Mentre manager e la city londinese viene contestata dalla popolazione un pilastro della finanza mondiale (dollaro) comincia a perdere i pezzi. Una barca che affonda inesorabilmente. E la nave va...
In gergo tecnico si chiama “currency swap”: è un’intesa bilaterale fra le due banche centrali di Pechino e Buenos Aires per i regolamenti valutari dell’interscambio tra le due nazioni. In partenza l’accordo-swap vale 70 miliardi di yuan o renminbi (la valuta cinese) ma potrà essere aumentato a seconda della crescita dell’import-export bilaterale. La novità è che le transazioni commerciali tra i due paesi potranno essere regolate in valuta cinese, anziché in dollari Usa come accadeva di consueto.
Il cambiamento ha una portata notevole. E’ un altro pezzo della leadership mondiale del dollaro che se ne va, sgretolato sotto la paziente ma implacabile offensiva dei cinesi. E stavolta la penetrazione dello yuan avviene addirittura nel “cortile di casa” degli Stati Uniti, quell’America latina dove fino a un’epoca recente l’influenza economico-finanziaria di Washington era dominante.
L’accordo firmato con l’Argentina è l’ultimo episodio nell’escalation di mosse con cui la Cina alza il suo profilo nella governance globale. La recessione internazionale diventa per Pechino un’opportunità: accelera i tempi del declino dell’Occidente e quindi dell’assunzione di un ruolo più importante da parte della Repubblica Popolare. Appena una settimana fa il governatore della banca centrale di Pechino ha fatto scalpore chiedendo che al G-20 di Londra sia messo all’ordine del giorno proprio il superamento del dollaro come moneta universale.
Il governatore Zhou Xiaochuan ha proposto che nelle riserve ufficiali delle banche centrali e nei pagamenti internazionali al posto del dollaro Usa subentrino gradualmente i Diritti speciali di prelievo, una moneta-paniere (composta da dollaro, euro, yen e sterlina) attualmente usata come unità di conto dal Fondo monetario internazionale.
Zhou ha motivato la sua proposta con la necessità di stabilizzare l’economia globale, sottraendola agli choc provocati dal ruolo del dollaro. La moneta americana oggi è la più usata dalle banche centrali e nel commercio mondiale (per esempio per la quotazione delle materie prime), ma è condannata a riflettere le fragilità dell’economia americana e del suo deficit pubblico. Quella proposta del banchiere centrale cinese è stata accolta in Occidente come un ballon d’essai, non un’idea concretamente praticabile a breve termine.
Intanto però Pechino procede su altri tavoli per dimostrare che la leadership del dollaro non è destinata a durare all’infinito. L’accordo con l’Argentina è sorprendente perché investe un’area geografica tradizionalmente sotto la tutela finanziaria di Washington, e tuttavia non è una novità assoluta. Simili accordi di “currency swap”, per sostituire lo yuan al dollaro nell’interscambio con la Cina, sono stati firmati da dicembre a oggi con Corea del Sud, Bielorussia, Indonesia, Malesia, nonché con la piazza finanziaria di Hong Kong (un fatto significativo quest’ultimo, perché se Hong Kong è tornata a far parte politicamente della Repubblica Popolare dal 1997, tuttavia ha conservato la propria moneta che è agganciata al dollaro Usa).
In soli tre mesi dunque Pechino ha sfoderato una formidabile capacità di seduzione a scapito del dollaro. Gli accordi-swap che promuovono l’uso dello yuan nel commercio mondiale sono un “cavallo di Troia” per indebolire la supremazia mondiale della moneta Usa: i leader cinesi fanno leva sul proprio ruolo di partner commerciale per accompagnare alla penetrazione dell’export anche quella della loro moneta.
La nuova grinta esibita da Pechino sarà messa alla prova giovedì al G-20. Uno dei test riguarderà il ruolo del Fondo monetario internazionale. Questa istituzione, che sembrava condannata a un declino inesorabile fino al 2008, è tornata di colpo in primo piano per effetto della recessione. Di fronte al rischio-bancarotta che ha colpito una schiera di Stati sovrani (cominciando dall’Islanda per finire con la Romania), il Fmi è l’unica istituzione “addestrata” a intervenire velocemente con aiuti finanziari alle nazioni in difficoltà.
L’Amministrazione Obama ha riscoperto l’utilità del Fondo: di fronte a un’Europa che rifiuta di varare manovre di spesa pubblica più sostanziose, gli aiuti del Fmi ai paesi emergenti possono essere una scorciatoia per sostenere la domanda dei paesi emergenti e quindi la crescita mondiale. Ma anni di marginalità hanno dissanguato le casse del Fondo monetario. Il segretario al Tesoro Usa, Tim Geithner, ha proposto una ricapitalizzazione di 500 miliardi di dollari. Stati Uniti, Europa e Giappone al massimo riusciranno a offrire 300 miliardi. Per andare oltre, tutti guardano alla Cina. Che però è determinata a negoziare duramente il proprio aiuto finanziario. In seno al Fmi l’influenza europea e americana è condannata a diminuire per fare spazio al nuovo azionista-Cina, deciso a pesare quanto la propria economia.
di Federico Rampini
09 aprile 2009
08 aprile 2009
L’Argentina tradisce il dollaro per lo yuan
Mentre manager e la city londinese viene contestata dalla popolazione un pilastro della finanza mondiale (dollaro) comincia a perdere i pezzi. Una barca che affonda inesorabilmente. E la nave va...
