04 maggio 2009

La decifrazione del potere, oggi



Meyssan-ThierryIntervista a Thierry Meyssan di Alain Soral - «Égalité et Réconciliation»

Megachip propone all’attenzione dei lettori un’intervista a Thierry Meyssan, giornalista e attivista politico francese, attualmente residente in Libano da “rifugiato”. Le sue valutazioni si basano su alcune fonti di facile verificabilità, altre meno, ma rimangono un punto di vista originale sui protagonisti in campo nella Grande Crisi. Nel suo quadro prevalgono le tinte fosche per descrivere la mediazione in seno al sistema politico americano che ha lanciato Obama e ora lo avviluppa. Ma non c’è mai da aspettarsi che il presidente USA emerga da un processo rivoluzionario. È semmai al centro di intrecci molto complessi e anche drammatici, come la fase storica che stiamo attraversando. Anche se liquidare il giudizio su Obama ci appare prematuro, leggiamo comunque con attenzione l’analisi di Meyssan, che descrive lucidamente alcuni scenari poco noti.

E&R : Thierry Meyssan, non la si vede più in Francia, cosa le è successo?

Thierry Meyssan : Vivo attualmente in Libano. Dopo l’arrivo al potere di Nicolas Sarkozy, sono stato direttamente minacciato da alti funzionari francesi. Amici al ministero della difesa, mi hanno informato che gli Stati Uniti mi considerano un pericolo per la loro sicurezza nazionale. Nel quadro della NATO, hanno chiesto ai servizi combinati di neutralizzarmi ed alcuni francesi sembravano volerlo fare con zelo. Ho dunque preso la decisione non soltanto di lasciare la Francia, ma la zona NATO. Dopo avere errato da Caracas a Damasco passando per Mosca, mi sono fermato a Beirut dove mi sono messo al servizio della resistenza.

E&R : Su cosa lavora attualmente?

Thierry Meyssan : Lavoro su un libro d’analisi dell’amministrazione Obama, le sue origini, la sua composizione, i suoi progetti, ecc. una prima edizione, limitata ad alcune copie, sarà indirizzata ad alcuni leader il mese prossimo. Quindi un’edizione per il grande pubblico sarà pubblicata in diverse lingue in autunno. Vivo esclusivamente della mia penna e collaboro a giornali o riviste nel settore della politica internazionale, il Vicino-Oriente e la Russia.

E&R : Quale analisi fa dell’evoluzione della politica americana?

Meyssan-ThierryThierry Meyssan : Oggi si ha un consenso relativo sulla constatazione del fallimento della politica di Bush, il superdispiegamento militare, le conseguenze nocive dell’unilateralità nelle relazioni con gli alleati e la perdita della leadership. A partire dal 2006, James Baker e Lee Hamilton, che presiedevano una commissione creata dal congresso per valutare la strategia in Iraq, hanno militato a favore di un ritorno ad una posizione più prudente. Hanno raccomandato un ritiro dall’Iraq ed un cauto ravvicinamento con i paesi confinanti (Siria, Iran) indispensabile per evitare che la partenza dei GI si muti in una rovina, come in Vietnam. Hanno fatto cadere la testa di Donald Rumsfeld, e hanno imposto un membro della loro commissione, Robert Gates, a succedergli. Ma se hanno congelato la politica “di rimodellamento del grande Medio Oriente”, non sono riusciti a fare dimettere George Bush e Dick Cheney; ragione per cui è stato necessario organizzare una rottura con Barack Obama.
In realtà Obama era stato lanciato nella corsa al senato federale ed alla presidenza fin dal 2004. Ha fatto la sua entrata in scena in occasione della convenzione democratica per il conferimento del mandato a John Kerry. Non era che un parlamentare oscuro dell’assemblea dell’Illinois, ma era già inquadrato e guidato da Abner Mikva e dai suoi uomini (Jews for Obama) e sostenuto dalla finanza anglosassone (Goldman Sachs, JP Morgan, Exelon…). Le multinazionali si preoccupano di perdere quote di mercato a causa dell’aumento dell’antimperialismo (Business for Diplomatic Action), i partigiani della Commissione Baker-Hamilton, i generali in rivolta contro le avventure sregolate dei neo-conservatori, ed altri ancora, si sono gradualmente uniti a lui. I francesi credono, spesso, che il presidente degli Stati Uniti sia eletto al secondo grado dai grandi elettori. È falso. È eletto da un collegio i cui membri sono designati dai maggiorenti. Nel 2000, la Corte suprema ha ricordato che il voto dei cittadini era soltanto consultivo e che il governatore della Florida poteva nominare i delegati del suo Stato al collegio elettorale presidenziale, senza attendere lo spoglio generale delle schede.
In questo sistema oligarchico, c’è un partito unico con due correnti: i repubblicani ed i democratici. Giuridicamente, non formano entità distinte. Così, sono gli stati che organizzano le primarie, non gli pseudo-partiti. Non c’è dunque nulla di sorprendente se Joe Biden e Barack Obama sia entrambi vecchi amici di John McCain. Così McCain, che presiede l’istituto repubblicano internazionale, un organo del dipartimento di Stato incaricato di corrompere i partiti di destra nel mondo; mentre Obama lavora nell’ambito dell’istituto democratico nazionale, presieduto da Madeleine Albright ed incaricato della corruzione dei partiti di sinistra. Insieme, Obama, McCain ed Albright hanno partecipato alla destabilizzazione del Kenia, nel corso di un’operazione della CIA per imporre un cugino di Obama come primo ministro.
Tutto ciò per dire che Obama non viene dal nulla. È uno specialista dell’azione segreta e della sovversione. È stato reclutato per fare un lavoro ben preciso. Se gli obiettivi della coalizione eteroclita che lo sostiene sono globalmente gli stessi, non esistono consensi nel dettaglio tra le sue componenti. Questo spiega la battaglia incredibile alla quale hanno dato luogo le nomine, e l’aspetto sempre equivoco dei discorsi di Obama.

Quattro poli sono in battaglia:

Il polo della difesa, attorno a Brent Scowcroft, e ai generali oppositori di Rumsfeld e certamente di Robert Gates, oggi il vero padrone a Washington. Raccomandano la fine della privatizzazione dell’esercito, un’uscita “onorevole” dall’Iraq, ma la prosecuzione dello sforzo statunitense in Afganistan, per non dare l’impressione della rotta, e infine un accordo con gli iraniani ed i siriani. Per loro, la Russia e la Cina restano concorrenti che occorre isolare e paralizzare. Affrontano la crisi finanziaria come una guerra durante la quale perderanno dei programmi d’armamento e diminuiranno le dimensioni delle forze armate, ma devono mantenere una superiorità relativa. Poco importa se perdono in potenza, se restano i più forti.

I dipartimenti del Tesoro e del Commercio, attorno a Tim Geithner e Paul Volcker, protetti da Rockefeller. Sono seguaci della Pilgrim’s Society (Mont Pélerin Society - - Società del Monte Pellegrino) e sono sostenuti dal Gruppo dei Trenta, dal Peterson Institute e dalla Commissione Trilaterale. Sono sostenuti anche dalla regina Elisabetta II e vogliono salvare allo stesso tempo Wall Street e City. Per loro la crisi è un duro colpo poiché i redditi delle oligarchie finanziarie sono in caduta libera, ma è soprattutto l’agognata occasione per concentrare il capitale e per fare ristagnare le resistenze alla globalizzazione. Sono obbligati a ridurre temporaneamente il loro tenore di vita per non suscitare rivoluzioni sociali, ma possono simultaneamente arricchirsi riacquistando infrastrutture industriali per un boccone di pane. A lungo termine, hanno il progetto di instaurare - non un’imposta mondiale sul diritto di respirare, sarebbe grossolano, ma una tassa globale sulla CO2 ed una borsa dei diritti d’emissione, cosa che fornisce un ritorno, sembrando un discorso ecologico. Contrariamente al Pentagono, militano per un’alleanza con la Cina, soprattutto grazie al fatto che detiene il 40% dei buoni del tesoro USA, ma anche per impedire l’emergere di un blocco economico estremo-asiatico centrato sulla Cina, accaparrandosi le materie prime africane.

Il polo del dipartimento di Stato attorno a Hillary Clinton, una cristiana fondamentalista, membro di una setta molto segreta, la Fellowship Foundation (detta “La Famiglia”). È il rifugio dei sionisti, l’ultima riserva dei neo-conservatori in via di estinzione. Raccomandano un sostegno incondizionato ad Israele, con una punta di realismo, poiché sanno che l’ambiente è cambiato. Non sarà più possibile bombardare il Libano come nel 2006, poiché Hezbollah dispone ora di armi antiaeree efficienti. Non sarà più possibile penetrare a Gaza, come nel 2008, poiché Hamas ha acquisito i missili anticarro Kornet. E se gli Stati Uniti hanno difficoltà a pagare le fatture di Tel-Aviv, è poco probabile che i Sauditi possano compensarvi a lungo termine. Occorre dunque guadagnare tempo, se è il caso con alcune concessioni, e trovare un’utilità strategica ad Israele. La principale missione della signora Clinton è migliorare l’immagine degli Stati Uniti, neanche facendo relazioni pubbliche (cioè giustificando la politica di Washington), ma con la pubblicità (cioè elogiando le qualità reali o immaginarie del modello USA). In questo contesto, i sionisti dovrebbero spingere il progetto Korbel-Albright-Rice volto alla trasformazione dell’ONU in una vasta tribuna impotente e alla creazione di un’organizzazione concorrente, la Comunità delle Democrazie, sostenuta dal suo braccio armato, la NATO. Attualmente, sono occupati a sabotare la conferenza di Durban II che, anziché celebrare “la sola democrazia del Vicino-Oriente”, denuncia il regime di segregazione al potere a Tel-Aviv. Con il segretario di Stato aggiunto, James Steinberg, vedono la crisi finanziaria come un Blitzkrieg. Ci sarà molto danno, ma è il momento di distruggere i concorrenti e prendere di sorpresa le leve di comando. Il loro problema non è accumulare ricchezze con acquisti e fusioni, ma imporre i loro uomini ovunque nel mondo, nei ministeri delle finanze ed alla testa degli istituti bancari.

