22 gennaio 2010

E' in crisi è la relazione tra uomini e donne

In qualche città italiana, cominciando da Milano, il numero delle persone che vivono da sole, i cosiddetti single, ha ormai superato quello di chi vive in coppia, o in famiglia. In Italia, oltre un quarto delle famiglie è costituita da una sola persona. Sarebbe però affrettato spiegarlo solo con la «crisi della famiglia».
Questo fenomeno, che forse si avvia a riprodurre in Italia lo scenario di città come New York, Chicago, Boston, rappresenta tendenze assai diverse tra loro. Nell’aumento dei single compaiono varie tipologie.
Dagli immigrati regolari, che inizialmente si registrano per solito come singoli, alle donne, che vivono più a lungo e si ritrovano spesso sole dopo lunghe convivenze familiari, ad altri e diversi fenomeni.

Il nucleo più forte della singleness è però sicuramente costituito dalle aumentate difficoltà nella relazione tra uomo e donna. È a questa fatica di stare insieme che si deve il crescente numero di coppie che si lasciano: ormai circa una su due nelle zone più ricche del Paese, sempre più spesso per iniziativa della donna. Ed è ancora questa difficoltà a far sì che molti giovani (soprattutto donne), decidono di metter su casa da soli, magari dopo aver tentato una convivenza o un matrimonio non riusciti.
A tutti costoro va poi aggiunto il vero e proprio esercito di giovani che rimangono in famiglia per opportunità economiche o di «servizio» (le cure della mamma, per esempio). Sono i cosiddetti bamboccioni di cui parlano le cronache. Meno responsabili, per solito, dei veri e propri single, essi uniscono spesso alla condizione di sostanziale solitudine una forte dipendenza verso la famiglia, in particolare verso la figura materna. Sono i classici pazienti degli psicoanalisti, noti al grande pubblico dalle caricature spietate che ne fa Woody Allen in molti suoi film.
Deplorati dai ministri dell’Economia, per i quali rappresentano un peso morto, i bamboccioni sono però assai popolari, in Italia, presso alcuni giudici, che spesso condannano i padri a mantenere a vita questi figli, anche se non lavorano né si laureano. Come ha fatto di recente il Tribunale di Bergamo che ha ingiunto a un artigiano trentino di 60 anni di pagare gli alimenti alla figlia di 32 anni, fuoricorso da 8 alla facoltà di Filosofia, avuta dalla prima moglie dalla quale aveva divorziato.
Il papà, che ora provvede a una nuova famiglia, l’ha mantenuta fino a 29 anni, e poi ha smesso perché non si decideva a laurearsi (forse sperando di spingerla a farlo).
Anche questa figlia, per sentenza del Tribunale a carico del padre, fino a quando non accetterà di mantenersi da sola, fa parte del variopinto esercito single. Una massa sempre più importante nel paese, e, come abbiamo visto dai volti assai diversi. Con però qualche tratto comune. Uno, assente in qualche raro caso (come quello delle vedove, o degli immigrati in attesa di congiungersi alla famiglia in arrivo), è un livello più o meno alto di conflitto, o almeno di diffidenza, tra uomini e donne. Questo tratto è presente anche nel caso della figlia trentaduenne che fa condannare il padre: vicende simili sono spesso, anche, una tardiva vendetta a favore della madre.
Osservando bene si vede come la condizione di single si sviluppi nelle smagliature (prima ancora che della famiglia) del rapporto tra uomini e donne, che stentano a intendersi, ad amarsi, a fidarsi l’uno dell’altro.
Oggi Adamo ed Eva si allontanano dal giardino dell’Eden ognuno per conto proprio, non sapendo bene che farsene l’uno dell’altro. Con molte paure, a stento mascherate da un’affettività senza entusiasmi e senza gioia.

di Claudio Risé

21 gennaio 2010

Il sistema è più in bancarotta che mai



Nel primo Angelus domenicale del 2010, recitato il 3 gennaio, Papa Benedetto XVI ha esortato i fedeli a non ascoltare i maghi e gli economisti. Non dobbiamo fare affidamento "su improbabili pronostici e nemmeno sulle previsioni economiche, pur importanti", ha affermato il Pontefice. Il futuro dell'uomo dipende dalla capacità di ciascuno di "collaborare con la grazia di Dio". Egli ha poi integrato queste affermazioni il giorno dell'Epifania, descrivendo i Re Magi come degli "uomini di scienza in un senso ampio, che osservavano il cosmo ritenendolo quasi un grande libro pieno di segni e di messaggi divini per l’uomo".