In gergo tecnico si chiama “currency swap”: è un’intesa bilaterale fra le due banche centrali di Pechino e Buenos Aires per i regolamenti valutari dell’interscambio tra le due nazioni. In partenza l’accordo-swap vale 70 miliardi di yuan o renminbi (la valuta cinese) ma potrà essere aumentato a seconda della crescita dell’import-export bilaterale. La novità è che le transazioni commerciali tra i due paesi potranno essere regolate in valuta cinese, anziché in dollari Usa come accadeva di consueto.
Il cambiamento ha una portata notevole. E’ un altro pezzo della leadership mondiale del dollaro che se ne va, sgretolato sotto la paziente ma implacabile offensiva dei cinesi. E stavolta la penetrazione dello yuan avviene addirittura nel “cortile di casa” degli Stati Uniti, quell’America latina dove fino a un’epoca recente l’influenza economico-finanziaria di Washington era dominante.
L’accordo firmato con l’Argentina è l’ultimo episodio nell’escalation di mosse con cui la Cina alza il suo profilo nella governance globale. La recessione internazionale diventa per Pechino un’opportunità: accelera i tempi del declino dell’Occidente e quindi dell’assunzione di un ruolo più importante da parte della Repubblica Popolare. Appena una settimana fa il governatore della banca centrale di Pechino ha fatto scalpore chiedendo che al G-20 di Londra sia messo all’ordine del giorno proprio il superamento del dollaro come moneta universale.
Il governatore Zhou Xiaochuan ha proposto che nelle riserve ufficiali delle banche centrali e nei pagamenti internazionali al posto del dollaro Usa subentrino gradualmente i Diritti speciali di prelievo, una moneta-paniere (composta da dollaro, euro, yen e sterlina) attualmente usata come unità di conto dal Fondo monetario internazionale.
Zhou ha motivato la sua proposta con la necessità di stabilizzare l’economia globale, sottraendola agli choc provocati dal ruolo del dollaro. La moneta americana oggi è la più usata dalle banche centrali e nel commercio mondiale (per esempio per la quotazione delle materie prime), ma è condannata a riflettere le fragilità dell’economia americana e del suo deficit pubblico. Quella proposta del banchiere centrale cinese è stata accolta in Occidente come un ballon d’essai, non un’idea concretamente praticabile a breve termine.
Intanto però Pechino procede su altri tavoli per dimostrare che la leadership del dollaro non è destinata a durare all’infinito. L’accordo con l’Argentina è sorprendente perché investe un’area geografica tradizionalmente sotto la tutela finanziaria di Washington, e tuttavia non è una novità assoluta. Simili accordi di “currency swap”, per sostituire lo yuan al dollaro nell’interscambio con la Cina, sono stati firmati da dicembre a oggi con Corea del Sud, Bielorussia, Indonesia, Malesia, nonché con la piazza finanziaria di Hong Kong (un fatto significativo quest’ultimo, perché se Hong Kong è tornata a far parte politicamente della Repubblica Popolare dal 1997, tuttavia ha conservato la propria moneta che è agganciata al dollaro Usa).
In soli tre mesi dunque Pechino ha sfoderato una formidabile capacità di seduzione a scapito del dollaro. Gli accordi-swap che promuovono l’uso dello yuan nel commercio mondiale sono un “cavallo di Troia” per indebolire la supremazia mondiale della moneta Usa: i leader cinesi fanno leva sul proprio ruolo di partner commerciale per accompagnare alla penetrazione dell’export anche quella della loro moneta.
La nuova grinta esibita da Pechino sarà messa alla prova giovedì al G-20. Uno dei test riguarderà il ruolo del Fondo monetario internazionale. Questa istituzione, che sembrava condannata a un declino inesorabile fino al 2008, è tornata di colpo in primo piano per effetto della recessione. Di fronte al rischio-bancarotta che ha colpito una schiera di Stati sovrani (cominciando dall’Islanda per finire con la Romania), il Fmi è l’unica istituzione “addestrata” a intervenire velocemente con aiuti finanziari alle nazioni in difficoltà.
L’Amministrazione Obama ha riscoperto l’utilità del Fondo: di fronte a un’Europa che rifiuta di varare manovre di spesa pubblica più sostanziose, gli aiuti del Fmi ai paesi emergenti possono essere una scorciatoia per sostenere la domanda dei paesi emergenti e quindi la crescita mondiale. Ma anni di marginalità hanno dissanguato le casse del Fondo monetario. Il segretario al Tesoro Usa, Tim Geithner, ha proposto una ricapitalizzazione di 500 miliardi di dollari. Stati Uniti, Europa e Giappone al massimo riusciranno a offrire 300 miliardi. Per andare oltre, tutti guardano alla Cina. Che però è determinata a negoziare duramente il proprio aiuto finanziario. In seno al Fmi l’influenza europea e americana è condannata a diminuire per fare spazio al nuovo azionista-Cina, deciso a pesare quanto la propria economia.
di Federico Rampini
In gergo tecnico si chiama “currency swap”: è un’intesa bilaterale fra le due banche centrali di Pechino e Buenos Aires per i regolamenti valutari dell’interscambio tra le due nazioni. In partenza l’accordo-swap vale 70 miliardi di yuan o renminbi (la valuta cinese) ma potrà essere aumentato a seconda della crescita dell’import-export bilaterale. La novità è che le transazioni commerciali tra i due paesi potranno essere regolate in valuta cinese, anziché in dollari Usa come accadeva di consueto.