Infine il Consiglio nazionale di sicurezza su cui esercita influenza Zbignew Brzezinski, che fu il professore di Obama alla Columbia. Il consiglio dovrebbe abbandonare il suo tradizionale ruolo di coordinamento per diventare un vero centro di comando. È diretto dal Generale Jones, che è stato comandante supremo della NATO e ha battezzato l’Africa Command. Per loro, la crisi finanziaria è una crisi della strategia imperiale. È l’indebitamento faraonico sottoscritto per finanziare la guerra in Iraq che ha precipitato il crollo economico degli Stati Uniti. Contrariamente al 1929, la guerra non sarà la soluzione, è il problema. Occorre dunque condurre tre azioni simultanee: forzare i capitali a rientrare negli Stati Uniti distruggendo i paradisi fiscali concorrenti e destabilizzando le economie dei paesi sviluppati (come è stato provato in Grecia); mantenere l’illusione della potenza militare USA proseguendo l’occupazione dell’Afganistan; e soffocare le alleanze nascenti tra Siria-Iran-Russia e, soprattutto, Russia-Cina (Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai). Il Consiglio privilegerà ogni forma d’azione clandestina, per dare al Pentagono il tempo necessario per la sua riorganizzazione.

Obama prova a soddisfare tutti, da qui la confusione ambientale.

E&R : Come vede evolvere la situazione nel Vicino-Oriente nei confronti di questa nuova amministrazione?

Thierry Meyssan : C’è consenso su un punto: Washington deve fare abbassare la tensione in questa regione, senza peraltro abbandonare Israele. Due opzioni sono sul tavolo, ma indipendentemente da quella che sarà attuata, è necessario che siano firmate dalle correnti più radicali. È per questo che Washington ha incoraggiato un governo Netanyahu-Lieberman in Israele e lascerà Hamas e Hezbollah vincere le prossime elezioni nei territori palestinesi ed in Libano.
Il primo scenario, immaginato da Zbignew Brzezinski prevede il riconoscimento simultaneo di uno Stato palestinese e la naturalizzazione dei profughi palestinesi nei paesi in cui si trovano. Con grandi quantità di denaro elargito per compensare gli stati che adottano i profughi e per sviluppare Gaza e la Cisgiordania. Inoltre, il mantenimento di questa pace sarebbe garantito da una forza d’interposizione della NATO, sotto mandato dell’ONU. Questo piano ha il sostegno di Nicolas Sarkozy.
Il secondo approccio è più duro per i due protagonisti. Raccomanda di forzare gli israeliani ad abbandonare le loro rivendicazioni più esagerate; mentre obbligherebbe i palestinesi a considerare la Giordania come la loro patria naturale. Sarebbe una pace più economica per Washington e realizzabile a lungo termine, anche se sarebbe difficile d’accettare per gli uni e per gli altri ed implicherebbe, en passant, la fine della monarchia hashemita. Questa formula è in particolare sostenuta dall’ambasciatore Charles Freeman, che la lobby sionista ha appena costretto a dimettersi della presidenza del Consiglio Nazionale dell’Intelligence, ma che dispone di solidi appoggi nell’apparato dello Stato.

E&R : Secondo lei, quale formula s’imporrà?

Thierry Meyssan : Nessuna, perché la crisi economica sarà di una tale ampiezza che condurrà, a parer mio, allo smembramento degli Stati Uniti e alla fine dello Stato d’Israele. Washington dovrà rivedere di nuovo al ribasso le sue ambizioni. Probabilmente si piegherà al mantenimento dello status quo. La sua azione si limiterà ad impedire ai nuovi attori di prendere il suo posto.

E&R : Cosa prevede a titolo personale?

Thierry Meyssan : Cinque milioni di ebrei, nove milioni di palestinesi, e le altre popolazioni della Palestina, devono trovarsi nell’ambito di uno Stato unico, basato sul principio “un uomo, un voto”. È del resto a parer mio la sola soluzione per evitare l’espulsione degli ebrei. Occorre ricordarsi della segregazione in Sudafrica, che secondo alcuni, la sua messa in discussione avrebbe causato l’espulsione o la distruzione dei bianchi. Si conosce il seguito. La morte di Arafat non è un ostacolo, poiché vi sono altri Mandela in Palestina. Il vero problema è trovare un De Clerk israeliano. Hamas sosterrebbe senza dubbio tale soluzione, poiché avrebbe l’approvazione del popolo. Più si rimandano le scadenze, più si rende difficile una soluzione pacifica. La CIA studia, del resto, lo scenario catastrofico di una sollevazione sanguinosa che caccerebbe 2 milioni di ebrei verso gli Stati Uniti.

E&R : E secondo lei, la Siria e l’Iran? Pensa che la guerra sia possibile?

Thierry Meyssan : Non penso che gli accordi segreti conclusi tra i militari USA, la Siria e l’Iran siano rimessi in discussione: gli Stati Uniti ne non hanno né i mezzi né, tantomeno, la volontà. In primo luogo, sanno che la minaccia nucleare iraniana è un’intossicazione fabbricata dopo che avevano inventato le armi di distruzione di massa irachene. D’altra parte, l’Imam Khomeiny aveva condannato come immorali la fabbricazione e l’impiego della bomba atomica, e non si vede quali gruppi sarebbero capaci, in Iran, a superare tale ordine. In secondo luogo, la politica di George Bush ha spinto Teheran e Damasco nelle braccia di Mosca che prepara, del resto, una grande conferenza internazionale sulla pace nel Vicino-Oriente. È ormai una priorità per Washington smantellare quest’alleanza nascente e tentare di riportare l’Iran e la Siria nella sua orbita. È certamente probabile che questi ultimi faranno alzare le offerte e si permetteranno di oscillare da un lato o dell’altro. Infine, gli Stati Uniti hanno la sensazione dell’urgenza. La loro economia crolla e forse non avranno per molto la possibilità di difendere Israele a questo prezzo. Tanto più che Tsahal non è più ciò che era. L’esercito israeliano non è più invincibile. Ha accumulato fallimenti in Libano, a Gaza ed anche, non lo si dimentichi, in Georgia.

E&R : Lei vive, come abbiamo visto, in Libano; quale è la situazione laggiù?

Thierry Meyssan : L’Alleanza Nazionale raccolta attorno alla Corrente Patriottica Libera di Michel Aoun ed a Hezbollah di Hassan Nasrallah vincerà le prossime elezioni, senza dubbio, se possono tenersi liberamente. La famiglia Hariri sopravviverà solo finché le grandi potenze conteranno su di essa per prelevare imposte e fare pagare al popolo il debito estero del Libano, proprio quando questa proviene, per metà, dell’arricchimento illecito degli Hariri. Il criminale di guerra Walid Joumblatt - vicepresidente dell’Internazionale Socialista, e scusate se è poco, o anche i neo-fascisti come l’assassino patologico Samir Geagea, saranno liberati dai loro sponsor. Questi sgherri hanno perso la loro efficacia e non sono più presentabili.
Il tribunale speciale per il Libano, incaricato di istruire la causa Hariri e diversi altir assassini politici, o si farà dimenticare, o darà luogo ad un coup de théâtre. È stato concepito come una macchina per accusare la Siria, metterla al bando della Comunità internazionale e designarla come obiettivo militare. So che nuove prove sono giunte nelle ultime settimane. Discolpano la Siria e mettono l’Arabia Saudita alla sbarra. Spetta a questa aula valutare la ripresa del controllo dell’Arabia Saudita da parte di re Abdallah e il licenziamento dei ministri che hanno finanziato la lotta contro Hezbollah ed Hamas.
Per ritornare alle elezioni legislative libanesi di giugno, la questione è sapere se ci si orienta verso una vittoria della resistenza al 55 o al 70%. Ciò dipenderà principalmente dalla comparsa o meno, di una nuova forza scissionista cristiana raccolta attorno al presidente Suleiman. In definitiva, i collaboratori degli Stati Uniti e d’Israele negozieranno, forse, un compromesso finché sono nella posizione di farlo. Ci si dirigerebbe allora verso la designazione di un miliardario come primo ministro (Saad Hariri o un altro), ma alla testa di un governo interamente controllato dalla resistenza nazionale. Sarebbe una formula molto orientale: gli onori e la luce per i perdenti, mentre il vero potere resterebbe nell’ombra. L’interesse di questa soluzione sarebbe delegittimare ogni intervento militare contro il Libano.

E&R : Ormai è molto conosciuto in Russia, dove ha raccolto quasi 30 milioni di telespettatori in occasione della trasmissione sull’11 settembre. Come valuta la situazione della Russia?

Thierry Meyssan : Paradossalmente, nonostante la vittoria militare e diplomatica in Georgia, la Russia attraversa un passaggio difficile. Dopo la guerra del Caucaso, le banche anglosassoni hanno incoraggiato gli oligarchi a punire Mosca, muovendo i loro capitali verso Ovest. Quindi, gli anglosassoni hanno spinto i dirigenti ucraini a tradire il loro interesse nazionale e tagliare i gasdotti in occasione dei negoziati sui prezzi. Il Cremlino, che credeva di essere padrone del gioco e d’avere l’iniziativa di questi tagli, s’è fatto intrappolare. La perdita del fatturato di due mesi ha divorato le riserve monetarie. Il tutto ha causato una caduta rovinosa del rublo, mentre la crisi mondiale fa abbassare il prezzo delle materie prime e dunque i redditi della Russia.
Medvedev e Putin hanno valutato questa situazione di debolezza con molto sangue freddo. Conoscono i vantaggi di cui dispongono, in particolare la superiorità tecnologica della loro industria degli armamenti su quella degli Stati Uniti. Sono convinti che gli Stati Uniti non si riprenderanno dalla crisi, ma si porranno, a medio termine, come il Patto di Varsavia e l’URSS degli anni 1989-1991. Sperano dunque di invertire i ruoli.
Nonostante il periodo di vacche magre, equipaggiano le loro forze armate con nuovi materiali, ed aspettano senza agitarsi il crollo dell’Ovest. Pubblicamente o di nascosto, secondo i casi, riforniscono con le armi più recenti disponibili, tutti gli avversari degli Stati Uniti, dal Vicino-Oriente, come ho appena detto, al Venezuela. Economicamente, hanno fatto la scelta di costruire rotte commerciali verso la Cina, più che verso l’Europa occidentale, di cui osservo con rammarico il controllo ostinato degli anglosassoni. Questa situazione può avere importanti conseguenze sul piano interno, dove si affrontano la vecchia e la nuova generazione. I vecchi hanno un forte tropismo americano, mentre i giovani mostrano patriottismo. Paradossalmente, le élite di San Pietroburgo sono storicamente favorevoli ad un ancoraggio europeo della Russia, al contrario dei Moscoviti, la cui visione è più eurasiatica. Ma Putin e Medvedev, tutti due di San Pietroburgo, condividono questa visione eurasiatica. Sognano la Russia come protettore dell’Islam, che è entrata, come osservatore, nell’Organizzazione della Conferenza Islamica. Pur valorizzando il patriarcato ortodosso, hanno messo dei musulmani in numerosi posti di alta responsabilità, in contrasto con la Francia è ovvio.
Anche se il trauma dello smantellamento della Jugoslavia e delle due guerre di Cecenia resta alto, e l’onda del razzismo che ne è seguita non è ancora controllata, la Russia ha fatto la scelta di civiltà ed ha preso il cammino della sintesi tra l’Europa e l’Asia. Se la Russia riesce ad attraversare, nei prossimi anni, tutte le gravi turbolenze internazionali senza esserne troppo influenzata, si troverà nella posizione dell’arbitro in un mondo multipolare.

