06 aprile 2009

Gli squadroni della morte di Dick Cheney



















Comandos dei reparti d'elite Usa per le operazioni speciali, supervisionati direttamente dall’ufficio del Vicepresidente Dick Cheney che li utilizzava come uno squadrone della morte. Un gruppo che, con l’autorizzazione dell’allora presidente George Bush, viaggiava in ogni paese dove si stabiliva la necessità o l’utilità di realizzare azioni coperte e non divulgabili al riparo degli organi costituzionali di vigilanza sull’operato del governo. Il gruppo operativo, senza passare per l’ambasciata o il capo stazione locale della CIA, intercettava gli obiettivi previsti dalla lista fornitagli dalla Casa Bianca, li eliminava e lasciava il paese. Gli squadroni della morte agivano con l’appoggio del Vicepresidente Dick Cheney, di Karl Rove ed Eliott Abrams, responsabile della sezione Medio Oriente nel Consiglio di Sicurezza Nazionale. Seymour Hersh, giornalista investigativo del collettivo informativo “Popoli senza frontiere”, l’ha scritto su Pacifica e, siccome il vento è cambiato e il ricordo delle covert action della CIA e di altri organismi paralleli è ancora presente nella memoria collettiva americana, un congressista democratico, Dennis Kucinich, in una lettera inviata al leader del Comitato per le riforme governative del Congresso Usa, ha chiesto l’apertura di un’indagine immediata sulle rivelazioni di Hersh.

L’operazione sarebbe abbastanza simile a quanto venne realizzato con il "Plan Condor" in America Latina, che fu un vero e proprio programma di persecuzione ed eliminazione degli oppositori politici in tutto il continente realizzata dai servizi segreti cileni, argentini, brasiliani, uruguayani, paraguayani coordinati dalla CIA. A rendere molto credibili le accuse di Hersh c’è anche la sua stessa carriera professionale: Hersh, columnist del The New Yorker, fu infatti il giornalista che rivelò al mondo la atrocità delle truppe Usa in Indocina, tra le quali la strage di My Lay in Vietnam e l’insieme della Operation Phoenix a cura della CIA. Quelle di Hersh sono del resto ipotesi condivise anche da altri colleghi che si occupano delle covert action governative. Wayne Madson, ad esempio, ricorda che dal 2004 al 2005, anche lui ha scritto molte volte su queste unità operative segrete statunitensi, operanti soprattutto in Medio Oriente e in Afghanistan.

E proprio in Libano, stando alle ricostruzioni di Madson, lo squadrone della morte agli ordini della Casa Bianca si occupò direttamente dell’uccisione di vari uomini politici, tra i quali un dirigente cristiano e l’ex premier Rafik Hariri, la cui morte venne invece affibbiata dalla grancassa mediatica israeliana e statunitense al governo siriano, che si è sempre dichiarato innocente e persino danneggiato politicamente dall’assassinio di Hariri.

Wayne Madson sostiene non esserci nulla di nuovo rispetto al passato, circa l’esistenza di squadroni della morte operanti all’estero e direttamente gestiti dalla Casa Bianca o, per suo volere, dal Pentagono o dalla CIA; l’aspetto più inquietante, sottolinea Madson, è che in molti cominciano a pensare che queste unità di assassini governativi abbiano operato anche all’interno degli Usa. A tale proposito ricorda le parole durissime di Cheney contro il Senatore Paul Wellstone - “lo eliminiamo” disse l'allora Vicepresidente – solo poco tempo prima che l’aereo del Senatore esplose in volo uccidendo lui, sua moglie, sua figlia e l’equipaggio. Era il 2002 e “l’incidente” avvenne nello Stato del Minnesota.

Per l’appunto in Minnesota, davanti ad una platea che assisteva ad un dibattito intitolato “La crisi istituzionale degli Stati Uniti” dove si trovava ad intervenire insieme all’ex candidato democratico alla Presidenza Usa, Waltre Mondale, con il politologo Larry Jacobs nelle vesti del moderatore, Seymour Hersh ha deciso di parlare di quello che ha definito “un nuovo corso di spionaggio domestico della CIA che vede un anello esecutivo di assassinii”. Hersh ricorda che dopo l’11 settembre la CIA è stata direttamente e profondamente coinvolta nelle attività interne ai danni di tutti coloro che si riteneva fossero “nemici dello Stato”, senza nessuna autorità per farlo.

E non si tratta solo della “deviazione professionale” di un giornalista abituato a scavare sotto le verità ufficiali e le menzogne di Stato. In un recente articolo, il New York Times parla di un “Comando congiunto di Operazioni Speciali”, nome in codice JSOC. Si tratta di un gruppo indipendente che non rispondeva a nessuno se non a Bush e Cheney. Non dipendeva cioè nemmeno dal Segretario alla Difesa Gates o dal Capo di Stato Maggiore per le operazioni di interforze. Dipendevano direttamente da Cheney e non erano sottoposte alla supervisione del Congresso. Lo stesso NYT ha pubblicato un articolo dove si racconta di un Ammiraglio, William H. McRaven, che ordinò di fermare le operazioni perché le perdite erano divenute troppo alte.

Hersh ha ricordato come sia Cheney (allora funzionario della Sicurezza Nazionale) che Eliott Abrams, (allora Sottosegretario di Stato per l’America latina) lavorarono insieme già con l’Amministrazione Reagan-Bush nell’organizzazione dell’Iran-Contras-gate e che entrambi, in diverse occasioni, hanno sostenuto che l’operazione venne scoperta per essere stata al corrente di troppe persone nella Washington che decideva d’inondare di morti e terrore la rivoluzione sandinista. Da qui la necessità di realizzarne un’altra con maggiore segretezza. Ma pare che non sia stato sufficiente renderla ancora più segreta: Hersh ha detto di essere a buon punto nella raccolta del materiale per il suo nuovo libo sulle operazioni segrete della Casa Bianca, che dovrebbe essere pubblicato entro un anno. Se non succede qualcosa che lo impedisce.


di Fabrizio Casari

05 aprile 2009

Berlusconariato: quel che avanza della democrazia



Alba grigia su Firenze. Stanotte sono stato sveglio a lungo, seguendo su una delle reti di mediaset la versione quasi integrale del discorso ufficiale di Silvio Berlusconi al Congresso di fondazione del Popolo della Libertà. Su un’opinione pubblica e una società civile diverse dalla nostra, lo spettacolo di un livello d’intelligenza e di libertà degno della dirigenza bulgara degli Anni Cinquanta avrebbe fatto uno straordinario effetto-boomerang e oggi ci sarebbero i picchetti per le strade. Ma, siccome le cose stanno andando altrimenti, a questo punto s’imporrebbe una riflessione seria su come nel Bel Paese la gente viene informata a proposito di quanto accade.

