplomatica» e lobbyistica Israele è finora riuscita a impedire che da Bruxelles parta una formale dichiarazione di disapprovazione,
da parte della UE, di ciò che gli ebrei fanno a Gaza (probabilmente la campagna della comunità contro «gli antisemiti» in Italia e la famosa lista dei professori lobbyisti definita «una nuova Notte dei Cristalli» fa parte della massiccia offensiva).

Solo forti pressioni israelo-americane sulla Svizzera hanno impedito alla Confederazione Elvetica di indire un vertice internazionale con lo scopo di forzare la riapertura dei valichi di Gaza.
Il ministro della Guerra sionista, Ehud Barak, in visita in Turchia, s’è sentito chiedere da Ankara di consentire ai soccorsi turchi di passare a Gaza, almeno una volta.
Il ministro francese Bernard Kouchner ha chiesto ad Israele, durante la sua visita, di riaprire i maledetti valichi.

Inoltre, «alti responsabili dell’Unione Europea sono stati sentiti mentre denunciavano gli atti di Israele a Gaza, e deplorazioni su questo tema sono state passate in diversi parlamenti europei».
«Tutta questa agitazione», ha scritto Ran Koriel, ambasciatore israeliano alla UE, nel suo rapporto segreto alla Livni, «è collegata alla cultura europea di esibire preoccupazione per le questioni umanitarie» (eh sì, scusateci, abbiamo questa debolezza), sicchè «nonostante la sospensione» dell’iniziativa di una deplorazione formale a Bruxelles del comportamento giudaico (grazie alle accuse di «antisemitismo» sparse a mitraglia), «i giorni sono contati» prima che venga discussa
«la legittimità internale di ciò che avviene a Gaza».
La prospettiva peggiore, per lo stato ebraico, è che - come sta pensando di fare Parigi - ciò porti a una riconsiderazione generale dell’atteggiamento europeo verso Israele, che potrebbe anche finire con un riconoscimento di Hamas.

Non avverrà, non avverrà.
State tranquilli: le vostre lobby e Frattini il Kommissario vegliano contro questo «disagio umanitario», maschera estrema dell’antisemitismo.
Ma è istruttivo sapere che questo disagio c’è e cresce in Europa.
Ed è ancora più istruttivo apprenderlo da un giornale israeliano.
I nostri media, ovvio, non ne hanno dato notizia.
Maurizio Blondet

24 febbraio 2008

Gli EURO-LADRI, qualcuno li protegge


BRUXELLES: Chris Davies è un euro-deputato britannico.
Per giunta, è membro della Commissione Controlllo Bilancio dell’Euro-parlamento.
Eppure, per vedere il documento, ha dovuto firmare un impegno alla segretezza, ha potuto leggerlo solo in una stanza chiusa da congegni di riconoscimento biometrico, sotto lo sguardo di guardie della sicurezza; ovviamente non ha avuto il permesso di fotocopiarlo, e neppure di prendere appunti.

Che cosa c’è di tanto delicato in quel rapporto, da imporre tali misure di segretezza?
Forse i piani di un super-missile comunitario, di un brevetto strategico, il piano per la fusione fredda?
Niente di tutto questo.

Il rapporto, stilato dagli uffici contabili di Bruxelles, documenta in dettaglio le ruberie, malversazioni, peculati e appropriazioni indebite compiute dai membri del Parlamento Europeo. Reati e delitti su «una scala così vasta», ha spiegato Davies alla BBC, «da impressionare. Coloro che hanno compiuto tali atti non meritano che anni di galera» (1).

Non ci sono i nomi dei malfattori da noi votati, ma solo le nazionalità.
Secondo Davies, «non» ci sono inglesi, né olandesi, né scandinavi (provate a immaginare quale Paese è invece ben rappresentato).
Davies, ha detto che la media delle appropriazioni indebite per ciascuno dei 785 euro-deputati ammonta a 166 mila euro.
Senza contare l’emolumento legale e i numerosi «benefit».