E&R : Continuiamo questo interessante giro del mondo geopolitico con la Cina… Mi interrogo sulla loro strategia. Perché questi acquisti massicci di buoni del tesoro USA?

Thierry Meyssan : Pechino ha preso l’iniziativa di un ravvicinamento con Mosca attraverso l’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai. Molti contenziosi sono stati saldati. In cambio, i Russi hanno accettato di vendere ai cinesi l’energia a una tariffa preferenziale ed hanno chiesto un controllo più rigoroso dell’emigrazione cinese in Siberia. La logica avrebbe voluto che i due grandi si rafforzino mutuamente rifiutando il dollaro come valuta di scambio internazionale. Ma a Pechino ripugna a scegliere il suo campo e non vuole irritare Washington. I cinesi conducono una strategia morbida di rafforzamento delle loro alleanze globali. Ciò mi sembra alquanto strano, poiché ciò potrebbe costare loro caro. Gli USA potrebbero trascinarli nel loro prevedibile crollo.
Au passage, permettez-moi de dire mon agacement face à la stupide dénonciation des violations des Droits de l'homme en Chine. Ils sont sans aucun doute possible beaucoup mieux respectés par Pékin que par Washington—ce qui n'est pas une excuse pour ne pas s'améliorer, mais relativise ces accusations—. Et qu'on arête de dire que le Tibet a été annexé par la Chine en 56, alors qu'il a été repris par les communistes chinois aux Chinois de Tchang Kaï-Chek.
En passant, mi permetta di dirle della mia irritazione di fronte alla stupida denunzia sulle violazioni dei diritti dell’uomo in Cina. Sono senza alcun possibile dubbio molto meglio rispettati da Pechino che da Washington, il che non è una scusa per non migliorarsi, ma relativizza queste accuse. E che ci si ferma dal dire che il Tibet è stato annesso dalla Cina nel 1956, mentre è stato ripreso dai comunisti cinesi ai cinesi di Chang Kai-shek.

E&R : Una parola sul Sudamerica prima di ritornare sulla Francia?

Thierry Meyssan : Oltre alla tendenza all’unificazione, si sono affermate delle strategie di fronte all’imperialismo. Ma l’indebolimento continuo degli Stati Uniti crea una nuova situazione e può incitare alcuni a scoprire le proprie carte. La preoccupazione della protezione delle economie nazionali ritorna in primo piano. Paradossalmente, gli stati che soffrono per le sanzioni sono meglio armati per resistere alla crisi. È in particolare il caso di Cuba, del Venezuela, della Bolivia o dell’Ecuador – così come è il caso della Siria e dell’Iran nel Vicino-Oriente. Garantisco che nuove istituzioni nazionali si svilupperanno, parallelamente alla Banca del Sud. È la rivalsa della Storia.

E&R : La Francia infine, o più esattamente la Francia di Sarkozy…

Thierry Meyssan : La Francia è una vecchia nazione che non si può manovrare in qualsiasi direzione. Ha un passato glorioso e s’identifica con un ideale. Spesso se ne allontana, ma sempre vi ritorna. Attraversa oggi un cattivo periodo, poiché è governata “dal partito dello straniero”. I suoi dirigenti fanno la scelta peggiore, nel periodo peggiore. Hanno deciso di mettere l’esercito agli ordini della NATO, concretamente sotto quello del Generale Bantz J. Craddock, il criminale che creò il centro di tortura di Guantanamo. E questo tradimento, è stato deciso nel momento in cui gli Stati Uniti affondano nella crisi. Mettono la Francia al rimorchio di una barca che affonda, col rischio di trascinarla nel suo naufragio. Il loro servilismo non li spinge soltanto a rendere vassalle le forze armate, ma anche a trasformare a fondo la società francese, per clonarla “sul modello” americano. È vero nel settore economico, con la rimessa in discussione dei servizi pubblici, ma anche nei settori della giustizia o dell’istruzione, della discriminazione positiva e avanti di questo passo.
Sarkozy non è né di destra, né di sinistra, ma imita gli yankee. Come ho spiegato in modo dettagliato in un dossier della rivista russa Profil’ [1], soddisfa tre forze: gli anglosassoni, la mafia e la banca Rothschild. Questa gente è cosciente, da molti anni, della dispnea degli Stati Uniti e pensa di garantire il potere dell’oligarchia finanziaria globale riequilibrando l’impero: avrebbe due pilastri, uno statunitense e uno europeo, mentre il Regno Unito sarebbe la cerniera. È questo il progetto servito da Nicolas Sarkozy fin dalla sua elezione. È lui che ha lo condotto a rompere l’asse franco-tedesco per avvicinarsi agli inglesi, e che quindi l’ha condotto a proporre diverse riorganizzazioni dell’Unione europea, in particolare la creazione di un governo economico. Questo avrà la conseguenza di renderci molto più vulnerabili alle convulsioni USA.
Tuttavia, la Francia è sempre ben attesa, e non soltanto nel mondo francofono. Siamo un paese fuori norma che ha proclamato la sovranità popolare. Si sottovaluta completamente, in Francia, il livello di ridicolo di Nicolas Sarkozy e della sua cricca agli occhi del resto del mondo. Sarkozy appare come un vanitoso esagitato, un instabile farcito di tic, che fa la mosca cocchiera in tutti i possibili conflitti internazionali, e che serve, a sue spese, da pesce-pilota nei mutamenti dell’umore di Washington.
Ricostruire un’alternativa, ahimè, richiederà tempo, ma non è una ragione per rinunciarvi.

La finanza pigliatutto con i soldi degli altri

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Ora che i buoi sono scappati dalla stalla, le librerie sono piene di dotte riflessioni sui danni della finanziarizzazione sull’economia mondiale. Non sono però molti gli analisti che possono rivendicare coerenza di pensiero nella interpretazione dei fatti che hanno condotto alla attuale crisi.
Ronald Dore e Luciano Gallino sono tra quelli che, in tempi non sospetti, mentre prevaleva ancora il pensiero unico del liberismo dominante, avevano lucidamente messo in evidenza le distorsioni che si stavano determinando nella organizzazione delle economie e dei sistemi sociali, per effetto della prevalenza di un modello di capitalismo basato sulla deregolamentazione, sullo smantellamento degli istituti di welfare e sulla dominanza della rendita finanziaria rispetto all’industria.
Proprio per questa ragione, leggere i loro recenti contributi può essere un utile esercizio, non solo per approfondire l’analisi sui fattori fondamentali alla base della crisi economica in corso, ma anche per cercare di capire quale ricetta venga proposta ora da parte di chi, con maggiore credibilità rispetto ad altri, aveva colto i segni di una condizione di insostenibilità nascosta tra le pieghe della globalizzazione a senso unico.
Ronald Dore, nelle sue analisi sui diversi modelli di capitalismo, aveva già da tempo evidenziato le debolezze strutturali del sistema anglosassone, fondato sulla instabilità di meccanismi finanziari fortemente deregolamentati, rispetto al sistema europeo di welfare, proprio negli anni in cui, a cavallo tra il vecchio ed il nuovo secolo, si operava una sistematica demolizione delle reti di protezione sociale che sono state alla base del capitalismo ben temperato, tipico dell’approccio sociale dell’Europa continentale. Tra capitalismo di borsa e capitalismo di welfare, Dore chiedeva di scegliere la seconda opzione, quando invece il pensiero dominante esprimeva la convinzione di una irreversibile deriva verso il modello anglosassone.


Nel suo recente libro ("Finanza pigliatutto", Il Mulino, 2009, 9 euro) Ronald Dore torna su questi temi, partendo da una analisi delle ragioni strutturali che hanno condotto, nei passati decenni, ad una prevalenza della finanza sull’industria. Innanzitutto, occorre sottolineare che le attività finanziarie hanno assicurato, per diversi decenni, un livello di redditività tale da attrarre investimenti e risorse, in un processo di causazione cumulativa che è stato poi alla base della bolla finanziaria, alimentata dalla creazione di prodotti finanziari a rischio così elevato da non poter essere nemmeno dimensionato.
Analizzando la serie storica del reddito nazionale statunitense, Ronald Dore mostra che, fino al 1950, la quota dei profitti delle imprese finanziarie sul totale dei profitti era pari in media al 9,5%. Da allora è cominciata una accelerazione, sino a raggiungere il valore massimo nel 2002 (45%), con una successiva stabilizzazione ed un leggero arretramento negli anni più recenti, dovuto al manifestarsi dei primi segni della crisi finanziaria internazionale.
Si è affermata, nel capitalismo anglosassone prima e poi nel sistema economico internazionale, una cultura azionaria fondata sul profitto di breve periodo, sulla ricerca di opportunità di arricchimento rapido, sulla capacità di cogliere opportunità tattiche di massimizzazione della redditività rispetto a progetti di investimenti industriale a redditività differita. Gli stessi governi hanno promosso questa tendenza verso una apparente democratizzazione dell’azionariato, nella convinzione che un’offerta abbondante di capitale azionario avrebbe promosso l’innovazione e quindi la competitività. Nelle scelte delle imprese hanno cominciato a contare in modo decisivo le pressioni degli investitori istituzionali, che muovevano masse enormi di capitali alla continua ricerca della migliore redditività, schiacciando la prospettiva temporale del profitto atteso, sino a far governare in modo indiscusso il rendiconto trimestrale rispetto persino al bilancio annuale dell’impresa.

