21 febbraio 2009
Ma com'è questa crisi?
L’aria che si respira, durante la riunione sindacale della CGIL, è pesante. Non si parla solo della frattura sindacale con CISL ed UIL, dei contratti di carta straccia, di leggi e leggine, le quali piovono sulla scuola come coriandoli in uno scenario che, di Carnevale, non ha nulla.
C’è il segretario provinciale, che tratteggia la situazione e sciorina dati: la cassa integrazione è triplicata in breve tempo, ed anche coloro i quali sono privi di qualsiasi protezione sociale aumentano, compresi i precari della scuola che rimarranno a spasso. Un camposanto.
Anche le frecciate sul piccolo ministro della Funzione Pubblica rimangono sullo sfondo, poiché la domanda che aleggia nell’aria – inespressa ma presente sui volti – è la stessa: dove andremo a finire?
I dati sul reale impatto della crisi economica si susseguono e s’accavallano: ciascuno cita una cifra più alta di quella del giorno prima, mentre il governo ha scelto la strada d’urlare più forte per tacitare i brusii. Se non basta proclamare urbi et orbi che esiste il traffico d’organi, si monta subito una bella disfida di Barletta su Eluana. Domani? Speriamo che il solito rumeno ne combini qualcuna, altrimenti siamo spiazzati. Ci salverà il Grande Fratello, ma è un’ancora di salvezza poco affidabile.
L’impressione che si ricava da questa crisi finanziaria è quella di una spada di Damocle sospesa, che non si sa con precisione quanto incombe e quando calerà con fragore.
Si scomodano, allora, i precedenti storici e, ovviamente, la crisi del ’29 la fa da padrone. Sarà sufficiente?
Gli aggettivi si sprecano: “epocale”, “imprevedibili effetti”, “catastrofica”…ma…le ragioni?
Certo, quelle più evidenti sono state chiarite: la creazione di ricchezza fasulla, di una montagna di carta straccia timbrata come moneta o certificato di credito, poi rivenduto, ecc. Perché è stato permesso? Qui, la cosa si complica, perché esiste un legame fra le guerre degli ultimi decenni e la cosiddetta “crisi finanziaria”.
Per capire le ragioni profonde ed importantissime di questa crisi – di questa punta dell’iceberg – potremmo partire all’incirca dall’anno di Grazia 1500, quando Cabral sbarca sulle coste del Mozambico e fonda le prime colonie portoghesi. Ho scritto “potremmo”, poiché le colonie oltre il Capo furono solo il seguito di quelle create ad Occidente del Capo di Buona Speranza, già nel XV secolo. Qual era la ragione di tanto ardire? Giungere alle isole delle spezie per mare, senza dover sottostare alle esose richieste dei mercanti arabi.
Quei piccoli borghi medievali fortificati sulle coste dell’Africa, rappresentarono un crinale della Storia: prima, Oriente ed Occidente erano appena consci della presenza, l’uno, dell’altro. Pochi anni dopo, iniziavano a confrontarsi.
Fino a quel momento, la Cina godeva d’alcuni primati tecnologici, soprattutto nella costruzione d’altiforni e nella chimica: la polvere da sparo fu una loro invenzione, anche se non ci sono prove storiche così certe.
In pochi anni, però, il primato passò all’Occidente: perché? Poiché era Cristiano.
Superiorità religiosa? No, più prosaicamente, una questione metallurgica: i Cristiani fabbricano campane, gli orientali i gong.
Se “allungate” un gong potrete ottenere al massimo un catino, mentre se “snellite” una campana otterrete un cannone: i primi fabbricanti di cannoni, già nel XIV secolo, erano tutti ex fonditori di campane.
Anche i cinesi usarono la polvere da sparo per la propulsione di lancio, ma utilizzarono i bambù come recipienti e – si comprende facilmente – un cilindro di ferro, più capiente e robusto di uno di bambù, lancerà più lontano un proiettile più pesante.
Ecco la "chiave”, una prima risposta per capire come mai l’Oriente diventò “territorio di caccia” per gli occidentali e non il contrario.
Le cronache riportano una lunga sequenza di “accordi commerciali” e “protettorati”, nati e cresciuti all’ombra di un vascello o di una cannoniera ancorati di fronte alle coste altrui.
I secoli seguenti vedono l’affermazione dapprima commerciale, poi decisamente coloniale, dell’Occidente: le Compagnie delle Indie ed i viceré nelle colonie sono carte dell’identico mazzo.
Ancora nell’800, le cannoniere americane di Perry (1854) “aprirono” le porte del Giappone, mentre quelle francesi servirono identica “portata” (con la battaglia navale di Fu-Chan, nel 1884) alla Cina.
La prima metà del ‘900 non muta lo scenario, mentre la seconda inizia con qualche sussulto: nel 1953, per convincere il riottoso Primo Ministro iraniano Mossadeq ad accettare le “generose” offerte delle compagnie petrolifere occidentali (il 6% agli iraniani, il 94% alla BP & soci), Eisenhower invia un emissario “speciale” – il generale Norman Schwarzkopf sr, ricordate questo nome? – il quale riesce, con un colpo di stato abilmente diretto da Washington, a cancellare ogni anelito d’equità nella ripartizione delle risorse iraniane.
Nel 1948 nasce Israele, il quale – oltre ad una serie di ragioni ben note relative al sionismo – ha il compito di “sentinella” per il Canale di Suez e per gli sviluppi del sistema d’approvvigionamento petrolifero, in questo coadiuvato dalla famiglia regnante degli Al Saud.
Il sistema neocoloniale ancora tiene: le piccole caravelle di Cabral continuano a segnare il tempo ed a riproporre la prassi dell’appropriazione, spesso truffaldina, delle risorse altrui. Ma i giorni passano.
La lunga guerra in Vietnam rivela, per la prima volta, che gli USA non sono invincibili, ma non è questo il “giro di boa”. Lentamente, l’Oriente si risveglia: in Occidente si ride, alla comparsa sulle bancarelle dei mercati rionali, delle bamboline in legno e pezza “made in China”. Ma guarda ‘sti cinesi…riusciranno a farle così bene perché hanno le mani piccole…
Nel 1991, un altro Norman Schwarzkoft (jr, il figlio del precedente “inviato” in Iran, buon sangue non mente) guida la “Felicissima Armada” che convince Saddam Hussein a “mollare” il Kuwait, e tutto sembra continuare come sempre: se alzi la testa, l’Occidente – unito – spara ad alzo zero.
Verrebbe da dire “e arriva l’11 Settembre”, ed invece non lo affermiamo proprio, perché c’entra poco o nulla.
Arrivano, invece, computer dalla Cina e software house dall’India: poi, tutto precipita. Dal Brasile all’Iran, dalla Malesia alla Russia, il “non-Occidente” si mette a fabbricare ed a commercializzare di tutto: elettronica, energia, meccanica, chimica…
Le caravelle di Cabral s’arenano e, con esse, cinque secoli di predominio mercantile e militare sul Pianeta.
La risposta?
Secondo copione, partono le cannoniere, ma ottengono ben poco: per comprendere in qual basso stato siano giunte le armi occidentali, basti pensare che, pochi giorni or sono, a Kabul hanno dato l’assalto al palazzo presidenziale. Karzai s’è salvato per miracolo, mentre l’Iraq è oramai un affare chiuso: un fallimento che attende solo l’Ufficiale Giudiziario.
La forza dell’Occidente, per questi cinque secoli, è stata sorretta da due aspetti: denaro e cannoni. I quali, se manca il denaro, servono a poco. E allora? Se non possiamo più stampare vagoni di carta moneta a ufo…creiamo ricchezza finanziaria fasulla!
Nel volgere di mezzo secolo, gli USA sono passati dal controllare il 50% del commercio mondiale al 20%, oggi forse ancora meno, e l’Europa non ha certo colmato quei vuoti.
Li stanno colmando legioni di uomini d’affari cinesi, indiani, brasiliani…che vendono di tutto, di tutto di più. Vendono perché fabbricano, fabbricano perché progettano, progettano perché studiano: noi, siamo ridotti a creare truffe.
Domandiamoci, allora, la natura di questa crisi partendo da tre ipotesi di “scuola” marxista:
1) Una crisi ciclica del capitalismo.
2) La crisi terminale del capitalismo.
3) Una crisi d’assestamento verso nuovi equilibri internazionali.
Abbiamo distinto le ipotesi 1 e 3, anche se presentano molti punti in comune, sulla base delle cause: endogene, ossia crisi di ristrutturazione degli apparati produttivi nel primo caso (modello anni ’70 del ‘900, ad esempio, oppure le grandi trasformazioni della seconda metà dell’Ottocento, ecc) e cause geopolitiche nel terzo, pur rendendoci conto che esistono parecchi aspetti interdipendenti fra i due fenomeni.
Un secondo aspetto, da approfondire, concerne l’analisi “tecnica” degli eventi, ossia le evoluzioni parallele dei fenomeni in atto, se confrontate con altri sconquassi economici del passato.
La crisi del 1929 ben si presta perché è vicina a noi – gli “attori” portano, a volte, quasi gli stessi nomi, gli Stati coinvolti pure, ecc – e, soprattutto, poiché consente d’analizzare gli eventi utilizzando i parametri dell’economia contemporanea.
Ci sono, ovviamente, delle differenze: ad esempio, all’epoca era ancora in vigore l’ancoraggio all’oro di parecchie monete, ma non è questo il fatto saliente.
Una crisi, se analizzata partendo dagli effetti puramente economici (parametri, ecc), può condurre a parallelismi che non hanno ragion d’essere poiché, come avviene per la diagnosi di una malattia, effetti simili od addirittura perfettamente sovrapponibili possono derivare da cause molto diverse. E’ questo il caso.
La crisi del 1929 non fu minimamente catalizzata da eventi esterni all’Occidente: nessuno, all’epoca, era in grado d’impensierire il commercio internazionale gestito dalle potenze dell’epoca. Tutti i Paesi, oggi emergenti, erano colonizzati od asserviti oppure, come l’URSS, alle prese con infiniti guai interni. Grandi Paesi come la Cina od il Brasile, nel commercio mondiale, valevano pressoché zero.
La crisi del 1929 rivelò i rischi di un capitalismo lasciato galoppare senza freni – le “bolle finanziarie” spadroneggiarono anche allora – ma era il contesto economico reale (la cosiddetta “Main Street”), ossia la potenzialità di ricchezza, la possibilità d’espansione economica ad essere diversa rispetto all’oggi.
Per questa ragione, ebbero successo le politiche keynesiane: la “Tennessee Valley” fu possibile perché lo Stato (per nulla indebitato) varò il deficit spending per incentivare l’agricoltura ed i trasporti negli stati del Sud.
