25 maggio 2009

Le tante facce della nazionalizzazione delle banche


Gli appelli per la nazionalizzazione del sistema bancario stanno vibrando almeno dallo scorso settembre, quando ha avuto origine l’attuale Panico dopo il tracollo della banca Lehman Brothers, il salvataggio iniziale di AIG e il rapido assorbimento delle banche Merrill Lynch-Wachovia-Washington Mutual da parte dei loro concorrenti più grandi, Bank of America, Wells Fargo e JP Morgan Chase.


Alcuni dei primi a sollevare l’idea della necessità eventuale di una nazionalizzazione bancaria furono lo scorso autunno gli editorialisti del Wall Street Journal e l’ex presidente della Federal Reserve, Alan Greenspan. Naturalmente l’idea di nazionalizzazione che avevano in mente gli editorialisti del Journal e Greenspan era che il governo si dovesse assumere la responsabilità di ripulire i beni deteriorati della banca a spese del contribuente, per poi svendere rapidamente i beni rimasti ai nuovi investitori ad un prezzo d’occasione. La banca “nazionalizzata” verrebbe quindi rimessa prontamente in attività come un nuovo istituto interamente privato mentre le sue “bollette” (i beni deteriorati), nel frattempo, sarebbero pagate dal contribuente.

La nazionalizzazione è pertanto un tipo di procedura fallimentare di emergenza decretata ed avviata dal governo degli Stati Uniti. Le banche non verrebbero “acquisite” se non in senso legale, formale. Seguirebbe poi un rapido trasferimento degli beni deteriorati, dopodiché l’istituto verrebbe di nuovo “messo sul mercato” e venduto agli investitori privati. La nazionalizzazione, in questo senso, serve solamente come mossa strategica per sbarazzarsi dei beni deteriorati e riportare in vita una banca zombie.

Qualcosa di simile avvenne con il fallimento della banca regionale di medie dimensioni IndyMac alla fine dell’estate 2008 quando fu acquisita dall’agenzia del governo americano Federal Deposit Insurance Corporation (FDIC). Oggi IndyMac ha riaperto i battenti con i propri debiti azzerati, debiti che sono ora del governo e del contribuente. Per la verità, IndyMac è stata riacquistata dalla FDIC ad un prezzo d’occasione dallo stesso gruppo di investitori che già l’aveva posseduta in passato. E di cui ora sono ritornati proprietari. Gli investitori sono stati “salvati”. La nazionalizzazione, quindi, è una forma di “salvataggio degli investitori”, una sorta di “amministrazione fiduciaria temporanea” in un senso formale e legale, in attesa di una nuova privatizzazione.

Quello che il Journal e Greenspan avevano in mente con “nazionalizzazione delle banche” è semplicemente il concetto di fare alle altre banche, anche quelle più grandi, quello che è stato “fatto per IndyMac.” Non vi è alcuna idea sottintesa sul fatto che una banca possa essere acquisita in modo permanente e gestita di giorno in giorno, non per gli interessi degli investitori privati ma per il più ampio interesse pubblico della nazione e dei suoi cittadini.

Dall’autunno 2008, quando i banchieri sono sostanzialmente entrati in sciopero rifiutandosi di erogare prestiti alle imprese e ai consumatori, se non applicando tassi a livello di usura, è infuriata la polemica nei circoli del potere su che cosa dovesse essere fatto delle migliaia di miliardi di dollari di “beni deteriorati” contenuti nei bilanci delle banche. Questi “beni deteriorati” sotto forma sia di “mutui deteriorati” che di “cartolarizzazioni deteriorate” ora ammontano ad una cifra che oscilla tra i 4.000 e i 6.000 miliardi di dollari stando a diverse fonti come Fortune Magazine e il Journal, e altre rispettabili fonti indipendenti, come il professore dell’Università di New York, Nouriel Roubini, e persino secondo il Segretario al Tesoro Geithner prima che venisse ufficialmente nominato per ricoprire tale incarico. Il punto principale è che finché i “beni deteriorati” non saranno eliminati dai bilanci delle banche, queste continueranno a rifiutarsi di erogare prestiti e l’attuale rapido declino dell’economia reale americana continuerà ad aggravarsi.

Il concetto Journal-Greenspan di nazionalizzazione bancaria deve essere visto come parte della discussione in corso della classe capitalista. La nazionalizzazione è solamente una tattica per impegnarsi nell’eliminazione dei beni deteriorati a cui seguirà una rapida privatizzazione, nulla di più.

Dallo scorso autunno diverse altre proposte strategiche si sono scontrate con l’idea della nazionalizzazione delle banche come “un’amministrazione fiduciaria temporanea” e come strumento per eliminare i beni deteriorati. Ci sono proposte come la creazione di una “bad bank aggregante”, nella quale il governo depositerebbe i beni deteriorati delle banche dopo averle in qualche modo acquistate. Ma l’”acquisto” si è dimostrato difficile perché le banche in realtà si sono rifiutate di vendere i loro beni deteriorati. Le banche sono “in sciopero” dallo scorso autunno e, in altre parole, non solo “si rifiutano di erogare prestiti” ma “si rifiutano anche di vendere i beni deteriorati.”

I beni deteriorati nei registri contabili delle banche hanno due forme. Una rappresenta i beni da “mutui deteriorati”. Un’altra i beni da “cartolarizzazioni deteriorate.” Secondo le norme della contabilità legale, le banche possono detenere “mutui deteriorati” nei propri registri al loro valore d’acquisto iniziale. Pertanto, le banche sono poco incentivate a venderli ad un valore inferiore e registrare la perdita. Ma chi vuole comprare i mutui al loro prezzo pieno quando è chiaro che valgono molto meno di quanto la banca sia disposta a venderli? Perciò, da settembre nessun altro investitore ha voluto acquistare i mutui deteriorati ad un prezzo di gran lunga superiore a quello di mercato. E se il governo lo facesse significherebbe un chiaro finanziamento alle banche a spese del contribuente. Quindi i mutui deteriorati non si sono spostati dai registri delle banche. Qualcosa di analogo è avvenuto anche con i beni delle cartolarizzazioni deteriorate. Queste sono rappresentate da mutui subprime, prestiti per auto, carte di credito, prestiti agli studenti e altri tipi di cartolarizzazioni garantite da beni che sono stati cartolarizzati, o impacchettati, in nuovi strumenti finanziari in vendita dal 2002. A differenza dei “mutui deteriorati”, i beni deteriorati garantiti da cartolarizzazioni devono essere valutati al loro reale prezzo odierno. Che è vicino allo zero. Mentre le banche vorrebbero vendere questi beni (agli investitori o al governo), lo vorrebbero fare solamente al di sopra del loro vero valore di mercato. Gli investitori, a loro volta, vorrebbero acquistarli solamente al loro vero prezzo – se mai ne hanno uno. Alcuni di questi beni sono considerati così assolutamente privi di valore che nessuno s’è fatto avanti per comprarli. Quindi, ancora una volta, i “beni deteriorati” sotto quest’aspetto non vengono venduti e rimangono “tossici” nei bilanci delle banche, peggiorando giorno dopo giorno.

Quanto descritto sopra è il “grande dilemma” a cui si trova di fronte oggi il sistema finanziario. Il governo degli Stati Uniti, il Tesoro e la Federal Reserve stanno cercando diversi modi per ripulire le banche dai beni deteriorati, ma ad oggi senza alcun risultato. Le banche, nel frattempo, rimangono in sciopero e si rifiutano di erogare prestiti (o di vendere i beni).

La succitata “banca aggregante” è un’idea per cercare di ripulire le banche dai loro beni deteriorati. Qualcosa del genere fu tentato con successo in Svezia nei primi anni Novanta. Tuttavia, la Svezia è un paese piccolo. Il problema oggi è enormemente più vasto, negli Stati Uniti e nel mondo. Il governo svedese ha potuto acquistare con buoni risultati i beni deteriorati e metterli in una banca aggregante. Tuttavia, le somme da “acquistare” oggi sono probabilmente molto maggiori di qualunque somma un governo possa finanziare, compresi gli Stati Uniti. E’ stato detto che il governo svedese ha “nazionalizzato” le proprie banche nel corso della costituzione della sua “bad bank aggregante”. Ma, di nuovo, quell’idea di nazionalizzazione è semplicemente una variante sul tema proposto dal Wall Street Journal e da Greenspan.