Hans Gert Poettering, il presidente dell’europarlamento, ha spiegato penosamente il fatto di aver sottratto il rapporto all’opinione pubblica con queste parole: «Vogliamo riformare il sistema, ma non possiamo mostrare questo rapporto al pubblico, se vogliamo che la gente voti alle elezioni europee l’anno prossimo».

Ha aggiunto, anche più penosamente: «Il documento non è segreto. E’ solo confidenziale. I deputati della Commissione Controllo Budget lo possono leggere nella stanza chiusa, solo non è aperto a tutti. Non è la stessa cosa che un documento segreto, il quale non può essere letto da nessuno».

Scusa ridicola, e smentita da due fatti: anzitutto, lo stesso Poettering ha chiesto ad Harald Roemer, segretario generale dell’assemblea europea, di prendere misure perché da questo rapporto non nascessero «danni collaterali» - fra cui evidentemente c’è anche il rischio che Poettering sia costretto a dimettersi a furor di popolo per il mancato controllo, o per complicità nelle malversazioni.

Il secondo fatto: OLAF, l’ufficio anti-frode della Unione Europea (un po’ polizia interna e un po’ euro-KGB) non era a conoscenza del rapporto, o almeno così dice (2).
Ne ha avuto nozione solo quando il britannico Chris Davies ha scritto allo stesso OLAF, e per copia a Roemer, in questi termini: «Le risultanze dell’inchiesta cadono sotto la giurisdizione dell’OLAF, e sono così gravi che si deve ritenere ne debbano conseguire procedure penali».
Allora OLAF ha chiesto una copia del documento, ed ha diramato agli euro-deputati una circolare in cui «si attende piena collaborazione da lorsignori e dalle autorità parlamentari».
Vedremo se seguiranno le necessarie inchieste penali.

Intanto, il Telegraph ha condotto una sua inchiesta giornalistica, fra i pochissimi funzionari che hanno potuto leggere il rapporto, ed ha appreso qualcosa sul genere di frodi usate.
Nella maggior parte dei casi, si tratta di diversione dei fondi assegnati ad ogni parlamentare per il funzionamento del proprio ufficio - 166 mila euro annui appunto - e che dovrebbero pagare contabili, traduttori professionisti, aziende che forniscono servizi amministrativi.
Ma i ragionieri autori dell’indagine hanno appurato che per lo più l’intero fondo annuale viene devoluto dall’eurodeputato «ad una sola persona del suo staf» qualche volta un parente stretto.
Anzi, molti europarlamentari che consumano l’intero fondo non hanno alcun impiegato al loro servizio, o uno solo come portaborse tuttofare, per giunta un parente che non parla se non una sola lingua.

«In altri casi», ha detto una fonte al Telegraph, «risultano pagamenti ad aziende di servizi che, semplicemente, non esistono; in altri sono individui che lavorano per il singolo euro-deputato e ne sono i dipendenti».
In altri casi sono «creste» sui biglietti aerei e le spese d’ufficio, in modo da assorbire l’intero fondo.

Vogliamo provare a indovinare di quale o quali Paesi sono gli euro-deputati più attivi in questa ruberia?
Forse riusciremo a capire perché i nostro politici sono così entusiasticamente europeisti, e tanti desiderino diventare euro-parlamentari, benchè conoscano solo qualche dialetto irpino o romanesco o lumbard.
E come mai i giornali italioti non abbiano riportato una riga di questa informazione.
Per rispetto al loro amato presidente della repubblica, suppongo.

Non c’è che da notare che ad ogni strato di «politica» corrisponde una Casta, con relativo furto di denaro pubblico.
E gli strati che gravano sopra noi contribuenti sono tanti, si moltiplicano e sono molto «spessi», cioè affollati di percettori.
In Italia, si comincia dai consigli di zona delle grandi città (a Milano un presidente di consiglio di zona, di solito un partitante di mezza tacca, già riceve 2 mila euro mensili, più di un giovane ingegnere con responsabilità dirigenziali nell’industria privata), e poi via sovrapponendo: Comune, Provincia, Regione, Stato nazionale, aziende «partecipate», burocrazia europea…
E poi ancora gli organi globali, ONU, WTO, Fondo Monetario, Banca Mondiale.
Tutti con stipendi miliardari.
E noi paghiamo per tutti.