Oggi, un ipotetico “piano” per “Silicon Valley” sarebbe improponibile perché Silicon Valley, nel nostro tempo, è in Cina, India, Malesia…
Queste premesse, ci portano a concludere che l’attuale crisi del capitalismo non è una crisi “terminale”, proprio perché – da qualche parte – esistono aree che possono ricevere nuova industrializzazione, incrementare i consumi, ecc.
Sull’altro versante, un simile spostamento di ricchezza, produzione, conoscenza, ricerca…non può “transitare” senza scossoni epocali: perdere cinque secoli di predominio, è un trauma equivalente alla caduta di un impero dell’antichità.
La fiaba, raccontata in tutte le salse, della produzione “diversificata” e globalizzata e, dall’altra, di una finanza accentrata in poche mani occidentali, sta svanendo come neve al sole.
L’opulenza della piazza finanziaria di Londra si consuma nell’evidenza dei licenziamenti, nelle banche salvate dalla mano pubblica, ossia in una partita di giro che vede caricare sulle spalle dei cittadini le perdite del sistema finanziario. Un partita di giro truccata, poiché a soffrire dei disastri finanziari è prevalentemente la parte più ricca della popolazione, mentre a subirne gli effetti saranno – con l’estinguersi dello stato sociale – i settori meno abbienti.
Mentre metà del Pianeta s’interroga su dilemmi di natura espansiva – finanziari, tecnologici, ambientali, ma sempre espansivi, poiché ci sono secoli di domanda interna da colmare – l’altra metà non trova risposte, perché quelle risposte esigerebbero proprio la presa di coscienza di un mondo non più “eurocentrico” oppure “amerocentrico”.
Al più, dopo i fallimenti della politica unilaterale di Bush, si torna a parlare di “multipolarismo”, ma il diritto di veto al Consiglio di Sicurezza dell’ONU rimane solidamente ancorato nelle mani di cinque attori, tre dei quali sono potenze un tempo coloniali o neocoloniali: si stenta a comprendere che un “G20”, oggi, deve prender forma su piani d’assoluta parità.
Ancor più drammatico, è capire quale potrà essere il futuro di vecchie ed azzimate signore – un tempo padrone del pianeta – che oggi si ritrovano con le pezze al sedere. Premere sull’acceleratore dell’innovazione tecnologica?
Non si può certo rifiutare lo sforzo per la conoscenza, ma aspettarci grandi frutti da queste politiche è incerto, giacché bisogna fare i conti con la novità: non siamo più in testa, stiamo inseguendo.
Anche nel nuovo comparto energetico – l’unico che, forse, consente all’Occidente il vantaggio di un’incollatura – dobbiamo considerare che le potenzialità dell’Oriente – ricerca, finanza, produzione – crescono con numeri a due cifre, non con i nostri asfittici “0,…%”. Se i cinesi si mettessero a costruire pannelli solari, c’è da giurarci che in breve tempo li costruirebbero migliori ed a minor costo rispetto ai nostri.
L’unica sfida che l’Occidente dovrebbe accettare non è nella corsa economica o tecnologica: la presa di coscienza della propria condizione di “poveri in divenire”, dovrebbe accelerare il dibattito sulla distribuzione della ricchezza, sul valore stesso di “ricchezza”, sulla necessità d’essere “ricchi”.
In fin dei conti, restiamo Paesi “ricchi”: non ci mancano certo i beni primari e la protezione sociale, e siamo in grado d’avere anche un po’ di superfluo; ciò che non ci potremo più permettere, è di vivere credendoci nababbi hollywoodiani.
Roma fu invincibile e padrona assoluta per secoli: eppure Roma lasciò poco, mucchi di macerie che oggi chiamiamo “ruderi”. Atene non dominò quasi nulla, però i suoi fondamenti sono, ancora oggi, le basi della nostra conoscenza.
Diventa allora essenziale riportare il dibattito sui valori fondanti del nostro vivere: aspetti giuridici ed economici, difesa e rivalutazione dei grandi principi costituenti da un lato, serrato dibattito per riportare alla collettività le leve dell’economia.
Recentemente, un uomo politico italiano (poco importa chi è, la pensano quasi tutti così) ha dichiarato “di non essere attratto dalla decrescita”: “decrescita” non potrà più essere un vago concetto sul quale decidere “quoto” o “non quoto”, poiché ai cinesi frega assai di cosa “quotiamo”. E, se lasceremo fare al “mercato”, non otterremo mai risposte perché il “mercato” non prende in considerazione aspetti culturali: valuta l’incremento, o il decremento, e su quella base decide.
La decrescita, invece, non può fare a meno di una profonda rivisitazione – su basi culturali – del nostro vivere: solo dopo si potrà decidere se costruire autostrade od incrementare la ferrovia, se passare ad un sistema di produzione/consumo d’energia su piccola scala, se intervenire sull’obsolescenza dei beni, ecc.
La politica, insomma, senza valori culturali di riferimento, si riduce ad un mero esercizio di calcolo: di soldi, di voti, di favori.
Voglio portare un esempio che può sembrare provocatorio, e che non lo è per niente.
L’Italia è un Paese fortunato, fortunatissimo. Non abbiamo quasi petrolio, ed abbiamo industrie che anche altri hanno, spesso più solide delle nostre.
La Francia ha Versailles, la Spagna il Prado, la Russia l’Hermitage, la Germania i castelli del Reno…ma nessuno ha la reggia di Caserta, gli Uffizi, Venezia irripetibile, Roma mozzafiato, antichità greche, rinascimentali…anche il più sperduto borgo ha qualcosa che all’estero si sognano. Viviamo in un grande museo a cielo aperto.
E’ mai possibile che dobbiamo perdere terreno nei confronti d’altri Paesi europei proprio sul turismo?!? Ogni anno che passa, quando si fanno i conti sulla stagione turistica, è un fazzoletto di lacrime in più rispetto a quello precedente.
Eppure, gli studi sul turismo evidenziano che l’unico settore che “tiene” è quello dell’arte, soprattutto per i milioni di “nuovi ricchi” orientali. Non potremo mai fare concorrenza alle spiagge tropicali, mettiamocelo in testa: non riusciamo nemmeno a reggere il confronto con Spagna e Croazia.
Osserviamo, allora, l’importanza che l’Italia assegna al suo patrimonio artistico – il suo petrolio! – dai nomi dei ministri chiamati ad amministrarlo. Buio pesto, che più pesto non si può.
Dai palesi incompetenti – Bondi, Urbani – a quelli in altre faccende affaccendati, Veltroni e Rutelli: non uno che abbia fatto qualcosa, che abbia varato consistenti investimenti per la manutenzione e per il restauro d’altri, enormi patrimoni ancora sotterra o nei sotterranei dei musei.
Questi patrimoni, domani – se affiancati da una politica d’investimenti nei settori di supporto (alberghiero, ricettivo, ecc) – si potrebbero trasformare in milioni di posti di lavoro per tutti quegli italiani che non possono fare concorrenza ai cinesi nel produrre magliette e computer.
Perché non viene attuato nulla? Un caso? No, troppo semplice.
La ricchezza che si creerebbe, mettendo finalmente a frutto il nostro patrimonio artistico, sarebbe diffusa sul territorio, ne godrebbero milioni di “signori nessuno”, giovani senza lavoro, gente di mezza età che lo perde. In altre parole: noi. E’ lo stesso, perverso meccanismo che mette bastoni fra le ruote alla produzione energetica diffusa.
Ancora una volta, l’ostacolo è di natura culturale: la ricchezza diffusa (anche modesta) genera cittadini, quella dispensata dall’alto per non cadere in miseria, produce sudditi.
E, non sia mai, che ciò comporti una perdita di potere da parte di quel milione d’italiani che vive di politica, di mala politica, d’affari legati alla politica, poiché entrerebbe in contraddizione con il primo, vero articolo della nostra Costituzione:
Art. 1 bis: L’Italia è una repubblica oligarchica, fondata sul conflitto d’interesse e sul potere delle Caste.
Perciò, partendo da questo semplice esempio, possiamo capire ciò che c’attende per la cosiddetta “crisi economica” – che di strettamente economico ha ben poco – poiché l’economia (“governo della casa”) non è un dogma e tutti dovremmo parteciparvi. Non è accettabile dover sottostare ad imposizioni dettate da personaggi che fanno parte dello stesso mondo che fabbrica ricchezza fasulla! Perché un signore in doppiopetto di un’agenzia di rating – spesso collusa con le banche truffaldine – può decidere il futuro dei miei figli?
Per imbonirci, i politici nostrani usano strategie diversificate: si nasconde la testa sotto la sabbia (centro destra), oppure si vagheggiano astrusi parallelismi con la (per ora, tutta da verificare) politica di Obama (centro sinistra). In definitiva, ci raccontano solo un mare di frottole.
Nel primo caso, servono potenti anestetici (c’è il traffico d’organi! Eluana! Grande Fratello forever!) per tentare d’addormentare la popolazione sempre più stanca ed avvilita, mentre nel secondo si mesta nel torbido, perché è facile promettere una politica d’innovazione, soprattutto energetica, senza affrontare il nodo della gestione. A che servono, auto elettriche “targate” ENEL od ENI? A cambiare cappio, per strozzarci in un altro modo?
Non perdiamo altro tempo per analizzare, per spaccare il capello in quattro e conoscere finalmente il nome di colui che stampava carta straccia, e nemmeno se può essere più affidabile del suo socio: domani, potrebbero semplicemente scambiarsi la scrivania. Il passaggio storico è di quelli da far rizzare i capelli – questo è da tenere in primo piano! – e non sono stati i trucchi di quattro banchieri a generare il disastro: c’era già prima.
Ciò che la Storia c’insegna, è che questi enormi mutamenti richiedono la nostra attiva partecipazione: nuove idee, nuovi stili, nuovi obiettivi.
Ci arriveremo? Senza dubbio, ma la Storia ci racconta anche qual è il discrimine, il crinale che separa l’accettazione supina dalla fattiva elaborazione: milioni di morti.
di Carlo Bertani
Palestina:due stati due Popoli? Una illusione
Chi ha letto l’articolo di Gheddafi, il 21 gennaio sul New York Times, avrà ragionevolmente visto in esso una provocazione, e un’insultante confutazione dello Stato ebraico. Purtroppo le cose non stanno così, anche se l’insulto resta: quel che ha detto il Presidente libico - non ha più senso parlare di due Stati, israeliano e palestinese, in pace l’uno accanto all’altro - è una convinzione più diffusa di quel che si creda. La sostengono non solo fazioni palestinesi importanti, ma un certo numero di ebrei dentro e fuori Israele. Gheddafi dice a voce alta quel che molti pensano, anche senza desiderarlo. C’è da chiedersi se la destra israeliana che ha vinto alle urne (quella di Netanyahu e di Avigdor Lieberman, capo di Israel Beitenu, ovvero «Israele casa nostra») non abbia pensieri analoghi: che non confessa ma che impregnano i suoi piani d’azione.