Altre varianti sul tema che vengono confuse con “nazionalizzazione” sono state gli sforzi del Tesoro americano e della Federal Reserve per acquistare azioni delle banche in fallimento – sia sotto forma di azioni privilegiate, azioni ordinarie o qualche altra forma convertibile che combinasse azioni ordinarie e privilegiate. Invece di acquistare in blocco il saldo dei beni deteriorati (ad esempio, la banca aggregante), l’idea qui è quella di compensare i beni deteriorati sui registri contabili delle banche con la speranza che, una volta che i beni siano stati neutralizzati, le banche ricomincino di nuovo ad erogare prestiti. La proprietà delle azioni, parziale o addirittura di maggioranza, viene perciò identificata con l’idea di nazionalizzazione.

Così lo scorso autunno la Fed e il Tesoro hanno acquistato l’80% delle azioni di AIG e dunque, in qualche modo, l’hanno effettivamente “nazionalizzata”. Ma la proprietà formale delle azioni non equivale assolutamente ad una nazionalizzazione. Facendo mente locale, AIG si è comportata come ha sempre fatto, sprecando miliardi di dollari in festini per i propri manager e distribuendo somme enormi del denaro del programma TARP sotto forma di bonus. Per avere un esempio dei limiti della definizione di proprietà legale di nazionalizzazione, è sufficiente fermarsi ad osservare l’esperienza di AIG.

Il programma TARP introdotto lo scorso ottobre è stato un tentativo per generalizzare la condotta di AIG. Ma con 700 miliardi di dollari, è stato ben presto chiaro che il TARP era solamente una goccia per tappare il buco di 4.000-6.000 miliardi di dollari nei bilanci delle banche. In modo sorprendente, l’esperimento del TARP dimostra che il governo americano non ha la più pallida idea della vastità delle perdite delle banche e di come effettivamente le banche l’avessero tenuta nascosta all’opinione pubblica e al governo. Il programma TARP è entrato rapidamente in collisione con il detto problema delle banche che si rifiutano di vendere i loro beni deteriorati se non a prezzi gonfiati e al di sopra del valore di mercato. Quindi il Segretario al Tesoro Paulson ha spaventato il Congresso e l’opinione pubblica per avere i 700 miliardi di dollari, per poi scoprire che era una somma ampiamente insufficiente e che, in ogni caso, le banche si sarebbero rifiutate di vendere i loro beni deteriorati a meno che non fossero finanziate in modo massiccio dal governo.

Quando Citigroup e Bank of America sono crollate nel novembre 2008, il Tesoro e la Fed hanno dato loro buona parte di quanto rimaneva dei fondi del TARP (e molto di più per AIG) e hanno tirato fuori altre centinaia di miliardi di dollari in garanzie contro le loro perdite (300 miliardi di dollari solo per Citigroup) come misura temporanea. Ma Citigroup e Bank of America sono sprofondate ulteriormente a gennaio-febbraio 2009, richiedendo un altro salvataggio. Ma a febbraio stava diventando sempre più evidente che il buco nei bilanci delle 19 grandi banche continuava ad aumentare giorno dopo giorno e stava diventando sempre più improbabile che il governo americano potesse permettersi di acquistare da solo tutti i beni deteriorati delle banche.

Tutto questo ha riacceso ancora una volta la discussione e il dibattito sulla nazionalizzazione delle banche. Se il governo americano stesso non può permettersi di acquistare tutti i beni deteriorati, alcuni hanno iniziato ad obiettare “perché gettare i soldi dei contribuenti in questo buco nero?” Forse le banche non erano “troppo grandi per fallire.” Forse dovrebbe essere loro permesso di fallire. O... forse il governo dovrebbe nazionalizzarle. Ma se la nazionalizzazione intesa come ripulitura dai beni deteriorati non è stata possibile, che cosa significa adesso nazionalizzazione?

All’inizio di febbraio l’appello per una qualche forma di nazionalizzazione è iniziato ad affiorare da varie direzioni. L’AFL-CIO [1] ha sollevato la questione, senza però fornire una chiara definizione di cosa dovrebbe essere. Celebri economisti come il premio Nobel, Joseph Stiglitz, l’hanno richiesta, come pure il professore dell'Università di New York, Nouriel Roubini, le cui previsioni sull’evoluzione della crisi si sono dimostrate esatte negli ultimi due anni. Anche James Naker, il responsabile delle decisioni durante l’amministrazione Reagan, si è schierato a favore. Greenspan ha ripetuto che la nazionalizzazione era necessaria per “una ristrutturazione metodica” del sistema. Le figure di spicco del partito repubblicano, come Lindsey Graham, hanno dichiarato alla televisione pubblica che “se la nazionalizzazione funziona, allora dovremmo metterla in pratica”. Lo stesso ha detto il presidente della Commissione Bancaria al Senato, il democratico Chris Dodd.

Ma subito hanno risposto gli alti papaveri dell’amministrazione Obama, scoraggiando l’idea e il dibattito sulla nazionalizzazione. Geithner, il consigliere economico della Casa Bianca, Larry Summers e il presidente della Fed, Ben Bernanke, hanno tutti bocciato l’idea, così come il presidente della Commissione Bancaria della Camera, Barney Frank. Anche Dodd, al Senato, è ritornato sui propri passi e si è unito al rifiuto. Tutti a protestare all’unisono con gli amministratori delegati delle grandi banche, Ken Lewis di Bank of America e Jaime Dimond di JP Morgan Chase e Vikram Pandit di Citigroup che hanno dichiarato che “sarebbe un passo indietro.”

La resistenza a questo stesso concetto deriva un altro progetto in corso d’opera tramite il quale il governo e i contribuenti finanziano le banche e gli investitori per liberarsi da questi “beni deteriorati” contenuti nei bilanci delle banche. L’ultimo progetto è stato presentato all’inizio di marzo e successivamente sono stati esposti i dettagli di quello che è stato chiamato “Programma di Investimento Pubblico-Privato” (PIPP), presentato da Geithner il 23 marzo. Ma come il programma TARP, il PIPP è fondamentalmente ancora un’idea per acquistare “beni deteriorati”. Questa volta con la forzatura che in qualche modo quegli speculatori-investitori, che hanno creato la crisi finanziaria emettendo miliardi di dollari di “beni cartolarizzati” che sono andati a gambe all’aria, ora accorrerebbero in aiuto del sistema e comprerebbero i beni deteriorati – a patto, ovviamente, che il governo finanzi generosamente l’operazione. Questa sovvenzione sarebbe finanziata, questa volta con una forzatura, non solo dal Tesoro che stanzia i fondi ma con la stampa di altri miliardi di dollari da parte della Federal Reserve. Perciò l’impegno del governo nei confronti delle banche da un giorno all’altro è aumentato dai 3.000-4.000 miliardi di dollari ad una cifra più che raddoppiata.

Ma se il nuovo salvataggio bancario dovesse fallire, come così sarà, la questione prevista dal programma sarà ancora una volta quella di procedere ad una qualche forma di nazionalizzazione. Il dibattito sulla nazionalizzazione pertanto riemergerà di nuovo in modo brutale mentre diverrà chiaro che il piano Geithner sta fallendo.

Ma quando la discussione riaffiorerà di nuovo, non potrà più essere limitata alle sue definizioni passate. La nazionalizzazione come semplice proprietà di azioni – come, per la verità, qualsiasi altro tipo formale di proprietà – è già stata tentata ed ha fallito. La stessa AIG ne è un esempio. La nazionalizzazione come amministrazione fiduciaria temporanea è chiaramente insufficiente. Non affronta quello che dev’essere fatto con i beni deteriorati contenuti nei miliardi di dollari che sono messi sotto amministrazione fiduciaria. La nazionalizzazione come banca aggregante solleva il problema di come capitalizzare un’intera struttura bancaria che è ampiamente insolvente e che costerebbe parecchie migliaia di miliardi di dollari per essere avviata. Le acquisizioni in stile FDIC-IndyMac sollevano problemi analoghi. Il costo per la FDIC per l’acquisizione di IndyMac è stato poco meno di 10 miliardi di dollari. Il solo salvataggio degli azionisti comuni di Citigroup costerà più di 1.000 miliardi di dollari.

All’altra estremità del panorama politico, dall’idea di nazionalizzazione come acquisto dei “beni deteriorati” c’è l’idea di un impegno di nazionalizzazione non nell’interesse degli investitori ma della nazione stessa. Il punto importante è chi trarrà benefici da un progetto di nazionalizzazione. Sarà tutta la nazione o i suoi individui privati? Viene chiamata NAZIONAlizzazione proprio per questo motivo. La definizione di nazionalizzazione mentre questa è al servizio degli investitori individuali, è un’appropriazione e una distorsione del vero significato del termine originale.