Si deve infine notare che le Caste hanno dato ai loro furti abitudinari uno status giuridico.
L’ultimo esempio ci riguarda: Padoa Schioppa, tra le mille cose di cui ha imbottito la Finanziaria, aveva decretato un «tetto» agli stipendi del personale di Bankitalia, che sono i più alti e costosi del pianeta.
Una cosina giusta, finalmente.
Ma la Banca Eentrale Europea ha bocciato il provvedimento, con la motivazione che il tetto di Stato ai compensi «mina l’indipendenza della Banca Centrale italiana».
Ragionamento di cui non si vede la logica - dopotutto, la magistratura non si assegna da sé i suoi emolumenti, e ciò non mina la sua autonomia - ma che si spiega nello spirito di Casta.

I privilegi indebiti sono «diritti acquisiti», i miliardi di stipendio «garanzia di indipendenza».
Non ci sarà mai modo di tagliarli, se non tagliando le teste, accorciando gli strati di «politica» che ci depredano.
L’appendimento dei responsabili a piedi in su a piazzale Loreto compirebbe la riforma.
Ma non osiamo sperare tanto.
M.Blondet

23 febbraio 2008

La nazionalizzazione della Northern Rock


Il governo britannico ha annunciato la nazionalizzazione della banca Northern Rock il 18 febbraio, aumentando in un solo colpo il debito pubblico di 90 miliardi di sterline (circa 120 miliardi di euro). La decisione dovrebbe dare la sveglia a coloro che si oppongono alla proposta HBPA di riorganizzazione bancaria di Lyndon LaRouche, che prevede una “muraglia” tra le banche e i fondi speculativi. Gli avversari di questa proposta l'hanno recentemente attaccata in pubblico con l'argomento che essa consiste nella “nazionalizzazione” delle banche. La decisione britannica mostra che la verità è esattamente il contrario: è la politica delle banche centrali a condurre alle nazionalizzazioni e all'iperinflazione, mentre la proposta di LaRouche è l'unica via per salvare le banche, ricapitalizzarle e lanciare una ripresa economica. Una “muraglia” generale nel sistema bancario può oggi impedire una statalizzazione mussoliniana dell'economia.