Sulla stessa lunghezza d’onda si colloca la riflessione di Luciano Gallino, in "Con i soldi degli altri", (Einaudi, 2009, euro 17). I dati del processo di finanziarizzazione sono impressionanti: alla fine del 2007 il Pil del mondo ha superato i 54 trilioni di dollari, mentre la capitalizzazione delle borse mondiali ammontava a 61 trilioni e le obbligazioni pubbliche e private superavano i 60 trilioni. A giugno del 2008 il valore nominale della quota di derivati trattati nelle borse toccavano gli 80 trilioni di dollari, mentre quelli scambiati fuori mercato sfiorava i 684 trilioni: la somma dei derivati era quindi complessivamente pari a 764 trilioni di dollari, pari a 14 volte il Pil del mondo.
Il gioco della finanziarizzazione ha tracimato verso l’economia reale, influenzando le strategie delle imprese in modo decisivo e spostando la struttura dei risparmi degli individui verso scelte fortemente rischiose, spesso senza informare correttamente i cittadini sulle conseguenze di questi cambiamenti nelle strategie di portafoglio. I piani pensionistici sono passati su larga scala da schemi a beneficio definito a piani a contributo definito: mentre nel primo caso il contribuente sa di poter contare su un valore certo del proprio corrispettivo pensionistico, nel secondo tutto dipende dalla volatilità dei rendimenti assicurati dai fondi pensione.
Si è innescata in questo modo una ulteriore spirale perversa di avvitamento che oggi incide fortemente sulla crisi delle imprese industriali. Basti citare il caso della General Motors, la quale si è trovata nel 2009 ad avere solo 85.000 occupati negli Stati Uniti, mentre ai suoi fondi pensione fanno capo un milione di ex-dipendenti. Nel 1962 la GM aveva 460.000 dipendenti, la maggior parte in Usa, ed appena 40.000 pensionati. Nella previdenza privata di stampo anglosassone, l’incrocio tra squilibrio strutturale di dipendenti attivi e numero dei pensionati, unito alla volatilità al ribasso dei rendimenti delle attività finanziarie costituisce una mina vagante i cui effetti non sono ancora pienamente dispiegati.
Mentre cambiava radicalmente la struttura dei mercati finanziari, non si sono introdotte regole adeguate a fronteggiare con disciplina le trasformazioni intervenute. E oggi le banconote e le monete costituiscono solo il 3% del denaro circolante, mentre il restante 97% è interamente simbolico, a cominciare da quello depositato nei conti correnti o sui libretti di risparmio. Siamo in presenza di una mutazione genetica del sistema bancario in assenza di un tessuto di norme a protezione degli altissimi rischi che sono stati assunti in nome solo del profitto di brevissimo periodo. Scrive Gallino: “La funzione originaria del sistema bancario stava nel prendere in prestito da molti clienti piccole somme a un dato tasso di interesse, al fine di prestare grosse somme a pochi a un tasso di interesse più alto – contando sul fatto che è improbabile che i molti accorrano tutti assieme, nello stesso momento, a ritirare i loro depositi. Da tempo, per vari aspetti, tale funzione è caduta in secondo piano a fronte della possibilità assai più lucrosa di trasformare i prestiti in titoli commerciabili”.
Luciano Gallino propone una ricetta che consiste nell’indirizzare i capitali nelle mani degli investitori istituzionali verso investimenti socialmente responsabili, ed innanzitutto nella produzione di beni pubblici, a cominciare da infrastrutture di vario genere, dalle scuole ai trasporti. Inoltre, dovrebbero essere privilegiati investimenti produttivi a lungo termine, impiegando in questo modo ingenti risorse per migliorare la condizione del lavoro nel mondo, per farla uscire progressivamente dal percorso di mercificazione e di precarizzazione che ha caratterizzato la storia del lavoro negli ultimi decenni.
Insomma, dalle analisi di Ronald Dore e di Luciano Gallino torna di attualità la questione delle riforme di struttura, che per lungo tempo sono state messe in soffitta ipotizzando che il capitalismo della finanza e del profitto di breve periodo fossero l’unica opzione possibile. Ora, con la crisi squadernata davanti a noi, si tratta di tornare a disegnare forme di organizzazione economica maggiormente attente ai bisogni collettivi.

by megachip

01 maggio 2009

Radio France: Politica, mafia e l'omertà in tv

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Eric Valmir è il corrispondente, per l'Italia, di Radio France, la radio pubblica francese. Di ritorno da un incontro col giudice Roberto Scarpinato -autore, con Lodato Saverio, de "Il ritorno del principe" (Chiare Lettere)- ha pubblicato sul suo blog questo post, che traduco.

La prima frase mi disorienta: “Non parliamo di Berlusconi, d’accordo?”. Mi disorienta perché due ore prima, davanti al teatro Massimo di Palermo, uno degli attori, sul fronte economico, della lotta contro la mafia mi ha posto la stessa condizione. Io non sono lì per parlare di Berlusconi, ma dei meccanismi di Cosa Nostra.

E con un sorriso d’intesa lo dico pure al mio ospite: “Sono venuto per parlare del suo libro, Il ritorno del principe”. E’ vero... l’entourage di Berlusconi è spesso sospettato di collusione con la Mafia, il suo braccio destro, Marcello Dell’Utri, è stato peraltro condannato nel corso della precedente legislatura, ma nessuna prova ha mai implicato formalmente il Presidente del Consiglio.

Roberto Scarpinato è l’ultimo dei giudici di Palermo. L’ultimo della generazione di Falcone e Borsellino, i due magistrati assassinati nel 1992 e nel 1993. Una memoria storica della giustizia palermitana che ha rifiutato di trasferirsi a Milano o a Verona. Vive sotto scorta. E’ stato lui ad istruire il processo contro Giulio Andreotti per complicità mafiosa. Giulio Andreotti, oggi senatore a vita – e sette volte presidente del Consiglio.

La sentenza di primo grado l’aveva assolto per insufficienza di prove, ma la Corte d’Appello, tre anni più tardi, rovesciò il verdetto. Andreotti colpevole. Il delitto di “associazione a delinquere” venne riconosciuto, ma i fatti, nel frattempo, erano caduti in prescrizione.

Il ritorno del principe non è una descrizione dell’inchiesta Andreotti. Per Roberto Scarpinato, che si esprime con voce lieve, Andreotti non è che il prodotto di un sistema pronto ad ogni prova, e protetto, oggi, da una cornice mediatica. Le conclusioni dell’inchiesta Andreotti non sono mai state riportate troppo chiaramente dalla stampa italiana. Il giudice Scarpinato cita nel suo libro un esempio della copertura mediatica televisiva: Porta a Porta, il talk di successo di Bruno Vespa, su Rai Uno.

Quando Andreotti viene assolto, Bruno Vespa gli consacra una trasmissione trionfale.
Quando viene dichiarato colpevole, non una parola.

Quando il braccio destro di Silvio Berlusconi, Marcello Dell’Utri, si becca nove anni di reclusione per collusione con la Mafia, Porta a Porta propone un’edizione speciale sulla sessualità degli anziani. Stessa cosa in occasione della condanna di Bruno Contrada, numero tre dei servizi segreti italiani, vicino agli ambienti mafiosi.

Questi esempi sono citati quasi a titolo d’ironia nel libro. Il resto dell’intervista scompone tutto un meccanismo che prende avvio da un sistema di tipo feudale. Una minoranza di potenti che mantiene il proprio potere ed i propri interessi ricorrendo ad ogni mezzo. Fino alla violenza e all’omicidio politico.

La Mafia non è un’organizzazione criminale, è una cultura clientelare. La sola che esista, quella di chi dirige. Quella di cui è sempre stata negata l’esistenza fino agli anni 70. La borghesia mafiosa palermitana utilizzava gruppi per imporre un regno di terrore, ma al riparo da ogni sguardo. La Mafia era una leggenda. Tutto cambia con Totò Riina e Bernardo Provenzano, i due leggendari padrini di Corleone, che mettono a segno una strage dopo l’altra. La Mafia diviene un fatto mediatico. Il cinema se ne impadronisce. E il Principe si adatta. La Mafia… sono loro. Il Principe finisce per liquidarli. In galera. Cosa Nostra è finita. Basta crederci!

Il Principe è una classe dirigente fatta di notabili, imprenditori ed eletti. Un corpo a se' stante che risale al XVI secolo. Nel libro, Scarpinato scrive: “Dapprima sono apparsi i metodi mafiosi, poi la Mafia. Nel 1861, al momento dell’unità d’Italia, il 90% della popolazione era analfabeta; nel 1848, il 60%. Non per colpa sua: essa era stata tenuta nell’ignoranza e non aveva mai potuto conoscere i princìpi di una democrazia. E non sono sufficienti cinquant’anni di Repubblica per modificare il corso delle cose, soprattutto quando il Principe sta nel cuore della vita pubblica".

Il Principe ha tremato nel 1992. Il Muro di Berlino italiano. I due terzi della classe politica decimati dall’inchiesta Mani Pulite, i comunisti risparmiati, i giudici al potere - ed allora il Principe decide di usare i metodi forti. Riina e Provenzano uccidono, massacrano. Falcone e Borsellino vengono assassinati. Per vendetta, si dice.

"Non credo", risponde Roberto Scarpinato. “In quel momento, in cui tutto era destabilizzato, il Principe doveva conservare il potere. Un colpo di Stato non era possibile. Dopo il crollo del sistema politico, era stato progettato un attentato mostruoso alla Stadio Olimpico di Roma. La bomba non ha funzionato. Quella carneficina sarebbe rimasta nella Storia. Per l’onda emotiva si sarebbe portato al potere una nuova generazione scelta dal Principe. Falcone e Borsellino avevano scoperto simili manipolazioni politico-mafiose, che avrebbero portato ad una riorganizzazione dello Stato, ed un progetto comparabile ad una sorta di balcanizzazione dell’Italia. Abbiamo ripreso l’inchiesta, ma mai ci è riuscito di produrre le prove necessarie. Tuttavia il Principe voleva dividere l’Italia in tre, affinché ognuno potesse conservare i propri privilegi. Il Nord agganciato alla locomotiva europea, il Centro tecnocratico, e il Sud una sorta di Singapore italiana con tutte e quattro le Mafie al comando.

"Ovviamente -prosegue il giudice- mi si dirà che la mia immaginazione è fertile, e che la Mafia appartiene al passato. Ma io non cerco che la verità: non per altro sono minacciato di morte e non ho più una vita privata. Lo trova normale"?

Abbiamo parlato per due ore, ma il tempo m’è sembrato scorrere molto più in fretta. Tornato nel frastuono della strada palermitana, osservo le facciate color ocra di via Roma. Il sole è dolce, una coppia si bacia, i primi odori dell’estate… L’Italia.