Benedetto XVI ha perciò condannato la falsa scienza degli economisti accademici, che basano le loro previsioni su modelli matematici riduzionistici, e ha indicato nella scienza dell'universo fisico, le cui radici affondano nella tradizione pitagorica delle Sferiche, il sentiero della vera conoscenza. È quanto Lyndon LaRouche, l'unico economista che abbia previsto la natura della crisi negli ultimi 40 anni, ha definito la scienza della "dinamica".

Nell'anno trascorso, gli economisti (compresi i banchieri centrali e quelli privati), che sono stati incapaci di accorgersi dello sviluppo della crisi, hanno sostenuto che "il peggio è passato", che "è stato salvato il sistema" e che "la ripresa è in arrivo". Niente è più lontano dalla verità. Il sistema non è stato salvato, la ripresa non è in vista e il peggio deve ancora arrivare. Il recente rapporto del Comptroller of the Currency degli Stati Uniti conferma che il sistema finanziario è oggi più in bancarotta di quanto lo fosse allo scoppio della crisi nel 2007. Solo gli sciocchi e gli economisti lo negano.

Secondo il rapporto, nel terzo trimestre 2009 il valore nominale dei contratti derivati delle banche americane ammontava a 204 trilioni di dollari, che è 14 volte il PIL degli Stati Uniti. Nel giugno 2007, ammontavano "solo" a 152 trilioni. Il 97% dei 204 trilioni è posseduto dalle cinque principali banche americane: JP Morgan, Goldman Sachs, Bank of America, Citibank e Wells Fargo.

Per coloro che sostengono che il valore nozionale dei derivati è fittizio, si guardi al livello di esposizione (ciò che tradizionalmente è considerato il rischio): nel terzo trimestre del 2009, era 484 miliardi di dollari, ben più del doppio dell'ammontare del giugno 2007 (199 miliardi). L'esposizione in derivati delle quattro principali banche USA ammonta al 371% del loro capitale.

Le banche europee non navigano in acque migliori. Nel terzo trimestre 2009, il 16% del reddito delle 20 principali banche europee proveniva dal trading, mentre nello stesso periodo del 2008 era solo il 3%. E questo, mentre il credito alle imprese veniva tagliato.

Alla Goldman Sachs, il deus ex machina della politica dei salvataggi americana, il rapporto derivati/attivi era di 40 a 1,6 nel marzo 2009, e di 42 a 1,1 nel settembre dello stesso anno. Queste cifre mostrano chiaramente che il prossimo collasso finanziario è dietro l'angolo. Mentre l'economia fisica si è ridotta di un terzo dal 2007, l'economia del debito è aumentata, grazie ai trilioni di dollari dei salvataggi messi in atto dalla Federal Reserve, dalla Bank of England e dalla BCE.

Quegli stessi banchieri centrali non nascondono il nervosismo. La Banca per i Regolamenti Internazionali ha convocato un conclave di tre giorni a Basilea lo scorso weekend per discutere dei "rischi eccessivi" incorsi dalle banche sui mercati finanziari. In linguaggio che più esplicito non si può per i banchieri centrali, si è constatato che "si stanno ricreando le condizioni che hanno portato allo scoppio della crisi finanziaria". Ma anche se vedono arrivare il treno in corsa, i banchieri centrali non sono in grado di fermarlo, perché incapaci di rinunciare all'attuale sistema della globalizzazione.

by (MoviSol)