Berlusconi ci ha informato tranquillamente del fatto che in fondo tutto va bene e che l’importante è continuar a investire e a produrre, come se la crisi non esistesse e come se nulla di quanto gli ha spiegato a non dir altro il suo ministro Tremonti fosse degno d’interesse. Ci ha illustrato bontà sua sinteticamente le sue strategie politico-protagoniste che presto lo porteranno a guadagnare il 51% dei consensi e quindi inaugurare la fase cruciale della Dittatura del Berlusconariato: ma la bassa cucina politicastra delle tattiche di alleanza e degli scambi di favore tese a procurarsi maggioranze stabili non apparteneva alla roba che un tempo i politici discutevano neppure in aula, ma nel “transatlantico” o alla buvette? All’opinione pubblica dovrebbero interessare le idee e i programmi, non i metodi parlamentari messi in atto al fine di perseguire un fine?

Ci ha comunicato che entreremo senz’ombra di esitazioni nell’ennesima campagna di collaborazionismo militare con gli Stati Uniti senza nemmeno un’ombra di sospetto sul nuovo “atto di terrorismo annunziato” che è recentissimamente purtroppo servito al presidente Obama come alibi per annunziare una nuova fase della sciagurata occupazione dell’Afghanistan. Ha reso omaggio ai nostri caduti di Nassiriyah dimenticando che la responsabilità prima per la fine della loro vita ricade non sui sia pur spregevoli individui che ne hanno offeso la memoria raffigurandoli sulle piazze come manichini, bensì sul governo da lui presieduto che li ha mandati a morire in una guerra ingiusta, fondata su una menzogna (quella della detenzione di armi di distruzione di massa da parte del regime di Saddam Hussein), risolta in una destabilizzante aggressione di un paese membro dell’ONU ed estranea al reale interesse nazionale degli italiani (a parte qualche petroliere, alcuni speculatori, vari imprenditori-esportatori e parecchi mercenari armati in cerca di consistenti, redditizi ingaggi). Ci ha anche messi in guardia contro il persistente pericolo del comunismo.

Questa sequela di menzogne, di sciocchezze e d’infamie non ha provocato un brivido d’indignazione nell’assemblea di fanatici, di dipendenti partitico-aziendali e di astuti tattici politici pensosi del loro immediato “particulare” che lo attorniava e lo applaudiva: al contrario, ha suscitato un uragano di freneticamente bulgari applausi. E non ha procurato alcun contraccolpo in un’opinione pubblica ormai completamente narcotizzata. Ma fra i politici e l’opinione pubblica c’è un ceto professionale che dovrebbe far da mediatore di notizie: tutti quelli che lavorano, a qualunque titolo, nei mass media. In una “democrazia sana”, come si usa dire, giornalisti e opinion makers dovrebbero aver la funzione di una coscienza critica certo non monolitica, forse fatalmente non equidistante, ma quanto meno sveglia e ben conscia di dipendere senza dubbio dai datori di lavoro del singolo professionista dell’informazione, ma prima di tutto dall’opinione pubblica. E un pochino, diciamolo pure, dal fantasma della Liberta. E della Verita.

E allora: dove stiamo andando a finire, se non ci svegliamo? A che punto e la notte?

“Questa e la stampa, baby, e tu non puoi farci proprio nulla”. La conoscono tutti, questa battuta: una splendida stoccata dell’America di celluloide ancora in bianco-e-nero, quando si era convinti che i giornali fossero pieni di cavalieri senza macchia in lotta contro i draghi del potere e del danaro e che alla fine i buoni vincessero sempre.

Ebbene sì, babies, questa è la stampa: e non possiamo farci nulla. E anche la TV e tutto il resto dei mass media. E ancora nulla potremo farci in seguito, a meno che la crisi che ci sta arrivando addosso non sia davvero tanto seria da travolgere almeno alcuni degli equilibri ormai consolidati tra i “poteri forti”, la classe dirigente reale e i due principali ceti executives, cioe i “comitati d’affari” dei politici e i gestori dei mass media a cominciare dalle TV per finire alla carta stampata. Ma il nostro è un paese eccezionale: perchè, a parte la Paperopoli di Walt Disney che però è immaginaria, per quanto si sia da tempo cessato di ritenerla inverosimile, in nessun altra contrada del mondo, nemmeno nell’Africa centrale e in America latina, esiste un Presidente del Consiglio che sia proprietario anche di un grande network televisivo, di alcune case editrici e testate giornalistiche e addirittura padre-padrone di una squadra di calcio. Forse in qualche emirato del Golfo persico esistono situazioni mutatis mutandis simili: ma nemmeno là il Presidente-Proprietario è al tempo stesso plurinquisito, multincriminato, polisospettato e maxichiacchierato e continua a governare, a sfornar battute di spirito e a far la primadonna in TV informandoci perfino delle sue performances sessuali come se nulla fosse, ben certo che l’opinione pubblica del suo e purtroppo anche nostro paese è ormai narcotizzata a un punto tale da non riuscir neppure a ricordarsi che in fondo, fino a tempi poi non troppo lontani, un politico sospettato di qualcosa – anche se e quando la sua innocenza era più che palese – usava tirarsi in disparte e dimettersi o autosospendersi, a seconda dei casi, finchè, come si usava dire, “piena luce non fosse stata fatta”. Macchè: Berlusconi farà perfino il capolista onnipresente alle prossime elezioni europee, alla faccia delle normative che vietano a chiare lettere a un Presidente del Consiglio in carica di venir eletto al Parlamento Europeo: e quindi è ovvio che chi non può essere eletto non ha il diritto di candidarsi.

Stando così le cose in un paese considerato “a democrazia avanzata”, viene davvero il sospetto che tale espressione vada intesa nel senso di “un paese nel quale vige ormai quel che avanza della democrazia”. Probabilmente, se a questo punto da qualche parte nascesse un forte movimento di protesta, il governo potrebbe reprimerlo senza sollevare speciali rimostranze: e magari trattando da “guerriglieri” chi si fosse azzardato a protestare. Ma non ce ne sarà bisogno: dal momento che la nostra società civile non è affatto migliore – e qui aveva ragione Romano Prodi, quando si esprimeva con amara sincerità alla fine del suo infelice mandato - della classe politica che riesce ad esprimere, utilizzando fra l’altro senza far una grinza una legge elettorale costituzionalmente parlando sospetta come l’attuale, che accorda praticamente alle segreterie dei partiti il diritto di designare i candidati ai due rami del Parlamento e relega l’elettorato attivo a un puro ruolo di legittimazione formale. La legge istitutiva della camera dei Fasci e delle Corporazioni del ’38, che quanto meno lasciava intatto il meccanismo delle preferenze, era un tantino piu democratica di questa: a parte che la segreteria del PNF era una sola, mentre oggi le segreterie sono una manciata (ma a quanto apre concordi quando si tratat di elaborar le regole di spartizione della torta).