Chi è allora “la Nazione” che ne dovrà trarre i benefici? Ci sono 114 milioni di nuclei famigliari negli Stati Uniti. 91 milioni sono famiglie in cui i componenti guadagnano meno di 80.000 dollari all’anno. Il 5% più benestante delle famiglie, all’incirca 5 milioni di nuclei famigliari, incamera la maggior parte dei propri redditi da fonti di capitali (guadagni in conto capitale, dividendi, interessi, affitti, ricavi finanziari). L’1% più ricco incamera praticamente tutto il proprio reddito da fonti di capitali. I 91 milioni di famiglie – cioè la parte che lavora e che appartiene in larga parte al ceto medio – sono la stragrande maggioranza del paese. Ma non beneficeranno in alcun modo credibile dalla “nazionalizzazione come salvataggio degli investitori.” Un vero programma di nazionalizzazione dovrebbe pertanto dimostrare come trarranno beneficio queste 91 milioni di famiglie. E se questo non può essere dimostrato, allora il programma, qualunque sia la sua struttura, non può essere definito in alcun modo nazionalizzazione.

Né una vera nazionalizzazione può limitarsi semplicemente ad una predisposizione legale, non importa quante e che genere di azioni (privilegiate, ordinarie, convertibili) possano o non possano essere acquistate. La sola proprietà non è nazionalizzazione. La nazionalizzazione sottintende il controllo e il controllo diretto per conto dell’interesse pubblico, non per interessi privati. Ma “controllo” su che cosa e in quale forma?

Esistono tutti i tipi e i gradi di controllo. La predisposizione formale della proprietà azionaria ad oggi richiede al massimo un resoconto occasionale dalla banca in questione. I resoconti e le informazioni non sono di per sé il controllo. Né lo sono le decisioni sulla gestione del veto. AIG e altre banche che hanno preso finora centinaia di miliardi di dollari di denaro dei contribuenti testimoniano i limiti dei resoconti delle decisioni prese dai manager che rappresentano gli investitori privati. Il controllo deve andare ben oltre il semplice veto del governo alle decisioni del management delle banche. Il controllo dev’essere inteso come prendere decisioni.

Ma che genere di decisioni? Sicuramente le decisioni strategiche delle banche. E probabilmente anche una serie importante di decisioni operative. Ma per quello, i governi devono allontanare tutti i membri del consiglio di amministrazione di una banca nazionalizzata a nominarne altri, si spera di rappresentazione sindacale e della collettività. Gli amministratori delegati e i gruppi di dirigenti più anziani devono essere sostituiti. In secondo luogo, le decisioni operative devono essere esaminate ogni giorno dal nuovo gruppo dirigenziale. I manager delle divisioni principali e di medio livello possono essere lasciati al loro posto, a patto che la loro prestazione sia attentamente valutata su base periodica. Questa è una minima struttura decisionale che accompagna una vera nazionalizzazione.

Chi si oppone a questa visione di nazionalizzazione sosterrà che avrà come risultato, se applicata per una banca, il crollo del prezzo delle azioni per le banche rimanenti perché gli azionisti delle altre banche si renderanno conto che il loro istituto potrebbe essere il prossimo della lista e potrebbero sbarazzarsi delle loro azioni. Ma potrebbe non essere affatto così. Nell’acquisire una banca, il governo potrebbe annunciare che garantirà i prezzi delle azioni delle altre banche, ancora private, come minimo ai livelli attuali. Questo metterebbe una soglia al crollo del prezzo delle azioni e stabilizzerebbe i prezzi delle loro azioni.

Un’altra obiezione di chi oppone ad una vera nazionalizzazione è che le banche sono sostanzialmente solide, ma solo bisognose di liquidità. Anche se quest’obiezione potrebbe aver ingannato la gente nel 2008, è ora del tutto evidente che le “grandi 19 banche” sono insolventi, non carenti di liquidità. Il concetto di “troppo grandi per fallire” ora è chiaramente “troppo grandi per essere salvate.” La nazione non può più permettersi questo genere di istituti, che stanno letteralmente succhiando la linfa vitale economica del paese.

Un’altra obiezione punta il dito su AIG e Fannie Mae/Freddie Mac e alle loro continue perdite di beni. Chi si oppone utilizza questi istituti come esempio per il definitivo fallimento delle nazionalizzazioni. Ma AIG e Fannie/Freddie non sono esempi di nazionalizzazione: sono esempi di “investimenti sbagliati” e salvataggi pasticciati.

Un’altra tipica critica che si è sollevata contro la nazionalizzazione è che l’acquisizione di una banca è un’operazione troppo complessa. Il governo non ha il personale adeguato e non sa come gestire in modo efficiente una banca. Per rispondere a quest’obiezione è sufficiente ribattere a come un governo potrebbe fare peggio dei cosiddetti “esperti privati” che stanno ora gestendo le banche e le hanno portate alla rovina. I cosiddetti esperti bancari hanno perso più di 5.000 miliardi di dollari. Chi potrebbe fare di peggio? Stando ai princìpi di una qualunque società privata capitalista, questi esperti dovrebbero essere stati licenziati da tempo e le aziende che hanno distrutto messe, come minimo, all’interno di un progetto di riorganizzazione in base al Capitolo 11.

E’ necessaria una nuova struttura bancaria in America. Oltretutto, una simile struttura è possibilissima e ne ho illustrato alcuni elementi in recenti pubblicazioni. Per iniziare, potrebbe essere messa in piedi con una completa nazionalizzazione dei mercati dei mutui residenziali e dei mercati delle proprietà delle piccole imprese. Una nuova agenzia, la Home and Small Business Loan Corporation (HSBLC), basata sulle esperienze degli anni Trenta con l’allora Home Owners Loan Corporation e la Reconstruction Finance Corporation, potrebbe non solo sistemare il disordine di oggi ma potrebbe continuare come la fonte finanziaria principale per erogare prestiti per i tutti i mutui residenziali dei consumatori che percepiscono meno di 200.000 dollari all’anno e per le società che hanno meno di 50 dipendenti. Come secondo sviluppo, la Federal Reserve stessa potrebbe essere completamente nazionalizzata, rimuovendola dal suo status attuale di banca in parte di proprietà privata e in parte finanziata dal governo. Una Federal Reserve completamente nazionalizzata potrebbe quindi servire come “prestatore di prima istanza” per tutti i mercati dei mutui per i consumatori – automobili, studenti ed altri tipi di prestiti. La sua struttura locale potrebbe comprendere le cooperative no-profit e gli uffici del Dipartimento per lo Sviluppo Urbano e Abitativo per interfacciarsi con il consumatore. E’ possibile estendere queste idee in modo analogo per gli altri mercati del credito. In due parole, è possibile pensare ad un’altra struttura per il sistema bancario.

Sì, ogni economia ha bisogno di un sistema creditizio ma gli Stati Uniti non hanno per forza bisogno di quello che hanno ora, che sta distruggendo l’economia reale e milioni di posti di lavoro ogni mese. Un altro sistema è possibile.

E’ dunque giunto il momento di essere pronti a spostarsi dall’inevitabile dibattito sulla nazionalizzazione delle banche che ben presto emergerà per considerare altre possibili strutture e progetti – strutture che esistono allo scopo di servire la “NAZIONE” e non gli interessi degli investitori privati. Strutture in cui le decisioni non vengono prese in favore degli interessi privati ma da rappresentanti dell’interesse pubblico in favore dell’interesse pubblico.

Jack Rasmus è l’autore del libro di prossima pubblicazione “Epic recession and global financial crisis”. I suoi articoli e interviste sono disponibili sul suo sito web http://www.kyklosproductions.com

23 maggio 2009

Ma un collasso completo sarebbe poi così grave?



Tornate con il pensiero alla prima volta in assoluto in cui avete imparato qualcosa fuori da un’aula di lezione. Per alcuni sarà stato da bambini prima di iniziare la scuola e ad altri forse non è ancora capitato nella vita.
A me successe a cinque anni quando, dopo essere salito sul recinto del giardino di casa, caddi ammaccandomi il cranio. I miei genitori mi sgridarono perché mi ero arrampicato, ma ciò che mi fece davvero imparare la lezione fu il dolore alla nuca provocato dalla caduta.
Il sistema nervoso umano è ciò che ci fa sentire dolore quando ci cimentiamo in attività quali lo sventolare la mano su una fiamma ardente o il farci ripetutamente scazzottare in faccia. La maggioranza degli esseri umani prova avversione al dolore e ai suoi effetti sul corpo, ma in realtà esso è un modo per proteggerci da danni ulteriori e più traumatici, come il decesso.

