10 maggio 2009

Sette linee guida contro la crisi

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Tali linee guida vengono a mente mentre si assimilano i vari piani di salvataggio, recupero, stimolo e garanzia che arrivano dal governo Obama per rallentare e riformare un'economia scheggiata e frantumata.
Se gli "Obamites" non decidono ora (quando il tempo politico è maturo) di mettere in moto le forze di deterrenza e prevenzione, i capitalisti da casinò di domani saranno ancora in grado di destabilizzare la nostra economia.
L'altro giorno io vidi Alan Greenspan, ex presidente della Federal Reserve, proprio mentre prediceva un altro ciclo di avventatezza in quasi quindici anni.
Ma lui chiamò questo "natura umana" non capitalismo da casinò.
Ecco sette linee guida che sottolineano quello che Washington non sta facendo per prevenire un altro ciclo di avidità e crimini fatti dai pochi di Wall Street contro i molti innocenti che vivono nella nostra nazione.
1. Dove sono le risorse per una costrizione legale ampia contro i truffatori di Wall Street, gli imbroglioni e i fornitori di pratiche ingannevoli e costose?
Non c'è bisogno di aggiungere da due a trecento milioni di dollari per più agenti FBI, pubblici ministeri e procuratori per i crimini aziendali al ministero della giustizia per ottenere le multe e le riparazioni che supereranno di molto i dollari che sono spesi per le forze di legge e ordine?
Gli americani vogliono giustizia. Vogliono il carcere non le liberazioni facili per tali truffatori.
Guardate a quanti dei truffati si presentarono proprio nell'inverno di New York per portare a Bernard Madoff un loro pensiero mentre egli entrò in tribunale e fu subito imprigionato.
Fino ad oggi c'è stato un movimento molto piccolo al Congresso o alla Casa Bianca verso questa azione necessaria.
2. Dove sono gli anti - monopolisti per ravvivare le divisioni moribonde tra il ministero della Giustizia e la Commissione Federale del Commercio?
Le banche fallite, le imprese di intermediazione e ora le compagnie assicurative stanno facendo acquisizioni attraverso acquisti traballanti spesso con l'incoraggiamento del governo federale.
Altre industrie stanno sperimentando delle fusioni simili e delle acquisizioni in un'economia già super concentrata.
Il nostro governo necessita di stare addosso a questa crescente creazione di più imprese giudicate come "troppo grandi per fallire".
Una varietà di politiche antitrust sono necessarie per prevenire, ristrutturare o, come minimo, richiedere i vantaggi secondari di minimizzare gli effetti anti competitivi "dell'urgenza di fondersi".
3. Che dire del Congresso e di Obama che spostano qualche potere agli investitori e agli azionisti che pagano per tutte queste perdite?
I capi aziendali sono stati sicuri per molti anni che gli azionisti, che possiedono le loro imprese, avessero poco o nessun diritto di controllarli.
C'era stata qualcosa di meno di uno spazio tra proprietà e controllo altrimenti i capi mai sarebbero stati impegnati in tale speculazione avventata che depreda e prosciuga miliardi di dollari che a loro sono affidati.
Queste includono fondi comuni, fondi pensione e vari monopoli.
Il potere ai proprietari non viene proposto.
4. I funzionari federali discutono una regolazione più forte e proposte di altre regolazioni, ma ancora non siamo stati informati dei loro piani specifici.
Non c'è molto da dire sulla proibizione regolata.
Bisogna proibire a banche, assicurazioni e altre istituzioni fiduciarie di speculare in derivati o, più specifico, di scommettere sui debiti e sui titoli più sopravvalutati delle scommesse sui debiti dei debiti dei debiti.
5. Da oggi, Washington dovrebbe escogitare modi per pagare questi deficit e salvataggi giganteschi.
Meno del 1% di tassa di vendita sulle centinaia di miliardi di $ delle transazioni di derivati produrrebbe ogni anno centinaia di milioni di $ in entrata e ridurrebbe qualcuna delle speculazioni di Wall Street fatte con i soldi della gente.
Una tassa simili sui commerci speculativi di questi strumenti astratti può far pagare a Wall Street i suoi salvataggi e ridurre qualcuna delle tasse sul lavoro umano.
6. Il nostro governo non da rilievo alle istituzioni no - profit come le 8000 credit unions che aumentano i loro prestiti e servono più di 80 milioni di americani senza una singola insolvenza.
Qualcuno potrebbe pensare che con i goliath finanziari in caduta libera, nonostante i salvataggi sempre più grandi del governo federale, che il modello cooperativo delle credit unions divenisse uno strumento di insegnamento utile.
Nel suo nuovo libro tascabile, Agenda for a New Economy, David Korten fa un'importante distinzione fra "la ricchezza fantasma" di Wall Street e "la ricchezza reale" della gente.
La sua agenda di 12 punti solleva la questione di base del perché Wall Street è necessaria e del come le funzioni di un'economia giusta e progressiva sono eseguibili con una transizione sensibile verso quella della "ricchezza reale" partecipata da e responsabile verso la gente reale che lotta per le necessità e i bisogni della vita attraverso istituzioni più efficienti e amichevoli a livello ambientale.
Affinché non restino dei dubbi sul fatto che ci sono progetti di riportare la nostra nazione ai soliti affari in stile Wall Street, leggete la presentazione confidenziale in powerpoint "AIG: Il rischio è sistemico?" di quel gigante che ha afferrato $180 miliardi, finora, di aiuto federale e garanzie.
Nelle 21 pagine ben evidenziate, vedrete perché i capi AIG credono che il fallimento della loro impresa gigantesca "provocherebbe solo una serie a cascata di ulteriori fallimenti che non potrebbero essere fermati se non con mezzi straordinari".
In altre parole, AIG dice a Zio Sam e a te contribuente di salvarla o di essere preparato per un collasso globale attraverso un effetto domino fatto di sequenze catastrofiche sconosciute.
di Ralph Nader

A che servono gli economisti?