Verso un altro tsunami finanziario
Un secondo choc sistemico, quello che il capo di Deutsche Bank Josef Ackermann ha definito uno tsunami finanziario peggiore della crisi dei subprime, è dietro l'angolo. L'insolvenza dei cosiddetti “monoline”, gli istituti che hanno assicurato titoli emessi sui mutui e su altri assets, è ormai questione di giorni, tanto che il governatore di New York Elliot Spitzer ha lanciato un ultimatum il 14 febbraio: o i monoline trovano il denaro fresco entro cinque giorni, riuscendo ad evitare la retrocessione del rating, oppure saranno smembrati. La precedente offerta di Warren Buffet di acquistare dai monoline la copertura assicurativa di bond municipali per un valore di 800 miliardi, con una spesa di 5 miliardi di dollari, ha portato i monoline ad un passo più vicino all'insolvenza.
La conseguenza di un'insolvenza, o di un ribasso del rating, saranno un ribasso del valore degli assets assicurati dai monoline. Le autorità di New York cercano di salvare i bond municipali trasferendoli dai monoline ad altre assicurazioni. Nel contenitore resteranno centinaia di miliardi di obbligazioni garantite da collaterale (CDO), il cui valore piomberà verso lo zero.
La banca svizzera UBS ha pubblicato una previsione secondo cui la prossima ondata di perdite sarà di almeno 203 miliardi di dollari. Questa cifra è composta da 120 miliardi di perdite per i CDO, 50 per i SIV, 18 per titoli emessi sui mutui e 15 per bonds LBO (emessi per finanziare le acquisizioni). Anche se le cifre della UBS sono ispirate alla cautela, esse comunque superano le perdite ufficiali delle banche dall'agosto 2007, che ammontano a 150 miliardi di dollari.
Un'altra conseguenza del crac in arrivo riguarda la “discarica napoletana” chiamata BCE, che comincia ad olezzare. La BCE ha accettato titoli tossici dalle banche come collaterale per crediti a breve. Le quantità attuali in deposito non sono note. A febbraio la BCE ha pubblicato i dati dello scorso settembre, da cui risulta che già in quel mese il volume degli strumenti finanziari emessi a fronte di operazioni di cartolarizzazione di crediti aveva raggiunto i 215 miliardi di euro. Si tratta di un incremento al 17% rispetto al 12% del 2006 (si presume che il resto siano titoli del tesoro). Il ricorso ai titoli emessi sui mutui per ottenere denaro dalla BCE è diventato sempre più frequente dopo settembre, ed è probabile che nel frattempo sia raddoppiato. Stando al suo stesso statuto, la BCE non dovrebbe accettare obbligazioni spazzatura come collaterale, ma il governatore Trichet sostiene che la BCE non ha cambiato le sue regole. Ha dovuto esibire la stessa foglia di fico in risposta a tre domande rivoltegli su questo tema da tre giornalisti diversi alla scorsa conferenza stampa a Francoforte. Tuttavia la BCE ammette che, diversamente da altre banche centrali, ha accettato un notevole volume di strumenti finanziari emessi a fronte di operazioni di cartolarizzazione di crediti che chiama “private label”, termine che designa titoli che non hanno garanzie da parte di enti di governo. La Federal Reserve USA non accetta strumenti finanziari emessi a fronte di operazioni di cartolarizzazione che non sono garantiti da enti di governo.
fonte: movisol

25 febbraio 2008

L’Europa e Gaza: una vergogna da nascondere



Il governo israeliano «sta ricevendo forti segnali che USA ed Europa sono molto irritate dalla mancanza di progressi nei negoziati coi palestinesi».
Lo scrive il quotidiano ebraico Haaretz, che descrive come gli ambasciatori israeliani in Europa abbiamo mandato numerosi telegrammi cifrati segnalando al ministero degli Esteri (Tzipi Livni) come molti Stati europei minaccino di rivedere il loro atteggiamento verso Hamas, in relazione alla situazione umanitaria creata a Gaza dal blocco sionista.

I rapporti cifrati - alcuni dei quali l’inviato di Haaretz dice di aver letto personalmente - si appuntano con allarme sull’ultima riunione del Quartetto per il Medio Oriente, tenuta a Berlino
l’11 febbraio.
C’erano l’americano David Welch (assistente di Condoleezza Rice per il Medio Oriente),
Mark Otte, che è l’inviato della UE per la pace, Robert Serry, l’inviato dell’ONU, e il russo
Sergei Yakovlev, responsabile del Medio Oriente per Mosca.
Il Quartetto dovrebbe monitorare i progressi del «processo di pace» secondo il ruolino di marcia messo a punto ad Annapolis.

In quella riunione, si sono sentite frasi piuttosto lontane dal solito servilismo verso Sion.
Serry, l’europeo, «Ha criticato Israele fin dall’inizio della seduta», riporta Haaretz: «Siamo molto preoccupati della situazione a Gaza, specie sotto il profilo umanitario», ha esordito: «Si deve trovare una soluzione».
E ha denunciato che l’assedio israeliano impedisce persino ai soccorritori dell’ONU di portare aiuto ai palestinesi.