Quando mettiamo la mano nel fuoco, ci facciamo male e così impariamo ad evitare di farlo.
Quando il nostro naso è colpito da un oggetto contundente, proviamo un dolore acuto fino a che impariamo a schivare correttamente il “proiettile” abbassandoci o spostando la testa di lato.
Senza le conseguenze del dolore, gli esseri umani avrebbero una probabilità molto maggiore di pervenire alla propria fine ultima a causa dell’incapacità di reagire ad eventi pericolosi.
Noi della specie homo sapiens siamo progrediti, abbiamo imparato e ci siamo evoluti come società in questo modo. E per questo è necessario porsi una domanda che pertiene all’attuale situazione economica… ma un collasso completo sarebbe poi tanto grave?

Dicendo collasso completo faccio riferimento alle proposte di pacchetti di stimolo economico, che viene costantemente spacciato come il salvatore delle comunità finanziarie ed economiche in generale. Di recente, il mantra dei media è stato che, senza “stimoli” o infusioni di contante nuovo di zecca nel “sistema”, gli Stati Uniti come li conosciamo potrebbero non esistere più.
Di sicuro le case produttrici di automobili nazionali potrebbero andare a picco, e ne risulterebbero enormi perdite in termini di posti di lavoro, ma sfortunatamente talvolta… così vanno le cose.
General Motors e Ford dovrebbero patire le conseguenze per aver lavorato in maniera tanto inefficace e inefficiente nel corso di vari decenni. Il mercato ha decretato che, dal momento che in giro c’è effettivamente di meglio, certi macchinoni inaffidabili che tracannano benzina non sono più un prodotto desiderabile. In pratica, non c’è bisogno di mangiare da McDonald’s quando dall’altro lato della strada si trova cibo migliore, più economico e più sano.
Non è altro che la bestiale natura dei cicli economici.

Io sono dell’idea che non ci dovrebbero essere pacchetti di stimolo di alcun genere e che, se proprio bisogna fare qualcosa, si dovrebbero abbassare le tasse per tutti. Le industrie prive di liquidità sufficiente a superare periodi economici difficili dovrebbero essere costrette ad affrontare le conseguenze del non essersi sapute gestire in modo responsabile. Per un vero progresso di questa società, è la mentalità di queste aziende e del grande pubblico che deve cambiare.
È tutta una questione di apprendimento attraverso il dolore.
Il collasso porta al dolore.
Il dolore porta ad una forma di apprendimento naturale e vero.
L’apprendimento naturale e vero porta ad una reale innovazione.
La reale innovazione porta ad un progresso solido e ad una ripresa sostenibile.
Che cosa sarebbe successo se a cinque anni non mi fossi fatto male cadendo sulla testa? Magari ora mi arrampicherei su ponti o grattaceli senza essere consapevole dell’estremo pericolo cui mi sto esponendo.
Che cosa succede se la società non prova mai dolore per le proprie spese irresponsabili e per le proprie azioni irrazionali? Finisce con il perpetuare questo ciclo infinito di debito/spesa/bancarotta. Sì, il dolore è necessario… molto, molto necessario al futuro di questo Paese.

P.S.: La controargomentazione del collasso è che, senza misure di stimolo economico, molti Americani sarebbero alla fame e senza tetto. Be’, per vostra informazione, questo succede già e c’è gente che tuttora viene gettata in mezzo a una strada. Amici miei, pensate a dove, di preciso, finiscono gli stanziamenti...
di John Chavez
Fonte: www.examiner.com

22 maggio 2009

Gli Stati Uniti si esercitano alla guerra economica



Per gli scettici che occorrerebbe ancora convincere, il mese di marzo 2009 vedrà l'applicazione concreta di un concetto che l'amministrazione Clinton aveva previsto fin dal 1992: la guerra economica. Il web non si è sbagliato, e la stampa lo ha subito rilanciato: il pentagono ha realizzato il 17 e il 18 marzo scorso “una simulazione di guerra economica„. L’obiettivo? Anticipare le modalità secondo le quali le potenze del mondo condurrebbero una guerra economica, ed eventualmente determinare un vincitore. Se i dettagli di quest'operazione che si è svolta nel laboratorio di fisica applicata dell'Università Johns Hopkins restano riservati, tuttavia, i partecipanti hanno spiegato che i capi di imprese, gli accademici e i gestori di fondi - i responsabili della difesa e di intelligence, civili come militari, hanno osservato le strategie di ciascun partecipante.Al di là delle preoccupazioni sulla guerra cibernetica rispetto alla quale i mass media fanno regolarmente da cassa di risonanza, è una guerra molto più reale quella alla quale si preparano, da qualche tempo, gli Stati Uniti. Ma i ruoli sembranoessersi invertiti: mentre all'inizio degli anni 90, quest'ultimi iniziavano una nuova era geopolitica in posizione di forza, gli anni 2000 hanno visto la potenza dominante avere una forte concorrenza. E ciò cambia profondamente la loro relazione col concetto di guerra economica. Il Presidente Clinton aveva inaugurato, con i suoi famosi Advocacy Center et war rooms, un periodo dove una sola potenza aveva vocazione egemonica con lo scopo di conservare la supremazia politica, economica e sociale. La guerra fredda - dove la possibilità di una guerra violenta e fisica non era stata mai allontanata, per quanto convogliata nei conflitti periferici -era stata portata a termine; la guerra economica era invece incominciata. La relazione “Japan 2000„ simbolizza questa svolta: elaborato dalla CIA, questo documento cambia il paradigma dei confronti geopolitici. Infatti, da geopolitica, la guerra si trasforma in economica; il confronto, innanzitutto considerato tra nemici chiaramente identificati, può ormai essere considerato tra due alleati, su un campo molto più tollerabile per le popolazioni, poiché meno visibile e meno doloroso.
Non è sorprendente che quest'esercizio di guerra economica sia stato condotto oltre Atlantico. La reattività ed il pragmatismo hanno sempre segnato le politiche americane in materia economica. Tuttavia, nel momento in cui la crisi economica scuote le basi della potenza degli Stati Uniti, già rimesse in discussione con una nuova ripartizione geopolitica resa manifesta dagli attentati dell'undici settembre 2001, è significativo notare che quest'iniziativa è stata pensata prima della contaminazione della crisi finanziaria sull'economia reale (nella primavera del 2008 secondo http://www.Politico.com). La messa in atto di tale esercizio richiede mesi di riflessione e di parametrazioni: ciò significa che gli strateghi americani prendono seriamente, da tempo, la guerra economica. Ciò non sembra sempre essere il caso della Francia, ed in misura maggiore dell’Europa. Eccetto, forse, per la Germania, che ha deciso di rompere la sua collaborazione con Areva nel gennaio 2009, e dal 2005 fa parte del consorzio NordStream che permette un approvvigionamento di gas più sicuro all'Europa del Nord. L'Europa è strutturalmente dipendente dal resto del mondo per il suo approvvigionamento energetico. Le conseguenze delle crisi tra Ucraina e Russia, sebbene eminentemente concrete per l'Europa, in particolare per i vecchi paesi dell'Europa centrale ed orientale, nel 2009 non hanno ancora dato luogo ad una qualunque avanzata per una indispensabile politica comunitaria finalizzata a garantire la sicurezza energetica a 380 milioni di persone. Ci può essere una spiegazione a questo stato di fatto: realizzata per costruire la pace in Europa, l'Unione Europea non contempla una guerra, qualunque essa sia: economica, e a maggior ragione militare. Questa spiegazione, legittima, non deve fungere da scusante per allontanare ogni riflessione sull'argomento: gli Stati Uniti non hanno nella loro Costituzione disposizioni che ne fanno una nazione bellicista per definizione, e tuttavia non sono stupidi. Chi vuole la pace prepara la guerra, o per riprendere lo slogan del Ministro della Difesa francese: “quando la difesa avanza, la pace progredisce„.
Ora, giustamente, sembra che la Francia non si preoccupi affatto della guerra economica, tanto in teoria, che in pratica. Se è una realtà per imprese che evolvono in contesti ultra-concorrenziali (Suez Environnement, Véolia, Air Francia-KLM…), attendiamo sempre che le autorità competenti conducano una riflessione comune,o realizzino una vera strategia per la Francia nella guerra economica. Perché no, un libro bianco, seguito da una politica pubblica. È responsabilità dei politici di iscrivere la Francia in una strategia, considerando il lungo termine. Si tratta di una questione di potenza.
Un punto interessante: è l’equipe che ha sostenuto il ruolo della Cina che ha vinto.
di Matthieu Viteau

25 maggio 2009

Le tante facce della nazionalizzazione delle banche


Gli appelli per la nazionalizzazione del sistema bancario stanno vibrando almeno dallo scorso settembre, quando ha avuto origine l’attuale Panico dopo il tracollo della banca Lehman Brothers, il salvataggio iniziale di AIG e il rapido assorbimento delle banche Merrill Lynch-Wachovia-Washington Mutual da parte dei loro concorrenti più grandi, Bank of America, Wells Fargo e JP Morgan Chase.