Il cambiamento ha una portata notevole. E’ un altro pezzo della leadership mondiale del dollaro che se ne va, sgretolato sotto la paziente ma implacabile offensiva dei cinesi. E stavolta la penetrazione dello yuan avviene addirittura nel “cortile di casa” degli Stati Uniti, quell’America latina dove fino a un’epoca recente l’influenza economico-finanziaria di Washington era dominante.
L’accordo firmato con l’Argentina è l’ultimo episodio nell’escalation di mosse con cui la Cina alza il suo profilo nella governance globale. La recessione internazionale diventa per Pechino un’opportunità: accelera i tempi del declino dell’Occidente e quindi dell’assunzione di un ruolo più importante da parte della Repubblica Popolare. Appena una settimana fa il governatore della banca centrale di Pechino ha fatto scalpore chiedendo che al G-20 di Londra sia messo all’ordine del giorno proprio il superamento del dollaro come moneta universale.
Il governatore Zhou Xiaochuan ha proposto che nelle riserve ufficiali delle banche centrali e nei pagamenti internazionali al posto del dollaro Usa subentrino gradualmente i Diritti speciali di prelievo, una moneta-paniere (composta da dollaro, euro, yen e sterlina) attualmente usata come unità di conto dal Fondo monetario internazionale.
Zhou ha motivato la sua proposta con la necessità di stabilizzare l’economia globale, sottraendola agli choc provocati dal ruolo del dollaro. La moneta americana oggi è la più usata dalle banche centrali e nel commercio mondiale (per esempio per la quotazione delle materie prime), ma è condannata a riflettere le fragilità dell’economia americana e del suo deficit pubblico. Quella proposta del banchiere centrale cinese è stata accolta in Occidente come un ballon d’essai, non un’idea concretamente praticabile a breve termine.
Intanto però Pechino procede su altri tavoli per dimostrare che la leadership del dollaro non è destinata a durare all’infinito. L’accordo con l’Argentina è sorprendente perché investe un’area geografica tradizionalmente sotto la tutela finanziaria di Washington, e tuttavia non è una novità assoluta. Simili accordi di “currency swap”, per sostituire lo yuan al dollaro nell’interscambio con la Cina, sono stati firmati da dicembre a oggi con Corea del Sud, Bielorussia, Indonesia, Malesia, nonché con la piazza finanziaria di Hong Kong (un fatto significativo quest’ultimo, perché se Hong Kong è tornata a far parte politicamente della Repubblica Popolare dal 1997, tuttavia ha conservato la propria moneta che è agganciata al dollaro Usa).
In soli tre mesi dunque Pechino ha sfoderato una formidabile capacità di seduzione a scapito del dollaro. Gli accordi-swap che promuovono l’uso dello yuan nel commercio mondiale sono un “cavallo di Troia” per indebolire la supremazia mondiale della moneta Usa: i leader cinesi fanno leva sul proprio ruolo di partner commerciale per accompagnare alla penetrazione dell’export anche quella della loro moneta.
La nuova grinta esibita da Pechino sarà messa alla prova giovedì al G-20. Uno dei test riguarderà il ruolo del Fondo monetario internazionale. Questa istituzione, che sembrava condannata a un declino inesorabile fino al 2008, è tornata di colpo in primo piano per effetto della recessione. Di fronte al rischio-bancarotta che ha colpito una schiera di Stati sovrani (cominciando dall’Islanda per finire con la Romania), il Fmi è l’unica istituzione “addestrata” a intervenire velocemente con aiuti finanziari alle nazioni in difficoltà.
L’Amministrazione Obama ha riscoperto l’utilità del Fondo: di fronte a un’Europa che rifiuta di varare manovre di spesa pubblica più sostanziose, gli aiuti del Fmi ai paesi emergenti possono essere una scorciatoia per sostenere la domanda dei paesi emergenti e quindi la crescita mondiale. Ma anni di marginalità hanno dissanguato le casse del Fondo monetario. Il segretario al Tesoro Usa, Tim Geithner, ha proposto una ricapitalizzazione di 500 miliardi di dollari. Stati Uniti, Europa e Giappone al massimo riusciranno a offrire 300 miliardi. Per andare oltre, tutti guardano alla Cina. Che però è determinata a negoziare duramente il proprio aiuto finanziario. In seno al Fmi l’influenza europea e americana è condannata a diminuire per fare spazio al nuovo azionista-Cina, deciso a pesare quanto la propria economia.
di Federico Rampini
07 aprile 2009
I rabbini incitarono i soldati alla guerra santa nella operazione Piombo Fuso

Drammatiche testimonianze dei militari coinvolti nelle operazioni militari nella Striscia. «Sembrava una missione religiosa» dice il soldato Ram. Un altro accusa i rabbini: «Dicevano: per i nemici punizione divina».
Guerra agli infedeli. Gli «infedeli» di Gaza. Racconta il soldato Ram: «Il loro messaggio è stato molto chiaro: noi siamo i giudei, noi siamo arrivati in questa terra per miracolo, Dio ci ha riportato qui e ora noi dobbiamo combattere per espellere gli infedeli che stanno interferendo con la nostra conquista di questa terra occupata». Ram ha fatto parte di un reparto di élite di Tsahal nei giorni dell’operazione «Piombo Fuso» nella Striscia. Quando parla di «loro», Ram si riferisce ai rabbini ortodossi e ultranazionalisti dell’esercito. L’Unità ha avuto modo di prendere visione delle testimonianze di soldati e ufficiali che hanno partecipato ad un meeting organizzato dalla Scuola di Preparazione Militare dell’accademia Oranim, nel nord d’Israele. Alla conferenza erano presenti decine di allievi della scuola militare: tutti hanno prestato servizio nelle unità di combattimento di Tsahal e hanno partecipato attivamente agli attacchi israeliani contro la Striscia di Gaza condotti dal 27 dicembre 2008 al 18 gennaio 2009 (oltre 1300 morti, più di 5000 feriti, secondo stime palestinesi e internazionali).