19 gennaio 2010

Razzismo in econonomia non esiste


Nel dialetto veneto, soprattutto nell'hinterland vicentino, vi è una locuzione verbale molto diffusa, "gheto capio" che significa "hai capito ?" utilizzata spesso anche come modo per intercalare durante una conversazione con uno o più interlocutori. Scrivo questo redazionale per rispondere alle accuse di leghismo e razzismo che mi sono state rivolte in occasione della pubblicazione di un altro articolo di inchiesta, al cui interno analizzavo la società americana sulla base della sua attuale situazione macroeconomica come conseguenza della sua stessa struttura sociale. Premetto che i complimenti ed apprezzamenti migliori li ho ricevuti proprio da persone che vivono e lavorano negli States da anni, i quali hanno confermato pienamente l'outlook di analisi che ho dipinto per l'America dei 50 Stati. Le accuse più infamanti invece sono arrivate da lettori italiani (molti dei quali non hanno mai visitato il paese in questione) che hanno recepito il mio redazionale come una manifestazione di appoggio politico a questa o quella forza politica.

La caratteristica principale della popolazione italiana è rappresentata dal classismo sociale: questo significa che qualsiasi titpo di affermazione, proposta, contestazione o critica deve essere sempre riconducibile a qualche movimento politico. Della serie, se Benetazzo dice che l'America è fallita a causa della sua composizione etnica allora significa che è leghista o estremista di destra e pertanto questo determina l'ammirazione di quella parte politica o il disprezzo della parte avversaria. Mi rammarico per questo e temo che difficilmente il futuro del nostro paese possa essere roseo visto che non potrà mai vincere il buonsenso, ma solo un determinato colore politico. Quanto ho precedentemente scritto, come tutte le altre mie opere intellettuali, sono frrutto di un analisi economica e non di una appartenenza politica. Vi è di più: il periodo di studio all'interno degli States ha voluto essere di natura prettamente inquisitoria nei confronti della società e dell'apparato economico, e non volto a visitare la Statua della Libertà a NY, Ocean Drive a Miami, il Museo della Coca Cola ad Atlanta, Rodeo Drive a Los Angeles, la Strip a Las Vegas e così via. Nel mio caso questo tipo di attrazioni sono state ignorate (tranne in parte per Las Vegas), in quanto ho voluto conoscere e studiare l'America e gli Americani per come producono, per come consumano e lavorano, come si indebitano e cosi via. La mia permanenza pertanto non è stata caratterizzata dallo svago e dal divertimento, quanto piuttosto dall'analisi, sintesi e riflessione su quanto raccolto.

Ho avuto modo di visitare numerose banche e grandi corporation, intervistare brokers ed executive, incontrare giornalisti e reporter indipendenti: il quadro che ne è uscito (che vi piaccia oppure no) contempla quanto scritto in precedenza. Ad esempio a Miami non mi sono sollazzato in spiaggia sotto il sole o sbronzato di tequila nei locali latinoamericani durante le notti brave, quanto piuttosto ho incontrato numerosi realtor, building developer e mortgage brokers, oltre che visitare i famosi appartamenti in svendita con il 60 % di sconto. Ad Atlanta invece (correndo non pochi rischi) ho visitato il quartiere dei neri a Downtown intervistando numerose persone che avevano appena perduto il posto di lavoro e vivevano con il sussidio federale. Quello che ne è uscito è un quadro con una logica di esame ben comprensiva se vista nel suo insieme. Il primo paese al mondo che ha delocalizzato (prima in Messico, poi in Cina, dopo in India ed ora in Vietnam) sono stati proprio gli Stati Uniti, ed ora stanno pagando il conto di quella scellerata strategia di svendere le loro produzioni all'Oriente e contestualmente anche i posti di lavoro. In parallelo a questo si è verificato uno spropositato overbulding (eccesso di costruzione) grazie al mutuo facile a soggetti underscoring (low and bad credit, solitamente persone di etnia nera, ispanica od orientale). La Fed ha poi aiutato a far peggiorare il tutto con grande incoscienza attravreso una politica monetaria suicida.