Stando cosi le cose, mentre sappiamo bene – oltre a Berlusconi, ai partiti politici, alla Confindustria, a De Benedetti, a Caltagirone e a qualcun altro – da chi dipendano sia le TV sia la carta stampata, parlare dei rapporti tra mass media e democrazia diviene ozioso: a meno che non s’intenda far dell’umorismo macabro.

In effetti, di solito e nel parlar comune il termine “democrazia” si contrappone a “dittatura” e/o a “totalitarismo”. Può darsi che ai tempi di Hannah Arendt le cose sembrassero star più o meno così: ma ormai sappiamo che non è vero. Le dittature, e addirittura i sistemi totalitari, non si fondano – a differenza delle oligarchie e dei sistemi autoritari “classici”, a la Horty – sulla demobilitazione delle folle o delle masse (o della “gente”, come si preferisce dire oggi; o delle “moltitudini”, a dirla con Antonio Negri), bensì al contrario sulla loro continua mobilitazione e sull’esercizio di un consenso che soltanto lo schematico e manicheo ottimismo di certi “sinceri democratici” può finger di credere sia e/o sia stato sempre ottenuto con i mezzi dell’intimidazione e della repressione. Al contrario di quel che si crede, tra “democrazie” e “totalitarismi” ( diciamo pure tirannidi), esiste un continuum, sia pure imperfetto e fatto di continue grandi e piccole rotture. Dopo alcuni mesi passati tra le dolci verdi colline e i boschi resinosi del Vermont. che somiglia tanto a certe contrade russe, Soljenitzin capì tutto di quell’Occidente che continua a essere incompreso a molti che ci sono nati e ci vivono “da sempre”: e non esitò a dichiarare che la differenza tra Unione Sovietica e beati Stati Uniti d’America (e con loro tutto il beato occidente) era che per far star zitto qualcuno la bisognava metterlo in galera, o spedirlo in manicomio, o ammazzarlo; mentre qua bastava staccargli il microfono. E tener ben attaccati, d’altronde, altri microfoni: quelli di chi ai bei tempi del “Questa e la stampa, baby” era o comunque dava l’impressione di essere (e spesso ci credevano essi per primi, e sinceramente) al servizio del pubblico, della “gente”, mentre oggi chi lavora in TV o nei giornali, anche se è megadirigente galattico (anzi, soprattutto in quel caso), sa benissimo di dover stare al servizio del suo datore di lavoro: e il peggio è che tutti accettiamo questa realta come se fosse ovvia, “normale”.

Al massimo, ci ripetiamo cinicamente che “è sempre successo”. No. Non è sempre successo; e anche se lo fosse, sarebbe giunta ormai l’ora di voltar pagina. Ma allora, dal momento che non possiamo aspettarci una democrazia garantita “dall’alto”, nella quale proprietari e padri-padroni graziosamente concedano ai loro subalterni di parlar alto e chiaro anche contro gli interessi di ditta o di bottega, non ci resta che sperare – “con disperata speranza”, come baroccamente si usa in questi casi dire – in una garanzia rivendicata e tutelata dal basso. E non è che non ce ne sia qualche segno. Dalla palude d’un popolo italiota i prevalenti interessi del quale – eterno calcio a parte – amano focalizzarsi su nobili obiettivi quali la mamma di Cogne, il delitto Meredith di Perugia, le vicende avvincenti dell’Isola dei Famosi e della Fattoria e i fini dibattiti moderati dalla signora Maria Filippi in Costanzo o del di lei consorte, con la domenica mattina gastronomica e il consueto Angelus da Piazza San Pietro, giunge qua e là qualche lontano brusio. Aumentano i sodalizi fondati sul volontariato, si muovono spontanei (o almeno auguriamoci lo siano) sodalizi di cittadini e, come dice Berlusconi, di “consumatori”, si registra un boom d’interesse fra gli studenti delle scuole medie per il problema della sete nel mondo e della commercializzazione dell’acqua potabile da parte di certe multinazionali. Si oserebbe affermare (e sperare?) che, nella misura in cui progredisce la crisi e la sua ombra si allunga inquietante sull’Europa, si riduce lo spazio del disinteresse, dell’alienazione, della tendenza a delegare senza esercitare un controllo sulla gestione delle deleghe accordate.

In Italia, molte cose non vanno. Promesse mai mantenute, lavori pubblici avviati e mai portati a compimento, grandi e piccoli drammi individuali e collettivi sui quali è caduto il generale disinteresse. Poi arriva un programma televisivo popolare e per giunta in una TV berlusconista, Striscia la Notizia. Le cose non vanno: Capitan Ventosa, pensaci tu. E l’avventuriero-reporter improbabilmente abbigliato piomba sugli Assessorati, plana sulle Sovrintendenze, si butta in picchiata sulle cosche di palazzinari e di usurai. Ma non c’è punto della penisola che non appartenga a una circoscrizione elettorale: non c’è metro quadro del Bel Paese sul quale arrivi Capitan Ventosa che non sia formalmente interessato dalla tutela di un parlamentare. Ebbene: dov’è l’onorevole, che cosa stanno facendo il senatore o la senatrice sul cui territorio c’è un ingorgo d’immondizia o le cui coste sono state invase da un’inattesa colata di cemento? Perchè lasciano l’avventuriero-reporter abbigliato da water a combattere da solo? Ecco: qua e là, un numero sempre piu alto di cittadini alza gli occhi dalla TV, stacca le orecchie dal telefonino, e se lo chiede. Chissà che la nuova democrazia partecipata non ricominci da qui.

di Franco Cardini

04 aprile 2009

Il caso Blackrock: scommesse contro la ripresa

US-PROPERTY-STUYVESANT TOWN
Oramai la febbre del gioco per i derivati porta a scommettere anche contro se stesso. Una vincita o una scommessa vinta come la vittoria di Pirro. A che serve?

Lo stato dell’arte, al netto dell’ottimismo per il piano Geithner e i rimbalzi da gatto morto delle Borse, è il seguente: l’amministrazione Obama, quella che usa come testa d’ariete il populismo della maxi-aliquota per i più ricchi, sta arricchendo a dismisura banche e fondi a spese dei contribuenti senza intervenire realmente verso quegli istituti i cui default potrebbero pregiudicare pesantemente l’intera economia mondiale.

Un esempio è quello di Blackrock, uno dei primi due enti privati che hanno aderito al piano di riacquisto degli assets tossici. Sapete qual è il motto di Blackrock? Aderire al piano Geithner per il bene dell'America e contemporaneamente scommettere contro la sua ripresa. Certo non lo troverete stampato sulla brochure informativa, ma è proprio questa la filosofia, tipica del fondo hedge, con cui Blackrock ha approcciato all’ultima mossa del Tesoro Usa per cercare di eliminare dai bilanci di banche e assicurazione gli assets tossici che continuano a regalare perdite e svalutazioni a ogni trimestre, con conseguente necessità di intervento della Fed.