È sempre il soldato Ram a parlare: «Abbiamo provato – dice – sensazioni simili a quelle di una missione religiosa». Le operazioni sono cominciate con un sergente credente che «ha riunito l’intero plotone e ha guidato la preghiera per coloro che stavano per partire in missione». «Anche quando eravamo in missione hanno spedito opuscoli pieni di salmi. Credo che nella casa dove alloggiavamo avremmo potuto riempire una stanza con tutti i salmi che avevamo ricevuto».
I RACCONTI
«Nessuno di noi contestava la legittimità di colpire quelli di Hamas, ma l’uccisione di decine di civili non poteva essere liquidata come un “effetto collaterale”… E a chi poneva questi problemi, un rabbino estremista ha risposto: I nemici di Eretz Israel si meritano la punizione divina, voi siete lo strumento…», racconta il soldato Yossi. Aviv, ufficiale della riserva, ricorda che nel vivo dell’offensiva a Gaza, rabbini oltranzisti inviarono lettere aperte al premier Ehud Olmert nelle quali si utilizzavano passi della Torah per giustificare il pugno di ferro contro i palestinesi. La legge della Torah autorizza l’uccisione di uomini, donne, anziani, neonati e animali (del nemico), afferma il rabbino Yisrael Rozin.
Per parte sua, il rabbino ultraortodosso Shlomo Elyaho ha sottolineato che «Se noi uccidiamo 100 dei loro ma loro rifiutano di smetterla (di lanciare razzi), allora dovremmo ucciderne 1000; e se noi uccidiamo 1000 dei loro e loro non la smettono, allora dovremmo ucciderne 10.000 e dobbiamo continuare ad ucciderli anche se arrivano ad un milione, con tutto il tempo necessario per ucciderli. I Salmi dicono: «Io devo continuare a cacciare i miei nemici ed a fermarli, ed io non smetterò fino a che non li avrò completamente finiti».
IL GUARDIAN RILANCIA
Sulla «sporca guerra» di Gaza torna anche il quotidiano britannico The Guardian, con un dossier documentato sul campo, dal quale emerge che i militari dell’Idf (le forze armate dello Stato ebraico) avrebbero utilizzato bambini palestinesi come scudi umani per difendersi dagli attacchi dei miliziani di Hamas, come avrebbero bombardato scuole e ospedali e come avrebbero infine colpito la popolazione civile con i droni radiocomandati. I vertici di Tsahal accusano il tabloid inglese di «lettura unilaterale, forzata dei fatti». «Le prove raccolte, le testimonianze, sono a disposizione di chiunque voglia davvero accertare la verità», è la risposta che viene da Londra.
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09 aprile 2009
L'abbraccio inscindibile tra Cina e dollaro
Mentre manager e la city londinese viene contestata dalla popolazione un pilastro della finanza mondiale (dollaro) comincia a perdere i pezzi. Una barca che affonda inesorabilmente. E la nave va...
In gergo tecnico si chiama “currency swap”: è un’intesa bilaterale fra le due banche centrali di Pechino e Buenos Aires per i regolamenti valutari dell’interscambio tra le due nazioni. In partenza l’accordo-swap vale 70 miliardi di yuan o renminbi (la valuta cinese) ma potrà essere aumentato a seconda della crescita dell’import-export bilaterale. La novità è che le transazioni commerciali tra i due paesi potranno essere regolate in valuta cinese, anziché in dollari Usa come accadeva di consueto.
Il cambiamento ha una portata notevole. E’ un altro pezzo della leadership mondiale del dollaro che se ne va, sgretolato sotto la paziente ma implacabile offensiva dei cinesi. E stavolta la penetrazione dello yuan avviene addirittura nel “cortile di casa” degli Stati Uniti, quell’America latina dove fino a un’epoca recente l’influenza economico-finanziaria di Washington era dominante.
L’accordo firmato con l’Argentina è l’ultimo episodio nell’escalation di mosse con cui la Cina alza il suo profilo nella governance globale. La recessione internazionale diventa per Pechino un’opportunità: accelera i tempi del declino dell’Occidente e quindi dell’assunzione di un ruolo più importante da parte della Repubblica Popolare. Appena una settimana fa il governatore della banca centrale di Pechino ha fatto scalpore chiedendo che al G-20 di Londra sia messo all’ordine del giorno proprio il superamento del dollaro come moneta universale.
Il governatore Zhou Xiaochuan ha proposto che nelle riserve ufficiali delle banche centrali e nei pagamenti internazionali al posto del dollaro Usa subentrino gradualmente i Diritti speciali di prelievo, una moneta-paniere (composta da dollaro, euro, yen e sterlina) attualmente usata come unità di conto dal Fondo monetario internazionale.
Zhou ha motivato la sua proposta con la necessità di stabilizzare l’economia globale, sottraendola agli choc provocati dal ruolo del dollaro. La moneta americana oggi è la più usata dalle banche centrali e nel commercio mondiale (per esempio per la quotazione delle materie prime), ma è condannata a riflettere le fragilità dell’economia americana e del suo deficit pubblico. Quella proposta del banchiere centrale cinese è stata accolta in Occidente come un ballon d’essai, non un’idea concretamente praticabile a breve termine.