L'accusa più ridicola mi è stata mossa da italiani (che non sono mai stati negli USA) i quali contestano i dati da me forniti circa la composizione demografica dell'America sostenendo che secondo l'ultimo censimento la popolazione statunitense è costituita dal 60% di bianchi caucasici, il 15% da afroamericani, il 15 % ispanici, il 5% da orientali ed il restante da una molteplicità di etnie. Presa in senso generalizzato questa è la statistica media della popolazione americana. Tuttavia i 2/3 degli americani vive in aree metropolitane od urbane con più di 100.000 abitanti: l'intera economia statunitense è radicate e sviluppata nelle grandi aree metropolitane. Ma nelle aree metropolitane non abbiamo questa ripartizione: suvvia, non crediate ciecamente a me, ma almeno ai rapporti demografici che descrivono le aree in questione. Solo nelle prime dieci aree metropolitane (ce ne sono 52 in USA) vivono almeno più di 100 milioni di persone.

Metro AreaPopolazioneCaucasiciNeriIspaniciAsiatici
New York19.000.00035252010
Los Angeles12.800.00020104010
Chicago9.500.00030302510
Miami5.400.00015254510
Dallas6.300.00030352010
Seattle3.350.00050201510
Phoenix4.200.0005010255
Houston5.700.0002825355
Detroit4.400.000128155
Atlanta5.300.000385535

La tabella di sintesi conferma pienamente quanto avevo precedentemente espresso. Se invece andate a visitare i paesini rurali in cui vive il restante 1/3 degli americani scoprirete con grande sorpresa che la popolazione è costituita al 98% da bianchi caucasici (ad esempio Springfiled in Nebrasca rappresenta una insignificante nucleo cittadino con appena 1500 abitanti, il 99% dei quali sono bianchi caucasici). Sono i nuclei di insediamento nelle aree rurali che alzano abbondantemente la percentuale dei bianchi per tutta la popolazione, tuttavia queste piccolissime comunità vivono di una economia stanziale caratterizzata da relazioni commerciali quasi rarefatte: difficilmente vi troverete la sede di una grande corporation o il jet market di una famosa catena alimentare.

Inoltre anche i dati in percentuale che io stesso ho preso come riferimento (sull'ultimo censimento datato dieci anni or sono) sono discutibili. Ma in peggio. Infatti non contemplano i flussi di immigrati clandestini che entrano in America soprattutto dal Messico, una stima piuttosto ottimistica parla infatti di almeno 15 milioni di clandestini. Solo nella città di Houston si stimano 500.000 presenze. Sono proprio le grandi città metropolitane infatti che diventano le porte di ingresso preferite per l'immigrazione clandestina e per le migrazioni dei nuclei familiari. Ma il dato più significativo che conferma il profondo cambiamento del tessuto sociale statunitense è riferito ai diversi trand di crescita di ogni etnia, con in testa al momento la popolazione ispanica, la quale rappresenterà il 40 % della popolazione statunitense entro il 2030.

Chi ancora non fosse convinto di questo quadro spero si convinga almeno della voce autorevole di Market Watch, la prestigiosa testata giornalistica online statunitense, la quale ancora nel 2007 in un passato
redazionale analizzava i rischi per l'economia americana legati al credito facile a fasce sociali dal basso rating creditizio. Voglio terminare infine con una considerazione rivolta proprio a tutti coloro i quali in questa ultima settimana non hanno fatto altro che etichettarmi come razzista o leghista: fate attenzione invece, cari lettori, a non essere proprio voi i razzisti. Chi non lo avesse ancora compreso i cosidetti processi di integrazione tanto propagandati in passato come fenomenali processi di crescita culturali per tutti i paesi che li vogliano abbracciare, conditi da buonismo ed accoglienza sfacciata, altro non hanno fatto se non istituzionalizzare lo schiavismo moderno asservito al capitale e sfruttare senza limiti tutte quelle popolazioni che avrebbero dovuto essere oggetto di integrazione, spingendo proprio queste persone ad accettare lavori pericolosi, insalubri o fisicamente usuranti per una paga notevolmente inferiore a quella che sarebbe invece spettata ad un lavoratore autoctono.