Il fondo globale macro di BlackRock Inc, il secondo miglior fondo hedge al mondo in termini di performance nell’ultimo biennio tra i fondi che puntano sui trend macroeconomici, sta infatti scommettendo contro il rally che in queste ultime settimane ha fatto recuperare dal 20 al 25 per cento ai principali listini azionari mondiali. L’Asset Allocation Alpha Fund (questo il nome del prodotto), che nel 2008 ha guadagnato il 41% contro il 19% in media registrato dai fondi hedge, sia “corto” di azioni sui mercati statunitense, inglese, australiano e canadese oltre che di bond britannici, come confermato dal gestore, David Hudson.

Il gestore ha spiegato a Bloomberg che «il rischio è che nel secondo semestre dell’anno l’andamento economico risulti molto deludente e costringa i mercati a toccare nuovamente i minimi entro pochi mesi e forse a calare ulteriormente». Insomma, da un lato la casamadre istituzionale sposa la politica governativa e contemporaneamente il fondo speculativo di famiglia scommette contro: esattamente come i trader che operano on-line sui Cft - contratti per differenza, ovvero basati su un sottostante che replica l’andamento di un’azione, una commodities o una valuta senza acquistarla - che automaticamente si pongono in posizione contraria a quella scelta dall’investitore come copertura, se va long ci si posizione short e viceversa.

Blackrock nasce negli Stati Uniti nel 1988 come gestore indipendente altamente specializzato nel reddito fisso e dedicato esclusivamente al segmento istituzionale. Nell’ottobre 2006 si fonde con Merrill Lynch Investment Managers - società leader nel business retail e con team di gestione azionaria tra i più apprezzati nell’industria del risparmio gestito - e solo dopo un anno, nell’ottobre 2007, chiude l’acquisizione di Quellos Group, una delle maggiori piattaforme globali di fondi che offre soluzioni d’investimento hedge, private equity e real estate a clienti sia istituzionali sia privati di tutto il mondo.

Con un patrimonio in gestione di oltre 1.250 miliardi di dollari, BlackRock è il primo gestore indipendente quotato al NYSE in termini di attivi in gestione: la società opera con diverse opzioni d’investimento nel reddito fisso, nel segmento azionario e monetario, investimenti alternativi e real estate, settore che dopo il crollo dovuto ai subprime potrebbe diventare la prossima gallina dalle uova d’oro poiché quei derivati ridotti a pezzi di carta senza valore che BlackRock si impegna a comprare sottendono comunque degli immobili, ovvero un bene reale su cui investire per il futuro.

Alla sede principale di New York, qualcuno, ha fiutato l’affare “coprendosi” comunque dal rischio di brutte sorprese ponendosi al ribasso sugli indici: speculazione pura. Ma non è certo il primo caso, visto che questa crisi per alcuni è stata un’enorme opportunità. Già dalla scorsa primavera nessuno comprava più le obbligazioni emesse dalle banche e dalle imprese, ma c’era qualcuno che sfidava il trend: il gruppo Carlyle (il fondo privato della famiglia Bush) nel mese di aprile lanciò un’emissione da mezzo miliardo di dollari - di obbligazioni «garantite» da prestiti, cosa quasi incredibile in questo momento di generale insolvenza dei debitori - e lo fece allo scopo di comprare, coi soldi che sarebbe riuscita a raccogliere, «i debiti ad alto rischio e ad alto rendimento che le banche stanno cedendo a prezzi scontati»: parola di Bloomberg, l’agenzia finanziaria del sindaco di New York.

Passata la buriana - che passerà esattamente come sono passate tutte le altre crisi - quelle case torneranno appetibili, soprattutto perché comprate a prezzi ridicoli e ora pronte a essere rimesse sul mercato a dieci volte tanto. Insomma, Geithner non ha fatto altro che istituzionalizzare l’intuizione speculativa del fondo di George W. Bush ponendo al servizio della stessa denaro dei contribuenti al fine di attirare i privati e rendere meno respingente il fattore di rischio insito nell’operazione.

D’altronde non sarà sfuggito a nessuno di voi come da qualche giorno a questa parte la Borsa Usa riesca a risorgere dopo la pubblicazione di sorprendenti dati riguardo il mercato immobiliare: vendite di case in aumento ovunque negli States e anche numeri record per la costruzione di nuovi immobili. Gli speculatori saranno anche antipatici ma non sono stupidi, scommettono soldi ma lo fanno a ragion veduta.

Politicamente, però, non è questa la risposta. E non è questo il vero problema, almeno in questo momento. Ora la vera, grande questione è la Cina. Secondo i dati del Tesoro Usa, la Repubblica Popolare (esclusa Hong Kong) deteneva, a luglio 2006, 700 miliardi di dollari in titoli del debito americano a lungo termine. Di questi, 107 miliardi erano «agency bonds», ossia pacchetti formati da mutui «garantiti» (più o meno) da qualche entità pubblica statunitense.

La Cina ha comprato titoli a lungo termine per 2,5 miliardi di dollari a luglio 2007, ne ha comprati ancora 2,7 miliardi ad agosto quando è scoppiata la bolla dei sub-prime e addirittura 8 miliardi a settembre, quando le colossali dimensioni del crack subprime erano ormai note a tutti. Il comportamento appare anche più strano se si tiene conto che nel 2002 la Cina acquistò non più di 100 milioni di questi titoli fatti di mutui. Nel 2006, ne aveva 107 miliardi: un aumento del mille per cento.
v A questo accumulo di debito Usa va aggiunto quello di Hong Kong: la città aveva, a giugno 2006, 13,4 miliardi di titoli Usa, di cui oltre 5 miliardi in mutui confezionati. Il perché di questa politica apparentemente suicida è semplice: Pechino non aveva altra scelta che questo gioco pericoloso per mantenere bassa la sua valuta rispetto al dollaro, mentre contemporaneamente stava accumulando troppi dollari con le sue esportazioni. Ora la camera di compensazione sembra pronta alla chiusura. È dell’altro giorno, infatti, la notizia in base alla quale Pechino avrebbe chiesto di sostituire il dollaro come moneta di riferimento globale con un paniere di monete comprendente dollaro, euro, sterlina e yen: immediato il no degli Usa e anche di Joaquin Almunia.
v La guerra - commerciale, finanziaria e valutaria - è stata dichiarata: è la crisi potrebbe offrire ottime opportunità a chi intende rivedere gli equilibri globali. Non guardate la Borsa, guardate il Forex.
di Mauro Bottarelli