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A che servono gli economisti? A domandarselo non è solo il ministro Giulio Tremonti, ma anche la rivista americana "Business Week". L`accusa sollevata contro gli economisti è di essere stati incapaci di prevedere la crisi e di non avere una soluzione condivisa. A raccogliere le critiche sono anche il "Financial Times" e molti altri giornali. Quanto c`è di vero? Per quanto riguarda la capacità predittiva, l`accusa è fondata ma ingiusta. E vero che la maggior parte degli economisti non è stata in grado di pronosticare il tracollo, ma, come i terremoti, eventi finanziari di queste dimensioni sono difficili da aspettarsi. Per di più se una crisi fosse correttamente anticipata, potrebbe essere evitata, rendendo la previsione errata. In altre parole, se la maggior parte degli economisti avesse anticipato un crollo dei prezzi delle case, gli stessi prezzi non sarebbero saliti così vertiginosamente, rendendo errata la previsione di un crollo. Per definizione, quindi, le grandi crisi sono imprevedibili. Ciononostante la critica ha dei fondamenti. Anche se il compito principale degli economisti non è quello di fare le previsioni, una delle maggiori responsabilità di chi lavora al Fondo monetario internazionale o in una banca centrale è di metterci in guardia dai possibili rischi cui ci espone il nostro sistema finanziario. In questo senso noi tutti economisti, con poche eccezioni, abbiamo sbagliato. Purtroppo, questo fallimento non è un caso, ma è il risultato di incentivi perversi. Uno dei governatori della Riserva federale americana, Edward M. Gramlich, avverti per anni l`allora presidente dello stesso istituto centrale, Alan Greenspan, sui rischi di una crisi immobiliare. Purtroppo Gramlich morì di leucemia prima che le sue previsioni si avverassero. Malattia a parte, la sua posizione coraggiosa non gli conquistò molti amici: dire la verità non paga quando questa verità non è gradita a chi ci sta sopra. D`altra parte la favola del re nudo di Hans Christian Andersen non è stata inventata per gli economisti, purtroppo è universale. Ma questo non esime gli economisti dalle loro responsabilità. Non ci sono state abbastanza analisi critiche sui possibili rischi. Era troppo facile dire che tutto andava bene e ignorare che il re era nudo. La seconda accusa sollevata contro gli economisti è di avere visioni così contrastanti sui rimedi della crisi da risultare irrilevanti. Sembra un paradosso visto che nel 2006 Paul Krugman, vincitore dei premio Nobel in economia ed editorialista del "New York Times", scrisse nel suo libro di testo che «uno dei segreti della macroeconomia è quanto consenso è stato raggiunto negli ultimi settant`anni». Questo consenso sembra oggi svanito come neve al sole. Mentre lo stesso Krugman accusa Obama di aver approvato un piano fiscale troppo prudente, 250 economisti firmano un appello denunciando il piano dei capo della Casa Bianca come fiscalmente irresponsabile. La causa di questo dissenso è la straordinarietà della crisi attuale. Finché il ciclo economico seguiva delle fluttuazioni standard, era facile predire il futuro estrapolando il passato. Ma quando il ciclo rompe tutti gli schemi, la situazione diventa così lontana da quella ordinaria che nessuno sa cosa succederà. L in questi frangenti, dove l`analisi empirica non può farci da supporto per la mancanza di dati (per fortuna le grandi crisi sono rare), che l`ideologia prevale. Non sorprendentemente Krugman e i 250 economisti che hanno criticato il piano di Obama sono agli estremi opposti dello spettro politico. Ma il fatto più sorprendente di questa crisi è - come ebbi occasione di scrivere con Oliver Hart in un articolo apparso sul "Wall Street Journal" - che gli economisti sono oggi facilmente disposti a violare i loro stessi principi. Per esempio, quale principio economico giustifica il salvataggio di un`assicurazione come Aig? Non solo questo intervento si è tradotto in un trasferimento di denaro dal contribuente ai creditori della Aig ma, sussidiando i creditori, ha anche distrutto gli incentivi per i creditori futuri a selezionare i prenditori più affidabili. Questa obiezione è stata ignorata con l`alibi di dire che, quando una casa è in fiamme, il primo obiettivo sia quello di spegnere l`incendio. Ma così facendo si piantano i semi per la prossima crisi. L discutibile che gli economisti siano tra i principali responsabili di questa crisi, ma, con questo loro comportamento, sono certamente i principali responsabili della prossima.

di Luigi Zingales

Dubai, la truffa del secolo


Se avete investito denaro in un immobile a Dubai, è il momento di preoccuparvi e di fare un paio di controlli. Un gruppo di investitori britannici è stato infatti truffato alla grande da un'azienda partecipata addirittura dalla famiglia reale. Complessivamente il gruppo di inglesi ha investito qualche centinaio di milioni di dollari per l'acquisto di appartamenti in alcuni palazzi che non esistono. Gli hanno solo fatto vedere le foto, come nemmeno in una Totòtruffa. Le Ebony 1, Ivory 1 and Ivory 2 non esistono, agli inglesi sono state mostrate le foto di altre costruzioni simili nell'area della Al Fajer Properties, che raffiguravano il Jumeirah Business Centre Towers; peccato che al posto delle tre torri vendute agli inglesi ci sono invece tre buchi per terra senza nessuno al lavoro. Gli inglesi gridano alla truffa, ma non se li fila nessuno.