Otte, l’inviato della UE, è stato duro: «Non solo nulla migliora sul terreno, ma il comportamento di Israele diventa sempre peggiore, e sempre più inadempiente verso le obbligazioni della road map» che Olmert ha accettato ad Annapolis.
Otte ha sottolineato che non solo Israele ha chiuso a Gerusalemme Est le istituzioni dell’Autorità Palesinese (il futuro «governo» collaborazionista con cui Sion dovrebbe trattare), ma ha prolungato di sei mesi l’ordine di chiusura, il che non indica né buona volontà né buona fede.
«Per cui, dobbiamo considerare un cambio di politica in tutto ciò che riguarda Gaza», ha concluso Otto.
Il che significa fare qualche apertura ad Hamas, ciò che Israele assolutamente non vuole - essendo riuscita ad imporre l’equazione «Hamas eguale terrorismo islamico» - e che le sue lobby nei vari Stati si prodigano per impedire.

Il russo Yakovlev ha detto, a nome del suo Paese, che bisogna fare in modo che i palestinesi formino un governo di unità nazionale (Autorità e Hamas), altra cosa che Israele non vuole.
Ma senza una riconciliazione tra Hamas e Fatah, ha detto Yakovlev, «la striscia di Gaza diventa una bomba a orologeria che distruggerà il processo di Annapolis».

Persino David Welch ha criticato le azioni israeliane a Gaza, dicendo che gli Stati Uniti le disapprovano, anche se ha ricordato i razzi Kassam che continuano a cadere sul villaggio di Sderot, la scusa con cui Israele si rifiuta di proseguire il negoziato, e a cui risponde con bombardamenti e missili e omicidi mirati con danni collaterali di civili massacrati.
In ogni caso, Welch ha detto anche: il Quartetto deve esigere da Israele a riapertura dei valichi di Gaza.

Evidentemente gli occidentali cominciano a vergognarsi di assistere senza protestare, anzi cooperandovi, al lento sterminio per fame del milione e mezzo di abitanti di Gaza.
Haaretz rivela che solo «grazie ad una massiccia offensiva diplomatica» e lobbyistica Israele è finora riuscita a impedire che da Bruxelles parta una formale dichiarazione di disapprovazione,
da parte della UE, di ciò che gli ebrei fanno a Gaza (probabilmente la campagna della comunità contro «gli antisemiti» in Italia e la famosa lista dei professori lobbyisti definita «una nuova Notte dei Cristalli» fa parte della massiccia offensiva).

Solo forti pressioni israelo-americane sulla Svizzera hanno impedito alla Confederazione Elvetica di indire un vertice internazionale con lo scopo di forzare la riapertura dei valichi di Gaza.
Il ministro della Guerra sionista, Ehud Barak, in visita in Turchia, s’è sentito chiedere da Ankara di consentire ai soccorsi turchi di passare a Gaza, almeno una volta.
Il ministro francese Bernard Kouchner ha chiesto ad Israele, durante la sua visita, di riaprire i maledetti valichi.

Inoltre, «alti responsabili dell’Unione Europea sono stati sentiti mentre denunciavano gli atti di Israele a Gaza, e deplorazioni su questo tema sono state passate in diversi parlamenti europei».
«Tutta questa agitazione», ha scritto Ran Koriel, ambasciatore israeliano alla UE, nel suo rapporto segreto alla Livni, «è collegata alla cultura europea di esibire preoccupazione per le questioni umanitarie» (eh sì, scusateci, abbiamo questa debolezza), sicchè «nonostante la sospensione» dell’iniziativa di una deplorazione formale a Bruxelles del comportamento giudaico (grazie alle accuse di «antisemitismo» sparse a mitraglia), «i giorni sono contati» prima che venga discussa
«la legittimità internale di ciò che avviene a Gaza».
La prospettiva peggiore, per lo stato ebraico, è che - come sta pensando di fare Parigi - ciò porti a una riconsiderazione generale dell’atteggiamento europeo verso Israele, che potrebbe anche finire con un riconoscimento di Hamas.