La formula «due Stati-due popoli», che continua a esser sbandierata in Israele, a Washington, in Europa, non ha più radici vere nella realtà. È diventata una vana parola, che dà buona coscienza ma non suscita azioni. È come un treno che tutti immaginano in attesa alla stazione, e invece è già passato. Se in Israele si è affermata una destra ostile a negoziati con l’insieme dei partiti palestinesi, che non intende cedere territori e anzi accresce le colonie, significa che l’occupazione non è considerata quello che è: la più grande, l’autentica minaccia strategica per l’esistenza di Israele. In queste condizioni parlare di due Stati è ipocrisia.
Il piano implica la fine dell’occupazione e rari sono i politici israeliani che l’ammettono e ne traggono conseguenze.
È il motivo per cui alcuni auspicano che sia Netanyahu a guidare Israele. Lo ha scritto Gideon Levy su Haaretz, già prima del voto: la sua speranza è che finalmente si cominci a dire il vero, e Netanyahu può farlo. Che s’abbandonino espressioni eufemistiche come processo di pace o due Stati-due popoli. Con Netanyahu le cose diverrebbero più chiare, il dislivello tra verbo e azione meno nebbioso. Il capo del Likud è d’accordo con Lieberman: non vuole ridurre le colonie, e anzi difende il loro «aumento naturale». Non parla di Stato palestinese ma di Pace Economica (basta riempire le pance dei palestinesi per moderarli). L’idea non è nuova: la sostenne il ministro della Difesa Moshe Dayan dopo la guerra del ’67, e negli Anni 70 la riprese il laburista Peres. La prima intifada nell’87 la stritolò, rivelando a chi non voleva vedere che i sogni palestinesi non erano economici. Il fatto che sia oggi riproposta è qualcosa su cui vale la pena meditare, perché rivela un malessere israeliano tuttora irrisolto e pernicioso.
Il malessere è certo acuito da chiusure aggressive di arabi e palestinesi, come scrive lo scrittore Yehoshua (La Stampa, 14-2). Ma in buona parte è interno, è frutto dell’incapacità israeliana di rispondere alla domanda: cosa vogliamo essere? che Stato abbiamo in mente, di fatto? Uno Stato ebraico, democratico, e che al contempo mantenga il controllo su zone dove i palestinesi sono in maggioranza? Qui nascono i mali, spiegati bene dallo storico Gershom Gorenberg (The Accidental Empire, New York 2006): le tre aspirazioni sono in realtà incompatibili fra loro. Non è possibile che lo Stato resti al tempo stesso ebraico e democratico, se l’occupazione permane: gli ebrei sono minoritari nei territori, e lo saranno (forse già lo sono) nell’insieme geografico che amministrano. Estesa alla Cisgiordania, la democrazia israeliana non è più ebraica. Oppure rimane ebraica, ma smette d’esser democrazia. Di questo converrà cominciare a discutere: in Israele, in America, in Europa e nella diaspora, non contentandosi d’additare spauracchi come Gheddafi. Gorenberg invita la diaspora a condannare l’occupazione. L’indeterminatezza sulla forma-Stato è tipica degli imperi instabili e minaccia gli ebrei dentro Israele e fuori.
Il piano due Stati-due popoli è il solo orizzonte augurabile. Ma quel che è accaduto in 41 anni ha forgiato una realtà che lo rende impraticabile: tale d’altronde era lo scopo, esplicito, di chi favorì l’Impero Accidentale (da Sharon a Peres). Basta guardare la carta geografica per constatarlo: la Cisgiordania è coperta da una miriade di colonie, sparse come polvere, inconciliabili con ogni continuità territoriale palestinese. E non esistono solo colonie, abitate da uomini armati che infrangono il monopolio della violenza legale. Ovunque, nella Westbank, ci sono strade riservate solo a israeliani o percorribili dai palestinesi a condizioni capestro.
Le ultime cifre sul numero dei coloni, fornite da un rapporto per il ministero della Difesa, sono le seguenti: in Cisgiordania 290.000 in 120 insediamenti, più decine di avamposti militari. Sulle alture del Golan 16.000 in 32 insediamenti. Nelle aree annesse di Gerusalemme Est 180.000. Gaza fu evacuata da Sharon nel 2005 (9000 israeliani in 21 insediamenti) ma senza che la colonizzazione in Cisgiordania diminuisse. Anzi, aumentò: le organizzazioni non governative testimoniano come ogni mossa israeliana, diplomatica o bellica, s’accompagni a un aumento di colonie e avamposti. Questi ultimi sono chiamati illegali, ma ogni insediamento lo è. Ogni insediamento nasce dal groviglio mentale seguito alla guerra del ’67: groviglio che ha frantumato il concetto di confini e di Stato. Gideon Levy su Haaretz ricorda come il duello Begin-Peres nell’81 fosse una gara fra chi garantiva più colonie. I coloni pesano enormemente sui governi israeliani. Il laburista Barak aumentava le colonie, mentre sotto la guida di Clinton negoziava con Arafat. Lo stesso Barak, poco prima del voto del 10 febbraio, ha promesso al Consiglio dei coloni (Consiglio Yesha) di non smantellare l’avamposto Migron, nonostante le intese del 2001 con Washington. I coloni di Migron comunque potranno spostarsi nell’insediamento Adam presso Gerusalemme: altra colonia che doveva esser smantellata.
L’occupazione dunque continua, anche se i governi israeliani evitano la parola annessione. Evitandola tengono tuttavia in piedi il groviglio mentale, a proposito di nazione e confini. Se parlassero di annessione, dovrebbero infatti riconoscere che la natura dello Stato muta sostanzialmente, e che Israele è a un bivio. Se vuol preservare l’ebraicità diventa Stato di apartheid. Se vuol restare democratico, dovrà ammettere che i palestinesi son titolari di diritti coerenti con i numeri.
Secondo Gorenberg, è la colonizzazione successiva alla guerra dei Sei Giorni che ha distrutto l’idea di Stato nata nel ’48: «Il processo di consolidamento, necessario a un nuovo Stato, fu sconvolto. Una generazione che aveva costruito lo Stato cominciò senza volerlo a togliere pietre essenziali alla sua struttura»: le colonie ravvivarono l’anarchia pionieristica della conquista, lo spirito messianico dell’organizzazione Gush Emunim contaminò i laici e in particolare gli immigranti della diaspora russa stile Lieberman, infastiditi dai vincoli della vita locale. Lo stesso spirito spinge la destra a sospettare gli arabi d’Israele (20 per cento della popolazione): arabi cui Lieberman vuole imporre doveri di lealtà anche bellica allo Stato ebraico, in cambio del diritto di cittadinanza.
Chi rispetta i fatti, dovrà dire quel che vuole. Se vuole la sopravvivenza della nazione nata nel ’48, non potrà non definire la propria idea di Stato e agire di conseguenza. Non potrà non vedere che verrà il giorno (sta già venendo) in cui i palestinesi chiederanno che la situazione resti quella che è (una Grande Israele) ma che diventi democratica: facendo corrispondere a ogni uomo un voto, come nella legge della democrazia. Quel giorno gli ebrei saranno una minoranza: lo Stato non sarà più ebraico. Nascondere a se stessi questa realtà non serve a evitarla. Serve a renderla più vicina e minacciosa.
di Barbara Spinelli
15 febbraio 2009
Il mito del lavoro che non c'è
Negli ultimi 10 anni si e’ diffuso un mito, che e’ quello del lavoro che non c’e’ piu’. Questo mito nasce per nascondere il fallimento dell’ideologia riformista, quella che e’ nata per ideare i paesi occidentali come paesi ove non ci sarebbe piu’ stato lavoro (perche’ delocalizzato) e ci saremmo limitati a gestire la complessita’, fornendo servizi avanzati. Begli slogan, che nascondono un fallimento.
Perche’ e’ nato questo paravento? E’ nato questo paravento perche’ un grande paese che stampava soldi a tutto andare (gli USA) ha dovuto chiedersi in che modo evitare un’inflazione mostruosa. E la maniera migliore e’ stata “teniamo i soldi che stampiamo fuori dal paese”.
Sia chiara una cosa: non e’ ne’ convincente ne’ cosi’ scontato che le delocalizzazioni siano economicamente vantaggiose. Tantevvero che oggi moltissime aziende stanno facendo marcia indietro. Ma non perche’, come amiamo illuderci, manchi qualita’ nel prodotto. E’ che per costruire processori dove prima c’era la savana dobbiamo prima portarci la corrente. Poi dobbiamo portarci le strade. Indi l’industria del vuoto spinto. Eccetera eccetera eccetera: un’infrastruttura sofisticata puo’ vivere solo all’interno di un sistema sofisticato.
Se quindi vogliamo prendere la Cina da uno stato comunista-medioevale e portarla ad essere la fabbrica del mondo, non dobbiamo solo finanziare la fabbrica di chip. Dobbiamo anche mettere su una centrale elettrica di potenza adeguata e di continuita’ garantita. E le scuole. E le strade. E tutto quanto.
Si e’ calcolato che il calo di investimenti dagli USA verso la Cina, l’ India sia stato pari, per via del credit crunch, ad un triliardo di dollari/anno per il biennio 2009-2010. Ora, proviamo a rifletterci: anche calcolando un solo triliardo di dollari l’anno, stiamo parlando del 7.1% del PIL americano. Che e’ una cifra enorme. Qual’e’ il guaio?
Se consideriamo che il volume della bilancia commerciale attiva dei cinesi e’ di circa 250 miliardi di dollari annui, rimane da chiedersi che fine abbiano fatto quei giganteschi fiumi di soldi. E la risposta e’, ovviamente, che sono serviti a costruire l’infrastruttura.
In definitiva, quindi, l’affare cina ci ha reso qualcosa come 250 miliardi di dollari di merci l’anno(1), ma ha richiesto investimenti esteri in R&D fino ad un triliardo di dollari annui. Magari per la singola azienda l’affare e’ stato conveniente, ma siamo certi che come sistema ci abbiamo guadagnato?
La risposta e’ , quasi sicuramente, NO. A quanto dicono queste agenzie governative , abbiamo buttato in R&D fino a 1400 miliardi di dollari in un anno, e il disavanzo commerciale, cioe’ le merci che sono uscite -al netto- da questa immensa fabbrica hanno un valore massimo che e’ arrivato ai 360 miliardi.