E questa strada è stata perpetrata ai danni di altri lavoratori (italiani, tedeschi, francesi, inglesi, americani e cosi via) che hanno visto in pochissimi anni modificarsi verso il basso i loro livelli minimi salariali. L'unico beneficio che ha portato la menzogna dell'integrazione razziale è stato il vile aumento dei profitti delle grandi corporations che hanno beneficiato cosi di manodopera a costo inferiore senza tante seccature sindacali o rispetto per la dignità umana altrui. Chi invece si scalda tanto per consentire ed osannare le fenomali opportunità dell'integrazione, perchè così pensa di poter aiutare queste popolazioni dai mezzi limitati, non fa altro che condannarle ad una nuova era di schiavismo moderno, andando nel contempo a compromettere il tenore reddituale dei lavoratori autoctoni. Fate quindi attenzione, ed iniziate a considerare le opportune conseguenze (i famigerati side effects) di queste politiche di integrazione infelice, in quanto il modello americano è stato esportato in tutto il mondo, Europa compresa. Gheto capio.

di Eugenio Benetazzo

22 gennaio 2010

E' in crisi è la relazione tra uomini e donne

In qualche città italiana, cominciando da Milano, il numero delle persone che vivono da sole, i cosiddetti single, ha ormai superato quello di chi vive in coppia, o in famiglia. In Italia, oltre un quarto delle famiglie è costituita da una sola persona. Sarebbe però affrettato spiegarlo solo con la «crisi della famiglia».
Questo fenomeno, che forse si avvia a riprodurre in Italia lo scenario di città come New York, Chicago, Boston, rappresenta tendenze assai diverse tra loro. Nell’aumento dei single compaiono varie tipologie.
Dagli immigrati regolari, che inizialmente si registrano per solito come singoli, alle donne, che vivono più a lungo e si ritrovano spesso sole dopo lunghe convivenze familiari, ad altri e diversi fenomeni.

Il nucleo più forte della singleness è però sicuramente costituito dalle aumentate difficoltà nella relazione tra uomo e donna. È a questa fatica di stare insieme che si deve il crescente numero di coppie che si lasciano: ormai circa una su due nelle zone più ricche del Paese, sempre più spesso per iniziativa della donna. Ed è ancora questa difficoltà a far sì che molti giovani (soprattutto donne), decidono di metter su casa da soli, magari dopo aver tentato una convivenza o un matrimonio non riusciti.
A tutti costoro va poi aggiunto il vero e proprio esercito di giovani che rimangono in famiglia per opportunità economiche o di «servizio» (le cure della mamma, per esempio). Sono i cosiddetti bamboccioni di cui parlano le cronache. Meno responsabili, per solito, dei veri e propri single, essi uniscono spesso alla condizione di sostanziale solitudine una forte dipendenza verso la famiglia, in particolare verso la figura materna. Sono i classici pazienti degli psicoanalisti, noti al grande pubblico dalle caricature spietate che ne fa Woody Allen in molti suoi film.
Deplorati dai ministri dell’Economia, per i quali rappresentano un peso morto, i bamboccioni sono però assai popolari, in Italia, presso alcuni giudici, che spesso condannano i padri a mantenere a vita questi figli, anche se non lavorano né si laureano. Come ha fatto di recente il Tribunale di Bergamo che ha ingiunto a un artigiano trentino di 60 anni di pagare gli alimenti alla figlia di 32 anni, fuoricorso da 8 alla facoltà di Filosofia, avuta dalla prima moglie dalla quale aveva divorziato.
Il papà, che ora provvede a una nuova famiglia, l’ha mantenuta fino a 29 anni, e poi ha smesso perché non si decideva a laurearsi (forse sperando di spingerla a farlo).
Anche questa figlia, per sentenza del Tribunale a carico del padre, fino a quando non accetterà di mantenersi da sola, fa parte del variopinto esercito single. Una massa sempre più importante nel paese, e, come abbiamo visto dai volti assai diversi. Con però qualche tratto comune. Uno, assente in qualche raro caso (come quello delle vedove, o degli immigrati in attesa di congiungersi alla famiglia in arrivo), è un livello più o meno alto di conflitto, o almeno di diffidenza, tra uomini e donne. Questo tratto è presente anche nel caso della figlia trentaduenne che fa condannare il padre: vicende simili sono spesso, anche, una tardiva vendetta a favore della madre.
Osservando bene si vede come la condizione di single si sviluppi nelle smagliature (prima ancora che della famiglia) del rapporto tra uomini e donne, che stentano a intendersi, ad amarsi, a fidarsi l’uno dell’altro.
Oggi Adamo ed Eva si allontanano dal giardino dell’Eden ognuno per conto proprio, non sapendo bene che farsene l’uno dell’altro. Con molte paure, a stento mascherate da un’affettività senza entusiasmi e senza gioia.