06 aprile 2009

Gli squadroni della morte di Dick Cheney



















Comandos dei reparti d'elite Usa per le operazioni speciali, supervisionati direttamente dall’ufficio del Vicepresidente Dick Cheney che li utilizzava come uno squadrone della morte. Un gruppo che, con l’autorizzazione dell’allora presidente George Bush, viaggiava in ogni paese dove si stabiliva la necessità o l’utilità di realizzare azioni coperte e non divulgabili al riparo degli organi costituzionali di vigilanza sull’operato del governo. Il gruppo operativo, senza passare per l’ambasciata o il capo stazione locale della CIA, intercettava gli obiettivi previsti dalla lista fornitagli dalla Casa Bianca, li eliminava e lasciava il paese. Gli squadroni della morte agivano con l’appoggio del Vicepresidente Dick Cheney, di Karl Rove ed Eliott Abrams, responsabile della sezione Medio Oriente nel Consiglio di Sicurezza Nazionale. Seymour Hersh, giornalista investigativo del collettivo informativo “Popoli senza frontiere”, l’ha scritto su Pacifica e, siccome il vento è cambiato e il ricordo delle covert action della CIA e di altri organismi paralleli è ancora presente nella memoria collettiva americana, un congressista democratico, Dennis Kucinich, in una lettera inviata al leader del Comitato per le riforme governative del Congresso Usa, ha chiesto l’apertura di un’indagine immediata sulle rivelazioni di Hersh.

L’operazione sarebbe abbastanza simile a quanto venne realizzato con il "Plan Condor" in America Latina, che fu un vero e proprio programma di persecuzione ed eliminazione degli oppositori politici in tutto il continente realizzata dai servizi segreti cileni, argentini, brasiliani, uruguayani, paraguayani coordinati dalla CIA. A rendere molto credibili le accuse di Hersh c’è anche la sua stessa carriera professionale: Hersh, columnist del The New Yorker, fu infatti il giornalista che rivelò al mondo la atrocità delle truppe Usa in Indocina, tra le quali la strage di My Lay in Vietnam e l’insieme della Operation Phoenix a cura della CIA. Quelle di Hersh sono del resto ipotesi condivise anche da altri colleghi che si occupano delle covert action governative. Wayne Madson, ad esempio, ricorda che dal 2004 al 2005, anche lui ha scritto molte volte su queste unità operative segrete statunitensi, operanti soprattutto in Medio Oriente e in Afghanistan.

E proprio in Libano, stando alle ricostruzioni di Madson, lo squadrone della morte agli ordini della Casa Bianca si occupò direttamente dell’uccisione di vari uomini politici, tra i quali un dirigente cristiano e l’ex premier Rafik Hariri, la cui morte venne invece affibbiata dalla grancassa mediatica israeliana e statunitense al governo siriano, che si è sempre dichiarato innocente e persino danneggiato politicamente dall’assassinio di Hariri.

Wayne Madson sostiene non esserci nulla di nuovo rispetto al passato, circa l’esistenza di squadroni della morte operanti all’estero e direttamente gestiti dalla Casa Bianca o, per suo volere, dal Pentagono o dalla CIA; l’aspetto più inquietante, sottolinea Madson, è che in molti cominciano a pensare che queste unità di assassini governativi abbiano operato anche all’interno degli Usa. A tale proposito ricorda le parole durissime di Cheney contro il Senatore Paul Wellstone - “lo eliminiamo” disse l'allora Vicepresidente – solo poco tempo prima che l’aereo del Senatore esplose in volo uccidendo lui, sua moglie, sua figlia e l’equipaggio. Era il 2002 e “l’incidente” avvenne nello Stato del Minnesota.

Per l’appunto in Minnesota, davanti ad una platea che assisteva ad un dibattito intitolato “La crisi istituzionale degli Stati Uniti” dove si trovava ad intervenire insieme all’ex candidato democratico alla Presidenza Usa, Waltre Mondale, con il politologo Larry Jacobs nelle vesti del moderatore, Seymour Hersh ha deciso di parlare di quello che ha definito “un nuovo corso di spionaggio domestico della CIA che vede un anello esecutivo di assassinii”. Hersh ricorda che dopo l’11 settembre la CIA è stata direttamente e profondamente coinvolta nelle attività interne ai danni di tutti coloro che si riteneva fossero “nemici dello Stato”, senza nessuna autorità per farlo.

E non si tratta solo della “deviazione professionale” di un giornalista abituato a scavare sotto le verità ufficiali e le menzogne di Stato. In un recente articolo, il New York Times parla di un “Comando congiunto di Operazioni Speciali”, nome in codice JSOC. Si tratta di un gruppo indipendente che non rispondeva a nessuno se non a Bush e Cheney. Non dipendeva cioè nemmeno dal Segretario alla Difesa Gates o dal Capo di Stato Maggiore per le operazioni di interforze. Dipendevano direttamente da Cheney e non erano sottoposte alla supervisione del Congresso. Lo stesso NYT ha pubblicato un articolo dove si racconta di un Ammiraglio, William H. McRaven, che ordinò di fermare le operazioni perché le perdite erano divenute troppo alte.

Hersh ha ricordato come sia Cheney (allora funzionario della Sicurezza Nazionale) che Eliott Abrams, (allora Sottosegretario di Stato per l’America latina) lavorarono insieme già con l’Amministrazione Reagan-Bush nell’organizzazione dell’Iran-Contras-gate e che entrambi, in diverse occasioni, hanno sostenuto che l’operazione venne scoperta per essere stata al corrente di troppe persone nella Washington che decideva d’inondare di morti e terrore la rivoluzione sandinista. Da qui la necessità di realizzarne un’altra con maggiore segretezza. Ma pare che non sia stato sufficiente renderla ancora più segreta: Hersh ha detto di essere a buon punto nella raccolta del materiale per il suo nuovo libo sulle operazioni segrete della Casa Bianca, che dovrebbe essere pubblicato entro un anno. Se non succede qualcosa che lo impedisce.


di Fabrizio Casari

05 aprile 2009

Berlusconariato: quel che avanza della democrazia



Alba grigia su Firenze. Stanotte sono stato sveglio a lungo, seguendo su una delle reti di mediaset la versione quasi integrale del discorso ufficiale di Silvio Berlusconi al Congresso di fondazione del Popolo della Libertà. Su un’opinione pubblica e una società civile diverse dalla nostra, lo spettacolo di un livello d’intelligenza e di libertà degno della dirigenza bulgara degli Anni Cinquanta avrebbe fatto uno straordinario effetto-boomerang e oggi ci sarebbero i picchetti per le strade. Ma, siccome le cose stanno andando altrimenti, a questo punto s’imporrebbe una riflessione seria su come nel Bel Paese la gente viene informata a proposito di quanto accade.