Hanno pensato bene di andare a Dubai e di aprire uno scandalo. Niente, l'albergo dove dovevano tenere la conferenza stampa alla fine ha detto di no e in tutta Dubai, pur svuotata dalla crisi, non si è trovato un angolo disponibile. Il bello è che la pubblicità delle torri è passata anche alla televisione di Dubai, ma nessuno ha avuto niente da ridire su quelle torri che invece non esistevano.

Un discreto campanello d'allarme anche per i nostri connazionali; da tempo le agenzie immobiliari propongono “investimenti” a Dubai anche nel nostro paese, qualcuno che ha comprato ci sarà. La Al Fajer, che da sei mesi non risponde agli investitori, è partecipata dalla famiglia reale, così gli investitori preferiscono per ora chiedere rispettosamente di essere risarciti, piuttosto che far causa alla famiglia reale nel tribunale che dipende dalla famiglia reale.

Scontato l'epilogo, riferito da un giornalista locale sotto pseudonimo: “Avevo già scritto metà dell'articolo, quando è arrivato l'ordine dall'editore di lasciar perdere”. Se c'è una cosa sulla quale può contare la famiglia reale è un marmoreo consenso tra i nativi, beneficiati da un welfare lussuoso e affascinati dalla transizione dalla tenda al grattacielo nello spazio di due generazioni.

Quando un reportage dell'inglese Johan Hari ha illuminato la crisi di Dubai, ma soprattutto la sua miseria morale, decine di abitanti degli emirati hanno intasato i forum dei siti che l'avevano pubblicato per cantare la gloria di Sua Eccellenza e spiegare quanto l'Occidente farebbe bene a guardare in casa propria. Nessuno ha però negato o confutato il racconto della schiavitù dei lavoratori di basso profilo e nemmeno i grandi scandali che stanno facendo crollare il miraggio nel deserto. Ovviamente l'articolo della Hari è stato censurato sull'internet degli emirati, come accade a tutto quello che rema contro e alla giornalista è stato proibito di tornare a Dubai.

Nonostante la propaganda, Dubai e gli Emirati in senso più ampio sono forse la truffa più grande della storia recente. La federazione di sceiccati è infatti un buco nero, anche se a lungo è stata spacciata per un paradiso di modernità e libertà nel Golfo. Nel paese vive una minoranza autoctona che non raggiunge il quinto della popolazione residente, gli altri sono tutti immigrati. Questi si dividono a loro volta in due categorie: gli immigrati dal primo mondo, che godono di relativa libertà e sono serviti e riveriti, e gli immigrati dal terzo mondo, costretti in condizioni di assoluta schiavitù.

Negli Emirati si pratica estesamente la tortura, come hanno dimostrato numerosi video diffusi recentemente, nei quali il principe Issa bin Zayed al Nahyan si dilettava in un numeroso campionario di angherie insieme alla polizia: frustati, percossi, sodomizzati con un pungolo elettrico per il bestiame, schiacciati con il SUV dello sceicco e molto altro ancora; questo capita a chi finisce nelle galere dello sceicco. Guantanamo sembra Disneyland al confronto. Niente di strano, gran parte degli immigrati negli Emirati vivono come schiavi, pagati qualche decina di dollari al giorno, reclusi tra i cantieri e dormitori nel deserto, in balìa dei datori di lavoro che sequestrano loro il passaporto all'arrivo e anche se la legge lo vieta, la prassi locale non ne risente.

Veloci a varare leggi più avanzate per attirare il business, a Dubai sono altrettanto veloci a dimenticarsene. Anche nel caso dello sceicco torturatore il governo ha prima detto che “sono state seguite tutte le procedure di polizia”, ma è stato altrettanto veloce ad assicurare che “ci sarà un'inchiesta” (lenta) quando le lamentele internazionali avevano cominciato a tracimare sui media.

Tutto a Dubai sembra errore, la stessa concezione della città è insostenibile, l'impronta ecologica di un cittadino di Dubai è sette volte quella di un abitante di New York. La metropoli nel deserto non ha acqua, che è tutta dissalata, pescata dallo stesso mare nel quale finiscono i liquami non trattati di quanti poi berranno quell'acqua. Il problema degli scarichi e dei rifiuti è tanto incombente che negli ultimi anni l'emirato ha chiesto aiuto al mondo. Sono arrivati in soccorso anche dal comune di Palermo, che ha speso negli ultimi anni trecentomila euro per mandare il sindaco e altri in “missione”. Una farsa nella farsa. L'Amia palermitana avrebbe concorso a un bando per la raccolta differenziata, della quale non ha nessuna esperienza, a Palermo l'hanno mai vista. C'è solo da sperare che anche i “funzionari” palermitani abbiano seguito l'esempio degli astuti britannici e che abbiano investito del proprio altrettanto malamente.

All'insostenibilità ambientale si è aggiunta quella finanziaria, Dubai si è rivelato l'ennesimo schema di Ponzi, una piramide finanziaria destinata prima o poi a scoppiare. Tutto indica che sia scoppiata e che si sia al “si salvi chi può”, visto che nemmeno il sostegno finanziario dei vicini di Abu Dhabi sembra in grado di salvare il nuovo Eldorado dal fallimento. A Dubai hanno casa buona parte delle elite mondiali, molte corporation vi hanno trasferito la sede legale per godere delle tasse particolarmente ridotte e le imponenti realizzazioni immobiliari hanno attirato il jet set mondiale, con una forte presenza mediorientale ed asiatica. Ma anche l'Occidente ha piantato la sua bandiera, gli inglesi sono la potenza coloniale di riferimento e sovrintendono ai regolamenti di borsa, gli americani sono sbarcati con Halliburton e altri pezzi pesanti. La crisi di Dubai preoccupa molti, anche se ne parlano in pochi.