Eric Valmir
traduzione di Daniele Sensi

04 maggio 2009

La decifrazione del potere, oggi



Meyssan-ThierryIntervista a Thierry Meyssan di Alain Soral - «Égalité et Réconciliation»

Megachip propone all’attenzione dei lettori un’intervista a Thierry Meyssan, giornalista e attivista politico francese, attualmente residente in Libano da “rifugiato”. Le sue valutazioni si basano su alcune fonti di facile verificabilità, altre meno, ma rimangono un punto di vista originale sui protagonisti in campo nella Grande Crisi. Nel suo quadro prevalgono le tinte fosche per descrivere la mediazione in seno al sistema politico americano che ha lanciato Obama e ora lo avviluppa. Ma non c’è mai da aspettarsi che il presidente USA emerga da un processo rivoluzionario. È semmai al centro di intrecci molto complessi e anche drammatici, come la fase storica che stiamo attraversando. Anche se liquidare il giudizio su Obama ci appare prematuro, leggiamo comunque con attenzione l’analisi di Meyssan, che descrive lucidamente alcuni scenari poco noti.

E&R : Thierry Meyssan, non la si vede più in Francia, cosa le è successo?

Thierry Meyssan : Vivo attualmente in Libano. Dopo l’arrivo al potere di Nicolas Sarkozy, sono stato direttamente minacciato da alti funzionari francesi. Amici al ministero della difesa, mi hanno informato che gli Stati Uniti mi considerano un pericolo per la loro sicurezza nazionale. Nel quadro della NATO, hanno chiesto ai servizi combinati di neutralizzarmi ed alcuni francesi sembravano volerlo fare con zelo. Ho dunque preso la decisione non soltanto di lasciare la Francia, ma la zona NATO. Dopo avere errato da Caracas a Damasco passando per Mosca, mi sono fermato a Beirut dove mi sono messo al servizio della resistenza.

E&R : Su cosa lavora attualmente?

Thierry Meyssan : Lavoro su un libro d’analisi dell’amministrazione Obama, le sue origini, la sua composizione, i suoi progetti, ecc. una prima edizione, limitata ad alcune copie, sarà indirizzata ad alcuni leader il mese prossimo. Quindi un’edizione per il grande pubblico sarà pubblicata in diverse lingue in autunno. Vivo esclusivamente della mia penna e collaboro a giornali o riviste nel settore della politica internazionale, il Vicino-Oriente e la Russia.

E&R : Quale analisi fa dell’evoluzione della politica americana?

Meyssan-ThierryThierry Meyssan : Oggi si ha un consenso relativo sulla constatazione del fallimento della politica di Bush, il superdispiegamento militare, le conseguenze nocive dell’unilateralità nelle relazioni con gli alleati e la perdita della leadership. A partire dal 2006, James Baker e Lee Hamilton, che presiedevano una commissione creata dal congresso per valutare la strategia in Iraq, hanno militato a favore di un ritorno ad una posizione più prudente. Hanno raccomandato un ritiro dall’Iraq ed un cauto ravvicinamento con i paesi confinanti (Siria, Iran) indispensabile per evitare che la partenza dei GI si muti in una rovina, come in Vietnam. Hanno fatto cadere la testa di Donald Rumsfeld, e hanno imposto un membro della loro commissione, Robert Gates, a succedergli. Ma se hanno congelato la politica “di rimodellamento del grande Medio Oriente”, non sono riusciti a fare dimettere George Bush e Dick Cheney; ragione per cui è stato necessario organizzare una rottura con Barack Obama.
In realtà Obama era stato lanciato nella corsa al senato federale ed alla presidenza fin dal 2004. Ha fatto la sua entrata in scena in occasione della convenzione democratica per il conferimento del mandato a John Kerry. Non era che un parlamentare oscuro dell’assemblea dell’Illinois, ma era già inquadrato e guidato da Abner Mikva e dai suoi uomini (Jews for Obama) e sostenuto dalla finanza anglosassone (Goldman Sachs, JP Morgan, Exelon…). Le multinazionali si preoccupano di perdere quote di mercato a causa dell’aumento dell’antimperialismo (Business for Diplomatic Action), i partigiani della Commissione Baker-Hamilton, i generali in rivolta contro le avventure sregolate dei neo-conservatori, ed altri ancora, si sono gradualmente uniti a lui. I francesi credono, spesso, che il presidente degli Stati Uniti sia eletto al secondo grado dai grandi elettori. È falso. È eletto da un collegio i cui membri sono designati dai maggiorenti. Nel 2000, la Corte suprema ha ricordato che il voto dei cittadini era soltanto consultivo e che il governatore della Florida poteva nominare i delegati del suo Stato al collegio elettorale presidenziale, senza attendere lo spoglio generale delle schede.
In questo sistema oligarchico, c’è un partito unico con due correnti: i repubblicani ed i democratici. Giuridicamente, non formano entità distinte. Così, sono gli stati che organizzano le primarie, non gli pseudo-partiti. Non c’è dunque nulla di sorprendente se Joe Biden e Barack Obama sia entrambi vecchi amici di John McCain. Così McCain, che presiede l’istituto repubblicano internazionale, un organo del dipartimento di Stato incaricato di corrompere i partiti di destra nel mondo; mentre Obama lavora nell’ambito dell’istituto democratico nazionale, presieduto da Madeleine Albright ed incaricato della corruzione dei partiti di sinistra. Insieme, Obama, McCain ed Albright hanno partecipato alla destabilizzazione del Kenia, nel corso di un’operazione della CIA per imporre un cugino di Obama come primo ministro.
Tutto ciò per dire che Obama non viene dal nulla. È uno specialista dell’azione segreta e della sovversione. È stato reclutato per fare un lavoro ben preciso. Se gli obiettivi della coalizione eteroclita che lo sostiene sono globalmente gli stessi, non esistono consensi nel dettaglio tra le sue componenti. Questo spiega la battaglia incredibile alla quale hanno dato luogo le nomine, e l’aspetto sempre equivoco dei discorsi di Obama.

Quattro poli sono in battaglia:

Il polo della difesa, attorno a Brent Scowcroft, e ai generali oppositori di Rumsfeld e certamente di Robert Gates, oggi il vero padrone a Washington. Raccomandano la fine della privatizzazione dell’esercito, un’uscita “onorevole” dall’Iraq, ma la prosecuzione dello sforzo statunitense in Afganistan, per non dare l’impressione della rotta, e infine un accordo con gli iraniani ed i siriani. Per loro, la Russia e la Cina restano concorrenti che occorre isolare e paralizzare. Affrontano la crisi finanziaria come una guerra durante la quale perderanno dei programmi d’armamento e diminuiranno le dimensioni delle forze armate, ma devono mantenere una superiorità relativa. Poco importa se perdono in potenza, se restano i più forti.

I dipartimenti del Tesoro e del Commercio, attorno a Tim Geithner e Paul Volcker, protetti da Rockefeller. Sono seguaci della Pilgrim’s Society (Mont Pélerin Society - - Società del Monte Pellegrino) e sono sostenuti dal Gruppo dei Trenta, dal Peterson Institute e dalla Commissione Trilaterale. Sono sostenuti anche dalla regina Elisabetta II e vogliono salvare allo stesso tempo Wall Street e City. Per loro la crisi è un duro colpo poiché i redditi delle oligarchie finanziarie sono in caduta libera, ma è soprattutto l’agognata occasione per concentrare il capitale e per fare ristagnare le resistenze alla globalizzazione. Sono obbligati a ridurre temporaneamente il loro tenore di vita per non suscitare rivoluzioni sociali, ma possono simultaneamente arricchirsi riacquistando infrastrutture industriali per un boccone di pane. A lungo termine, hanno il progetto di instaurare - non un’imposta mondiale sul diritto di respirare, sarebbe grossolano, ma una tassa globale sulla CO2 ed una borsa dei diritti d’emissione, cosa che fornisce un ritorno, sembrando un discorso ecologico. Contrariamente al Pentagono, militano per un’alleanza con la Cina, soprattutto grazie al fatto che detiene il 40% dei buoni del tesoro USA, ma anche per impedire l’emergere di un blocco economico estremo-asiatico centrato sulla Cina, accaparrandosi le materie prime africane.

Il polo del dipartimento di Stato attorno a Hillary Clinton, una cristiana fondamentalista, membro di una setta molto segreta, la Fellowship Foundation (detta “La Famiglia”). È il rifugio dei sionisti, l’ultima riserva dei neo-conservatori in via di estinzione. Raccomandano un sostegno incondizionato ad Israele, con una punta di realismo, poiché sanno che l’ambiente è cambiato. Non sarà più possibile bombardare il Libano come nel 2006, poiché Hezbollah dispone ora di armi antiaeree efficienti. Non sarà più possibile penetrare a Gaza, come nel 2008, poiché Hamas ha acquisito i missili anticarro Kornet. E se gli Stati Uniti hanno difficoltà a pagare le fatture di Tel-Aviv, è poco probabile che i Sauditi possano compensarvi a lungo termine. Occorre dunque guadagnare tempo, se è il caso con alcune concessioni, e trovare un’utilità strategica ad Israele. La principale missione della signora Clinton è migliorare l’immagine degli Stati Uniti, neanche facendo relazioni pubbliche (cioè giustificando la politica di Washington), ma con la pubblicità (cioè elogiando le qualità reali o immaginarie del modello USA). In questo contesto, i sionisti dovrebbero spingere il progetto Korbel-Albright-Rice volto alla trasformazione dell’ONU in una vasta tribuna impotente e alla creazione di un’organizzazione concorrente, la Comunità delle Democrazie, sostenuta dal suo braccio armato, la NATO. Attualmente, sono occupati a sabotare la conferenza di Durban II che, anziché celebrare “la sola democrazia del Vicino-Oriente”, denuncia il regime di segregazione al potere a Tel-Aviv. Con il segretario di Stato aggiunto, James Steinberg, vedono la crisi finanziaria come un Blitzkrieg. Ci sarà molto danno, ma è il momento di distruggere i concorrenti e prendere di sorpresa le leve di comando. Il loro problema non è accumulare ricchezze con acquisti e fusioni, ma imporre i loro uomini ovunque nel mondo, nei ministeri delle finanze ed alla testa degli istituti bancari.