Alcuni dei primi a sollevare l’idea della necessità eventuale di una nazionalizzazione bancaria furono lo scorso autunno gli editorialisti del Wall Street Journal e l’ex presidente della Federal Reserve, Alan Greenspan. Naturalmente l’idea di nazionalizzazione che avevano in mente gli editorialisti del Journal e Greenspan era che il governo si dovesse assumere la responsabilità di ripulire i beni deteriorati della banca a spese del contribuente, per poi svendere rapidamente i beni rimasti ai nuovi investitori ad un prezzo d’occasione. La banca “nazionalizzata” verrebbe quindi rimessa prontamente in attività come un nuovo istituto interamente privato mentre le sue “bollette” (i beni deteriorati), nel frattempo, sarebbero pagate dal contribuente.

La nazionalizzazione è pertanto un tipo di procedura fallimentare di emergenza decretata ed avviata dal governo degli Stati Uniti. Le banche non verrebbero “acquisite” se non in senso legale, formale. Seguirebbe poi un rapido trasferimento degli beni deteriorati, dopodiché l’istituto verrebbe di nuovo “messo sul mercato” e venduto agli investitori privati. La nazionalizzazione, in questo senso, serve solamente come mossa strategica per sbarazzarsi dei beni deteriorati e riportare in vita una banca zombie.

Qualcosa di simile avvenne con il fallimento della banca regionale di medie dimensioni IndyMac alla fine dell’estate 2008 quando fu acquisita dall’agenzia del governo americano Federal Deposit Insurance Corporation (FDIC). Oggi IndyMac ha riaperto i battenti con i propri debiti azzerati, debiti che sono ora del governo e del contribuente. Per la verità, IndyMac è stata riacquistata dalla FDIC ad un prezzo d’occasione dallo stesso gruppo di investitori che già l’aveva posseduta in passato. E di cui ora sono ritornati proprietari. Gli investitori sono stati “salvati”. La nazionalizzazione, quindi, è una forma di “salvataggio degli investitori”, una sorta di “amministrazione fiduciaria temporanea” in un senso formale e legale, in attesa di una nuova privatizzazione.

Quello che il Journal e Greenspan avevano in mente con “nazionalizzazione delle banche” è semplicemente il concetto di fare alle altre banche, anche quelle più grandi, quello che è stato “fatto per IndyMac.” Non vi è alcuna idea sottintesa sul fatto che una banca possa essere acquisita in modo permanente e gestita di giorno in giorno, non per gli interessi degli investitori privati ma per il più ampio interesse pubblico della nazione e dei suoi cittadini.

Dall’autunno 2008, quando i banchieri sono sostanzialmente entrati in sciopero rifiutandosi di erogare prestiti alle imprese e ai consumatori, se non applicando tassi a livello di usura, è infuriata la polemica nei circoli del potere su che cosa dovesse essere fatto delle migliaia di miliardi di dollari di “beni deteriorati” contenuti nei bilanci delle banche. Questi “beni deteriorati” sotto forma sia di “mutui deteriorati” che di “cartolarizzazioni deteriorate” ora ammontano ad una cifra che oscilla tra i 4.000 e i 6.000 miliardi di dollari stando a diverse fonti come Fortune Magazine e il Journal, e altre rispettabili fonti indipendenti, come il professore dell’Università di New York, Nouriel Roubini, e persino secondo il Segretario al Tesoro Geithner prima che venisse ufficialmente nominato per ricoprire tale incarico. Il punto principale è che finché i “beni deteriorati” non saranno eliminati dai bilanci delle banche, queste continueranno a rifiutarsi di erogare prestiti e l’attuale rapido declino dell’economia reale americana continuerà ad aggravarsi.

Il concetto Journal-Greenspan di nazionalizzazione bancaria deve essere visto come parte della discussione in corso della classe capitalista. La nazionalizzazione è solamente una tattica per impegnarsi nell’eliminazione dei beni deteriorati a cui seguirà una rapida privatizzazione, nulla di più.

Dallo scorso autunno diverse altre proposte strategiche si sono scontrate con l’idea della nazionalizzazione delle banche come “un’amministrazione fiduciaria temporanea” e come strumento per eliminare i beni deteriorati. Ci sono proposte come la creazione di una “bad bank aggregante”, nella quale il governo depositerebbe i beni deteriorati delle banche dopo averle in qualche modo acquistate. Ma l’”acquisto” si è dimostrato difficile perché le banche in realtà si sono rifiutate di vendere i loro beni deteriorati. Le banche sono “in sciopero” dallo scorso autunno e, in altre parole, non solo “si rifiutano di erogare prestiti” ma “si rifiutano anche di vendere i beni deteriorati.”

I beni deteriorati nei registri contabili delle banche hanno due forme. Una rappresenta i beni da “mutui deteriorati”. Un’altra i beni da “cartolarizzazioni deteriorate.” Secondo le norme della contabilità legale, le banche possono detenere “mutui deteriorati” nei propri registri al loro valore d’acquisto iniziale. Pertanto, le banche sono poco incentivate a venderli ad un valore inferiore e registrare la perdita. Ma chi vuole comprare i mutui al loro prezzo pieno quando è chiaro che valgono molto meno di quanto la banca sia disposta a venderli? Perciò, da settembre nessun altro investitore ha voluto acquistare i mutui deteriorati ad un prezzo di gran lunga superiore a quello di mercato. E se il governo lo facesse significherebbe un chiaro finanziamento alle banche a spese del contribuente. Quindi i mutui deteriorati non si sono spostati dai registri delle banche. Qualcosa di analogo è avvenuto anche con i beni delle cartolarizzazioni deteriorate. Queste sono rappresentate da mutui subprime, prestiti per auto, carte di credito, prestiti agli studenti e altri tipi di cartolarizzazioni garantite da beni che sono stati cartolarizzati, o impacchettati, in nuovi strumenti finanziari in vendita dal 2002. A differenza dei “mutui deteriorati”, i beni deteriorati garantiti da cartolarizzazioni devono essere valutati al loro reale prezzo odierno. Che è vicino allo zero. Mentre le banche vorrebbero vendere questi beni (agli investitori o al governo), lo vorrebbero fare solamente al di sopra del loro vero valore di mercato. Gli investitori, a loro volta, vorrebbero acquistarli solamente al loro vero prezzo – se mai ne hanno uno. Alcuni di questi beni sono considerati così assolutamente privi di valore che nessuno s’è fatto avanti per comprarli. Quindi, ancora una volta, i “beni deteriorati” sotto quest’aspetto non vengono venduti e rimangono “tossici” nei bilanci delle banche, peggiorando giorno dopo giorno.

Quanto descritto sopra è il “grande dilemma” a cui si trova di fronte oggi il sistema finanziario. Il governo degli Stati Uniti, il Tesoro e la Federal Reserve stanno cercando diversi modi per ripulire le banche dai beni deteriorati, ma ad oggi senza alcun risultato. Le banche, nel frattempo, rimangono in sciopero e si rifiutano di erogare prestiti (o di vendere i beni).

La succitata “banca aggregante” è un’idea per cercare di ripulire le banche dai loro beni deteriorati. Qualcosa del genere fu tentato con successo in Svezia nei primi anni Novanta. Tuttavia, la Svezia è un paese piccolo. Il problema oggi è enormemente più vasto, negli Stati Uniti e nel mondo. Il governo svedese ha potuto acquistare con buoni risultati i beni deteriorati e metterli in una banca aggregante. Tuttavia, le somme da “acquistare” oggi sono probabilmente molto maggiori di qualunque somma un governo possa finanziare, compresi gli Stati Uniti. E’ stato detto che il governo svedese ha “nazionalizzato” le proprie banche nel corso della costituzione della sua “bad bank aggregante”. Ma, di nuovo, quell’idea di nazionalizzazione è semplicemente una variante sul tema proposto dal Wall Street Journal e da Greenspan.