Il miracolo ha piedi d'argilla, se non di sabbia. Per trasformare Dubai nel paradiso dell'opulenza, c'è stato bisogno di una quantità imponente di capitali e di credito e, quando i capitali si sono rarefatti, hanno venduto le foto dei palazzi, rastrellando altri capitali con i quali coprire investimenti in perdita e completare costruzioni già avviate. Oggi Dubai vede i cantieri fermi e gli espatriati cercano di uscire dall'avventura nel modo meno doloroso. Tanti di loro si sono indebitati nel paese, per comprare un appartamento che ora non vale niente o anche solo per un'auto.

Quando un'azienda chiude, il più delle volte dalla sera alla mattina, è obbligata ad informare la banca del proprio dipendente, che a quel punto chiude le linee di credito e chiede la restituzione dei finanziamenti. Licenziati, ci si trova senza carte di credito e con la banca che vuole tutto e subito e con l'azienda che nella maggior parte dei casi non versa nemmeno la liquidazione pattuita. A Dubai se non paghi i debiti finisci in galera, usanze locali e prudenza, perché essendo quasi tutti stranieri una volta scappati all'estero è difficile recuperare i crediti. Così in tanti, non appena ricevono la notizia del licenziamento, si fiondano all'aeroporto e scappano su due piedi. Migliaia di automobili sono rimaste abbandonate con le chiavi sul cruscotto all'aeroporto, a volte con un biglietto di scuse per il disturbo.

L'aeroporto più grande del mondo, la torre più alta del mondo, isole artificiali, sequenze interminabili di centri commerciali, l'aria condizionata più pervasiva del mondo, oggi non valgono niente, sono solo la misura di un passo troppo lungo per le gambe degli emiri. In un anno Dubai ha perso la metà del suo valore immobiliare e non è ancora finita, perché rischia la compagnia aerea, si ribellano gli schiavi e si diffondono i racconti dei professionisti espatriati che passano dalla favola all'incubo e finalmente si accorgono che le leggi del paese sono scritte sulla sabbia e che tutto quella gente al loro servizio ha gli stessi diritti di uno schiavo, di quanto fosse profonda la tana del Bianconiglio.

L'ultima notizia in ordine di tempo è l'apertura di una base francese negli Emirati Arabi. La Francia, faro della Rivoluzione laica e araldo di diritti umani, rispolvera la sua politica neo-coloniale e corre così in soccorso degli Emirati Arabi Uniti, uno dei paesi nei quali i diritti umani sono meno rispettati al mondo. La cosa è rilevante e a suo modo strana, perché si tratta della prima base francese permanente in Medio Oriente a segnalare un cambiamento del profilo della politica estera francese che merita di essere indagato. Napoleone-Sarkozy ha fatto il pieno in Dubai, ha venduto parecchi Airbus, centrali nucleari e tecnologia e adesso costituisce la “Base de la Paix” o “Peace camp” all'inglese, con cinquecento uomini stanziati a proteggere il business. Se qualcuno volesse eccepire sulla vendita di tecnologia nucleare a paesi “islamici”, è pregato di soprassedere. Se Europa e Stati Uniti hanno deciso l'abbandono del nucleare, hanno anche ingaggiato una corsa a chi vende più centrali ormai obsolete e antieconomiche ai paesi meno sviluppati. Una nemesi per Dubai, che si troverebbe così a dipendere dall'estero per le forniture energetiche e per la tecnologia.

Ufficialmente la base serve a fronteggiare la “minaccia iraniana”. L'Iran però non minaccia per niente gli emirati, ai quali contende da tempo solo un paio di scogli per nulla accoglienti e dal dubbio valore strategico. Sulla “minaccia iraniana è tempo di mettersi d'accordo: ammesso e non concesso che l'Iran abbia voglia di aggredire qualche vicino, non si capisce come gli stessi che sostengono che “l'Iran vuole distruggere Israele”, possano poi sostenere che l'Iran ha l'intenzione di aggredire la Penisola Arabica senza mettersi a ridere. La presenza francese è comunque una variabile che viene ad aggiungersi in un teatro già teso, non se ne sentiva davvero il bisogno.

Più realisticamente gli emiri hanno fatto due conti e in vista dei robusti contenziosi che presto si apriranno con mezzo mondo, hanno pensato bene di cercare un nuovo protettore e l’hanno trovato in Francia, dove Sarkozy è a suo agio nel giocare al piccolo apprendista stregone e che in patria non ha trovato obiezioni alle robuste forniture. Evidentemente i francesi ritengono ancora solvibili gli emirati o comunque si pensano nel ruolo di creditori privilegiati. Tuttavia gli emiri avranno l'energia atomica che serve a far funzionare il paese, ma tra venti anni il petrolio sarà finito e allora per pagare le centrali, l'uranio e i debiti rimasti bisognerà alzare le tasse, come minimo, le contraddizioni a Dubai non si risolvono, semmai aumentano.