In un’ottica puramente liberista, questo non poteva succedere: il bene combinato di tutte le singole aziende che ci hanno guadagnato in Cina doveva corrispondere ad un risultato positivo globale. Cosa che non e’ stata: nel 2007, le merci che abbiamo fatto produrre la’ sono state, in totale , un plusvalore di 360 miliardi.(2)
Quindi ci abbiamo rimesso. Se supponiamo che la ricchezza si conservi e non si distrugga, chi ci ha guadagnato? Beh, ci hanno guadagnato quei 500 milioni di cinesi che hanno visto il loro stile di vita crescere. Lavoro migliore, piu’ igiene, tecnologia, eccetera. Bello.
Bello, ma bisogna chiedersi se industrializzare la cina per usarne i prodotti sia stato un affare (e abbiamo detto di no) e se queste perdite abbiano avuto degli effetti. L’occidente (facciamo un miliardo di persone tra Ue ed USA) ha creato 500 milioni di nuovi redditi in Cina. Dobbiamo chiederci: se quel lavoro fosse rimasto qui, e se quegli investimenti in R&D fossero rimasti qui, quanto ci avremmo guadagnato in termini di occupazione?
Questo e’ il problema, e per comprendere le risposte basta rileggere vecchi articoli economici. Negli anni ‘70 e negli anni ‘80 si stimava che la furibonda crescita tecnologica avrebbe prodotto sempre piu’ lavoro, come in effetti e’ stato. Se consideriamo che un tasso di disoccupazione medio nell’eurozona significa qualcosa come 7 milioni di disoccupati in totale, e che negli USA (prima della crisi) stavamo sui 17 milioni, beh, in quei 500 milioni di redditi che abbiamo prodotti in cina ci stavamo larghi.
Del resto, tutti gli economisti del pre-globalizzazione avevano calcolato questo fenomeno, ed erano preoccupati del fatto che fosse possibile supportare una simile crescita tecnologica sul piano del mercato del lavoro. Gli economisti dell’epoca chiaramente fornivano due risposte: automazione di processo ed emigrazione. Ancora si parlava poco di outsourcing, perche’ si pensava (giustamente) che costruire una fabbrica di chip nella giungla richiedesse spese accessorie enormi, per rendere possibile l’infrastruttura necessaria.
Perche’ si e’ commesso uno svarione simile, e specialmente uno svarione cosi’ costoso? Perche’ si sono spesi triliardi per attrezzare una jungla a produrre chip, se poi ci servivano chip per un terzo di quella cifra?
La risposta sta nel gigantesco disavanzo commerciale americano: perche’ spostare enormemente la produzione all’estero era l’unica strategia di breve e medio termine che potesse tenere in piedi il valore del dollaro dopo le continue stampe di moneta post-kennediane.
Cosi’ si e’ inventata l’ideologia della globalizzazione, spacciandola per inevitabile: e’ verissimo che i commerci tra nazioni siano destinati a crescere col progresso. Non e’ detto, pero’ , che la maniera migliore di farlo sia di impedire ai singoli governi di gestire il traffico di frontiera.
Così com’e’ la globalizzazione e’ frutto di una visione ideologica, non perche’ il mercato libero sia “la legge del piu’ forte”(3), ma perche’ si sapeva fin dall’inizio che per trasformare alcuni paesi nelle “fabbriche del mondo” si sarebbe dovuto investire moltissimo, e il rischio di non rivedere gli investimenti sarebbe stato altissimo: se adesso si affermera’ una strategia protezionista o nazionalista per via del debit crunch, siamo proprio certi che rivedremo indietro tutti quei soldi?
Ecco il motivo di un’ideologia. Lo scopo essenziale di ogni ideologia e’ quello di costruire una serie di risposte prefabbricate che servano come tappo per fermare le domande prima che nascano o che diventino pericolose. Cosi’, quando in Europa e USA qualcuno ha cominciato a notare che il lavoro calava, la risposta e’ stata “in futuro ci sara’ sempre meno lavoro (come se scomparisse anziche’ venire spostato) e i nuovi giovani dovranno gestire la complessita’”. La stessa ideologia rispondeva che ovviamente ci avremmo guadagnato perche’ il mercato INTERNO cinese poi avrebbe comprato le nostre merci.
Ebbene, non solo la Cina non ha comprato le nostre merci (altrimenti non avrebbe un simile disavanzo commerciale) ma non abbiamo piu’ queste complessita’ da gestire: le complessita’ da gestire oggi si trovano in cina, perche’ “complessita’” indicava la complessita’ della produzione, e questa e’ scomparsa.
Certo, rimaneva da gestire la complessita’ di questa scellerata operazione, cosa nella quale si sono specializzati paesi come l’ Inghilterra: ma al di fuori di questo, la generazione di europei nata per “gestire la complessita’” si trova in un’europa ove il70% dei lavori disponibili NON implica complessita’. Perche’ la PMI non e’ complessa. Perche’ non lo e’ l’azienda che ha delocalizzato. Perche’ la complessita’ e’ figlia del lavoro, ed il lavoro se n’e’ andato.
Che cosa rispondono gli ideologi a queste cifre? Come mi sanno giustificare frasi quali “e’ conveniente che la Cina cresca perche’ il mercato interno cinese e’ una grande opportunita’”, di fronte ad un disavanzo commerciale verso l’estero di 360 miliardi di dollari? Dove sono queste opportunita’, se per vendere 10 dobbiamo comprare 13,6?
E specialmente, se per arrivare a vendere 10 dobbiamo prima investire 14?
La realta’ che emerge dai numeri di queste economie e’ che per quanto riguarda la globalizzazione si sono raccontate tante balle. Il disavanzo commerciale dei paesi in via di sviluppo significa, senza ombra di dubbio, che non e’ affatto vero che si tratti di grandi opportunita’ per le nostre imprese.
A questo punto il liberista dice “si’, ma spesso quelle imprese sono occidentali”. Il che, secondo lui, chiude la questione. Il che non e’ vero, perche’ in ultima analisi gli investimenti in R&D sono 3 volte il disavanzo commerciale, il che significa che se anche il 100% delle imprese cinesi che esportano fosse occidentale, siamo ancora a debito, eccome.
E quindi i conti non tornano, punto e basta. La crescita dei paesi emergenti, finanziata dall’occidente, non e’ stata un buon affare. E’ vero che LA’ si sono creati milioni di posti di lavoro. Ma e’ vero che per fare questo si sono distolti dei flussi enormi di capitale, che non sono rientrati e che probabilmente non rientreranno MAI, e che per via di questo crollo di investimenti in loco le condizioni dei lavoratori occidentali sono letteralmente crollate, con la sola eccezione di quelli che gestiscono la complessita’ ed i servizi DI QUESTA SCELLERATA OPERAZIONE.
Sarebbe ora di andare da questi signori che ripetono che la Cina sia una grande opportunita’, e chiedere loro conto delle cifre in ballo. Chiedere loro come sia possibile affermare che le nostre industrie ci guadagnino per via del mercato interno cinese se la cina ESPORTA piu’ di quanto importi. Chiedere loro quale conto economico sia in attivo se , anche ammettendo che la Cina sia la grande fabbrica del mondo, gli investimenti in R&D superano di tre volte le merci che escono da questa fabbrica.
Chiedere conto delle cifre, laddove le ideologie ci danno solo slogan.
Perche’ quando si e’ inventata la palla del lavoro che “calava inevitabilmente” in occidente, per tener buoni quelli che si lamentavano, si stava solo mettendo una pezza al fatto che si stava usando la Cina non come fabbrica, ma come pozzo di smaltimento per dollari in eccesso. Solo che cosi’ facendo si e’ preparato un disastro. E specialmente, lo si e’ giustificato dicendo “non possiamo continuare a crescere cosi’”, arrivando a dire che se il lavoro calava era perche’ il mondo “non puo’ crescere sempre esponenzialmente”, quando in Cina venivano creati 500 milioni di posti di lavoro.
Cosi’ tutte queste ideologie del fumo fritto sono state create per mettere una toppa, per sviare dall’evidenza: forse il mondo non puo’ crescere sempre, nessuno lo mette in dubbio, ma ADESSO sta crescendo, solo che noi siamo tagliati fuori. Ed e’ questo che l’ideologia del “non possiamo crescere sempre” vuole nascondere: allora chiediamo: e perche’ loro si’? Perche’ loro ADESSO crescono?
Tante ideologie, specialmente quelle che confondono le conseguenze del problema con la soluzione del problema (decrescita, risparmio, eccetera(4) ), sono nate a scopo consolatorio, mediante un meccanismo intellettuale che produce il grande sbaglio (”adattarsi alle conseguenze nefaste del problema e’ una soluzione al problema e non una conseguenza“) , iniziano a spacciarla come soluzione. Dire che se manca energia bisogna consumarne meno e’ come dire alle donne: beh, in caso di stupro prendilo dentro. Il che e’ ovvio, visto che non hai scelta. Se manca energia ne consumi di meno per forza.
Cosi’, se manca crescita, ci dicono, e’ meglio convertirsi alla decrescita. Il che e’ ovvio: non ho bisogno di un genio per capire che senza crescita siamo in decrescita. Ma non e’ neanche una scelta: la decrescita e’ semplicemente una conseguenza del problema della difficolta’ a crescere: non puo’ essere una soluzione perche’ e’ una semplice conseguenza del problema. Crescere meno= decrescere. Se uno dice “siamo in crisi” non puoi rispondere “allora decresciamo”: lo stai gia’ facendo, era gia’ implicito nel problema.
Cosi’ come si e’ risposto ai milioni di lavoratori che hanno perso il posto perche’ si e’ deciso di fare questo investimento folle sulla Cina: “non potevamo continuare col consumismo”. Strano, perche’ consumiamo ancora di piu’, visto che i cinesi producono per loro ED esportano anche. Stiamo continuando eccome!
Dunque?
Dunque e’ tutta una leggenda. Magari non si puo’ crescere per sempre (dipende da COME si cresce, imho) ma adesso si sta crescendo, e nessuno di questi genialoni della decrescita ci spiega come mai questo destino “inevitabile” stia toccando noi e non altri. Eccetera.
Ecco, la storia che mancano posti di lavoro perche’ “non si puo’ crescere sempre” era una palla. Qualcuno e’ cresciuto e ci ha fatto 500 milioni di nuovi posti di lavoro. Con capitali costruiti qui. E nessuno sa ancora fornire un bilancio positivo.
Il lavoro c’era. Lo abbiamo spostato. E sarebbe ora di chiederne conto. Senza farsi seghe sul destino cinico e baro della decrescita mondiale inevitabile (che tocca solo noi).