Infine il Consiglio nazionale di sicurezza su cui esercita influenza Zbignew Brzezinski, che fu il professore di Obama alla Columbia. Il consiglio dovrebbe abbandonare il suo tradizionale ruolo di coordinamento per diventare un vero centro di comando. È diretto dal Generale Jones, che è stato comandante supremo della NATO e ha battezzato l’Africa Command. Per loro, la crisi finanziaria è una crisi della strategia imperiale. È l’indebitamento faraonico sottoscritto per finanziare la guerra in Iraq che ha precipitato il crollo economico degli Stati Uniti. Contrariamente al 1929, la guerra non sarà la soluzione, è il problema. Occorre dunque condurre tre azioni simultanee: forzare i capitali a rientrare negli Stati Uniti distruggendo i paradisi fiscali concorrenti e destabilizzando le economie dei paesi sviluppati (come è stato provato in Grecia); mantenere l’illusione della potenza militare USA proseguendo l’occupazione dell’Afganistan; e soffocare le alleanze nascenti tra Siria-Iran-Russia e, soprattutto, Russia-Cina (Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai). Il Consiglio privilegerà ogni forma d’azione clandestina, per dare al Pentagono il tempo necessario per la sua riorganizzazione.

Obama prova a soddisfare tutti, da qui la confusione ambientale.

E&R : Come vede evolvere la situazione nel Vicino-Oriente nei confronti di questa nuova amministrazione?

Thierry Meyssan : C’è consenso su un punto: Washington deve fare abbassare la tensione in questa regione, senza peraltro abbandonare Israele. Due opzioni sono sul tavolo, ma indipendentemente da quella che sarà attuata, è necessario che siano firmate dalle correnti più radicali. È per questo che Washington ha incoraggiato un governo Netanyahu-Lieberman in Israele e lascerà Hamas e Hezbollah vincere le prossime elezioni nei territori palestinesi ed in Libano.
Il primo scenario, immaginato da Zbignew Brzezinski prevede il riconoscimento simultaneo di uno Stato palestinese e la naturalizzazione dei profughi palestinesi nei paesi in cui si trovano. Con grandi quantità di denaro elargito per compensare gli stati che adottano i profughi e per sviluppare Gaza e la Cisgiordania. Inoltre, il mantenimento di questa pace sarebbe garantito da una forza d’interposizione della NATO, sotto mandato dell’ONU. Questo piano ha il sostegno di Nicolas Sarkozy.
Il secondo approccio è più duro per i due protagonisti. Raccomanda di forzare gli israeliani ad abbandonare le loro rivendicazioni più esagerate; mentre obbligherebbe i palestinesi a considerare la Giordania come la loro patria naturale. Sarebbe una pace più economica per Washington e realizzabile a lungo termine, anche se sarebbe difficile d’accettare per gli uni e per gli altri ed implicherebbe, en passant, la fine della monarchia hashemita. Questa formula è in particolare sostenuta dall’ambasciatore Charles Freeman, che la lobby sionista ha appena costretto a dimettersi della presidenza del Consiglio Nazionale dell’Intelligence, ma che dispone di solidi appoggi nell’apparato dello Stato.

E&R : Secondo lei, quale formula s’imporrà?

Thierry Meyssan : Nessuna, perché la crisi economica sarà di una tale ampiezza che condurrà, a parer mio, allo smembramento degli Stati Uniti e alla fine dello Stato d’Israele. Washington dovrà rivedere di nuovo al ribasso le sue ambizioni. Probabilmente si piegherà al mantenimento dello status quo. La sua azione si limiterà ad impedire ai nuovi attori di prendere il suo posto.

E&R : Cosa prevede a titolo personale?

Thierry Meyssan : Cinque milioni di ebrei, nove milioni di palestinesi, e le altre popolazioni della Palestina, devono trovarsi nell’ambito di uno Stato unico, basato sul principio “un uomo, un voto”. È del resto a parer mio la sola soluzione per evitare l’espulsione degli ebrei. Occorre ricordarsi della segregazione in Sudafrica, che secondo alcuni, la sua messa in discussione avrebbe causato l’espulsione o la distruzione dei bianchi. Si conosce il seguito. La morte di Arafat non è un ostacolo, poiché vi sono altri Mandela in Palestina. Il vero problema è trovare un De Clerk israeliano. Hamas sosterrebbe senza dubbio tale soluzione, poiché avrebbe l’approvazione del popolo. Più si rimandano le scadenze, più si rende difficile una soluzione pacifica. La CIA studia, del resto, lo scenario catastrofico di una sollevazione sanguinosa che caccerebbe 2 milioni di ebrei verso gli Stati Uniti.

E&R : E secondo lei, la Siria e l’Iran? Pensa che la guerra sia possibile?

Thierry Meyssan : Non penso che gli accordi segreti conclusi tra i militari USA, la Siria e l’Iran siano rimessi in discussione: gli Stati Uniti ne non hanno né i mezzi né, tantomeno, la volontà. In primo luogo, sanno che la minaccia nucleare iraniana è un’intossicazione fabbricata dopo che avevano inventato le armi di distruzione di massa irachene. D’altra parte, l’Imam Khomeiny aveva condannato come immorali la fabbricazione e l’impiego della bomba atomica, e non si vede quali gruppi sarebbero capaci, in Iran, a superare tale ordine. In secondo luogo, la politica di George Bush ha spinto Teheran e Damasco nelle braccia di Mosca che prepara, del resto, una grande conferenza internazionale sulla pace nel Vicino-Oriente. È ormai una priorità per Washington smantellare quest’alleanza nascente e tentare di riportare l’Iran e la Siria nella sua orbita. È certamente probabile che questi ultimi faranno alzare le offerte e si permetteranno di oscillare da un lato o dell’altro. Infine, gli Stati Uniti hanno la sensazione dell’urgenza. La loro economia crolla e forse non avranno per molto la possibilità di difendere Israele a questo prezzo. Tanto più che Tsahal non è più ciò che era. L’esercito israeliano non è più invincibile. Ha accumulato fallimenti in Libano, a Gaza ed anche, non lo si dimentichi, in Georgia.

E&R : Lei vive, come abbiamo visto, in Libano; quale è la situazione laggiù?

Thierry Meyssan : L’Alleanza Nazionale raccolta attorno alla Corrente Patriottica Libera di Michel Aoun ed a Hezbollah di Hassan Nasrallah vincerà le prossime elezioni, senza dubbio, se possono tenersi liberamente. La famiglia Hariri sopravviverà solo finché le grandi potenze conteranno su di essa per prelevare imposte e fare pagare al popolo il debito estero del Libano, proprio quando questa proviene, per metà, dell’arricchimento illecito degli Hariri. Il criminale di guerra Walid Joumblatt - vicepresidente dell’Internazionale Socialista, e scusate se è poco, o anche i neo-fascisti come l’assassino patologico Samir Geagea, saranno liberati dai loro sponsor. Questi sgherri hanno perso la loro efficacia e non sono più presentabili.
Il tribunale speciale per il Libano, incaricato di istruire la causa Hariri e diversi altir assassini politici, o si farà dimenticare, o darà luogo ad un coup de théâtre. È stato concepito come una macchina per accusare la Siria, metterla al bando della Comunità internazionale e designarla come obiettivo militare. So che nuove prove sono giunte nelle ultime settimane. Discolpano la Siria e mettono l’Arabia Saudita alla sbarra. Spetta a questa aula valutare la ripresa del controllo dell’Arabia Saudita da parte di re Abdallah e il licenziamento dei ministri che hanno finanziato la lotta contro Hezbollah ed Hamas.
Per ritornare alle elezioni legislative libanesi di giugno, la questione è sapere se ci si orienta verso una vittoria della resistenza al 55 o al 70%. Ciò dipenderà principalmente dalla comparsa o meno, di una nuova forza scissionista cristiana raccolta attorno al presidente Suleiman. In definitiva, i collaboratori degli Stati Uniti e d’Israele negozieranno, forse, un compromesso finché sono nella posizione di farlo. Ci si dirigerebbe allora verso la designazione di un miliardario come primo ministro (Saad Hariri o un altro), ma alla testa di un governo interamente controllato dalla resistenza nazionale. Sarebbe una formula molto orientale: gli onori e la luce per i perdenti, mentre il vero potere resterebbe nell’ombra. L’interesse di questa soluzione sarebbe delegittimare ogni intervento militare contro il Libano.

E&R : Ormai è molto conosciuto in Russia, dove ha raccolto quasi 30 milioni di telespettatori in occasione della trasmissione sull’11 settembre. Come valuta la situazione della Russia?

Thierry Meyssan : Paradossalmente, nonostante la vittoria militare e diplomatica in Georgia, la Russia attraversa un passaggio difficile. Dopo la guerra del Caucaso, le banche anglosassoni hanno incoraggiato gli oligarchi a punire Mosca, muovendo i loro capitali verso Ovest. Quindi, gli anglosassoni hanno spinto i dirigenti ucraini a tradire il loro interesse nazionale e tagliare i gasdotti in occasione dei negoziati sui prezzi. Il Cremlino, che credeva di essere padrone del gioco e d’avere l’iniziativa di questi tagli, s’è fatto intrappolare. La perdita del fatturato di due mesi ha divorato le riserve monetarie. Il tutto ha causato una caduta rovinosa del rublo, mentre la crisi mondiale fa abbassare il prezzo delle materie prime e dunque i redditi della Russia.
Medvedev e Putin hanno valutato questa situazione di debolezza con molto sangue freddo. Conoscono i vantaggi di cui dispongono, in particolare la superiorità tecnologica della loro industria degli armamenti su quella degli Stati Uniti. Sono convinti che gli Stati Uniti non si riprenderanno dalla crisi, ma si porranno, a medio termine, come il Patto di Varsavia e l’URSS degli anni 1989-1991. Sperano dunque di invertire i ruoli.
Nonostante il periodo di vacche magre, equipaggiano le loro forze armate con nuovi materiali, ed aspettano senza agitarsi il crollo dell’Ovest. Pubblicamente o di nascosto, secondo i casi, riforniscono con le armi più recenti disponibili, tutti gli avversari degli Stati Uniti, dal Vicino-Oriente, come ho appena detto, al Venezuela. Economicamente, hanno fatto la scelta di costruire rotte commerciali verso la Cina, più che verso l’Europa occidentale, di cui osservo con rammarico il controllo ostinato degli anglosassoni. Questa situazione può avere importanti conseguenze sul piano interno, dove si affrontano la vecchia e la nuova generazione. I vecchi hanno un forte tropismo americano, mentre i giovani mostrano patriottismo. Paradossalmente, le élite di San Pietroburgo sono storicamente favorevoli ad un ancoraggio europeo della Russia, al contrario dei Moscoviti, la cui visione è più eurasiatica. Ma Putin e Medvedev, tutti due di San Pietroburgo, condividono questa visione eurasiatica. Sognano la Russia come protettore dell’Islam, che è entrata, come osservatore, nell’Organizzazione della Conferenza Islamica. Pur valorizzando il patriarcato ortodosso, hanno messo dei musulmani in numerosi posti di alta responsabilità, in contrasto con la Francia è ovvio.
Anche se il trauma dello smantellamento della Jugoslavia e delle due guerre di Cecenia resta alto, e l’onda del razzismo che ne è seguita non è ancora controllata, la Russia ha fatto la scelta di civiltà ed ha preso il cammino della sintesi tra l’Europa e l’Asia. Se la Russia riesce ad attraversare, nei prossimi anni, tutte le gravi turbolenze internazionali senza esserne troppo influenzata, si troverà nella posizione dell’arbitro in un mondo multipolare.