Intanto però Pechino procede su altri tavoli per dimostrare che la leadership del dollaro non è destinata a durare all’infinito. L’accordo con l’Argentina è sorprendente perché investe un’area geografica tradizionalmente sotto la tutela finanziaria di Washington, e tuttavia non è una novità assoluta. Simili accordi di “currency swap”, per sostituire lo yuan al dollaro nell’interscambio con la Cina, sono stati firmati da dicembre a oggi con Corea del Sud, Bielorussia, Indonesia, Malesia, nonché con la piazza finanziaria di Hong Kong (un fatto significativo quest’ultimo, perché se Hong Kong è tornata a far parte politicamente della Repubblica Popolare dal 1997, tuttavia ha conservato la propria moneta che è agganciata al dollaro Usa).
In soli tre mesi dunque Pechino ha sfoderato una formidabile capacità di seduzione a scapito del dollaro. Gli accordi-swap che promuovono l’uso dello yuan nel commercio mondiale sono un “cavallo di Troia” per indebolire la supremazia mondiale della moneta Usa: i leader cinesi fanno leva sul proprio ruolo di partner commerciale per accompagnare alla penetrazione dell’export anche quella della loro moneta.
La nuova grinta esibita da Pechino sarà messa alla prova giovedì al G-20. Uno dei test riguarderà il ruolo del Fondo monetario internazionale. Questa istituzione, che sembrava condannata a un declino inesorabile fino al 2008, è tornata di colpo in primo piano per effetto della recessione. Di fronte al rischio-bancarotta che ha colpito una schiera di Stati sovrani (cominciando dall’Islanda per finire con la Romania), il Fmi è l’unica istituzione “addestrata” a intervenire velocemente con aiuti finanziari alle nazioni in difficoltà.
L’Amministrazione Obama ha riscoperto l’utilità del Fondo: di fronte a un’Europa che rifiuta di varare manovre di spesa pubblica più sostanziose, gli aiuti del Fmi ai paesi emergenti possono essere una scorciatoia per sostenere la domanda dei paesi emergenti e quindi la crescita mondiale. Ma anni di marginalità hanno dissanguato le casse del Fondo monetario. Il segretario al Tesoro Usa, Tim Geithner, ha proposto una ricapitalizzazione di 500 miliardi di dollari. Stati Uniti, Europa e Giappone al massimo riusciranno a offrire 300 miliardi. Per andare oltre, tutti guardano alla Cina. Che però è determinata a negoziare duramente il proprio aiuto finanziario. In seno al Fmi l’influenza europea e americana è condannata a diminuire per fare spazio al nuovo azionista-Cina, deciso a pesare quanto la propria economia.
di Federico Rampini
In gergo tecnico si chiama “currency swap”: è un’intesa bilaterale fra le due banche centrali di Pechino e Buenos Aires per i regolamenti valutari dell’interscambio tra le due nazioni. In partenza l’accordo-swap vale 70 miliardi di yuan o renminbi (la valuta cinese) ma potrà essere aumentato a seconda della crescita dell’import-export bilaterale. La novità è che le transazioni commerciali tra i due paesi potranno essere regolate in valuta cinese, anziché in dollari Usa come accadeva di consueto.
Il cambiamento ha una portata notevole. E’ un altro pezzo della leadership mondiale del dollaro che se ne va, sgretolato sotto la paziente ma implacabile offensiva dei cinesi. E stavolta la penetrazione dello yuan avviene addirittura nel “cortile di casa” degli Stati Uniti, quell’America latina dove fino a un’epoca recente l’influenza economico-finanziaria di Washington era dominante.
L’accordo firmato con l’Argentina è l’ultimo episodio nell’escalation di mosse con cui la Cina alza il suo profilo nella governance globale. La recessione internazionale diventa per Pechino un’opportunità: accelera i tempi del declino dell’Occidente e quindi dell’assunzione di un ruolo più importante da parte della Repubblica Popolare. Appena una settimana fa il governatore della banca centrale di Pechino ha fatto scalpore chiedendo che al G-20 di Londra sia messo all’ordine del giorno proprio il superamento del dollaro come moneta universale.
Il governatore Zhou Xiaochuan ha proposto che nelle riserve ufficiali delle banche centrali e nei pagamenti internazionali al posto del dollaro Usa subentrino gradualmente i Diritti speciali di prelievo, una moneta-paniere (composta da dollaro, euro, yen e sterlina) attualmente usata come unità di conto dal Fondo monetario internazionale.
Zhou ha motivato la sua proposta con la necessità di stabilizzare l’economia globale, sottraendola agli choc provocati dal ruolo del dollaro. La moneta americana oggi è la più usata dalle banche centrali e nel commercio mondiale (per esempio per la quotazione delle materie prime), ma è condannata a riflettere le fragilità dell’economia americana e del suo deficit pubblico. Quella proposta del banchiere centrale cinese è stata accolta in Occidente come un ballon d’essai, non un’idea concretamente praticabile a breve termine.
Intanto però Pechino procede su altri tavoli per dimostrare che la leadership del dollaro non è destinata a durare all’infinito. L’accordo con l’Argentina è sorprendente perché investe un’area geografica tradizionalmente sotto la tutela finanziaria di Washington, e tuttavia non è una novità assoluta. Simili accordi di “currency swap”, per sostituire lo yuan al dollaro nell’interscambio con la Cina, sono stati firmati da dicembre a oggi con Corea del Sud, Bielorussia, Indonesia, Malesia, nonché con la piazza finanziaria di Hong Kong (un fatto significativo quest’ultimo, perché se Hong Kong è tornata a far parte politicamente della Repubblica Popolare dal 1997, tuttavia ha conservato la propria moneta che è agganciata al dollaro Usa).