Uriel
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21 febbraio 2009
Ma com'è questa crisi?
L’aria che si respira, durante la riunione sindacale della CGIL, è pesante. Non si parla solo della frattura sindacale con CISL ed UIL, dei contratti di carta straccia, di leggi e leggine, le quali piovono sulla scuola come coriandoli in uno scenario che, di Carnevale, non ha nulla.
C’è il segretario provinciale, che tratteggia la situazione e sciorina dati: la cassa integrazione è triplicata in breve tempo, ed anche coloro i quali sono privi di qualsiasi protezione sociale aumentano, compresi i precari della scuola che rimarranno a spasso. Un camposanto.
Anche le frecciate sul piccolo ministro della Funzione Pubblica rimangono sullo sfondo, poiché la domanda che aleggia nell’aria – inespressa ma presente sui volti – è la stessa: dove andremo a finire?
I dati sul reale impatto della crisi economica si susseguono e s’accavallano: ciascuno cita una cifra più alta di quella del giorno prima, mentre il governo ha scelto la strada d’urlare più forte per tacitare i brusii. Se non basta proclamare urbi et orbi che esiste il traffico d’organi, si monta subito una bella disfida di Barletta su Eluana. Domani? Speriamo che il solito rumeno ne combini qualcuna, altrimenti siamo spiazzati. Ci salverà il Grande Fratello, ma è un’ancora di salvezza poco affidabile.
L’impressione che si ricava da questa crisi finanziaria è quella di una spada di Damocle sospesa, che non si sa con precisione quanto incombe e quando calerà con fragore.
Si scomodano, allora, i precedenti storici e, ovviamente, la crisi del ’29 la fa da padrone. Sarà sufficiente?
Gli aggettivi si sprecano: “epocale”, “imprevedibili effetti”, “catastrofica”…ma…le ragioni?
Certo, quelle più evidenti sono state chiarite: la creazione di ricchezza fasulla, di una montagna di carta straccia timbrata come moneta o certificato di credito, poi rivenduto, ecc. Perché è stato permesso? Qui, la cosa si complica, perché esiste un legame fra le guerre degli ultimi decenni e la cosiddetta “crisi finanziaria”.
Per capire le ragioni profonde ed importantissime di questa crisi – di questa punta dell’iceberg – potremmo partire all’incirca dall’anno di Grazia 1500, quando Cabral sbarca sulle coste del Mozambico e fonda le prime colonie portoghesi. Ho scritto “potremmo”, poiché le colonie oltre il Capo furono solo il seguito di quelle create ad Occidente del Capo di Buona Speranza, già nel XV secolo. Qual era la ragione di tanto ardire? Giungere alle isole delle spezie per mare, senza dover sottostare alle esose richieste dei mercanti arabi.
Quei piccoli borghi medievali fortificati sulle coste dell’Africa, rappresentarono un crinale della Storia: prima, Oriente ed Occidente erano appena consci della presenza, l’uno, dell’altro. Pochi anni dopo, iniziavano a confrontarsi.
Fino a quel momento, la Cina godeva d’alcuni primati tecnologici, soprattutto nella costruzione d’altiforni e nella chimica: la polvere da sparo fu una loro invenzione, anche se non ci sono prove storiche così certe.
In pochi anni, però, il primato passò all’Occidente: perché? Poiché era Cristiano.
Superiorità religiosa? No, più prosaicamente, una questione metallurgica: i Cristiani fabbricano campane, gli orientali i gong.
Se “allungate” un gong potrete ottenere al massimo un catino, mentre se “snellite” una campana otterrete un cannone: i primi fabbricanti di cannoni, già nel XIV secolo, erano tutti ex fonditori di campane.
Anche i cinesi usarono la polvere da sparo per la propulsione di lancio, ma utilizzarono i bambù come recipienti e – si comprende facilmente – un cilindro di ferro, più capiente e robusto di uno di bambù, lancerà più lontano un proiettile più pesante.
Ecco la "chiave”, una prima risposta per capire come mai l’Oriente diventò “territorio di caccia” per gli occidentali e non il contrario.
Le cronache riportano una lunga sequenza di “accordi commerciali” e “protettorati”, nati e cresciuti all’ombra di un vascello o di una cannoniera ancorati di fronte alle coste altrui.
I secoli seguenti vedono l’affermazione dapprima commerciale, poi decisamente coloniale, dell’Occidente: le Compagnie delle Indie ed i viceré nelle colonie sono carte dell’identico mazzo.
Ancora nell’800, le cannoniere americane di Perry (1854) “aprirono” le porte del Giappone, mentre quelle francesi servirono identica “portata” (con la battaglia navale di Fu-Chan, nel 1884) alla Cina.
La prima metà del ‘900 non muta lo scenario, mentre la seconda inizia con qualche sussulto: nel 1953, per convincere il riottoso Primo Ministro iraniano Mossadeq ad accettare le “generose” offerte delle compagnie petrolifere occidentali (il 6% agli iraniani, il 94% alla BP & soci), Eisenhower invia un emissario “speciale” – il generale Norman Schwarzkopf sr, ricordate questo nome? – il quale riesce, con un colpo di stato abilmente diretto da Washington, a cancellare ogni anelito d’equità nella ripartizione delle risorse iraniane.
Nel 1948 nasce Israele, il quale – oltre ad una serie di ragioni ben note relative al sionismo – ha il compito di “sentinella” per il Canale di Suez e per gli sviluppi del sistema d’approvvigionamento petrolifero, in questo coadiuvato dalla famiglia regnante degli Al Saud.
Il sistema neocoloniale ancora tiene: le piccole caravelle di Cabral continuano a segnare il tempo ed a riproporre la prassi dell’appropriazione, spesso truffaldina, delle risorse altrui. Ma i giorni passano.
La lunga guerra in Vietnam rivela, per la prima volta, che gli USA non sono invincibili, ma non è questo il “giro di boa”. Lentamente, l’Oriente si risveglia: in Occidente si ride, alla comparsa sulle bancarelle dei mercati rionali, delle bamboline in legno e pezza “made in China”. Ma guarda ‘sti cinesi…riusciranno a farle così bene perché hanno le mani piccole…
Nel 1991, un altro Norman Schwarzkoft (jr, il figlio del precedente “inviato” in Iran, buon sangue non mente) guida la “Felicissima Armada” che convince Saddam Hussein a “mollare” il Kuwait, e tutto sembra continuare come sempre: se alzi la testa, l’Occidente – unito – spara ad alzo zero.
Verrebbe da dire “e arriva l’11 Settembre”, ed invece non lo affermiamo proprio, perché c’entra poco o nulla.
Arrivano, invece, computer dalla Cina e software house dall’India: poi, tutto precipita. Dal Brasile all’Iran, dalla Malesia alla Russia, il “non-Occidente” si mette a fabbricare ed a commercializzare di tutto: elettronica, energia, meccanica, chimica…
Le caravelle di Cabral s’arenano e, con esse, cinque secoli di predominio mercantile e militare sul Pianeta.
La risposta?
Secondo copione, partono le cannoniere, ma ottengono ben poco: per comprendere in qual basso stato siano giunte le armi occidentali, basti pensare che, pochi giorni or sono, a Kabul hanno dato l’assalto al palazzo presidenziale. Karzai s’è salvato per miracolo, mentre l’Iraq è oramai un affare chiuso: un fallimento che attende solo l’Ufficiale Giudiziario.
La forza dell’Occidente, per questi cinque secoli, è stata sorretta da due aspetti: denaro e cannoni. I quali, se manca il denaro, servono a poco. E allora? Se non possiamo più stampare vagoni di carta moneta a ufo…creiamo ricchezza finanziaria fasulla!
Nel volgere di mezzo secolo, gli USA sono passati dal controllare il 50% del commercio mondiale al 20%, oggi forse ancora meno, e l’Europa non ha certo colmato quei vuoti.
Li stanno colmando legioni di uomini d’affari cinesi, indiani, brasiliani…che vendono di tutto, di tutto di più. Vendono perché fabbricano, fabbricano perché progettano, progettano perché studiano: noi, siamo ridotti a creare truffe.
Domandiamoci, allora, la natura di questa crisi partendo da tre ipotesi di “scuola” marxista:
1) Una crisi ciclica del capitalismo.
2) La crisi terminale del capitalismo.
3) Una crisi d’assestamento verso nuovi equilibri internazionali.
Abbiamo distinto le ipotesi 1 e 3, anche se presentano molti punti in comune, sulla base delle cause: endogene, ossia crisi di ristrutturazione degli apparati produttivi nel primo caso (modello anni ’70 del ‘900, ad esempio, oppure le grandi trasformazioni della seconda metà dell’Ottocento, ecc) e cause geopolitiche nel terzo, pur rendendoci conto che esistono parecchi aspetti interdipendenti fra i due fenomeni.
Un secondo aspetto, da approfondire, concerne l’analisi “tecnica” degli eventi, ossia le evoluzioni parallele dei fenomeni in atto, se confrontate con altri sconquassi economici del passato.
La crisi del 1929 ben si presta perché è vicina a noi – gli “attori” portano, a volte, quasi gli stessi nomi, gli Stati coinvolti pure, ecc – e, soprattutto, poiché consente d’analizzare gli eventi utilizzando i parametri dell’economia contemporanea.
Ci sono, ovviamente, delle differenze: ad esempio, all’epoca era ancora in vigore l’ancoraggio all’oro di parecchie monete, ma non è questo il fatto saliente.
Una crisi, se analizzata partendo dagli effetti puramente economici (parametri, ecc), può condurre a parallelismi che non hanno ragion d’essere poiché, come avviene per la diagnosi di una malattia, effetti simili od addirittura perfettamente sovrapponibili possono derivare da cause molto diverse. E’ questo il caso.
La crisi del 1929 non fu minimamente catalizzata da eventi esterni all’Occidente: nessuno, all’epoca, era in grado d’impensierire il commercio internazionale gestito dalle potenze dell’epoca. Tutti i Paesi, oggi emergenti, erano colonizzati od asserviti oppure, come l’URSS, alle prese con infiniti guai interni. Grandi Paesi come la Cina od il Brasile, nel commercio mondiale, valevano pressoché zero.
La crisi del 1929 rivelò i rischi di un capitalismo lasciato galoppare senza freni – le “bolle finanziarie” spadroneggiarono anche allora – ma era il contesto economico reale (la cosiddetta “Main Street”), ossia la potenzialità di ricchezza, la possibilità d’espansione economica ad essere diversa rispetto all’oggi.
Per questa ragione, ebbero successo le politiche keynesiane: la “Tennessee Valley” fu possibile perché lo Stato (per nulla indebitato) varò il deficit spending per incentivare l’agricoltura ed i trasporti negli stati del Sud.