Non avverrà, non avverrà.
State tranquilli: le vostre lobby e Frattini il Kommissario vegliano contro questo «disagio umanitario», maschera estrema dell’antisemitismo.
Ma è istruttivo sapere che questo disagio c’è e cresce in Europa.
Ed è ancora più istruttivo apprenderlo da un giornale israeliano.
I nostri media, ovvio, non ne hanno dato notizia.
Maurizio Blondet

24 febbraio 2008

Gli EURO-LADRI, qualcuno li protegge


BRUXELLES: Chris Davies è un euro-deputato britannico.
Per giunta, è membro della Commissione Controlllo Bilancio dell’Euro-parlamento.
Eppure, per vedere il documento, ha dovuto firmare un impegno alla segretezza, ha potuto leggerlo solo in una stanza chiusa da congegni di riconoscimento biometrico, sotto lo sguardo di guardie della sicurezza; ovviamente non ha avuto il permesso di fotocopiarlo, e neppure di prendere appunti.

Che cosa c’è di tanto delicato in quel rapporto, da imporre tali misure di segretezza?
Forse i piani di un super-missile comunitario, di un brevetto strategico, il piano per la fusione fredda?
Niente di tutto questo.

Il rapporto, stilato dagli uffici contabili di Bruxelles, documenta in dettaglio le ruberie, malversazioni, peculati e appropriazioni indebite compiute dai membri del Parlamento Europeo. Reati e delitti su «una scala così vasta», ha spiegato Davies alla BBC, «da impressionare. Coloro che hanno compiuto tali atti non meritano che anni di galera» (1).

Non ci sono i nomi dei malfattori da noi votati, ma solo le nazionalità.
Secondo Davies, «non» ci sono inglesi, né olandesi, né scandinavi (provate a immaginare quale Paese è invece ben rappresentato).
Davies, ha detto che la media delle appropriazioni indebite per ciascuno dei 785 euro-deputati ammonta a 166 mila euro.
Senza contare l’emolumento legale e i numerosi «benefit».

Hans Gert Poettering, il presidente dell’europarlamento, ha spiegato penosamente il fatto di aver sottratto il rapporto all’opinione pubblica con queste parole: «Vogliamo riformare il sistema, ma non possiamo mostrare questo rapporto al pubblico, se vogliamo che la gente voti alle elezioni europee l’anno prossimo».

Ha aggiunto, anche più penosamente: «Il documento non è segreto. E’ solo confidenziale. I deputati della Commissione Controllo Budget lo possono leggere nella stanza chiusa, solo non è aperto a tutti. Non è la stessa cosa che un documento segreto, il quale non può essere letto da nessuno».

Scusa ridicola, e smentita da due fatti: anzitutto, lo stesso Poettering ha chiesto ad Harald Roemer, segretario generale dell’assemblea europea, di prendere misure perché da questo rapporto non nascessero «danni collaterali» - fra cui evidentemente c’è anche il rischio che Poettering sia costretto a dimettersi a furor di popolo per il mancato controllo, o per complicità nelle malversazioni.

Il secondo fatto: OLAF, l’ufficio anti-frode della Unione Europea (un po’ polizia interna e un po’ euro-KGB) non era a conoscenza del rapporto, o almeno così dice (2).
Ne ha avuto nozione solo quando il britannico Chris Davies ha scritto allo stesso OLAF, e per copia a Roemer, in questi termini: «Le risultanze dell’inchiesta cadono sotto la giurisdizione dell’OLAF, e sono così gravi che si deve ritenere ne debbano conseguire procedure penali».
Allora OLAF ha chiesto una copia del documento, ed ha diramato agli euro-deputati una circolare in cui «si attende piena collaborazione da lorsignori e dalle autorità parlamentari».
Vedremo se seguiranno le necessarie inchieste penali.