Resta da vedere come la prenderanno le altre diplomazie, visto che non c'è traccia di discussione non è dato sapere nemmeno se lo sbarco dei francesi nel Golfo Persico sia gradito alla UE, al Dipartimento di Stato e al Foreign Office, dove quella che Sarkozy chiama “competizione sana” potrebbe essere interpretata come una fuga in avanti. Dettagli, la politica oggi vive sull'emozione di un attimo, inutile pensare a cosa potrà essere tra dieci o venti anni, anche se una centrale nucleare è per sempre e se l'eco del tonfo di Dubai risuonerà ancora a lungo.


by mazzetta





10 maggio 2009

Sette linee guida contro la crisi

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Tali linee guida vengono a mente mentre si assimilano i vari piani di salvataggio, recupero, stimolo e garanzia che arrivano dal governo Obama per rallentare e riformare un'economia scheggiata e frantumata.
Se gli "Obamites" non decidono ora (quando il tempo politico è maturo) di mettere in moto le forze di deterrenza e prevenzione, i capitalisti da casinò di domani saranno ancora in grado di destabilizzare la nostra economia.
L'altro giorno io vidi Alan Greenspan, ex presidente della Federal Reserve, proprio mentre prediceva un altro ciclo di avventatezza in quasi quindici anni.
Ma lui chiamò questo "natura umana" non capitalismo da casinò.
Ecco sette linee guida che sottolineano quello che Washington non sta facendo per prevenire un altro ciclo di avidità e crimini fatti dai pochi di Wall Street contro i molti innocenti che vivono nella nostra nazione.
1. Dove sono le risorse per una costrizione legale ampia contro i truffatori di Wall Street, gli imbroglioni e i fornitori di pratiche ingannevoli e costose?
Non c'è bisogno di aggiungere da due a trecento milioni di dollari per più agenti FBI, pubblici ministeri e procuratori per i crimini aziendali al ministero della giustizia per ottenere le multe e le riparazioni che supereranno di molto i dollari che sono spesi per le forze di legge e ordine?
Gli americani vogliono giustizia. Vogliono il carcere non le liberazioni facili per tali truffatori.
Guardate a quanti dei truffati si presentarono proprio nell'inverno di New York per portare a Bernard Madoff un loro pensiero mentre egli entrò in tribunale e fu subito imprigionato.
Fino ad oggi c'è stato un movimento molto piccolo al Congresso o alla Casa Bianca verso questa azione necessaria.
2. Dove sono gli anti - monopolisti per ravvivare le divisioni moribonde tra il ministero della Giustizia e la Commissione Federale del Commercio?
Le banche fallite, le imprese di intermediazione e ora le compagnie assicurative stanno facendo acquisizioni attraverso acquisti traballanti spesso con l'incoraggiamento del governo federale.
Altre industrie stanno sperimentando delle fusioni simili e delle acquisizioni in un'economia già super concentrata.
Il nostro governo necessita di stare addosso a questa crescente creazione di più imprese giudicate come "troppo grandi per fallire".
Una varietà di politiche antitrust sono necessarie per prevenire, ristrutturare o, come minimo, richiedere i vantaggi secondari di minimizzare gli effetti anti competitivi "dell'urgenza di fondersi".
3. Che dire del Congresso e di Obama che spostano qualche potere agli investitori e agli azionisti che pagano per tutte queste perdite?
I capi aziendali sono stati sicuri per molti anni che gli azionisti, che possiedono le loro imprese, avessero poco o nessun diritto di controllarli.
C'era stata qualcosa di meno di uno spazio tra proprietà e controllo altrimenti i capi mai sarebbero stati impegnati in tale speculazione avventata che depreda e prosciuga miliardi di dollari che a loro sono affidati.
Queste includono fondi comuni, fondi pensione e vari monopoli.
Il potere ai proprietari non viene proposto.
4. I funzionari federali discutono una regolazione più forte e proposte di altre regolazioni, ma ancora non siamo stati informati dei loro piani specifici.
Non c'è molto da dire sulla proibizione regolata.
Bisogna proibire a banche, assicurazioni e altre istituzioni fiduciarie di speculare in derivati o, più specifico, di scommettere sui debiti e sui titoli più sopravvalutati delle scommesse sui debiti dei debiti dei debiti.
5. Da oggi, Washington dovrebbe escogitare modi per pagare questi deficit e salvataggi giganteschi.
Meno del 1% di tassa di vendita sulle centinaia di miliardi di $ delle transazioni di derivati produrrebbe ogni anno centinaia di milioni di $ in entrata e ridurrebbe qualcuna delle speculazioni di Wall Street fatte con i soldi della gente.
Una tassa simili sui commerci speculativi di questi strumenti astratti può far pagare a Wall Street i suoi salvataggi e ridurre qualcuna delle tasse sul lavoro umano.
6. Il nostro governo non da rilievo alle istituzioni no - profit come le 8000 credit unions che aumentano i loro prestiti e servono più di 80 milioni di americani senza una singola insolvenza.
Qualcuno potrebbe pensare che con i goliath finanziari in caduta libera, nonostante i salvataggi sempre più grandi del governo federale, che il modello cooperativo delle credit unions divenisse uno strumento di insegnamento utile.
Nel suo nuovo libro tascabile, Agenda for a New Economy, David Korten fa un'importante distinzione fra "la ricchezza fantasma" di Wall Street e "la ricchezza reale" della gente.
La sua agenda di 12 punti solleva la questione di base del perché Wall Street è necessaria e del come le funzioni di un'economia giusta e progressiva sono eseguibili con una transizione sensibile verso quella della "ricchezza reale" partecipata da e responsabile verso la gente reale che lotta per le necessità e i bisogni della vita attraverso istituzioni più efficienti e amichevoli a livello ambientale.
Affinché non restino dei dubbi sul fatto che ci sono progetti di riportare la nostra nazione ai soliti affari in stile Wall Street, leggete la presentazione confidenziale in powerpoint "AIG: Il rischio è sistemico?" di quel gigante che ha afferrato $180 miliardi, finora, di aiuto federale e garanzie.
Nelle 21 pagine ben evidenziate, vedrete perché i capi AIG credono che il fallimento della loro impresa gigantesca "provocherebbe solo una serie a cascata di ulteriori fallimenti che non potrebbero essere fermati se non con mezzi straordinari".
In altre parole, AIG dice a Zio Sam e a te contribuente di salvarla o di essere preparato per un collasso globale attraverso un effetto domino fatto di sequenze catastrofiche sconosciute.
di Ralph Nader

A che servono gli economisti?