Oggi, un ipotetico “piano” per “Silicon Valley” sarebbe improponibile perché Silicon Valley, nel nostro tempo, è in Cina, India, Malesia…
Queste premesse, ci portano a concludere che l’attuale crisi del capitalismo non è una crisi “terminale”, proprio perché – da qualche parte – esistono aree che possono ricevere nuova industrializzazione, incrementare i consumi, ecc.
Sull’altro versante, un simile spostamento di ricchezza, produzione, conoscenza, ricerca…non può “transitare” senza scossoni epocali: perdere cinque secoli di predominio, è un trauma equivalente alla caduta di un impero dell’antichità.
La fiaba, raccontata in tutte le salse, della produzione “diversificata” e globalizzata e, dall’altra, di una finanza accentrata in poche mani occidentali, sta svanendo come neve al sole.
L’opulenza della piazza finanziaria di Londra si consuma nell’evidenza dei licenziamenti, nelle banche salvate dalla mano pubblica, ossia in una partita di giro che vede caricare sulle spalle dei cittadini le perdite del sistema finanziario. Un partita di giro truccata, poiché a soffrire dei disastri finanziari è prevalentemente la parte più ricca della popolazione, mentre a subirne gli effetti saranno – con l’estinguersi dello stato sociale – i settori meno abbienti.
Mentre metà del Pianeta s’interroga su dilemmi di natura espansiva – finanziari, tecnologici, ambientali, ma sempre espansivi, poiché ci sono secoli di domanda interna da colmare – l’altra metà non trova risposte, perché quelle risposte esigerebbero proprio la presa di coscienza di un mondo non più “eurocentrico” oppure “amerocentrico”.
Al più, dopo i fallimenti della politica unilaterale di Bush, si torna a parlare di “multipolarismo”, ma il diritto di veto al Consiglio di Sicurezza dell’ONU rimane solidamente ancorato nelle mani di cinque attori, tre dei quali sono potenze un tempo coloniali o neocoloniali: si stenta a comprendere che un “G20”, oggi, deve prender forma su piani d’assoluta parità.
Ancor più drammatico, è capire quale potrà essere il futuro di vecchie ed azzimate signore – un tempo padrone del pianeta – che oggi si ritrovano con le pezze al sedere. Premere sull’acceleratore dell’innovazione tecnologica?
Non si può certo rifiutare lo sforzo per la conoscenza, ma aspettarci grandi frutti da queste politiche è incerto, giacché bisogna fare i conti con la novità: non siamo più in testa, stiamo inseguendo.
Anche nel nuovo comparto energetico – l’unico che, forse, consente all’Occidente il vantaggio di un’incollatura – dobbiamo considerare che le potenzialità dell’Oriente – ricerca, finanza, produzione – crescono con numeri a due cifre, non con i nostri asfittici “0,…%”. Se i cinesi si mettessero a costruire pannelli solari, c’è da giurarci che in breve tempo li costruirebbero migliori ed a minor costo rispetto ai nostri.
L’unica sfida che l’Occidente dovrebbe accettare non è nella corsa economica o tecnologica: la presa di coscienza della propria condizione di “poveri in divenire”, dovrebbe accelerare il dibattito sulla distribuzione della ricchezza, sul valore stesso di “ricchezza”, sulla necessità d’essere “ricchi”.
In fin dei conti, restiamo Paesi “ricchi”: non ci mancano certo i beni primari e la protezione sociale, e siamo in grado d’avere anche un po’ di superfluo; ciò che non ci potremo più permettere, è di vivere credendoci nababbi hollywoodiani.
Roma fu invincibile e padrona assoluta per secoli: eppure Roma lasciò poco, mucchi di macerie che oggi chiamiamo “ruderi”. Atene non dominò quasi nulla, però i suoi fondamenti sono, ancora oggi, le basi della nostra conoscenza.
Diventa allora essenziale riportare il dibattito sui valori fondanti del nostro vivere: aspetti giuridici ed economici, difesa e rivalutazione dei grandi principi costituenti da un lato, serrato dibattito per riportare alla collettività le leve dell’economia.
Recentemente, un uomo politico italiano (poco importa chi è, la pensano quasi tutti così) ha dichiarato “di non essere attratto dalla decrescita”: “decrescita” non potrà più essere un vago concetto sul quale decidere “quoto” o “non quoto”, poiché ai cinesi frega assai di cosa “quotiamo”. E, se lasceremo fare al “mercato”, non otterremo mai risposte perché il “mercato” non prende in considerazione aspetti culturali: valuta l’incremento, o il decremento, e su quella base decide.
La decrescita, invece, non può fare a meno di una profonda rivisitazione – su basi culturali – del nostro vivere: solo dopo si potrà decidere se costruire autostrade od incrementare la ferrovia, se passare ad un sistema di produzione/consumo d’energia su piccola scala, se intervenire sull’obsolescenza dei beni, ecc.
La politica, insomma, senza valori culturali di riferimento, si riduce ad un mero esercizio di calcolo: di soldi, di voti, di favori.
Voglio portare un esempio che può sembrare provocatorio, e che non lo è per niente.
L’Italia è un Paese fortunato, fortunatissimo. Non abbiamo quasi petrolio, ed abbiamo industrie che anche altri hanno, spesso più solide delle nostre.
La Francia ha Versailles, la Spagna il Prado, la Russia l’Hermitage, la Germania i castelli del Reno…ma nessuno ha la reggia di Caserta, gli Uffizi, Venezia irripetibile, Roma mozzafiato, antichità greche, rinascimentali…anche il più sperduto borgo ha qualcosa che all’estero si sognano. Viviamo in un grande museo a cielo aperto.
E’ mai possibile che dobbiamo perdere terreno nei confronti d’altri Paesi europei proprio sul turismo?!? Ogni anno che passa, quando si fanno i conti sulla stagione turistica, è un fazzoletto di lacrime in più rispetto a quello precedente.
Eppure, gli studi sul turismo evidenziano che l’unico settore che “tiene” è quello dell’arte, soprattutto per i milioni di “nuovi ricchi” orientali. Non potremo mai fare concorrenza alle spiagge tropicali, mettiamocelo in testa: non riusciamo nemmeno a reggere il confronto con Spagna e Croazia.
Osserviamo, allora, l’importanza che l’Italia assegna al suo patrimonio artistico – il suo petrolio! – dai nomi dei ministri chiamati ad amministrarlo. Buio pesto, che più pesto non si può.
Dai palesi incompetenti – Bondi, Urbani – a quelli in altre faccende affaccendati, Veltroni e Rutelli: non uno che abbia fatto qualcosa, che abbia varato consistenti investimenti per la manutenzione e per il restauro d’altri, enormi patrimoni ancora sotterra o nei sotterranei dei musei.
Questi patrimoni, domani – se affiancati da una politica d’investimenti nei settori di supporto (alberghiero, ricettivo, ecc) – si potrebbero trasformare in milioni di posti di lavoro per tutti quegli italiani che non possono fare concorrenza ai cinesi nel produrre magliette e computer.
Perché non viene attuato nulla? Un caso? No, troppo semplice.
La ricchezza che si creerebbe, mettendo finalmente a frutto il nostro patrimonio artistico, sarebbe diffusa sul territorio, ne godrebbero milioni di “signori nessuno”, giovani senza lavoro, gente di mezza età che lo perde. In altre parole: noi. E’ lo stesso, perverso meccanismo che mette bastoni fra le ruote alla produzione energetica diffusa.
Ancora una volta, l’ostacolo è di natura culturale: la ricchezza diffusa (anche modesta) genera cittadini, quella dispensata dall’alto per non cadere in miseria, produce sudditi.
E, non sia mai, che ciò comporti una perdita di potere da parte di quel milione d’italiani che vive di politica, di mala politica, d’affari legati alla politica, poiché entrerebbe in contraddizione con il primo, vero articolo della nostra Costituzione:
Art. 1 bis: L’Italia è una repubblica oligarchica, fondata sul conflitto d’interesse e sul potere delle Caste.
Perciò, partendo da questo semplice esempio, possiamo capire ciò che c’attende per la cosiddetta “crisi economica” – che di strettamente economico ha ben poco – poiché l’economia (“governo della casa”) non è un dogma e tutti dovremmo parteciparvi. Non è accettabile dover sottostare ad imposizioni dettate da personaggi che fanno parte dello stesso mondo che fabbrica ricchezza fasulla! Perché un signore in doppiopetto di un’agenzia di rating – spesso collusa con le banche truffaldine – può decidere il futuro dei miei figli?
Per imbonirci, i politici nostrani usano strategie diversificate: si nasconde la testa sotto la sabbia (centro destra), oppure si vagheggiano astrusi parallelismi con la (per ora, tutta da verificare) politica di Obama (centro sinistra). In definitiva, ci raccontano solo un mare di frottole.
Nel primo caso, servono potenti anestetici (c’è il traffico d’organi! Eluana! Grande Fratello forever!) per tentare d’addormentare la popolazione sempre più stanca ed avvilita, mentre nel secondo si mesta nel torbido, perché è facile promettere una politica d’innovazione, soprattutto energetica, senza affrontare il nodo della gestione. A che servono, auto elettriche “targate” ENEL od ENI? A cambiare cappio, per strozzarci in un altro modo?
Non perdiamo altro tempo per analizzare, per spaccare il capello in quattro e conoscere finalmente il nome di colui che stampava carta straccia, e nemmeno se può essere più affidabile del suo socio: domani, potrebbero semplicemente scambiarsi la scrivania. Il passaggio storico è di quelli da far rizzare i capelli – questo è da tenere in primo piano! – e non sono stati i trucchi di quattro banchieri a generare il disastro: c’era già prima.
Ciò che la Storia c’insegna, è che questi enormi mutamenti richiedono la nostra attiva partecipazione: nuove idee, nuovi stili, nuovi obiettivi.
Ci arriveremo? Senza dubbio, ma la Storia ci racconta anche qual è il discrimine, il crinale che separa l’accettazione supina dalla fattiva elaborazione: milioni di morti.
di Carlo Bertani
Palestina:due stati due Popoli? Una illusione
Chi ha letto l’articolo di Gheddafi, il 21 gennaio sul New York Times, avrà ragionevolmente visto in esso una provocazione, e un’insultante confutazione dello Stato ebraico. Purtroppo le cose non stanno così, anche se l’insulto resta: quel che ha detto il Presidente libico - non ha più senso parlare di due Stati, israeliano e palestinese, in pace l’uno accanto all’altro - è una convinzione più diffusa di quel che si creda. La sostengono non solo fazioni palestinesi importanti, ma un certo numero di ebrei dentro e fuori Israele. Gheddafi dice a voce alta quel che molti pensano, anche senza desiderarlo. C’è da chiedersi se la destra israeliana che ha vinto alle urne (quella di Netanyahu e di Avigdor Lieberman, capo di Israel Beitenu, ovvero «Israele casa nostra») non abbia pensieri analoghi: che non confessa ma che impregnano i suoi piani d’azione.