Intanto, il Telegraph ha condotto una sua inchiesta giornalistica, fra i pochissimi funzionari che hanno potuto leggere il rapporto, ed ha appreso qualcosa sul genere di frodi usate.
Nella maggior parte dei casi, si tratta di diversione dei fondi assegnati ad ogni parlamentare per il funzionamento del proprio ufficio - 166 mila euro annui appunto - e che dovrebbero pagare contabili, traduttori professionisti, aziende che forniscono servizi amministrativi.
Ma i ragionieri autori dell’indagine hanno appurato che per lo più l’intero fondo annuale viene devoluto dall’eurodeputato «ad una sola persona del suo staf» qualche volta un parente stretto.
Anzi, molti europarlamentari che consumano l’intero fondo non hanno alcun impiegato al loro servizio, o uno solo come portaborse tuttofare, per giunta un parente che non parla se non una sola lingua.

«In altri casi», ha detto una fonte al Telegraph, «risultano pagamenti ad aziende di servizi che, semplicemente, non esistono; in altri sono individui che lavorano per il singolo euro-deputato e ne sono i dipendenti».
In altri casi sono «creste» sui biglietti aerei e le spese d’ufficio, in modo da assorbire l’intero fondo.

Vogliamo provare a indovinare di quale o quali Paesi sono gli euro-deputati più attivi in questa ruberia?
Forse riusciremo a capire perché i nostro politici sono così entusiasticamente europeisti, e tanti desiderino diventare euro-parlamentari, benchè conoscano solo qualche dialetto irpino o romanesco o lumbard.
E come mai i giornali italioti non abbiano riportato una riga di questa informazione.
Per rispetto al loro amato presidente della repubblica, suppongo.

Non c’è che da notare che ad ogni strato di «politica» corrisponde una Casta, con relativo furto di denaro pubblico.
E gli strati che gravano sopra noi contribuenti sono tanti, si moltiplicano e sono molto «spessi», cioè affollati di percettori.
In Italia, si comincia dai consigli di zona delle grandi città (a Milano un presidente di consiglio di zona, di solito un partitante di mezza tacca, già riceve 2 mila euro mensili, più di un giovane ingegnere con responsabilità dirigenziali nell’industria privata), e poi via sovrapponendo: Comune, Provincia, Regione, Stato nazionale, aziende «partecipate», burocrazia europea…
E poi ancora gli organi globali, ONU, WTO, Fondo Monetario, Banca Mondiale.
Tutti con stipendi miliardari.
E noi paghiamo per tutti.

Si deve infine notare che le Caste hanno dato ai loro furti abitudinari uno status giuridico.
L’ultimo esempio ci riguarda: Padoa Schioppa, tra le mille cose di cui ha imbottito la Finanziaria, aveva decretato un «tetto» agli stipendi del personale di Bankitalia, che sono i più alti e costosi del pianeta.
Una cosina giusta, finalmente.
Ma la Banca Eentrale Europea ha bocciato il provvedimento, con la motivazione che il tetto di Stato ai compensi «mina l’indipendenza della Banca Centrale italiana».
Ragionamento di cui non si vede la logica - dopotutto, la magistratura non si assegna da sé i suoi emolumenti, e ciò non mina la sua autonomia - ma che si spiega nello spirito di Casta.

I privilegi indebiti sono «diritti acquisiti», i miliardi di stipendio «garanzia di indipendenza».
Non ci sarà mai modo di tagliarli, se non tagliando le teste, accorciando gli strati di «politica» che ci depredano.
L’appendimento dei responsabili a piedi in su a piazzale Loreto compirebbe la riforma.
Ma non osiamo sperare tanto.
M.Blondet

23 febbraio 2008

La nazionalizzazione della Northern Rock


Il governo britannico ha annunciato la nazionalizzazione della banca Northern Rock il 18 febbraio, aumentando in un solo colpo il debito pubblico di 90 miliardi di sterline (circa 120 miliardi di euro). La decisione dovrebbe dare la sveglia a coloro che si oppongono alla proposta HBPA di riorganizzazione bancaria di Lyndon LaRouche, che prevede una “muraglia” tra le banche e i fondi speculativi. Gli avversari di questa proposta l'hanno recentemente attaccata in pubblico con l'argomento che essa consiste nella “nazionalizzazione” delle banche. La decisione britannica mostra che la verità è esattamente il contrario: è la politica delle banche centrali a condurre alle nazionalizzazioni e all'iperinflazione, mentre la proposta di LaRouche è l'unica via per salvare le banche, ricapitalizzarle e lanciare una ripresa economica. Una “muraglia” generale nel sistema bancario può oggi impedire una statalizzazione mussoliniana dell'economia.