E&R : Continuiamo questo interessante giro del mondo geopolitico con la Cina… Mi interrogo sulla loro strategia. Perché questi acquisti massicci di buoni del tesoro USA?

Thierry Meyssan : Pechino ha preso l’iniziativa di un ravvicinamento con Mosca attraverso l’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai. Molti contenziosi sono stati saldati. In cambio, i Russi hanno accettato di vendere ai cinesi l’energia a una tariffa preferenziale ed hanno chiesto un controllo più rigoroso dell’emigrazione cinese in Siberia. La logica avrebbe voluto che i due grandi si rafforzino mutuamente rifiutando il dollaro come valuta di scambio internazionale. Ma a Pechino ripugna a scegliere il suo campo e non vuole irritare Washington. I cinesi conducono una strategia morbida di rafforzamento delle loro alleanze globali. Ciò mi sembra alquanto strano, poiché ciò potrebbe costare loro caro. Gli USA potrebbero trascinarli nel loro prevedibile crollo.
Au passage, permettez-moi de dire mon agacement face à la stupide dénonciation des violations des Droits de l'homme en Chine. Ils sont sans aucun doute possible beaucoup mieux respectés par Pékin que par Washington—ce qui n'est pas une excuse pour ne pas s'améliorer, mais relativise ces accusations—. Et qu'on arête de dire que le Tibet a été annexé par la Chine en 56, alors qu'il a été repris par les communistes chinois aux Chinois de Tchang Kaï-Chek.
En passant, mi permetta di dirle della mia irritazione di fronte alla stupida denunzia sulle violazioni dei diritti dell’uomo in Cina. Sono senza alcun possibile dubbio molto meglio rispettati da Pechino che da Washington, il che non è una scusa per non migliorarsi, ma relativizza queste accuse. E che ci si ferma dal dire che il Tibet è stato annesso dalla Cina nel 1956, mentre è stato ripreso dai comunisti cinesi ai cinesi di Chang Kai-shek.

E&R : Una parola sul Sudamerica prima di ritornare sulla Francia?

Thierry Meyssan : Oltre alla tendenza all’unificazione, si sono affermate delle strategie di fronte all’imperialismo. Ma l’indebolimento continuo degli Stati Uniti crea una nuova situazione e può incitare alcuni a scoprire le proprie carte. La preoccupazione della protezione delle economie nazionali ritorna in primo piano. Paradossalmente, gli stati che soffrono per le sanzioni sono meglio armati per resistere alla crisi. È in particolare il caso di Cuba, del Venezuela, della Bolivia o dell’Ecuador – così come è il caso della Siria e dell’Iran nel Vicino-Oriente. Garantisco che nuove istituzioni nazionali si svilupperanno, parallelamente alla Banca del Sud. È la rivalsa della Storia.

E&R : La Francia infine, o più esattamente la Francia di Sarkozy…

Thierry Meyssan : La Francia è una vecchia nazione che non si può manovrare in qualsiasi direzione. Ha un passato glorioso e s’identifica con un ideale. Spesso se ne allontana, ma sempre vi ritorna. Attraversa oggi un cattivo periodo, poiché è governata “dal partito dello straniero”. I suoi dirigenti fanno la scelta peggiore, nel periodo peggiore. Hanno deciso di mettere l’esercito agli ordini della NATO, concretamente sotto quello del Generale Bantz J. Craddock, il criminale che creò il centro di tortura di Guantanamo. E questo tradimento, è stato deciso nel momento in cui gli Stati Uniti affondano nella crisi. Mettono la Francia al rimorchio di una barca che affonda, col rischio di trascinarla nel suo naufragio. Il loro servilismo non li spinge soltanto a rendere vassalle le forze armate, ma anche a trasformare a fondo la società francese, per clonarla “sul modello” americano. È vero nel settore economico, con la rimessa in discussione dei servizi pubblici, ma anche nei settori della giustizia o dell’istruzione, della discriminazione positiva e avanti di questo passo.
Sarkozy non è né di destra, né di sinistra, ma imita gli yankee. Come ho spiegato in modo dettagliato in un dossier della rivista russa Profil’ [1], soddisfa tre forze: gli anglosassoni, la mafia e la banca Rothschild. Questa gente è cosciente, da molti anni, della dispnea degli Stati Uniti e pensa di garantire il potere dell’oligarchia finanziaria globale riequilibrando l’impero: avrebbe due pilastri, uno statunitense e uno europeo, mentre il Regno Unito sarebbe la cerniera. È questo il progetto servito da Nicolas Sarkozy fin dalla sua elezione. È lui che ha lo condotto a rompere l’asse franco-tedesco per avvicinarsi agli inglesi, e che quindi l’ha condotto a proporre diverse riorganizzazioni dell’Unione europea, in particolare la creazione di un governo economico. Questo avrà la conseguenza di renderci molto più vulnerabili alle convulsioni USA.
Tuttavia, la Francia è sempre ben attesa, e non soltanto nel mondo francofono. Siamo un paese fuori norma che ha proclamato la sovranità popolare. Si sottovaluta completamente, in Francia, il livello di ridicolo di Nicolas Sarkozy e della sua cricca agli occhi del resto del mondo. Sarkozy appare come un vanitoso esagitato, un instabile farcito di tic, che fa la mosca cocchiera in tutti i possibili conflitti internazionali, e che serve, a sue spese, da pesce-pilota nei mutamenti dell’umore di Washington.
Ricostruire un’alternativa, ahimè, richiederà tempo, ma non è una ragione per rinunciarvi.

La finanza pigliatutto con i soldi degli altri

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Ora che i buoi sono scappati dalla stalla, le librerie sono piene di dotte riflessioni sui danni della finanziarizzazione sull’economia mondiale. Non sono però molti gli analisti che possono rivendicare coerenza di pensiero nella interpretazione dei fatti che hanno condotto alla attuale crisi.
Ronald Dore e Luciano Gallino sono tra quelli che, in tempi non sospetti, mentre prevaleva ancora il pensiero unico del liberismo dominante, avevano lucidamente messo in evidenza le distorsioni che si stavano determinando nella organizzazione delle economie e dei sistemi sociali, per effetto della prevalenza di un modello di capitalismo basato sulla deregolamentazione, sullo smantellamento degli istituti di welfare e sulla dominanza della rendita finanziaria rispetto all’industria.
Proprio per questa ragione, leggere i loro recenti contributi può essere un utile esercizio, non solo per approfondire l’analisi sui fattori fondamentali alla base della crisi economica in corso, ma anche per cercare di capire quale ricetta venga proposta ora da parte di chi, con maggiore credibilità rispetto ad altri, aveva colto i segni di una condizione di insostenibilità nascosta tra le pieghe della globalizzazione a senso unico.
Ronald Dore, nelle sue analisi sui diversi modelli di capitalismo, aveva già da tempo evidenziato le debolezze strutturali del sistema anglosassone, fondato sulla instabilità di meccanismi finanziari fortemente deregolamentati, rispetto al sistema europeo di welfare, proprio negli anni in cui, a cavallo tra il vecchio ed il nuovo secolo, si operava una sistematica demolizione delle reti di protezione sociale che sono state alla base del capitalismo ben temperato, tipico dell’approccio sociale dell’Europa continentale. Tra capitalismo di borsa e capitalismo di welfare, Dore chiedeva di scegliere la seconda opzione, quando invece il pensiero dominante esprimeva la convinzione di una irreversibile deriva verso il modello anglosassone.


Nel suo recente libro ("Finanza pigliatutto", Il Mulino, 2009, 9 euro) Ronald Dore torna su questi temi, partendo da una analisi delle ragioni strutturali che hanno condotto, nei passati decenni, ad una prevalenza della finanza sull’industria. Innanzitutto, occorre sottolineare che le attività finanziarie hanno assicurato, per diversi decenni, un livello di redditività tale da attrarre investimenti e risorse, in un processo di causazione cumulativa che è stato poi alla base della bolla finanziaria, alimentata dalla creazione di prodotti finanziari a rischio così elevato da non poter essere nemmeno dimensionato.
Analizzando la serie storica del reddito nazionale statunitense, Ronald Dore mostra che, fino al 1950, la quota dei profitti delle imprese finanziarie sul totale dei profitti era pari in media al 9,5%. Da allora è cominciata una accelerazione, sino a raggiungere il valore massimo nel 2002 (45%), con una successiva stabilizzazione ed un leggero arretramento negli anni più recenti, dovuto al manifestarsi dei primi segni della crisi finanziaria internazionale.
Si è affermata, nel capitalismo anglosassone prima e poi nel sistema economico internazionale, una cultura azionaria fondata sul profitto di breve periodo, sulla ricerca di opportunità di arricchimento rapido, sulla capacità di cogliere opportunità tattiche di massimizzazione della redditività rispetto a progetti di investimenti industriale a redditività differita. Gli stessi governi hanno promosso questa tendenza verso una apparente democratizzazione dell’azionariato, nella convinzione che un’offerta abbondante di capitale azionario avrebbe promosso l’innovazione e quindi la competitività. Nelle scelte delle imprese hanno cominciato a contare in modo decisivo le pressioni degli investitori istituzionali, che muovevano masse enormi di capitali alla continua ricerca della migliore redditività, schiacciando la prospettiva temporale del profitto atteso, sino a far governare in modo indiscusso il rendiconto trimestrale rispetto persino al bilancio annuale dell’impresa.