In soli tre mesi dunque Pechino ha sfoderato una formidabile capacità di seduzione a scapito del dollaro. Gli accordi-swap che promuovono l’uso dello yuan nel commercio mondiale sono un “cavallo di Troia” per indebolire la supremazia mondiale della moneta Usa: i leader cinesi fanno leva sul proprio ruolo di partner commerciale per accompagnare alla penetrazione dell’export anche quella della loro moneta.
La nuova grinta esibita da Pechino sarà messa alla prova giovedì al G-20. Uno dei test riguarderà il ruolo del Fondo monetario internazionale. Questa istituzione, che sembrava condannata a un declino inesorabile fino al 2008, è tornata di colpo in primo piano per effetto della recessione. Di fronte al rischio-bancarotta che ha colpito una schiera di Stati sovrani (cominciando dall’Islanda per finire con la Romania), il Fmi è l’unica istituzione “addestrata” a intervenire velocemente con aiuti finanziari alle nazioni in difficoltà.
L’Amministrazione Obama ha riscoperto l’utilità del Fondo: di fronte a un’Europa che rifiuta di varare manovre di spesa pubblica più sostanziose, gli aiuti del Fmi ai paesi emergenti possono essere una scorciatoia per sostenere la domanda dei paesi emergenti e quindi la crescita mondiale. Ma anni di marginalità hanno dissanguato le casse del Fondo monetario. Il segretario al Tesoro Usa, Tim Geithner, ha proposto una ricapitalizzazione di 500 miliardi di dollari. Stati Uniti, Europa e Giappone al massimo riusciranno a offrire 300 miliardi. Per andare oltre, tutti guardano alla Cina. Che però è determinata a negoziare duramente il proprio aiuto finanziario. In seno al Fmi l’influenza europea e americana è condannata a diminuire per fare spazio al nuovo azionista-Cina, deciso a pesare quanto la propria economia.
di Federico Rampini
08 aprile 2009
L’Argentina tradisce il dollaro per lo yuan
Mentre manager e la city londinese viene contestata dalla popolazione un pilastro della finanza mondiale (dollaro) comincia a perdere i pezzi. Una barca che affonda inesorabilmente. E la nave va...
In gergo tecnico si chiama “currency swap”: è un’intesa bilaterale fra le due banche centrali di Pechino e Buenos Aires per i regolamenti valutari dell’interscambio tra le due nazioni. In partenza l’accordo-swap vale 70 miliardi di yuan o renminbi (la valuta cinese) ma potrà essere aumentato a seconda della crescita dell’import-export bilaterale. La novità è che le transazioni commerciali tra i due paesi potranno essere regolate in valuta cinese, anziché in dollari Usa come accadeva di consueto.
Il cambiamento ha una portata notevole. E’ un altro pezzo della leadership mondiale del dollaro che se ne va, sgretolato sotto la paziente ma implacabile offensiva dei cinesi. E stavolta la penetrazione dello yuan avviene addirittura nel “cortile di casa” degli Stati Uniti, quell’America latina dove fino a un’epoca recente l’influenza economico-finanziaria di Washington era dominante.
L’accordo firmato con l’Argentina è l’ultimo episodio nell’escalation di mosse con cui la Cina alza il suo profilo nella governance globale. La recessione internazionale diventa per Pechino un’opportunità: accelera i tempi del declino dell’Occidente e quindi dell’assunzione di un ruolo più importante da parte della Repubblica Popolare. Appena una settimana fa il governatore della banca centrale di Pechino ha fatto scalpore chiedendo che al G-20 di Londra sia messo all’ordine del giorno proprio il superamento del dollaro come moneta universale.
Il governatore Zhou Xiaochuan ha proposto che nelle riserve ufficiali delle banche centrali e nei pagamenti internazionali al posto del dollaro Usa subentrino gradualmente i Diritti speciali di prelievo, una moneta-paniere (composta da dollaro, euro, yen e sterlina) attualmente usata come unità di conto dal Fondo monetario internazionale.
Zhou ha motivato la sua proposta con la necessità di stabilizzare l’economia globale, sottraendola agli choc provocati dal ruolo del dollaro. La moneta americana oggi è la più usata dalle banche centrali e nel commercio mondiale (per esempio per la quotazione delle materie prime), ma è condannata a riflettere le fragilità dell’economia americana e del suo deficit pubblico. Quella proposta del banchiere centrale cinese è stata accolta in Occidente come un ballon d’essai, non un’idea concretamente praticabile a breve termine.
Intanto però Pechino procede su altri tavoli per dimostrare che la leadership del dollaro non è destinata a durare all’infinito. L’accordo con l’Argentina è sorprendente perché investe un’area geografica tradizionalmente sotto la tutela finanziaria di Washington, e tuttavia non è una novità assoluta. Simili accordi di “currency swap”, per sostituire lo yuan al dollaro nell’interscambio con la Cina, sono stati firmati da dicembre a oggi con Corea del Sud, Bielorussia, Indonesia, Malesia, nonché con la piazza finanziaria di Hong Kong (un fatto significativo quest’ultimo, perché se Hong Kong è tornata a far parte politicamente della Repubblica Popolare dal 1997, tuttavia ha conservato la propria moneta che è agganciata al dollaro Usa).