Verso un altro tsunami finanziario
Un secondo choc sistemico, quello che il capo di Deutsche Bank Josef Ackermann ha definito uno tsunami finanziario peggiore della crisi dei subprime, è dietro l'angolo. L'insolvenza dei cosiddetti “monoline”, gli istituti che hanno assicurato titoli emessi sui mutui e su altri assets, è ormai questione di giorni, tanto che il governatore di New York Elliot Spitzer ha lanciato un ultimatum il 14 febbraio: o i monoline trovano il denaro fresco entro cinque giorni, riuscendo ad evitare la retrocessione del rating, oppure saranno smembrati. La precedente offerta di Warren Buffet di acquistare dai monoline la copertura assicurativa di bond municipali per un valore di 800 miliardi, con una spesa di 5 miliardi di dollari, ha portato i monoline ad un passo più vicino all'insolvenza.
La conseguenza di un'insolvenza, o di un ribasso del rating, saranno un ribasso del valore degli assets assicurati dai monoline. Le autorità di New York cercano di salvare i bond municipali trasferendoli dai monoline ad altre assicurazioni. Nel contenitore resteranno centinaia di miliardi di obbligazioni garantite da collaterale (CDO), il cui valore piomberà verso lo zero.
La banca svizzera UBS ha pubblicato una previsione secondo cui la prossima ondata di perdite sarà di almeno 203 miliardi di dollari. Questa cifra è composta da 120 miliardi di perdite per i CDO, 50 per i SIV, 18 per titoli emessi sui mutui e 15 per bonds LBO (emessi per finanziare le acquisizioni). Anche se le cifre della UBS sono ispirate alla cautela, esse comunque superano le perdite ufficiali delle banche dall'agosto 2007, che ammontano a 150 miliardi di dollari.
Un'altra conseguenza del crac in arrivo riguarda la “discarica napoletana” chiamata BCE, che comincia ad olezzare. La BCE ha accettato titoli tossici dalle banche come collaterale per crediti a breve. Le quantità attuali in deposito non sono note. A febbraio la BCE ha pubblicato i dati dello scorso settembre, da cui risulta che già in quel mese il volume degli strumenti finanziari emessi a fronte di operazioni di cartolarizzazione di crediti aveva raggiunto i 215 miliardi di euro. Si tratta di un incremento al 17% rispetto al 12% del 2006 (si presume che il resto siano titoli del tesoro). Il ricorso ai titoli emessi sui mutui per ottenere denaro dalla BCE è diventato sempre più frequente dopo settembre, ed è probabile che nel frattempo sia raddoppiato. Stando al suo stesso statuto, la BCE non dovrebbe accettare obbligazioni spazzatura come collaterale, ma il governatore Trichet sostiene che la BCE non ha cambiato le sue regole. Ha dovuto esibire la stessa foglia di fico in risposta a tre domande rivoltegli su questo tema da tre giornalisti diversi alla scorsa conferenza stampa a Francoforte. Tuttavia la BCE ammette che, diversamente da altre banche centrali, ha accettato un notevole volume di strumenti finanziari emessi a fronte di operazioni di cartolarizzazione di crediti che chiama “private label”, termine che designa titoli che non hanno garanzie da parte di enti di governo. La Federal Reserve USA non accetta strumenti finanziari emessi a fronte di operazioni di cartolarizzazione che non sono garantiti da enti di governo.
fonte: movisol