Sulla stessa lunghezza d’onda si colloca la riflessione di Luciano Gallino, in "Con i soldi degli altri", (Einaudi, 2009, euro 17). I dati del processo di finanziarizzazione sono impressionanti: alla fine del 2007 il Pil del mondo ha superato i 54 trilioni di dollari, mentre la capitalizzazione delle borse mondiali ammontava a 61 trilioni e le obbligazioni pubbliche e private superavano i 60 trilioni. A giugno del 2008 il valore nominale della quota di derivati trattati nelle borse toccavano gli 80 trilioni di dollari, mentre quelli scambiati fuori mercato sfiorava i 684 trilioni: la somma dei derivati era quindi complessivamente pari a 764 trilioni di dollari, pari a 14 volte il Pil del mondo.
Il gioco della finanziarizzazione ha tracimato verso l’economia reale, influenzando le strategie delle imprese in modo decisivo e spostando la struttura dei risparmi degli individui verso scelte fortemente rischiose, spesso senza informare correttamente i cittadini sulle conseguenze di questi cambiamenti nelle strategie di portafoglio. I piani pensionistici sono passati su larga scala da schemi a beneficio definito a piani a contributo definito: mentre nel primo caso il contribuente sa di poter contare su un valore certo del proprio corrispettivo pensionistico, nel secondo tutto dipende dalla volatilità dei rendimenti assicurati dai fondi pensione.
Si è innescata in questo modo una ulteriore spirale perversa di avvitamento che oggi incide fortemente sulla crisi delle imprese industriali. Basti citare il caso della General Motors, la quale si è trovata nel 2009 ad avere solo 85.000 occupati negli Stati Uniti, mentre ai suoi fondi pensione fanno capo un milione di ex-dipendenti. Nel 1962 la GM aveva 460.000 dipendenti, la maggior parte in Usa, ed appena 40.000 pensionati. Nella previdenza privata di stampo anglosassone, l’incrocio tra squilibrio strutturale di dipendenti attivi e numero dei pensionati, unito alla volatilità al ribasso dei rendimenti delle attività finanziarie costituisce una mina vagante i cui effetti non sono ancora pienamente dispiegati.
Mentre cambiava radicalmente la struttura dei mercati finanziari, non si sono introdotte regole adeguate a fronteggiare con disciplina le trasformazioni intervenute. E oggi le banconote e le monete costituiscono solo il 3% del denaro circolante, mentre il restante 97% è interamente simbolico, a cominciare da quello depositato nei conti correnti o sui libretti di risparmio. Siamo in presenza di una mutazione genetica del sistema bancario in assenza di un tessuto di norme a protezione degli altissimi rischi che sono stati assunti in nome solo del profitto di brevissimo periodo. Scrive Gallino: “La funzione originaria del sistema bancario stava nel prendere in prestito da molti clienti piccole somme a un dato tasso di interesse, al fine di prestare grosse somme a pochi a un tasso di interesse più alto – contando sul fatto che è improbabile che i molti accorrano tutti assieme, nello stesso momento, a ritirare i loro depositi. Da tempo, per vari aspetti, tale funzione è caduta in secondo piano a fronte della possibilità assai più lucrosa di trasformare i prestiti in titoli commerciabili”.
Luciano Gallino propone una ricetta che consiste nell’indirizzare i capitali nelle mani degli investitori istituzionali verso investimenti socialmente responsabili, ed innanzitutto nella produzione di beni pubblici, a cominciare da infrastrutture di vario genere, dalle scuole ai trasporti. Inoltre, dovrebbero essere privilegiati investimenti produttivi a lungo termine, impiegando in questo modo ingenti risorse per migliorare la condizione del lavoro nel mondo, per farla uscire progressivamente dal percorso di mercificazione e di precarizzazione che ha caratterizzato la storia del lavoro negli ultimi decenni.
Insomma, dalle analisi di Ronald Dore e di Luciano Gallino torna di attualità la questione delle riforme di struttura, che per lungo tempo sono state messe in soffitta ipotizzando che il capitalismo della finanza e del profitto di breve periodo fossero l’unica opzione possibile. Ora, con la crisi squadernata davanti a noi, si tratta di tornare a disegnare forme di organizzazione economica maggiormente attente ai bisogni collettivi.

by megachip

01 maggio 2009

Radio France: Politica, mafia e l'omertà in tv

borsellino_falcone

Eric Valmir è il corrispondente, per l'Italia, di Radio France, la radio pubblica francese. Di ritorno da un incontro col giudice Roberto Scarpinato -autore, con Lodato Saverio, de "Il ritorno del principe" (Chiare Lettere)- ha pubblicato sul suo blog questo post, che traduco.

La prima frase mi disorienta: “Non parliamo di Berlusconi, d’accordo?”. Mi disorienta perché due ore prima, davanti al teatro Massimo di Palermo, uno degli attori, sul fronte economico, della lotta contro la mafia mi ha posto la stessa condizione. Io non sono lì per parlare di Berlusconi, ma dei meccanismi di Cosa Nostra.

E con un sorriso d’intesa lo dico pure al mio ospite: “Sono venuto per parlare del suo libro, Il ritorno del principe”. E’ vero... l’entourage di Berlusconi è spesso sospettato di collusione con la Mafia, il suo braccio destro, Marcello Dell’Utri, è stato peraltro condannato nel corso della precedente legislatura, ma nessuna prova ha mai implicato formalmente il Presidente del Consiglio.

Roberto Scarpinato è l’ultimo dei giudici di Palermo. L’ultimo della generazione di Falcone e Borsellino, i due magistrati assassinati nel 1992 e nel 1993. Una memoria storica della giustizia palermitana che ha rifiutato di trasferirsi a Milano o a Verona. Vive sotto scorta. E’ stato lui ad istruire il processo contro Giulio Andreotti per complicità mafiosa. Giulio Andreotti, oggi senatore a vita – e sette volte presidente del Consiglio.

La sentenza di primo grado l’aveva assolto per insufficienza di prove, ma la Corte d’Appello, tre anni più tardi, rovesciò il verdetto. Andreotti colpevole. Il delitto di “associazione a delinquere” venne riconosciuto, ma i fatti, nel frattempo, erano caduti in prescrizione.

Il ritorno del principe non è una descrizione dell’inchiesta Andreotti. Per Roberto Scarpinato, che si esprime con voce lieve, Andreotti non è che il prodotto di un sistema pronto ad ogni prova, e protetto, oggi, da una cornice mediatica. Le conclusioni dell’inchiesta Andreotti non sono mai state riportate troppo chiaramente dalla stampa italiana. Il giudice Scarpinato cita nel suo libro un esempio della copertura mediatica televisiva: Porta a Porta, il talk di successo di Bruno Vespa, su Rai Uno.

Quando Andreotti viene assolto, Bruno Vespa gli consacra una trasmissione trionfale.
Quando viene dichiarato colpevole, non una parola.

Quando il braccio destro di Silvio Berlusconi, Marcello Dell’Utri, si becca nove anni di reclusione per collusione con la Mafia, Porta a Porta propone un’edizione speciale sulla sessualità degli anziani. Stessa cosa in occasione della condanna di Bruno Contrada, numero tre dei servizi segreti italiani, vicino agli ambienti mafiosi.

Questi esempi sono citati quasi a titolo d’ironia nel libro. Il resto dell’intervista scompone tutto un meccanismo che prende avvio da un sistema di tipo feudale. Una minoranza di potenti che mantiene il proprio potere ed i propri interessi ricorrendo ad ogni mezzo. Fino alla violenza e all’omicidio politico.

La Mafia non è un’organizzazione criminale, è una cultura clientelare. La sola che esista, quella di chi dirige. Quella di cui è sempre stata negata l’esistenza fino agli anni 70. La borghesia mafiosa palermitana utilizzava gruppi per imporre un regno di terrore, ma al riparo da ogni sguardo. La Mafia era una leggenda. Tutto cambia con Totò Riina e Bernardo Provenzano, i due leggendari padrini di Corleone, che mettono a segno una strage dopo l’altra. La Mafia diviene un fatto mediatico. Il cinema se ne impadronisce. E il Principe si adatta. La Mafia… sono loro. Il Principe finisce per liquidarli. In galera. Cosa Nostra è finita. Basta crederci!

Il Principe è una classe dirigente fatta di notabili, imprenditori ed eletti. Un corpo a se' stante che risale al XVI secolo. Nel libro, Scarpinato scrive: “Dapprima sono apparsi i metodi mafiosi, poi la Mafia. Nel 1861, al momento dell’unità d’Italia, il 90% della popolazione era analfabeta; nel 1848, il 60%. Non per colpa sua: essa era stata tenuta nell’ignoranza e non aveva mai potuto conoscere i princìpi di una democrazia. E non sono sufficienti cinquant’anni di Repubblica per modificare il corso delle cose, soprattutto quando il Principe sta nel cuore della vita pubblica".

Il Principe ha tremato nel 1992. Il Muro di Berlino italiano. I due terzi della classe politica decimati dall’inchiesta Mani Pulite, i comunisti risparmiati, i giudici al potere - ed allora il Principe decide di usare i metodi forti. Riina e Provenzano uccidono, massacrano. Falcone e Borsellino vengono assassinati. Per vendetta, si dice.

"Non credo", risponde Roberto Scarpinato. “In quel momento, in cui tutto era destabilizzato, il Principe doveva conservare il potere. Un colpo di Stato non era possibile. Dopo il crollo del sistema politico, era stato progettato un attentato mostruoso alla Stadio Olimpico di Roma. La bomba non ha funzionato. Quella carneficina sarebbe rimasta nella Storia. Per l’onda emotiva si sarebbe portato al potere una nuova generazione scelta dal Principe. Falcone e Borsellino avevano scoperto simili manipolazioni politico-mafiose, che avrebbero portato ad una riorganizzazione dello Stato, ed un progetto comparabile ad una sorta di balcanizzazione dell’Italia. Abbiamo ripreso l’inchiesta, ma mai ci è riuscito di produrre le prove necessarie. Tuttavia il Principe voleva dividere l’Italia in tre, affinché ognuno potesse conservare i propri privilegi. Il Nord agganciato alla locomotiva europea, il Centro tecnocratico, e il Sud una sorta di Singapore italiana con tutte e quattro le Mafie al comando.

"Ovviamente -prosegue il giudice- mi si dirà che la mia immaginazione è fertile, e che la Mafia appartiene al passato. Ma io non cerco che la verità: non per altro sono minacciato di morte e non ho più una vita privata. Lo trova normale"?

Abbiamo parlato per due ore, ma il tempo m’è sembrato scorrere molto più in fretta. Tornato nel frastuono della strada palermitana, osservo le facciate color ocra di via Roma. Il sole è dolce, una coppia si bacia, i primi odori dell’estate… L’Italia.

Eric Valmir
traduzione di Daniele Sensi