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A che servono gli economisti? A domandarselo non è solo il ministro Giulio Tremonti, ma anche la rivista americana "Business Week". L`accusa sollevata contro gli economisti è di essere stati incapaci di prevedere la crisi e di non avere una soluzione condivisa. A raccogliere le critiche sono anche il "Financial Times" e molti altri giornali. Quanto c`è di vero? Per quanto riguarda la capacità predittiva, l`accusa è fondata ma ingiusta. E vero che la maggior parte degli economisti non è stata in grado di pronosticare il tracollo, ma, come i terremoti, eventi finanziari di queste dimensioni sono difficili da aspettarsi. Per di più se una crisi fosse correttamente anticipata, potrebbe essere evitata, rendendo la previsione errata. In altre parole, se la maggior parte degli economisti avesse anticipato un crollo dei prezzi delle case, gli stessi prezzi non sarebbero saliti così vertiginosamente, rendendo errata la previsione di un crollo. Per definizione, quindi, le grandi crisi sono imprevedibili. Ciononostante la critica ha dei fondamenti. Anche se il compito principale degli economisti non è quello di fare le previsioni, una delle maggiori responsabilità di chi lavora al Fondo monetario internazionale o in una banca centrale è di metterci in guardia dai possibili rischi cui ci espone il nostro sistema finanziario. In questo senso noi tutti economisti, con poche eccezioni, abbiamo sbagliato. Purtroppo, questo fallimento non è un caso, ma è il risultato di incentivi perversi. Uno dei governatori della Riserva federale americana, Edward M. Gramlich, avverti per anni l`allora presidente dello stesso istituto centrale, Alan Greenspan, sui rischi di una crisi immobiliare. Purtroppo Gramlich morì di leucemia prima che le sue previsioni si avverassero. Malattia a parte, la sua posizione coraggiosa non gli conquistò molti amici: dire la verità non paga quando questa verità non è gradita a chi ci sta sopra. D`altra parte la favola del re nudo di Hans Christian Andersen non è stata inventata per gli economisti, purtroppo è universale. Ma questo non esime gli economisti dalle loro responsabilità. Non ci sono state abbastanza analisi critiche sui possibili rischi. Era troppo facile dire che tutto andava bene e ignorare che il re era nudo. La seconda accusa sollevata contro gli economisti è di avere visioni così contrastanti sui rimedi della crisi da risultare irrilevanti. Sembra un paradosso visto che nel 2006 Paul Krugman, vincitore dei premio Nobel in economia ed editorialista del "New York Times", scrisse nel suo libro di testo che «uno dei segreti della macroeconomia è quanto consenso è stato raggiunto negli ultimi settant`anni». Questo consenso sembra oggi svanito come neve al sole. Mentre lo stesso Krugman accusa Obama di aver approvato un piano fiscale troppo prudente, 250 economisti firmano un appello denunciando il piano dei capo della Casa Bianca come fiscalmente irresponsabile. La causa di questo dissenso è la straordinarietà della crisi attuale. Finché il ciclo economico seguiva delle fluttuazioni standard, era facile predire il futuro estrapolando il passato. Ma quando il ciclo rompe tutti gli schemi, la situazione diventa così lontana da quella ordinaria che nessuno sa cosa succederà. L in questi frangenti, dove l`analisi empirica non può farci da supporto per la mancanza di dati (per fortuna le grandi crisi sono rare), che l`ideologia prevale. Non sorprendentemente Krugman e i 250 economisti che hanno criticato il piano di Obama sono agli estremi opposti dello spettro politico. Ma il fatto più sorprendente di questa crisi è - come ebbi occasione di scrivere con Oliver Hart in un articolo apparso sul "Wall Street Journal" - che gli economisti sono oggi facilmente disposti a violare i loro stessi principi. Per esempio, quale principio economico giustifica il salvataggio di un`assicurazione come Aig? Non solo questo intervento si è tradotto in un trasferimento di denaro dal contribuente ai creditori della Aig ma, sussidiando i creditori, ha anche distrutto gli incentivi per i creditori futuri a selezionare i prenditori più affidabili. Questa obiezione è stata ignorata con l`alibi di dire che, quando una casa è in fiamme, il primo obiettivo sia quello di spegnere l`incendio. Ma così facendo si piantano i semi per la prossima crisi. L discutibile che gli economisti siano tra i principali responsabili di questa crisi, ma, con questo loro comportamento, sono certamente i principali responsabili della prossima.

di Luigi Zingales

Dubai, la truffa del secolo


Se avete investito denaro in un immobile a Dubai, è il momento di preoccuparvi e di fare un paio di controlli. Un gruppo di investitori britannici è stato infatti truffato alla grande da un'azienda partecipata addirittura dalla famiglia reale. Complessivamente il gruppo di inglesi ha investito qualche centinaio di milioni di dollari per l'acquisto di appartamenti in alcuni palazzi che non esistono. Gli hanno solo fatto vedere le foto, come nemmeno in una Totòtruffa. Le Ebony 1, Ivory 1 and Ivory 2 non esistono, agli inglesi sono state mostrate le foto di altre costruzioni simili nell'area della Al Fajer Properties, che raffiguravano il Jumeirah Business Centre Towers; peccato che al posto delle tre torri vendute agli inglesi ci sono invece tre buchi per terra senza nessuno al lavoro. Gli inglesi gridano alla truffa, ma non se li fila nessuno.