In soli tre mesi dunque Pechino ha sfoderato una formidabile capacità di seduzione a scapito del dollaro. Gli accordi-swap che promuovono l’uso dello yuan nel commercio mondiale sono un “cavallo di Troia” per indebolire la supremazia mondiale della moneta Usa: i leader cinesi fanno leva sul proprio ruolo di partner commerciale per accompagnare alla penetrazione dell’export anche quella della loro moneta.
La nuova grinta esibita da Pechino sarà messa alla prova giovedì al G-20. Uno dei test riguarderà il ruolo del Fondo monetario internazionale. Questa istituzione, che sembrava condannata a un declino inesorabile fino al 2008, è tornata di colpo in primo piano per effetto della recessione. Di fronte al rischio-bancarotta che ha colpito una schiera di Stati sovrani (cominciando dall’Islanda per finire con la Romania), il Fmi è l’unica istituzione “addestrata” a intervenire velocemente con aiuti finanziari alle nazioni in difficoltà.
L’Amministrazione Obama ha riscoperto l’utilità del Fondo: di fronte a un’Europa che rifiuta di varare manovre di spesa pubblica più sostanziose, gli aiuti del Fmi ai paesi emergenti possono essere una scorciatoia per sostenere la domanda dei paesi emergenti e quindi la crescita mondiale. Ma anni di marginalità hanno dissanguato le casse del Fondo monetario. Il segretario al Tesoro Usa, Tim Geithner, ha proposto una ricapitalizzazione di 500 miliardi di dollari. Stati Uniti, Europa e Giappone al massimo riusciranno a offrire 300 miliardi. Per andare oltre, tutti guardano alla Cina. Che però è determinata a negoziare duramente il proprio aiuto finanziario. In seno al Fmi l’influenza europea e americana è condannata a diminuire per fare spazio al nuovo azionista-Cina, deciso a pesare quanto la propria economia.
di Federico Rampini
In gergo tecnico si chiama “currency swap”: è un’intesa bilaterale fra le due banche centrali di Pechino e Buenos Aires per i regolamenti valutari dell’interscambio tra le due nazioni. In partenza l’accordo-swap vale 70 miliardi di yuan o renminbi (la valuta cinese) ma potrà essere aumentato a seconda della crescita dell’import-export bilaterale. La novità è che le transazioni commerciali tra i due paesi potranno essere regolate in valuta cinese, anziché in dollari Usa come accadeva di consueto.
Il cambiamento ha una portata notevole. E’ un altro pezzo della leadership mondiale del dollaro che se ne va, sgretolato sotto la paziente ma implacabile offensiva dei cinesi. E stavolta la penetrazione dello yuan avviene addirittura nel “cortile di casa” degli Stati Uniti, quell’America latina dove fino a un’epoca recente l’influenza economico-finanziaria di Washington era dominante.
L’accordo firmato con l’Argentina è l’ultimo episodio nell’escalation di mosse con cui la Cina alza il suo profilo nella governance globale. La recessione internazionale diventa per Pechino un’opportunità: accelera i tempi del declino dell’Occidente e quindi dell’assunzione di un ruolo più importante da parte della Repubblica Popolare. Appena una settimana fa il governatore della banca centrale di Pechino ha fatto scalpore chiedendo che al G-20 di Londra sia messo all’ordine del giorno proprio il superamento del dollaro come moneta universale.
Il governatore Zhou Xiaochuan ha proposto che nelle riserve ufficiali delle banche centrali e nei pagamenti internazionali al posto del dollaro Usa subentrino gradualmente i Diritti speciali di prelievo, una moneta-paniere (composta da dollaro, euro, yen e sterlina) attualmente usata come unità di conto dal Fondo monetario internazionale.
Zhou ha motivato la sua proposta con la necessità di stabilizzare l’economia globale, sottraendola agli choc provocati dal ruolo del dollaro. La moneta americana oggi è la più usata dalle banche centrali e nel commercio mondiale (per esempio per la quotazione delle materie prime), ma è condannata a riflettere le fragilità dell’economia americana e del suo deficit pubblico. Quella proposta del banchiere centrale cinese è stata accolta in Occidente come un ballon d’essai, non un’idea concretamente praticabile a breve termine.
Intanto però Pechino procede su altri tavoli per dimostrare che la leadership del dollaro non è destinata a durare all’infinito. L’accordo con l’Argentina è sorprendente perché investe un’area geografica tradizionalmente sotto la tutela finanziaria di Washington, e tuttavia non è una novità assoluta. Simili accordi di “currency swap”, per sostituire lo yuan al dollaro nell’interscambio con la Cina, sono stati firmati da dicembre a oggi con Corea del Sud, Bielorussia, Indonesia, Malesia, nonché con la piazza finanziaria di Hong Kong (un fatto significativo quest’ultimo, perché se Hong Kong è tornata a far parte politicamente della Repubblica Popolare dal 1997, tuttavia ha conservato la propria moneta che è agganciata al dollaro Usa).
In soli tre mesi dunque Pechino ha sfoderato una formidabile capacità di seduzione a scapito del dollaro. Gli accordi-swap che promuovono l’uso dello yuan nel commercio mondiale sono un “cavallo di Troia” per indebolire la supremazia mondiale della moneta Usa: i leader cinesi fanno leva sul proprio ruolo di partner commerciale per accompagnare alla penetrazione dell’export anche quella della loro moneta.