Altre varianti sul tema che vengono confuse con “nazionalizzazione” sono state gli sforzi del Tesoro americano e della Federal Reserve per acquistare azioni delle banche in fallimento – sia sotto forma di azioni privilegiate, azioni ordinarie o qualche altra forma convertibile che combinasse azioni ordinarie e privilegiate. Invece di acquistare in blocco il saldo dei beni deteriorati (ad esempio, la banca aggregante), l’idea qui è quella di compensare i beni deteriorati sui registri contabili delle banche con la speranza che, una volta che i beni siano stati neutralizzati, le banche ricomincino di nuovo ad erogare prestiti. La proprietà delle azioni, parziale o addirittura di maggioranza, viene perciò identificata con l’idea di nazionalizzazione.

Così lo scorso autunno la Fed e il Tesoro hanno acquistato l’80% delle azioni di AIG e dunque, in qualche modo, l’hanno effettivamente “nazionalizzata”. Ma la proprietà formale delle azioni non equivale assolutamente ad una nazionalizzazione. Facendo mente locale, AIG si è comportata come ha sempre fatto, sprecando miliardi di dollari in festini per i propri manager e distribuendo somme enormi del denaro del programma TARP sotto forma di bonus. Per avere un esempio dei limiti della definizione di proprietà legale di nazionalizzazione, è sufficiente fermarsi ad osservare l’esperienza di AIG.

Il programma TARP introdotto lo scorso ottobre è stato un tentativo per generalizzare la condotta di AIG. Ma con 700 miliardi di dollari, è stato ben presto chiaro che il TARP era solamente una goccia per tappare il buco di 4.000-6.000 miliardi di dollari nei bilanci delle banche. In modo sorprendente, l’esperimento del TARP dimostra che il governo americano non ha la più pallida idea della vastità delle perdite delle banche e di come effettivamente le banche l’avessero tenuta nascosta all’opinione pubblica e al governo. Il programma TARP è entrato rapidamente in collisione con il detto problema delle banche che si rifiutano di vendere i loro beni deteriorati se non a prezzi gonfiati e al di sopra del valore di mercato. Quindi il Segretario al Tesoro Paulson ha spaventato il Congresso e l’opinione pubblica per avere i 700 miliardi di dollari, per poi scoprire che era una somma ampiamente insufficiente e che, in ogni caso, le banche si sarebbero rifiutate di vendere i loro beni deteriorati a meno che non fossero finanziate in modo massiccio dal governo.

Quando Citigroup e Bank of America sono crollate nel novembre 2008, il Tesoro e la Fed hanno dato loro buona parte di quanto rimaneva dei fondi del TARP (e molto di più per AIG) e hanno tirato fuori altre centinaia di miliardi di dollari in garanzie contro le loro perdite (300 miliardi di dollari solo per Citigroup) come misura temporanea. Ma Citigroup e Bank of America sono sprofondate ulteriormente a gennaio-febbraio 2009, richiedendo un altro salvataggio. Ma a febbraio stava diventando sempre più evidente che il buco nei bilanci delle 19 grandi banche continuava ad aumentare giorno dopo giorno e stava diventando sempre più improbabile che il governo americano potesse permettersi di acquistare da solo tutti i beni deteriorati delle banche.

Tutto questo ha riacceso ancora una volta la discussione e il dibattito sulla nazionalizzazione delle banche. Se il governo americano stesso non può permettersi di acquistare tutti i beni deteriorati, alcuni hanno iniziato ad obiettare “perché gettare i soldi dei contribuenti in questo buco nero?” Forse le banche non erano “troppo grandi per fallire.” Forse dovrebbe essere loro permesso di fallire. O... forse il governo dovrebbe nazionalizzarle. Ma se la nazionalizzazione intesa come ripulitura dai beni deteriorati non è stata possibile, che cosa significa adesso nazionalizzazione?

All’inizio di febbraio l’appello per una qualche forma di nazionalizzazione è iniziato ad affiorare da varie direzioni. L’AFL-CIO [1] ha sollevato la questione, senza però fornire una chiara definizione di cosa dovrebbe essere. Celebri economisti come il premio Nobel, Joseph Stiglitz, l’hanno richiesta, come pure il professore dell'Università di New York, Nouriel Roubini, le cui previsioni sull’evoluzione della crisi si sono dimostrate esatte negli ultimi due anni. Anche James Naker, il responsabile delle decisioni durante l’amministrazione Reagan, si è schierato a favore. Greenspan ha ripetuto che la nazionalizzazione era necessaria per “una ristrutturazione metodica” del sistema. Le figure di spicco del partito repubblicano, come Lindsey Graham, hanno dichiarato alla televisione pubblica che “se la nazionalizzazione funziona, allora dovremmo metterla in pratica”. Lo stesso ha detto il presidente della Commissione Bancaria al Senato, il democratico Chris Dodd.

Ma subito hanno risposto gli alti papaveri dell’amministrazione Obama, scoraggiando l’idea e il dibattito sulla nazionalizzazione. Geithner, il consigliere economico della Casa Bianca, Larry Summers e il presidente della Fed, Ben Bernanke, hanno tutti bocciato l’idea, così come il presidente della Commissione Bancaria della Camera, Barney Frank. Anche Dodd, al Senato, è ritornato sui propri passi e si è unito al rifiuto. Tutti a protestare all’unisono con gli amministratori delegati delle grandi banche, Ken Lewis di Bank of America e Jaime Dimond di JP Morgan Chase e Vikram Pandit di Citigroup che hanno dichiarato che “sarebbe un passo indietro.”

La resistenza a questo stesso concetto deriva un altro progetto in corso d’opera tramite il quale il governo e i contribuenti finanziano le banche e gli investitori per liberarsi da questi “beni deteriorati” contenuti nei bilanci delle banche. L’ultimo progetto è stato presentato all’inizio di marzo e successivamente sono stati esposti i dettagli di quello che è stato chiamato “Programma di Investimento Pubblico-Privato” (PIPP), presentato da Geithner il 23 marzo. Ma come il programma TARP, il PIPP è fondamentalmente ancora un’idea per acquistare “beni deteriorati”. Questa volta con la forzatura che in qualche modo quegli speculatori-investitori, che hanno creato la crisi finanziaria emettendo miliardi di dollari di “beni cartolarizzati” che sono andati a gambe all’aria, ora accorrerebbero in aiuto del sistema e comprerebbero i beni deteriorati – a patto, ovviamente, che il governo finanzi generosamente l’operazione. Questa sovvenzione sarebbe finanziata, questa volta con una forzatura, non solo dal Tesoro che stanzia i fondi ma con la stampa di altri miliardi di dollari da parte della Federal Reserve. Perciò l’impegno del governo nei confronti delle banche da un giorno all’altro è aumentato dai 3.000-4.000 miliardi di dollari ad una cifra più che raddoppiata.

Ma se il nuovo salvataggio bancario dovesse fallire, come così sarà, la questione prevista dal programma sarà ancora una volta quella di procedere ad una qualche forma di nazionalizzazione. Il dibattito sulla nazionalizzazione pertanto riemergerà di nuovo in modo brutale mentre diverrà chiaro che il piano Geithner sta fallendo.

Ma quando la discussione riaffiorerà di nuovo, non potrà più essere limitata alle sue definizioni passate. La nazionalizzazione come semplice proprietà di azioni – come, per la verità, qualsiasi altro tipo formale di proprietà – è già stata tentata ed ha fallito. La stessa AIG ne è un esempio. La nazionalizzazione come amministrazione fiduciaria temporanea è chiaramente insufficiente. Non affronta quello che dev’essere fatto con i beni deteriorati contenuti nei miliardi di dollari che sono messi sotto amministrazione fiduciaria. La nazionalizzazione come banca aggregante solleva il problema di come capitalizzare un’intera struttura bancaria che è ampiamente insolvente e che costerebbe parecchie migliaia di miliardi di dollari per essere avviata. Le acquisizioni in stile FDIC-IndyMac sollevano problemi analoghi. Il costo per la FDIC per l’acquisizione di IndyMac è stato poco meno di 10 miliardi di dollari. Il solo salvataggio degli azionisti comuni di Citigroup costerà più di 1.000 miliardi di dollari.

All’altra estremità del panorama politico, dall’idea di nazionalizzazione come acquisto dei “beni deteriorati” c’è l’idea di un impegno di nazionalizzazione non nell’interesse degli investitori ma della nazione stessa. Il punto importante è chi trarrà benefici da un progetto di nazionalizzazione. Sarà tutta la nazione o i suoi individui privati? Viene chiamata NAZIONAlizzazione proprio per questo motivo. La definizione di nazionalizzazione mentre questa è al servizio degli investitori individuali, è un’appropriazione e una distorsione del vero significato del termine originale.