Hanno pensato bene di andare a Dubai e di aprire uno scandalo. Niente, l'albergo dove dovevano tenere la conferenza stampa alla fine ha detto di no e in tutta Dubai, pur svuotata dalla crisi, non si è trovato un angolo disponibile. Il bello è che la pubblicità delle torri è passata anche alla televisione di Dubai, ma nessuno ha avuto niente da ridire su quelle torri che invece non esistevano.

Un discreto campanello d'allarme anche per i nostri connazionali; da tempo le agenzie immobiliari propongono “investimenti” a Dubai anche nel nostro paese, qualcuno che ha comprato ci sarà. La Al Fajer, che da sei mesi non risponde agli investitori, è partecipata dalla famiglia reale, così gli investitori preferiscono per ora chiedere rispettosamente di essere risarciti, piuttosto che far causa alla famiglia reale nel tribunale che dipende dalla famiglia reale.

Scontato l'epilogo, riferito da un giornalista locale sotto pseudonimo: “Avevo già scritto metà dell'articolo, quando è arrivato l'ordine dall'editore di lasciar perdere”. Se c'è una cosa sulla quale può contare la famiglia reale è un marmoreo consenso tra i nativi, beneficiati da un welfare lussuoso e affascinati dalla transizione dalla tenda al grattacielo nello spazio di due generazioni.

Quando un reportage dell'inglese Johan Hari ha illuminato la crisi di Dubai, ma soprattutto la sua miseria morale, decine di abitanti degli emirati hanno intasato i forum dei siti che l'avevano pubblicato per cantare la gloria di Sua Eccellenza e spiegare quanto l'Occidente farebbe bene a guardare in casa propria. Nessuno ha però negato o confutato il racconto della schiavitù dei lavoratori di basso profilo e nemmeno i grandi scandali che stanno facendo crollare il miraggio nel deserto. Ovviamente l'articolo della Hari è stato censurato sull'internet degli emirati, come accade a tutto quello che rema contro e alla giornalista è stato proibito di tornare a Dubai.

Nonostante la propaganda, Dubai e gli Emirati in senso più ampio sono forse la truffa più grande della storia recente. La federazione di sceiccati è infatti un buco nero, anche se a lungo è stata spacciata per un paradiso di modernità e libertà nel Golfo. Nel paese vive una minoranza autoctona che non raggiunge il quinto della popolazione residente, gli altri sono tutti immigrati. Questi si dividono a loro volta in due categorie: gli immigrati dal primo mondo, che godono di relativa libertà e sono serviti e riveriti, e gli immigrati dal terzo mondo, costretti in condizioni di assoluta schiavitù.

Negli Emirati si pratica estesamente la tortura, come hanno dimostrato numerosi video diffusi recentemente, nei quali il principe Issa bin Zayed al Nahyan si dilettava in un numeroso campionario di angherie insieme alla polizia: frustati, percossi, sodomizzati con un pungolo elettrico per il bestiame, schiacciati con il SUV dello sceicco e molto altro ancora; questo capita a chi finisce nelle galere dello sceicco. Guantanamo sembra Disneyland al confronto. Niente di strano, gran parte degli immigrati negli Emirati vivono come schiavi, pagati qualche decina di dollari al giorno, reclusi tra i cantieri e dormitori nel deserto, in balìa dei datori di lavoro che sequestrano loro il passaporto all'arrivo e anche se la legge lo vieta, la prassi locale non ne risente.

Veloci a varare leggi più avanzate per attirare il business, a Dubai sono altrettanto veloci a dimenticarsene. Anche nel caso dello sceicco torturatore il governo ha prima detto che “sono state seguite tutte le procedure di polizia”, ma è stato altrettanto veloce ad assicurare che “ci sarà un'inchiesta” (lenta) quando le lamentele internazionali avevano cominciato a tracimare sui media.

Tutto a Dubai sembra errore, la stessa concezione della città è insostenibile, l'impronta ecologica di un cittadino di Dubai è sette volte quella di un abitante di New York. La metropoli nel deserto non ha acqua, che è tutta dissalata, pescata dallo stesso mare nel quale finiscono i liquami non trattati di quanti poi berranno quell'acqua. Il problema degli scarichi e dei rifiuti è tanto incombente che negli ultimi anni l'emirato ha chiesto aiuto al mondo. Sono arrivati in soccorso anche dal comune di Palermo, che ha speso negli ultimi anni trecentomila euro per mandare il sindaco e altri in “missione”. Una farsa nella farsa. L'Amia palermitana avrebbe concorso a un bando per la raccolta differenziata, della quale non ha nessuna esperienza, a Palermo l'hanno mai vista. C'è solo da sperare che anche i “funzionari” palermitani abbiano seguito l'esempio degli astuti britannici e che abbiano investito del proprio altrettanto malamente.

All'insostenibilità ambientale si è aggiunta quella finanziaria, Dubai si è rivelato l'ennesimo schema di Ponzi, una piramide finanziaria destinata prima o poi a scoppiare. Tutto indica che sia scoppiata e che si sia al “si salvi chi può”, visto che nemmeno il sostegno finanziario dei vicini di Abu Dhabi sembra in grado di salvare il nuovo Eldorado dal fallimento. A Dubai hanno casa buona parte delle elite mondiali, molte corporation vi hanno trasferito la sede legale per godere delle tasse particolarmente ridotte e le imponenti realizzazioni immobiliari hanno attirato il jet set mondiale, con una forte presenza mediorientale ed asiatica. Ma anche l'Occidente ha piantato la sua bandiera, gli inglesi sono la potenza coloniale di riferimento e sovrintendono ai regolamenti di borsa, gli americani sono sbarcati con Halliburton e altri pezzi pesanti. La crisi di Dubai preoccupa molti, anche se ne parlano in pochi.