La nuova grinta esibita da Pechino sarà messa alla prova giovedì al G-20. Uno dei test riguarderà il ruolo del Fondo monetario internazionale. Questa istituzione, che sembrava condannata a un declino inesorabile fino al 2008, è tornata di colpo in primo piano per effetto della recessione. Di fronte al rischio-bancarotta che ha colpito una schiera di Stati sovrani (cominciando dall’Islanda per finire con la Romania), il Fmi è l’unica istituzione “addestrata” a intervenire velocemente con aiuti finanziari alle nazioni in difficoltà.
L’Amministrazione Obama ha riscoperto l’utilità del Fondo: di fronte a un’Europa che rifiuta di varare manovre di spesa pubblica più sostanziose, gli aiuti del Fmi ai paesi emergenti possono essere una scorciatoia per sostenere la domanda dei paesi emergenti e quindi la crescita mondiale. Ma anni di marginalità hanno dissanguato le casse del Fondo monetario. Il segretario al Tesoro Usa, Tim Geithner, ha proposto una ricapitalizzazione di 500 miliardi di dollari. Stati Uniti, Europa e Giappone al massimo riusciranno a offrire 300 miliardi. Per andare oltre, tutti guardano alla Cina. Che però è determinata a negoziare duramente il proprio aiuto finanziario. In seno al Fmi l’influenza europea e americana è condannata a diminuire per fare spazio al nuovo azionista-Cina, deciso a pesare quanto la propria economia.
di Federico Rampini
07 aprile 2009
I rabbini incitarono i soldati alla guerra santa nella operazione Piombo Fuso

Drammatiche testimonianze dei militari coinvolti nelle operazioni militari nella Striscia. «Sembrava una missione religiosa» dice il soldato Ram. Un altro accusa i rabbini: «Dicevano: per i nemici punizione divina».
Guerra agli infedeli. Gli «infedeli» di Gaza. Racconta il soldato Ram: «Il loro messaggio è stato molto chiaro: noi siamo i giudei, noi siamo arrivati in questa terra per miracolo, Dio ci ha riportato qui e ora noi dobbiamo combattere per espellere gli infedeli che stanno interferendo con la nostra conquista di questa terra occupata». Ram ha fatto parte di un reparto di élite di Tsahal nei giorni dell’operazione «Piombo Fuso» nella Striscia. Quando parla di «loro», Ram si riferisce ai rabbini ortodossi e ultranazionalisti dell’esercito. L’Unità ha avuto modo di prendere visione delle testimonianze di soldati e ufficiali che hanno partecipato ad un meeting organizzato dalla Scuola di Preparazione Militare dell’accademia Oranim, nel nord d’Israele. Alla conferenza erano presenti decine di allievi della scuola militare: tutti hanno prestato servizio nelle unità di combattimento di Tsahal e hanno partecipato attivamente agli attacchi israeliani contro la Striscia di Gaza condotti dal 27 dicembre 2008 al 18 gennaio 2009 (oltre 1300 morti, più di 5000 feriti, secondo stime palestinesi e internazionali).
È sempre il soldato Ram a parlare: «Abbiamo provato – dice – sensazioni simili a quelle di una missione religiosa». Le operazioni sono cominciate con un sergente credente che «ha riunito l’intero plotone e ha guidato la preghiera per coloro che stavano per partire in missione». «Anche quando eravamo in missione hanno spedito opuscoli pieni di salmi. Credo che nella casa dove alloggiavamo avremmo potuto riempire una stanza con tutti i salmi che avevamo ricevuto».
I RACCONTI
«Nessuno di noi contestava la legittimità di colpire quelli di Hamas, ma l’uccisione di decine di civili non poteva essere liquidata come un “effetto collaterale”… E a chi poneva questi problemi, un rabbino estremista ha risposto: I nemici di Eretz Israel si meritano la punizione divina, voi siete lo strumento…», racconta il soldato Yossi. Aviv, ufficiale della riserva, ricorda che nel vivo dell’offensiva a Gaza, rabbini oltranzisti inviarono lettere aperte al premier Ehud Olmert nelle quali si utilizzavano passi della Torah per giustificare il pugno di ferro contro i palestinesi. La legge della Torah autorizza l’uccisione di uomini, donne, anziani, neonati e animali (del nemico), afferma il rabbino Yisrael Rozin.
Per parte sua, il rabbino ultraortodosso Shlomo Elyaho ha sottolineato che «Se noi uccidiamo 100 dei loro ma loro rifiutano di smetterla (di lanciare razzi), allora dovremmo ucciderne 1000; e se noi uccidiamo 1000 dei loro e loro non la smettono, allora dovremmo ucciderne 10.000 e dobbiamo continuare ad ucciderli anche se arrivano ad un milione, con tutto il tempo necessario per ucciderli. I Salmi dicono: «Io devo continuare a cacciare i miei nemici ed a fermarli, ed io non smetterò fino a che non li avrò completamente finiti».
IL GUARDIAN RILANCIA
Sulla «sporca guerra» di Gaza torna anche il quotidiano britannico The Guardian, con un dossier documentato sul campo, dal quale emerge che i militari dell’Idf (le forze armate dello Stato ebraico) avrebbero utilizzato bambini palestinesi come scudi umani per difendersi dagli attacchi dei miliziani di Hamas, come avrebbero bombardato scuole e ospedali e come avrebbero infine colpito la popolazione civile con i droni radiocomandati. I vertici di Tsahal accusano il tabloid inglese di «lettura unilaterale, forzata dei fatti». «Le prove raccolte, le testimonianze, sono a disposizione di chiunque voglia davvero accertare la verità», è la risposta che viene da Londra.
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