La formula «due Stati-due popoli», che continua a esser sbandierata in Israele, a Washington, in Europa, non ha più radici vere nella realtà. È diventata una vana parola, che dà buona coscienza ma non suscita azioni. È come un treno che tutti immaginano in attesa alla stazione, e invece è già passato. Se in Israele si è affermata una destra ostile a negoziati con l’insieme dei partiti palestinesi, che non intende cedere territori e anzi accresce le colonie, significa che l’occupazione non è considerata quello che è: la più grande, l’autentica minaccia strategica per l’esistenza di Israele. In queste condizioni parlare di due Stati è ipocrisia.
Il piano implica la fine dell’occupazione e rari sono i politici israeliani che l’ammettono e ne traggono conseguenze.
È il motivo per cui alcuni auspicano che sia Netanyahu a guidare Israele. Lo ha scritto Gideon Levy su Haaretz, già prima del voto: la sua speranza è che finalmente si cominci a dire il vero, e Netanyahu può farlo. Che s’abbandonino espressioni eufemistiche come processo di pace o due Stati-due popoli. Con Netanyahu le cose diverrebbero più chiare, il dislivello tra verbo e azione meno nebbioso. Il capo del Likud è d’accordo con Lieberman: non vuole ridurre le colonie, e anzi difende il loro «aumento naturale». Non parla di Stato palestinese ma di Pace Economica (basta riempire le pance dei palestinesi per moderarli). L’idea non è nuova: la sostenne il ministro della Difesa Moshe Dayan dopo la guerra del ’67, e negli Anni 70 la riprese il laburista Peres. La prima intifada nell’87 la stritolò, rivelando a chi non voleva vedere che i sogni palestinesi non erano economici. Il fatto che sia oggi riproposta è qualcosa su cui vale la pena meditare, perché rivela un malessere israeliano tuttora irrisolto e pernicioso.
Il malessere è certo acuito da chiusure aggressive di arabi e palestinesi, come scrive lo scrittore Yehoshua (La Stampa, 14-2). Ma in buona parte è interno, è frutto dell’incapacità israeliana di rispondere alla domanda: cosa vogliamo essere? che Stato abbiamo in mente, di fatto? Uno Stato ebraico, democratico, e che al contempo mantenga il controllo su zone dove i palestinesi sono in maggioranza? Qui nascono i mali, spiegati bene dallo storico Gershom Gorenberg (The Accidental Empire, New York 2006): le tre aspirazioni sono in realtà incompatibili fra loro. Non è possibile che lo Stato resti al tempo stesso ebraico e democratico, se l’occupazione permane: gli ebrei sono minoritari nei territori, e lo saranno (forse già lo sono) nell’insieme geografico che amministrano. Estesa alla Cisgiordania, la democrazia israeliana non è più ebraica. Oppure rimane ebraica, ma smette d’esser democrazia. Di questo converrà cominciare a discutere: in Israele, in America, in Europa e nella diaspora, non contentandosi d’additare spauracchi come Gheddafi. Gorenberg invita la diaspora a condannare l’occupazione. L’indeterminatezza sulla forma-Stato è tipica degli imperi instabili e minaccia gli ebrei dentro Israele e fuori.
Il piano due Stati-due popoli è il solo orizzonte augurabile. Ma quel che è accaduto in 41 anni ha forgiato una realtà che lo rende impraticabile: tale d’altronde era lo scopo, esplicito, di chi favorì l’Impero Accidentale (da Sharon a Peres). Basta guardare la carta geografica per constatarlo: la Cisgiordania è coperta da una miriade di colonie, sparse come polvere, inconciliabili con ogni continuità territoriale palestinese. E non esistono solo colonie, abitate da uomini armati che infrangono il monopolio della violenza legale. Ovunque, nella Westbank, ci sono strade riservate solo a israeliani o percorribili dai palestinesi a condizioni capestro.
Le ultime cifre sul numero dei coloni, fornite da un rapporto per il ministero della Difesa, sono le seguenti: in Cisgiordania 290.000 in 120 insediamenti, più decine di avamposti militari. Sulle alture del Golan 16.000 in 32 insediamenti. Nelle aree annesse di Gerusalemme Est 180.000. Gaza fu evacuata da Sharon nel 2005 (9000 israeliani in 21 insediamenti) ma senza che la colonizzazione in Cisgiordania diminuisse. Anzi, aumentò: le organizzazioni non governative testimoniano come ogni mossa israeliana, diplomatica o bellica, s’accompagni a un aumento di colonie e avamposti. Questi ultimi sono chiamati illegali, ma ogni insediamento lo è. Ogni insediamento nasce dal groviglio mentale seguito alla guerra del ’67: groviglio che ha frantumato il concetto di confini e di Stato. Gideon Levy su Haaretz ricorda come il duello Begin-Peres nell’81 fosse una gara fra chi garantiva più colonie. I coloni pesano enormemente sui governi israeliani. Il laburista Barak aumentava le colonie, mentre sotto la guida di Clinton negoziava con Arafat. Lo stesso Barak, poco prima del voto del 10 febbraio, ha promesso al Consiglio dei coloni (Consiglio Yesha) di non smantellare l’avamposto Migron, nonostante le intese del 2001 con Washington. I coloni di Migron comunque potranno spostarsi nell’insediamento Adam presso Gerusalemme: altra colonia che doveva esser smantellata.
L’occupazione dunque continua, anche se i governi israeliani evitano la parola annessione. Evitandola tengono tuttavia in piedi il groviglio mentale, a proposito di nazione e confini. Se parlassero di annessione, dovrebbero infatti riconoscere che la natura dello Stato muta sostanzialmente, e che Israele è a un bivio. Se vuol preservare l’ebraicità diventa Stato di apartheid. Se vuol restare democratico, dovrà ammettere che i palestinesi son titolari di diritti coerenti con i numeri.
Secondo Gorenberg, è la colonizzazione successiva alla guerra dei Sei Giorni che ha distrutto l’idea di Stato nata nel ’48: «Il processo di consolidamento, necessario a un nuovo Stato, fu sconvolto. Una generazione che aveva costruito lo Stato cominciò senza volerlo a togliere pietre essenziali alla sua struttura»: le colonie ravvivarono l’anarchia pionieristica della conquista, lo spirito messianico dell’organizzazione Gush Emunim contaminò i laici e in particolare gli immigranti della diaspora russa stile Lieberman, infastiditi dai vincoli della vita locale. Lo stesso spirito spinge la destra a sospettare gli arabi d’Israele (20 per cento della popolazione): arabi cui Lieberman vuole imporre doveri di lealtà anche bellica allo Stato ebraico, in cambio del diritto di cittadinanza.
Chi rispetta i fatti, dovrà dire quel che vuole. Se vuole la sopravvivenza della nazione nata nel ’48, non potrà non definire la propria idea di Stato e agire di conseguenza. Non potrà non vedere che verrà il giorno (sta già venendo) in cui i palestinesi chiederanno che la situazione resti quella che è (una Grande Israele) ma che diventi democratica: facendo corrispondere a ogni uomo un voto, come nella legge della democrazia. Quel giorno gli ebrei saranno una minoranza: lo Stato non sarà più ebraico. Nascondere a se stessi questa realtà non serve a evitarla. Serve a renderla più vicina e minacciosa.
di Barbara Spinelli
15 febbraio 2009
Il mito del lavoro che non c'è
Negli ultimi 10 anni si e’ diffuso un mito, che e’ quello del lavoro che non c’e’ piu’. Questo mito nasce per nascondere il fallimento dell’ideologia riformista, quella che e’ nata per ideare i paesi occidentali come paesi ove non ci sarebbe piu’ stato lavoro (perche’ delocalizzato) e ci saremmo limitati a gestire la complessita’, fornendo servizi avanzati. Begli slogan, che nascondono un fallimento.
Perche’ e’ nato questo paravento? E’ nato questo paravento perche’ un grande paese che stampava soldi a tutto andare (gli USA) ha dovuto chiedersi in che modo evitare un’inflazione mostruosa. E la maniera migliore e’ stata “teniamo i soldi che stampiamo fuori dal paese”.
Sia chiara una cosa: non e’ ne’ convincente ne’ cosi’ scontato che le delocalizzazioni siano economicamente vantaggiose. Tantevvero che oggi moltissime aziende stanno facendo marcia indietro. Ma non perche’, come amiamo illuderci, manchi qualita’ nel prodotto. E’ che per costruire processori dove prima c’era la savana dobbiamo prima portarci la corrente. Poi dobbiamo portarci le strade. Indi l’industria del vuoto spinto. Eccetera eccetera eccetera: un’infrastruttura sofisticata puo’ vivere solo all’interno di un sistema sofisticato.
Se quindi vogliamo prendere la Cina da uno stato comunista-medioevale e portarla ad essere la fabbrica del mondo, non dobbiamo solo finanziare la fabbrica di chip. Dobbiamo anche mettere su una centrale elettrica di potenza adeguata e di continuita’ garantita. E le scuole. E le strade. E tutto quanto.
Si e’ calcolato che il calo di investimenti dagli USA verso la Cina, l’ India sia stato pari, per via del credit crunch, ad un triliardo di dollari/anno per il biennio 2009-2010. Ora, proviamo a rifletterci: anche calcolando un solo triliardo di dollari l’anno, stiamo parlando del 7.1% del PIL americano. Che e’ una cifra enorme. Qual’e’ il guaio?
Se consideriamo che il volume della bilancia commerciale attiva dei cinesi e’ di circa 250 miliardi di dollari annui, rimane da chiedersi che fine abbiano fatto quei giganteschi fiumi di soldi. E la risposta e’, ovviamente, che sono serviti a costruire l’infrastruttura.
In definitiva, quindi, l’affare cina ci ha reso qualcosa come 250 miliardi di dollari di merci l’anno(1), ma ha richiesto investimenti esteri in R&D fino ad un triliardo di dollari annui. Magari per la singola azienda l’affare e’ stato conveniente, ma siamo certi che come sistema ci abbiamo guadagnato?
La risposta e’ , quasi sicuramente, NO. A quanto dicono queste agenzie governative , abbiamo buttato in R&D fino a 1400 miliardi di dollari in un anno, e il disavanzo commerciale, cioe’ le merci che sono uscite -al netto- da questa immensa fabbrica hanno un valore massimo che e’ arrivato ai 360 miliardi.