Chi è allora “la Nazione” che ne dovrà trarre i benefici? Ci sono 114 milioni di nuclei famigliari negli Stati Uniti. 91 milioni sono famiglie in cui i componenti guadagnano meno di 80.000 dollari all’anno. Il 5% più benestante delle famiglie, all’incirca 5 milioni di nuclei famigliari, incamera la maggior parte dei propri redditi da fonti di capitali (guadagni in conto capitale, dividendi, interessi, affitti, ricavi finanziari). L’1% più ricco incamera praticamente tutto il proprio reddito da fonti di capitali. I 91 milioni di famiglie – cioè la parte che lavora e che appartiene in larga parte al ceto medio – sono la stragrande maggioranza del paese. Ma non beneficeranno in alcun modo credibile dalla “nazionalizzazione come salvataggio degli investitori.” Un vero programma di nazionalizzazione dovrebbe pertanto dimostrare come trarranno beneficio queste 91 milioni di famiglie. E se questo non può essere dimostrato, allora il programma, qualunque sia la sua struttura, non può essere definito in alcun modo nazionalizzazione.

Né una vera nazionalizzazione può limitarsi semplicemente ad una predisposizione legale, non importa quante e che genere di azioni (privilegiate, ordinarie, convertibili) possano o non possano essere acquistate. La sola proprietà non è nazionalizzazione. La nazionalizzazione sottintende il controllo e il controllo diretto per conto dell’interesse pubblico, non per interessi privati. Ma “controllo” su che cosa e in quale forma?

Esistono tutti i tipi e i gradi di controllo. La predisposizione formale della proprietà azionaria ad oggi richiede al massimo un resoconto occasionale dalla banca in questione. I resoconti e le informazioni non sono di per sé il controllo. Né lo sono le decisioni sulla gestione del veto. AIG e altre banche che hanno preso finora centinaia di miliardi di dollari di denaro dei contribuenti testimoniano i limiti dei resoconti delle decisioni prese dai manager che rappresentano gli investitori privati. Il controllo deve andare ben oltre il semplice veto del governo alle decisioni del management delle banche. Il controllo dev’essere inteso come prendere decisioni.

Ma che genere di decisioni? Sicuramente le decisioni strategiche delle banche. E probabilmente anche una serie importante di decisioni operative. Ma per quello, i governi devono allontanare tutti i membri del consiglio di amministrazione di una banca nazionalizzata a nominarne altri, si spera di rappresentazione sindacale e della collettività. Gli amministratori delegati e i gruppi di dirigenti più anziani devono essere sostituiti. In secondo luogo, le decisioni operative devono essere esaminate ogni giorno dal nuovo gruppo dirigenziale. I manager delle divisioni principali e di medio livello possono essere lasciati al loro posto, a patto che la loro prestazione sia attentamente valutata su base periodica. Questa è una minima struttura decisionale che accompagna una vera nazionalizzazione.

Chi si oppone a questa visione di nazionalizzazione sosterrà che avrà come risultato, se applicata per una banca, il crollo del prezzo delle azioni per le banche rimanenti perché gli azionisti delle altre banche si renderanno conto che il loro istituto potrebbe essere il prossimo della lista e potrebbero sbarazzarsi delle loro azioni. Ma potrebbe non essere affatto così. Nell’acquisire una banca, il governo potrebbe annunciare che garantirà i prezzi delle azioni delle altre banche, ancora private, come minimo ai livelli attuali. Questo metterebbe una soglia al crollo del prezzo delle azioni e stabilizzerebbe i prezzi delle loro azioni.

Un’altra obiezione di chi oppone ad una vera nazionalizzazione è che le banche sono sostanzialmente solide, ma solo bisognose di liquidità. Anche se quest’obiezione potrebbe aver ingannato la gente nel 2008, è ora del tutto evidente che le “grandi 19 banche” sono insolventi, non carenti di liquidità. Il concetto di “troppo grandi per fallire” ora è chiaramente “troppo grandi per essere salvate.” La nazione non può più permettersi questo genere di istituti, che stanno letteralmente succhiando la linfa vitale economica del paese.

Un’altra obiezione punta il dito su AIG e Fannie Mae/Freddie Mac e alle loro continue perdite di beni. Chi si oppone utilizza questi istituti come esempio per il definitivo fallimento delle nazionalizzazioni. Ma AIG e Fannie/Freddie non sono esempi di nazionalizzazione: sono esempi di “investimenti sbagliati” e salvataggi pasticciati.

Un’altra tipica critica che si è sollevata contro la nazionalizzazione è che l’acquisizione di una banca è un’operazione troppo complessa. Il governo non ha il personale adeguato e non sa come gestire in modo efficiente una banca. Per rispondere a quest’obiezione è sufficiente ribattere a come un governo potrebbe fare peggio dei cosiddetti “esperti privati” che stanno ora gestendo le banche e le hanno portate alla rovina. I cosiddetti esperti bancari hanno perso più di 5.000 miliardi di dollari. Chi potrebbe fare di peggio? Stando ai princìpi di una qualunque società privata capitalista, questi esperti dovrebbero essere stati licenziati da tempo e le aziende che hanno distrutto messe, come minimo, all’interno di un progetto di riorganizzazione in base al Capitolo 11.

E’ necessaria una nuova struttura bancaria in America. Oltretutto, una simile struttura è possibilissima e ne ho illustrato alcuni elementi in recenti pubblicazioni. Per iniziare, potrebbe essere messa in piedi con una completa nazionalizzazione dei mercati dei mutui residenziali e dei mercati delle proprietà delle piccole imprese. Una nuova agenzia, la Home and Small Business Loan Corporation (HSBLC), basata sulle esperienze degli anni Trenta con l’allora Home Owners Loan Corporation e la Reconstruction Finance Corporation, potrebbe non solo sistemare il disordine di oggi ma potrebbe continuare come la fonte finanziaria principale per erogare prestiti per i tutti i mutui residenziali dei consumatori che percepiscono meno di 200.000 dollari all’anno e per le società che hanno meno di 50 dipendenti. Come secondo sviluppo, la Federal Reserve stessa potrebbe essere completamente nazionalizzata, rimuovendola dal suo status attuale di banca in parte di proprietà privata e in parte finanziata dal governo. Una Federal Reserve completamente nazionalizzata potrebbe quindi servire come “prestatore di prima istanza” per tutti i mercati dei mutui per i consumatori – automobili, studenti ed altri tipi di prestiti. La sua struttura locale potrebbe comprendere le cooperative no-profit e gli uffici del Dipartimento per lo Sviluppo Urbano e Abitativo per interfacciarsi con il consumatore. E’ possibile estendere queste idee in modo analogo per gli altri mercati del credito. In due parole, è possibile pensare ad un’altra struttura per il sistema bancario.

Sì, ogni economia ha bisogno di un sistema creditizio ma gli Stati Uniti non hanno per forza bisogno di quello che hanno ora, che sta distruggendo l’economia reale e milioni di posti di lavoro ogni mese. Un altro sistema è possibile.

E’ dunque giunto il momento di essere pronti a spostarsi dall’inevitabile dibattito sulla nazionalizzazione delle banche che ben presto emergerà per considerare altre possibili strutture e progetti – strutture che esistono allo scopo di servire la “NAZIONE” e non gli interessi degli investitori privati. Strutture in cui le decisioni non vengono prese in favore degli interessi privati ma da rappresentanti dell’interesse pubblico in favore dell’interesse pubblico.

Jack Rasmus è l’autore del libro di prossima pubblicazione “Epic recession and global financial crisis”. I suoi articoli e interviste sono disponibili sul suo sito web http://www.kyklosproductions.com

23 maggio 2009

Ma un collasso completo sarebbe poi così grave?



Tornate con il pensiero alla prima volta in assoluto in cui avete imparato qualcosa fuori da un’aula di lezione. Per alcuni sarà stato da bambini prima di iniziare la scuola e ad altri forse non è ancora capitato nella vita.
A me successe a cinque anni quando, dopo essere salito sul recinto del giardino di casa, caddi ammaccandomi il cranio. I miei genitori mi sgridarono perché mi ero arrampicato, ma ciò che mi fece davvero imparare la lezione fu il dolore alla nuca provocato dalla caduta.
Il sistema nervoso umano è ciò che ci fa sentire dolore quando ci cimentiamo in attività quali lo sventolare la mano su una fiamma ardente o il farci ripetutamente scazzottare in faccia. La maggioranza degli esseri umani prova avversione al dolore e ai suoi effetti sul corpo, ma in realtà esso è un modo per proteggerci da danni ulteriori e più traumatici, come il decesso.