Berlusconi ci ha informato tranquillamente del fatto che in fondo tutto va bene e che l’importante è continuar a investire e a produrre, come se la crisi non esistesse e come se nulla di quanto gli ha spiegato a non dir altro il suo ministro Tremonti fosse degno d’interesse. Ci ha illustrato bontà sua sinteticamente le sue strategie politico-protagoniste che presto lo porteranno a guadagnare il 51% dei consensi e quindi inaugurare la fase cruciale della Dittatura del Berlusconariato: ma la bassa cucina politicastra delle tattiche di alleanza e degli scambi di favore tese a procurarsi maggioranze stabili non apparteneva alla roba che un tempo i politici discutevano neppure in aula, ma nel “transatlantico” o alla buvette? All’opinione pubblica dovrebbero interessare le idee e i programmi, non i metodi parlamentari messi in atto al fine di perseguire un fine?

Ci ha comunicato che entreremo senz’ombra di esitazioni nell’ennesima campagna di collaborazionismo militare con gli Stati Uniti senza nemmeno un’ombra di sospetto sul nuovo “atto di terrorismo annunziato” che è recentissimamente purtroppo servito al presidente Obama come alibi per annunziare una nuova fase della sciagurata occupazione dell’Afghanistan. Ha reso omaggio ai nostri caduti di Nassiriyah dimenticando che la responsabilità prima per la fine della loro vita ricade non sui sia pur spregevoli individui che ne hanno offeso la memoria raffigurandoli sulle piazze come manichini, bensì sul governo da lui presieduto che li ha mandati a morire in una guerra ingiusta, fondata su una menzogna (quella della detenzione di armi di distruzione di massa da parte del regime di Saddam Hussein), risolta in una destabilizzante aggressione di un paese membro dell’ONU ed estranea al reale interesse nazionale degli italiani (a parte qualche petroliere, alcuni speculatori, vari imprenditori-esportatori e parecchi mercenari armati in cerca di consistenti, redditizi ingaggi). Ci ha anche messi in guardia contro il persistente pericolo del comunismo.

Questa sequela di menzogne, di sciocchezze e d’infamie non ha provocato un brivido d’indignazione nell’assemblea di fanatici, di dipendenti partitico-aziendali e di astuti tattici politici pensosi del loro immediato “particulare” che lo attorniava e lo applaudiva: al contrario, ha suscitato un uragano di freneticamente bulgari applausi. E non ha procurato alcun contraccolpo in un’opinione pubblica ormai completamente narcotizzata. Ma fra i politici e l’opinione pubblica c’è un ceto professionale che dovrebbe far da mediatore di notizie: tutti quelli che lavorano, a qualunque titolo, nei mass media. In una “democrazia sana”, come si usa dire, giornalisti e opinion makers dovrebbero aver la funzione di una coscienza critica certo non monolitica, forse fatalmente non equidistante, ma quanto meno sveglia e ben conscia di dipendere senza dubbio dai datori di lavoro del singolo professionista dell’informazione, ma prima di tutto dall’opinione pubblica. E un pochino, diciamolo pure, dal fantasma della Liberta. E della Verita.

E allora: dove stiamo andando a finire, se non ci svegliamo? A che punto e la notte?

“Questa e la stampa, baby, e tu non puoi farci proprio nulla”. La conoscono tutti, questa battuta: una splendida stoccata dell’America di celluloide ancora in bianco-e-nero, quando si era convinti che i giornali fossero pieni di cavalieri senza macchia in lotta contro i draghi del potere e del danaro e che alla fine i buoni vincessero sempre.

Ebbene sì, babies, questa è la stampa: e non possiamo farci nulla. E anche la TV e tutto il resto dei mass media. E ancora nulla potremo farci in seguito, a meno che la crisi che ci sta arrivando addosso non sia davvero tanto seria da travolgere almeno alcuni degli equilibri ormai consolidati tra i “poteri forti”, la classe dirigente reale e i due principali ceti executives, cioe i “comitati d’affari” dei politici e i gestori dei mass media a cominciare dalle TV per finire alla carta stampata. Ma il nostro è un paese eccezionale: perchè, a parte la Paperopoli di Walt Disney che però è immaginaria, per quanto si sia da tempo cessato di ritenerla inverosimile, in nessun altra contrada del mondo, nemmeno nell’Africa centrale e in America latina, esiste un Presidente del Consiglio che sia proprietario anche di un grande network televisivo, di alcune case editrici e testate giornalistiche e addirittura padre-padrone di una squadra di calcio. Forse in qualche emirato del Golfo persico esistono situazioni mutatis mutandis simili: ma nemmeno là il Presidente-Proprietario è al tempo stesso plurinquisito, multincriminato, polisospettato e maxichiacchierato e continua a governare, a sfornar battute di spirito e a far la primadonna in TV informandoci perfino delle sue performances sessuali come se nulla fosse, ben certo che l’opinione pubblica del suo e purtroppo anche nostro paese è ormai narcotizzata a un punto tale da non riuscir neppure a ricordarsi che in fondo, fino a tempi poi non troppo lontani, un politico sospettato di qualcosa – anche se e quando la sua innocenza era più che palese – usava tirarsi in disparte e dimettersi o autosospendersi, a seconda dei casi, finchè, come si usava dire, “piena luce non fosse stata fatta”. Macchè: Berlusconi farà perfino il capolista onnipresente alle prossime elezioni europee, alla faccia delle normative che vietano a chiare lettere a un Presidente del Consiglio in carica di venir eletto al Parlamento Europeo: e quindi è ovvio che chi non può essere eletto non ha il diritto di candidarsi.

Stando così le cose in un paese considerato “a democrazia avanzata”, viene davvero il sospetto che tale espressione vada intesa nel senso di “un paese nel quale vige ormai quel che avanza della democrazia”. Probabilmente, se a questo punto da qualche parte nascesse un forte movimento di protesta, il governo potrebbe reprimerlo senza sollevare speciali rimostranze: e magari trattando da “guerriglieri” chi si fosse azzardato a protestare. Ma non ce ne sarà bisogno: dal momento che la nostra società civile non è affatto migliore – e qui aveva ragione Romano Prodi, quando si esprimeva con amara sincerità alla fine del suo infelice mandato - della classe politica che riesce ad esprimere, utilizzando fra l’altro senza far una grinza una legge elettorale costituzionalmente parlando sospetta come l’attuale, che accorda praticamente alle segreterie dei partiti il diritto di designare i candidati ai due rami del Parlamento e relega l’elettorato attivo a un puro ruolo di legittimazione formale. La legge istitutiva della camera dei Fasci e delle Corporazioni del ’38, che quanto meno lasciava intatto il meccanismo delle preferenze, era un tantino piu democratica di questa: a parte che la segreteria del PNF era una sola, mentre oggi le segreterie sono una manciata (ma a quanto apre concordi quando si tratat di elaborar le regole di spartizione della torta).