Il miracolo ha piedi d'argilla, se non di sabbia. Per trasformare Dubai nel paradiso dell'opulenza, c'è stato bisogno di una quantità imponente di capitali e di credito e, quando i capitali si sono rarefatti, hanno venduto le foto dei palazzi, rastrellando altri capitali con i quali coprire investimenti in perdita e completare costruzioni già avviate. Oggi Dubai vede i cantieri fermi e gli espatriati cercano di uscire dall'avventura nel modo meno doloroso. Tanti di loro si sono indebitati nel paese, per comprare un appartamento che ora non vale niente o anche solo per un'auto.

Quando un'azienda chiude, il più delle volte dalla sera alla mattina, è obbligata ad informare la banca del proprio dipendente, che a quel punto chiude le linee di credito e chiede la restituzione dei finanziamenti. Licenziati, ci si trova senza carte di credito e con la banca che vuole tutto e subito e con l'azienda che nella maggior parte dei casi non versa nemmeno la liquidazione pattuita. A Dubai se non paghi i debiti finisci in galera, usanze locali e prudenza, perché essendo quasi tutti stranieri una volta scappati all'estero è difficile recuperare i crediti. Così in tanti, non appena ricevono la notizia del licenziamento, si fiondano all'aeroporto e scappano su due piedi. Migliaia di automobili sono rimaste abbandonate con le chiavi sul cruscotto all'aeroporto, a volte con un biglietto di scuse per il disturbo.

L'aeroporto più grande del mondo, la torre più alta del mondo, isole artificiali, sequenze interminabili di centri commerciali, l'aria condizionata più pervasiva del mondo, oggi non valgono niente, sono solo la misura di un passo troppo lungo per le gambe degli emiri. In un anno Dubai ha perso la metà del suo valore immobiliare e non è ancora finita, perché rischia la compagnia aerea, si ribellano gli schiavi e si diffondono i racconti dei professionisti espatriati che passano dalla favola all'incubo e finalmente si accorgono che le leggi del paese sono scritte sulla sabbia e che tutto quella gente al loro servizio ha gli stessi diritti di uno schiavo, di quanto fosse profonda la tana del Bianconiglio.

L'ultima notizia in ordine di tempo è l'apertura di una base francese negli Emirati Arabi. La Francia, faro della Rivoluzione laica e araldo di diritti umani, rispolvera la sua politica neo-coloniale e corre così in soccorso degli Emirati Arabi Uniti, uno dei paesi nei quali i diritti umani sono meno rispettati al mondo. La cosa è rilevante e a suo modo strana, perché si tratta della prima base francese permanente in Medio Oriente a segnalare un cambiamento del profilo della politica estera francese che merita di essere indagato. Napoleone-Sarkozy ha fatto il pieno in Dubai, ha venduto parecchi Airbus, centrali nucleari e tecnologia e adesso costituisce la “Base de la Paix” o “Peace camp” all'inglese, con cinquecento uomini stanziati a proteggere il business. Se qualcuno volesse eccepire sulla vendita di tecnologia nucleare a paesi “islamici”, è pregato di soprassedere. Se Europa e Stati Uniti hanno deciso l'abbandono del nucleare, hanno anche ingaggiato una corsa a chi vende più centrali ormai obsolete e antieconomiche ai paesi meno sviluppati. Una nemesi per Dubai, che si troverebbe così a dipendere dall'estero per le forniture energetiche e per la tecnologia.

Ufficialmente la base serve a fronteggiare la “minaccia iraniana”. L'Iran però non minaccia per niente gli emirati, ai quali contende da tempo solo un paio di scogli per nulla accoglienti e dal dubbio valore strategico. Sulla “minaccia iraniana è tempo di mettersi d'accordo: ammesso e non concesso che l'Iran abbia voglia di aggredire qualche vicino, non si capisce come gli stessi che sostengono che “l'Iran vuole distruggere Israele”, possano poi sostenere che l'Iran ha l'intenzione di aggredire la Penisola Arabica senza mettersi a ridere. La presenza francese è comunque una variabile che viene ad aggiungersi in un teatro già teso, non se ne sentiva davvero il bisogno.

Più realisticamente gli emiri hanno fatto due conti e in vista dei robusti contenziosi che presto si apriranno con mezzo mondo, hanno pensato bene di cercare un nuovo protettore e l’hanno trovato in Francia, dove Sarkozy è a suo agio nel giocare al piccolo apprendista stregone e che in patria non ha trovato obiezioni alle robuste forniture. Evidentemente i francesi ritengono ancora solvibili gli emirati o comunque si pensano nel ruolo di creditori privilegiati. Tuttavia gli emiri avranno l'energia atomica che serve a far funzionare il paese, ma tra venti anni il petrolio sarà finito e allora per pagare le centrali, l'uranio e i debiti rimasti bisognerà alzare le tasse, come minimo, le contraddizioni a Dubai non si risolvono, semmai aumentano.

Resta da vedere come la prenderanno le altre diplomazie, visto che non c'è traccia di discussione non è dato sapere nemmeno se lo sbarco dei francesi nel Golfo Persico sia gradito alla UE, al Dipartimento di Stato e al Foreign Office, dove quella che Sarkozy chiama “competizione sana” potrebbe essere interpretata come una fuga in avanti. Dettagli, la politica oggi vive sull'emozione di un attimo, inutile pensare a cosa potrà essere tra dieci o venti anni, anche se una centrale nucleare è per sempre e se l'eco del tonfo di Dubai risuonerà ancora a lungo.


by mazzetta