Quando mettiamo la mano nel fuoco, ci facciamo male e così impariamo ad evitare di farlo.
Quando il nostro naso è colpito da un oggetto contundente, proviamo un dolore acuto fino a che impariamo a schivare correttamente il “proiettile” abbassandoci o spostando la testa di lato.
Senza le conseguenze del dolore, gli esseri umani avrebbero una probabilità molto maggiore di pervenire alla propria fine ultima a causa dell’incapacità di reagire ad eventi pericolosi.
Noi della specie homo sapiens siamo progrediti, abbiamo imparato e ci siamo evoluti come società in questo modo. E per questo è necessario porsi una domanda che pertiene all’attuale situazione economica… ma un collasso completo sarebbe poi tanto grave?

Dicendo collasso completo faccio riferimento alle proposte di pacchetti di stimolo economico, che viene costantemente spacciato come il salvatore delle comunità finanziarie ed economiche in generale. Di recente, il mantra dei media è stato che, senza “stimoli” o infusioni di contante nuovo di zecca nel “sistema”, gli Stati Uniti come li conosciamo potrebbero non esistere più.
Di sicuro le case produttrici di automobili nazionali potrebbero andare a picco, e ne risulterebbero enormi perdite in termini di posti di lavoro, ma sfortunatamente talvolta… così vanno le cose.
General Motors e Ford dovrebbero patire le conseguenze per aver lavorato in maniera tanto inefficace e inefficiente nel corso di vari decenni. Il mercato ha decretato che, dal momento che in giro c’è effettivamente di meglio, certi macchinoni inaffidabili che tracannano benzina non sono più un prodotto desiderabile. In pratica, non c’è bisogno di mangiare da McDonald’s quando dall’altro lato della strada si trova cibo migliore, più economico e più sano.
Non è altro che la bestiale natura dei cicli economici.

Io sono dell’idea che non ci dovrebbero essere pacchetti di stimolo di alcun genere e che, se proprio bisogna fare qualcosa, si dovrebbero abbassare le tasse per tutti. Le industrie prive di liquidità sufficiente a superare periodi economici difficili dovrebbero essere costrette ad affrontare le conseguenze del non essersi sapute gestire in modo responsabile. Per un vero progresso di questa società, è la mentalità di queste aziende e del grande pubblico che deve cambiare.
È tutta una questione di apprendimento attraverso il dolore.
Il collasso porta al dolore.
Il dolore porta ad una forma di apprendimento naturale e vero.
L’apprendimento naturale e vero porta ad una reale innovazione.
La reale innovazione porta ad un progresso solido e ad una ripresa sostenibile.
Che cosa sarebbe successo se a cinque anni non mi fossi fatto male cadendo sulla testa? Magari ora mi arrampicherei su ponti o grattaceli senza essere consapevole dell’estremo pericolo cui mi sto esponendo.
Che cosa succede se la società non prova mai dolore per le proprie spese irresponsabili e per le proprie azioni irrazionali? Finisce con il perpetuare questo ciclo infinito di debito/spesa/bancarotta. Sì, il dolore è necessario… molto, molto necessario al futuro di questo Paese.

P.S.: La controargomentazione del collasso è che, senza misure di stimolo economico, molti Americani sarebbero alla fame e senza tetto. Be’, per vostra informazione, questo succede già e c’è gente che tuttora viene gettata in mezzo a una strada. Amici miei, pensate a dove, di preciso, finiscono gli stanziamenti...
di John Chavez
Fonte: www.examiner.com

22 maggio 2009

Gli Stati Uniti si esercitano alla guerra economica



Per gli scettici che occorrerebbe ancora convincere, il mese di marzo 2009 vedrà l'applicazione concreta di un concetto che l'amministrazione Clinton aveva previsto fin dal 1992: la guerra economica. Il web non si è sbagliato, e la stampa lo ha subito rilanciato: il pentagono ha realizzato il 17 e il 18 marzo scorso “una simulazione di guerra economica„. L’obiettivo? Anticipare le modalità secondo le quali le potenze del mondo condurrebbero una guerra economica, ed eventualmente determinare un vincitore. Se i dettagli di quest'operazione che si è svolta nel laboratorio di fisica applicata dell'Università Johns Hopkins restano riservati, tuttavia, i partecipanti hanno spiegato che i capi di imprese, gli accademici e i gestori di fondi - i responsabili della difesa e di intelligence, civili come militari, hanno osservato le strategie di ciascun partecipante.Al di là delle preoccupazioni sulla guerra cibernetica rispetto alla quale i mass media fanno regolarmente da cassa di risonanza, è una guerra molto più reale quella alla quale si preparano, da qualche tempo, gli Stati Uniti. Ma i ruoli sembranoessersi invertiti: mentre all'inizio degli anni 90, quest'ultimi iniziavano una nuova era geopolitica in posizione di forza, gli anni 2000 hanno visto la potenza dominante avere una forte concorrenza. E ciò cambia profondamente la loro relazione col concetto di guerra economica. Il Presidente Clinton aveva inaugurato, con i suoi famosi Advocacy Center et war rooms, un periodo dove una sola potenza aveva vocazione egemonica con lo scopo di conservare la supremazia politica, economica e sociale. La guerra fredda - dove la possibilità di una guerra violenta e fisica non era stata mai allontanata, per quanto convogliata nei conflitti periferici -era stata portata a termine; la guerra economica era invece incominciata. La relazione “Japan 2000„ simbolizza questa svolta: elaborato dalla CIA, questo documento cambia il paradigma dei confronti geopolitici. Infatti, da geopolitica, la guerra si trasforma in economica; il confronto, innanzitutto considerato tra nemici chiaramente identificati, può ormai essere considerato tra due alleati, su un campo molto più tollerabile per le popolazioni, poiché meno visibile e meno doloroso.
Non è sorprendente che quest'esercizio di guerra economica sia stato condotto oltre Atlantico. La reattività ed il pragmatismo hanno sempre segnato le politiche americane in materia economica. Tuttavia, nel momento in cui la crisi economica scuote le basi della potenza degli Stati Uniti, già rimesse in discussione con una nuova ripartizione geopolitica resa manifesta dagli attentati dell'undici settembre 2001, è significativo notare che quest'iniziativa è stata pensata prima della contaminazione della crisi finanziaria sull'economia reale (nella primavera del 2008 secondo http://www.Politico.com). La messa in atto di tale esercizio richiede mesi di riflessione e di parametrazioni: ciò significa che gli strateghi americani prendono seriamente, da tempo, la guerra economica. Ciò non sembra sempre essere il caso della Francia, ed in misura maggiore dell’Europa. Eccetto, forse, per la Germania, che ha deciso di rompere la sua collaborazione con Areva nel gennaio 2009, e dal 2005 fa parte del consorzio NordStream che permette un approvvigionamento di gas più sicuro all'Europa del Nord. L'Europa è strutturalmente dipendente dal resto del mondo per il suo approvvigionamento energetico. Le conseguenze delle crisi tra Ucraina e Russia, sebbene eminentemente concrete per l'Europa, in particolare per i vecchi paesi dell'Europa centrale ed orientale, nel 2009 non hanno ancora dato luogo ad una qualunque avanzata per una indispensabile politica comunitaria finalizzata a garantire la sicurezza energetica a 380 milioni di persone. Ci può essere una spiegazione a questo stato di fatto: realizzata per costruire la pace in Europa, l'Unione Europea non contempla una guerra, qualunque essa sia: economica, e a maggior ragione militare. Questa spiegazione, legittima, non deve fungere da scusante per allontanare ogni riflessione sull'argomento: gli Stati Uniti non hanno nella loro Costituzione disposizioni che ne fanno una nazione bellicista per definizione, e tuttavia non sono stupidi. Chi vuole la pace prepara la guerra, o per riprendere lo slogan del Ministro della Difesa francese: “quando la difesa avanza, la pace progredisce„.
Ora, giustamente, sembra che la Francia non si preoccupi affatto della guerra economica, tanto in teoria, che in pratica. Se è una realtà per imprese che evolvono in contesti ultra-concorrenziali (Suez Environnement, Véolia, Air Francia-KLM…), attendiamo sempre che le autorità competenti conducano una riflessione comune,o realizzino una vera strategia per la Francia nella guerra economica. Perché no, un libro bianco, seguito da una politica pubblica. È responsabilità dei politici di iscrivere la Francia in una strategia, considerando il lungo termine. Si tratta di una questione di potenza.
Un punto interessante: è l’equipe che ha sostenuto il ruolo della Cina che ha vinto.
di Matthieu Viteau