Stando cosi le cose, mentre sappiamo bene – oltre a Berlusconi, ai partiti politici, alla Confindustria, a De Benedetti, a Caltagirone e a qualcun altro – da chi dipendano sia le TV sia la carta stampata, parlare dei rapporti tra mass media e democrazia diviene ozioso: a meno che non s’intenda far dell’umorismo macabro.

In effetti, di solito e nel parlar comune il termine “democrazia” si contrappone a “dittatura” e/o a “totalitarismo”. Può darsi che ai tempi di Hannah Arendt le cose sembrassero star più o meno così: ma ormai sappiamo che non è vero. Le dittature, e addirittura i sistemi totalitari, non si fondano – a differenza delle oligarchie e dei sistemi autoritari “classici”, a la Horty – sulla demobilitazione delle folle o delle masse (o della “gente”, come si preferisce dire oggi; o delle “moltitudini”, a dirla con Antonio Negri), bensì al contrario sulla loro continua mobilitazione e sull’esercizio di un consenso che soltanto lo schematico e manicheo ottimismo di certi “sinceri democratici” può finger di credere sia e/o sia stato sempre ottenuto con i mezzi dell’intimidazione e della repressione. Al contrario di quel che si crede, tra “democrazie” e “totalitarismi” ( diciamo pure tirannidi), esiste un continuum, sia pure imperfetto e fatto di continue grandi e piccole rotture. Dopo alcuni mesi passati tra le dolci verdi colline e i boschi resinosi del Vermont. che somiglia tanto a certe contrade russe, Soljenitzin capì tutto di quell’Occidente che continua a essere incompreso a molti che ci sono nati e ci vivono “da sempre”: e non esitò a dichiarare che la differenza tra Unione Sovietica e beati Stati Uniti d’America (e con loro tutto il beato occidente) era che per far star zitto qualcuno la bisognava metterlo in galera, o spedirlo in manicomio, o ammazzarlo; mentre qua bastava staccargli il microfono. E tener ben attaccati, d’altronde, altri microfoni: quelli di chi ai bei tempi del “Questa e la stampa, baby” era o comunque dava l’impressione di essere (e spesso ci credevano essi per primi, e sinceramente) al servizio del pubblico, della “gente”, mentre oggi chi lavora in TV o nei giornali, anche se è megadirigente galattico (anzi, soprattutto in quel caso), sa benissimo di dover stare al servizio del suo datore di lavoro: e il peggio è che tutti accettiamo questa realta come se fosse ovvia, “normale”.

Al massimo, ci ripetiamo cinicamente che “è sempre successo”. No. Non è sempre successo; e anche se lo fosse, sarebbe giunta ormai l’ora di voltar pagina. Ma allora, dal momento che non possiamo aspettarci una democrazia garantita “dall’alto”, nella quale proprietari e padri-padroni graziosamente concedano ai loro subalterni di parlar alto e chiaro anche contro gli interessi di ditta o di bottega, non ci resta che sperare – “con disperata speranza”, come baroccamente si usa in questi casi dire – in una garanzia rivendicata e tutelata dal basso. E non è che non ce ne sia qualche segno. Dalla palude d’un popolo italiota i prevalenti interessi del quale – eterno calcio a parte – amano focalizzarsi su nobili obiettivi quali la mamma di Cogne, il delitto Meredith di Perugia, le vicende avvincenti dell’Isola dei Famosi e della Fattoria e i fini dibattiti moderati dalla signora Maria Filippi in Costanzo o del di lei consorte, con la domenica mattina gastronomica e il consueto Angelus da Piazza San Pietro, giunge qua e là qualche lontano brusio. Aumentano i sodalizi fondati sul volontariato, si muovono spontanei (o almeno auguriamoci lo siano) sodalizi di cittadini e, come dice Berlusconi, di “consumatori”, si registra un boom d’interesse fra gli studenti delle scuole medie per il problema della sete nel mondo e della commercializzazione dell’acqua potabile da parte di certe multinazionali. Si oserebbe affermare (e sperare?) che, nella misura in cui progredisce la crisi e la sua ombra si allunga inquietante sull’Europa, si riduce lo spazio del disinteresse, dell’alienazione, della tendenza a delegare senza esercitare un controllo sulla gestione delle deleghe accordate.

In Italia, molte cose non vanno. Promesse mai mantenute, lavori pubblici avviati e mai portati a compimento, grandi e piccoli drammi individuali e collettivi sui quali è caduto il generale disinteresse. Poi arriva un programma televisivo popolare e per giunta in una TV berlusconista, Striscia la Notizia. Le cose non vanno: Capitan Ventosa, pensaci tu. E l’avventuriero-reporter improbabilmente abbigliato piomba sugli Assessorati, plana sulle Sovrintendenze, si butta in picchiata sulle cosche di palazzinari e di usurai. Ma non c’è punto della penisola che non appartenga a una circoscrizione elettorale: non c’è metro quadro del Bel Paese sul quale arrivi Capitan Ventosa che non sia formalmente interessato dalla tutela di un parlamentare. Ebbene: dov’è l’onorevole, che cosa stanno facendo il senatore o la senatrice sul cui territorio c’è un ingorgo d’immondizia o le cui coste sono state invase da un’inattesa colata di cemento? Perchè lasciano l’avventuriero-reporter abbigliato da water a combattere da solo? Ecco: qua e là, un numero sempre piu alto di cittadini alza gli occhi dalla TV, stacca le orecchie dal telefonino, e se lo chiede. Chissà che la nuova democrazia partecipata non ricominci da qui.

di Franco Cardini

04 aprile 2009

Il caso Blackrock: scommesse contro la ripresa

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Oramai la febbre del gioco per i derivati porta a scommettere anche contro se stesso. Una vincita o una scommessa vinta come la vittoria di Pirro. A che serve?

Lo stato dell’arte, al netto dell’ottimismo per il piano Geithner e i rimbalzi da gatto morto delle Borse, è il seguente: l’amministrazione Obama, quella che usa come testa d’ariete il populismo della maxi-aliquota per i più ricchi, sta arricchendo a dismisura banche e fondi a spese dei contribuenti senza intervenire realmente verso quegli istituti i cui default potrebbero pregiudicare pesantemente l’intera economia mondiale.

Un esempio è quello di Blackrock, uno dei primi due enti privati che hanno aderito al piano di riacquisto degli assets tossici. Sapete qual è il motto di Blackrock? Aderire al piano Geithner per il bene dell'America e contemporaneamente scommettere contro la sua ripresa. Certo non lo troverete stampato sulla brochure informativa, ma è proprio questa la filosofia, tipica del fondo hedge, con cui Blackrock ha approcciato all’ultima mossa del Tesoro Usa per cercare di eliminare dai bilanci di banche e assicurazione gli assets tossici che continuano a regalare perdite e svalutazioni a ogni trimestre, con conseguente necessità di intervento della Fed.