In un’ottica puramente liberista, questo non poteva succedere: il bene combinato di tutte le singole aziende che ci hanno guadagnato in Cina doveva corrispondere ad un risultato positivo globale. Cosa che non e’ stata: nel 2007, le merci che abbiamo fatto produrre la’ sono state, in totale , un plusvalore di 360 miliardi.(2)
Quindi ci abbiamo rimesso. Se supponiamo che la ricchezza si conservi e non si distrugga, chi ci ha guadagnato? Beh, ci hanno guadagnato quei 500 milioni di cinesi che hanno visto il loro stile di vita crescere. Lavoro migliore, piu’ igiene, tecnologia, eccetera. Bello.
Bello, ma bisogna chiedersi se industrializzare la cina per usarne i prodotti sia stato un affare (e abbiamo detto di no) e se queste perdite abbiano avuto degli effetti. L’occidente (facciamo un miliardo di persone tra Ue ed USA) ha creato 500 milioni di nuovi redditi in Cina. Dobbiamo chiederci: se quel lavoro fosse rimasto qui, e se quegli investimenti in R&D fossero rimasti qui, quanto ci avremmo guadagnato in termini di occupazione?
Questo e’ il problema, e per comprendere le risposte basta rileggere vecchi articoli economici. Negli anni ‘70 e negli anni ‘80 si stimava che la furibonda crescita tecnologica avrebbe prodotto sempre piu’ lavoro, come in effetti e’ stato. Se consideriamo che un tasso di disoccupazione medio nell’eurozona significa qualcosa come 7 milioni di disoccupati in totale, e che negli USA (prima della crisi) stavamo sui 17 milioni, beh, in quei 500 milioni di redditi che abbiamo prodotti in cina ci stavamo larghi.
Del resto, tutti gli economisti del pre-globalizzazione avevano calcolato questo fenomeno, ed erano preoccupati del fatto che fosse possibile supportare una simile crescita tecnologica sul piano del mercato del lavoro. Gli economisti dell’epoca chiaramente fornivano due risposte: automazione di processo ed emigrazione. Ancora si parlava poco di outsourcing, perche’ si pensava (giustamente) che costruire una fabbrica di chip nella giungla richiedesse spese accessorie enormi, per rendere possibile l’infrastruttura necessaria.
Perche’ si e’ commesso uno svarione simile, e specialmente uno svarione cosi’ costoso? Perche’ si sono spesi triliardi per attrezzare una jungla a produrre chip, se poi ci servivano chip per un terzo di quella cifra?
La risposta sta nel gigantesco disavanzo commerciale americano: perche’ spostare enormemente la produzione all’estero era l’unica strategia di breve e medio termine che potesse tenere in piedi il valore del dollaro dopo le continue stampe di moneta post-kennediane.
Cosi’ si e’ inventata l’ideologia della globalizzazione, spacciandola per inevitabile: e’ verissimo che i commerci tra nazioni siano destinati a crescere col progresso. Non e’ detto, pero’ , che la maniera migliore di farlo sia di impedire ai singoli governi di gestire il traffico di frontiera.
Così com’e’ la globalizzazione e’ frutto di una visione ideologica, non perche’ il mercato libero sia “la legge del piu’ forte”(3), ma perche’ si sapeva fin dall’inizio che per trasformare alcuni paesi nelle “fabbriche del mondo” si sarebbe dovuto investire moltissimo, e il rischio di non rivedere gli investimenti sarebbe stato altissimo: se adesso si affermera’ una strategia protezionista o nazionalista per via del debit crunch, siamo proprio certi che rivedremo indietro tutti quei soldi?
Ecco il motivo di un’ideologia. Lo scopo essenziale di ogni ideologia e’ quello di costruire una serie di risposte prefabbricate che servano come tappo per fermare le domande prima che nascano o che diventino pericolose. Cosi’, quando in Europa e USA qualcuno ha cominciato a notare che il lavoro calava, la risposta e’ stata “in futuro ci sara’ sempre meno lavoro (come se scomparisse anziche’ venire spostato) e i nuovi giovani dovranno gestire la complessita’”. La stessa ideologia rispondeva che ovviamente ci avremmo guadagnato perche’ il mercato INTERNO cinese poi avrebbe comprato le nostre merci.
Ebbene, non solo la Cina non ha comprato le nostre merci (altrimenti non avrebbe un simile disavanzo commerciale) ma non abbiamo piu’ queste complessita’ da gestire: le complessita’ da gestire oggi si trovano in cina, perche’ “complessita’” indicava la complessita’ della produzione, e questa e’ scomparsa.
Certo, rimaneva da gestire la complessita’ di questa scellerata operazione, cosa nella quale si sono specializzati paesi come l’ Inghilterra: ma al di fuori di questo, la generazione di europei nata per “gestire la complessita’” si trova in un’europa ove il70% dei lavori disponibili NON implica complessita’. Perche’ la PMI non e’ complessa. Perche’ non lo e’ l’azienda che ha delocalizzato. Perche’ la complessita’ e’ figlia del lavoro, ed il lavoro se n’e’ andato.
Che cosa rispondono gli ideologi a queste cifre? Come mi sanno giustificare frasi quali “e’ conveniente che la Cina cresca perche’ il mercato interno cinese e’ una grande opportunita’”, di fronte ad un disavanzo commerciale verso l’estero di 360 miliardi di dollari? Dove sono queste opportunita’, se per vendere 10 dobbiamo comprare 13,6?
E specialmente, se per arrivare a vendere 10 dobbiamo prima investire 14?
La realta’ che emerge dai numeri di queste economie e’ che per quanto riguarda la globalizzazione si sono raccontate tante balle. Il disavanzo commerciale dei paesi in via di sviluppo significa, senza ombra di dubbio, che non e’ affatto vero che si tratti di grandi opportunita’ per le nostre imprese.
A questo punto il liberista dice “si’, ma spesso quelle imprese sono occidentali”. Il che, secondo lui, chiude la questione. Il che non e’ vero, perche’ in ultima analisi gli investimenti in R&D sono 3 volte il disavanzo commerciale, il che significa che se anche il 100% delle imprese cinesi che esportano fosse occidentale, siamo ancora a debito, eccome.
E quindi i conti non tornano, punto e basta. La crescita dei paesi emergenti, finanziata dall’occidente, non e’ stata un buon affare. E’ vero che LA’ si sono creati milioni di posti di lavoro. Ma e’ vero che per fare questo si sono distolti dei flussi enormi di capitale, che non sono rientrati e che probabilmente non rientreranno MAI, e che per via di questo crollo di investimenti in loco le condizioni dei lavoratori occidentali sono letteralmente crollate, con la sola eccezione di quelli che gestiscono la complessita’ ed i servizi DI QUESTA SCELLERATA OPERAZIONE.
Sarebbe ora di andare da questi signori che ripetono che la Cina sia una grande opportunita’, e chiedere loro conto delle cifre in ballo. Chiedere loro come sia possibile affermare che le nostre industrie ci guadagnino per via del mercato interno cinese se la cina ESPORTA piu’ di quanto importi. Chiedere loro quale conto economico sia in attivo se , anche ammettendo che la Cina sia la grande fabbrica del mondo, gli investimenti in R&D superano di tre volte le merci che escono da questa fabbrica.
Chiedere conto delle cifre, laddove le ideologie ci danno solo slogan.
Perche’ quando si e’ inventata la palla del lavoro che “calava inevitabilmente” in occidente, per tener buoni quelli che si lamentavano, si stava solo mettendo una pezza al fatto che si stava usando la Cina non come fabbrica, ma come pozzo di smaltimento per dollari in eccesso. Solo che cosi’ facendo si e’ preparato un disastro. E specialmente, lo si e’ giustificato dicendo “non possiamo continuare a crescere cosi’”, arrivando a dire che se il lavoro calava era perche’ il mondo “non puo’ crescere sempre esponenzialmente”, quando in Cina venivano creati 500 milioni di posti di lavoro.
Cosi’ tutte queste ideologie del fumo fritto sono state create per mettere una toppa, per sviare dall’evidenza: forse il mondo non puo’ crescere sempre, nessuno lo mette in dubbio, ma ADESSO sta crescendo, solo che noi siamo tagliati fuori. Ed e’ questo che l’ideologia del “non possiamo crescere sempre” vuole nascondere: allora chiediamo: e perche’ loro si’? Perche’ loro ADESSO crescono?
Tante ideologie, specialmente quelle che confondono le conseguenze del problema con la soluzione del problema (decrescita, risparmio, eccetera(4) ), sono nate a scopo consolatorio, mediante un meccanismo intellettuale che produce il grande sbaglio (”adattarsi alle conseguenze nefaste del problema e’ una soluzione al problema e non una conseguenza“) , iniziano a spacciarla come soluzione. Dire che se manca energia bisogna consumarne meno e’ come dire alle donne: beh, in caso di stupro prendilo dentro. Il che e’ ovvio, visto che non hai scelta. Se manca energia ne consumi di meno per forza.
Cosi’, se manca crescita, ci dicono, e’ meglio convertirsi alla decrescita. Il che e’ ovvio: non ho bisogno di un genio per capire che senza crescita siamo in decrescita. Ma non e’ neanche una scelta: la decrescita e’ semplicemente una conseguenza del problema della difficolta’ a crescere: non puo’ essere una soluzione perche’ e’ una semplice conseguenza del problema. Crescere meno= decrescere. Se uno dice “siamo in crisi” non puoi rispondere “allora decresciamo”: lo stai gia’ facendo, era gia’ implicito nel problema.
Cosi’ come si e’ risposto ai milioni di lavoratori che hanno perso il posto perche’ si e’ deciso di fare questo investimento folle sulla Cina: “non potevamo continuare col consumismo”. Strano, perche’ consumiamo ancora di piu’, visto che i cinesi producono per loro ED esportano anche. Stiamo continuando eccome!
Dunque?
Dunque e’ tutta una leggenda. Magari non si puo’ crescere per sempre (dipende da COME si cresce, imho) ma adesso si sta crescendo, e nessuno di questi genialoni della decrescita ci spiega come mai questo destino “inevitabile” stia toccando noi e non altri. Eccetera.
Ecco, la storia che mancano posti di lavoro perche’ “non si puo’ crescere sempre” era una palla. Qualcuno e’ cresciuto e ci ha fatto 500 milioni di nuovi posti di lavoro. Con capitali costruiti qui. E nessuno sa ancora fornire un bilancio positivo.
Il lavoro c’era. Lo abbiamo spostato. E sarebbe ora di chiederne conto. Senza farsi seghe sul destino cinico e baro della decrescita mondiale inevitabile (che tocca solo noi).
Uriel
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