di Claudio Risé

21 gennaio 2010

Il sistema è più in bancarotta che mai



Nel primo Angelus domenicale del 2010, recitato il 3 gennaio, Papa Benedetto XVI ha esortato i fedeli a non ascoltare i maghi e gli economisti. Non dobbiamo fare affidamento "su improbabili pronostici e nemmeno sulle previsioni economiche, pur importanti", ha affermato il Pontefice. Il futuro dell'uomo dipende dalla capacità di ciascuno di "collaborare con la grazia di Dio". Egli ha poi integrato queste affermazioni il giorno dell'Epifania, descrivendo i Re Magi come degli "uomini di scienza in un senso ampio, che osservavano il cosmo ritenendolo quasi un grande libro pieno di segni e di messaggi divini per l’uomo".

Benedetto XVI ha perciò condannato la falsa scienza degli economisti accademici, che basano le loro previsioni su modelli matematici riduzionistici, e ha indicato nella scienza dell'universo fisico, le cui radici affondano nella tradizione pitagorica delle Sferiche, il sentiero della vera conoscenza. È quanto Lyndon LaRouche, l'unico economista che abbia previsto la natura della crisi negli ultimi 40 anni, ha definito la scienza della "dinamica".

Nell'anno trascorso, gli economisti (compresi i banchieri centrali e quelli privati), che sono stati incapaci di accorgersi dello sviluppo della crisi, hanno sostenuto che "il peggio è passato", che "è stato salvato il sistema" e che "la ripresa è in arrivo". Niente è più lontano dalla verità. Il sistema non è stato salvato, la ripresa non è in vista e il peggio deve ancora arrivare. Il recente rapporto del Comptroller of the Currency degli Stati Uniti conferma che il sistema finanziario è oggi più in bancarotta di quanto lo fosse allo scoppio della crisi nel 2007. Solo gli sciocchi e gli economisti lo negano.

Secondo il rapporto, nel terzo trimestre 2009 il valore nominale dei contratti derivati delle banche americane ammontava a 204 trilioni di dollari, che è 14 volte il PIL degli Stati Uniti. Nel giugno 2007, ammontavano "solo" a 152 trilioni. Il 97% dei 204 trilioni è posseduto dalle cinque principali banche americane: JP Morgan, Goldman Sachs, Bank of America, Citibank e Wells Fargo.

Per coloro che sostengono che il valore nozionale dei derivati è fittizio, si guardi al livello di esposizione (ciò che tradizionalmente è considerato il rischio): nel terzo trimestre del 2009, era 484 miliardi di dollari, ben più del doppio dell'ammontare del giugno 2007 (199 miliardi). L'esposizione in derivati delle quattro principali banche USA ammonta al 371% del loro capitale.

Le banche europee non navigano in acque migliori. Nel terzo trimestre 2009, il 16% del reddito delle 20 principali banche europee proveniva dal trading, mentre nello stesso periodo del 2008 era solo il 3%. E questo, mentre il credito alle imprese veniva tagliato.