Il fondo globale macro di BlackRock Inc, il secondo miglior fondo hedge al mondo in termini di performance nell’ultimo biennio tra i fondi che puntano sui trend macroeconomici, sta infatti scommettendo contro il rally che in queste ultime settimane ha fatto recuperare dal 20 al 25 per cento ai principali listini azionari mondiali. L’Asset Allocation Alpha Fund (questo il nome del prodotto), che nel 2008 ha guadagnato il 41% contro il 19% in media registrato dai fondi hedge, sia “corto” di azioni sui mercati statunitense, inglese, australiano e canadese oltre che di bond britannici, come confermato dal gestore, David Hudson.

Il gestore ha spiegato a Bloomberg che «il rischio è che nel secondo semestre dell’anno l’andamento economico risulti molto deludente e costringa i mercati a toccare nuovamente i minimi entro pochi mesi e forse a calare ulteriormente». Insomma, da un lato la casamadre istituzionale sposa la politica governativa e contemporaneamente il fondo speculativo di famiglia scommette contro: esattamente come i trader che operano on-line sui Cft - contratti per differenza, ovvero basati su un sottostante che replica l’andamento di un’azione, una commodities o una valuta senza acquistarla - che automaticamente si pongono in posizione contraria a quella scelta dall’investitore come copertura, se va long ci si posizione short e viceversa.

Blackrock nasce negli Stati Uniti nel 1988 come gestore indipendente altamente specializzato nel reddito fisso e dedicato esclusivamente al segmento istituzionale. Nell’ottobre 2006 si fonde con Merrill Lynch Investment Managers - società leader nel business retail e con team di gestione azionaria tra i più apprezzati nell’industria del risparmio gestito - e solo dopo un anno, nell’ottobre 2007, chiude l’acquisizione di Quellos Group, una delle maggiori piattaforme globali di fondi che offre soluzioni d’investimento hedge, private equity e real estate a clienti sia istituzionali sia privati di tutto il mondo.

Con un patrimonio in gestione di oltre 1.250 miliardi di dollari, BlackRock è il primo gestore indipendente quotato al NYSE in termini di attivi in gestione: la società opera con diverse opzioni d’investimento nel reddito fisso, nel segmento azionario e monetario, investimenti alternativi e real estate, settore che dopo il crollo dovuto ai subprime potrebbe diventare la prossima gallina dalle uova d’oro poiché quei derivati ridotti a pezzi di carta senza valore che BlackRock si impegna a comprare sottendono comunque degli immobili, ovvero un bene reale su cui investire per il futuro.

Alla sede principale di New York, qualcuno, ha fiutato l’affare “coprendosi” comunque dal rischio di brutte sorprese ponendosi al ribasso sugli indici: speculazione pura. Ma non è certo il primo caso, visto che questa crisi per alcuni è stata un’enorme opportunità. Già dalla scorsa primavera nessuno comprava più le obbligazioni emesse dalle banche e dalle imprese, ma c’era qualcuno che sfidava il trend: il gruppo Carlyle (il fondo privato della famiglia Bush) nel mese di aprile lanciò un’emissione da mezzo miliardo di dollari - di obbligazioni «garantite» da prestiti, cosa quasi incredibile in questo momento di generale insolvenza dei debitori - e lo fece allo scopo di comprare, coi soldi che sarebbe riuscita a raccogliere, «i debiti ad alto rischio e ad alto rendimento che le banche stanno cedendo a prezzi scontati»: parola di Bloomberg, l’agenzia finanziaria del sindaco di New York.

Passata la buriana - che passerà esattamente come sono passate tutte le altre crisi - quelle case torneranno appetibili, soprattutto perché comprate a prezzi ridicoli e ora pronte a essere rimesse sul mercato a dieci volte tanto. Insomma, Geithner non ha fatto altro che istituzionalizzare l’intuizione speculativa del fondo di George W. Bush ponendo al servizio della stessa denaro dei contribuenti al fine di attirare i privati e rendere meno respingente il fattore di rischio insito nell’operazione.

D’altronde non sarà sfuggito a nessuno di voi come da qualche giorno a questa parte la Borsa Usa riesca a risorgere dopo la pubblicazione di sorprendenti dati riguardo il mercato immobiliare: vendite di case in aumento ovunque negli States e anche numeri record per la costruzione di nuovi immobili. Gli speculatori saranno anche antipatici ma non sono stupidi, scommettono soldi ma lo fanno a ragion veduta.

Politicamente, però, non è questa la risposta. E non è questo il vero problema, almeno in questo momento. Ora la vera, grande questione è la Cina. Secondo i dati del Tesoro Usa, la Repubblica Popolare (esclusa Hong Kong) deteneva, a luglio 2006, 700 miliardi di dollari in titoli del debito americano a lungo termine. Di questi, 107 miliardi erano «agency bonds», ossia pacchetti formati da mutui «garantiti» (più o meno) da qualche entità pubblica statunitense.

La Cina ha comprato titoli a lungo termine per 2,5 miliardi di dollari a luglio 2007, ne ha comprati ancora 2,7 miliardi ad agosto quando è scoppiata la bolla dei sub-prime e addirittura 8 miliardi a settembre, quando le colossali dimensioni del crack subprime erano ormai note a tutti. Il comportamento appare anche più strano se si tiene conto che nel 2002 la Cina acquistò non più di 100 milioni di questi titoli fatti di mutui. Nel 2006, ne aveva 107 miliardi: un aumento del mille per cento.
v A questo accumulo di debito Usa va aggiunto quello di Hong Kong: la città aveva, a giugno 2006, 13,4 miliardi di titoli Usa, di cui oltre 5 miliardi in mutui confezionati. Il perché di questa politica apparentemente suicida è semplice: Pechino non aveva altra scelta che questo gioco pericoloso per mantenere bassa la sua valuta rispetto al dollaro, mentre contemporaneamente stava accumulando troppi dollari con le sue esportazioni. Ora la camera di compensazione sembra pronta alla chiusura. È dell’altro giorno, infatti, la notizia in base alla quale Pechino avrebbe chiesto di sostituire il dollaro come moneta di riferimento globale con un paniere di monete comprendente dollaro, euro, sterlina e yen: immediato il no degli Usa e anche di Joaquin Almunia.
v La guerra - commerciale, finanziaria e valutaria - è stata dichiarata: è la crisi potrebbe offrire ottime opportunità a chi intende rivedere gli equilibri globali. Non guardate la Borsa, guardate il Forex.
di Mauro Bottarelli