Alla Goldman Sachs, il deus ex machina della politica dei salvataggi americana, il rapporto derivati/attivi era di 40 a 1,6 nel marzo 2009, e di 42 a 1,1 nel settembre dello stesso anno. Queste cifre mostrano chiaramente che il prossimo collasso finanziario è dietro l'angolo. Mentre l'economia fisica si è ridotta di un terzo dal 2007, l'economia del debito è aumentata, grazie ai trilioni di dollari dei salvataggi messi in atto dalla Federal Reserve, dalla Bank of England e dalla BCE.

Quegli stessi banchieri centrali non nascondono il nervosismo. La Banca per i Regolamenti Internazionali ha convocato un conclave di tre giorni a Basilea lo scorso weekend per discutere dei "rischi eccessivi" incorsi dalle banche sui mercati finanziari. In linguaggio che più esplicito non si può per i banchieri centrali, si è constatato che "si stanno ricreando le condizioni che hanno portato allo scoppio della crisi finanziaria". Ma anche se vedono arrivare il treno in corsa, i banchieri centrali non sono in grado di fermarlo, perché incapaci di rinunciare all'attuale sistema della globalizzazione.

by (MoviSol)

19 gennaio 2010

Razzismo in econonomia non esiste


Nel dialetto veneto, soprattutto nell'hinterland vicentino, vi è una locuzione verbale molto diffusa, "gheto capio" che significa "hai capito ?" utilizzata spesso anche come modo per intercalare durante una conversazione con uno o più interlocutori. Scrivo questo redazionale per rispondere alle accuse di leghismo e razzismo che mi sono state rivolte in occasione della pubblicazione di un altro articolo di inchiesta, al cui interno analizzavo la società americana sulla base della sua attuale situazione macroeconomica come conseguenza della sua stessa struttura sociale. Premetto che i complimenti ed apprezzamenti migliori li ho ricevuti proprio da persone che vivono e lavorano negli States da anni, i quali hanno confermato pienamente l'outlook di analisi che ho dipinto per l'America dei 50 Stati. Le accuse più infamanti invece sono arrivate da lettori italiani (molti dei quali non hanno mai visitato il paese in questione) che hanno recepito il mio redazionale come una manifestazione di appoggio politico a questa o quella forza politica.

La caratteristica principale della popolazione italiana è rappresentata dal classismo sociale: questo significa che qualsiasi titpo di affermazione, proposta, contestazione o critica deve essere sempre riconducibile a qualche movimento politico. Della serie, se Benetazzo dice che l'America è fallita a causa della sua composizione etnica allora significa che è leghista o estremista di destra e pertanto questo determina l'ammirazione di quella parte politica o il disprezzo della parte avversaria. Mi rammarico per questo e temo che difficilmente il futuro del nostro paese possa essere roseo visto che non potrà mai vincere il buonsenso, ma solo un determinato colore politico. Quanto ho precedentemente scritto, come tutte le altre mie opere intellettuali, sono frrutto di un analisi economica e non di una appartenenza politica. Vi è di più: il periodo di studio all'interno degli States ha voluto essere di natura prettamente inquisitoria nei confronti della società e dell'apparato economico, e non volto a visitare la Statua della Libertà a NY, Ocean Drive a Miami, il Museo della Coca Cola ad Atlanta, Rodeo Drive a Los Angeles, la Strip a Las Vegas e così via. Nel mio caso questo tipo di attrazioni sono state ignorate (tranne in parte per Las Vegas), in quanto ho voluto conoscere e studiare l'America e gli Americani per come producono, per come consumano e lavorano, come si indebitano e cosi via. La mia permanenza pertanto non è stata caratterizzata dallo svago e dal divertimento, quanto piuttosto dall'analisi, sintesi e riflessione su quanto raccolto.

Ho avuto modo di visitare numerose banche e grandi corporation, intervistare brokers ed executive, incontrare giornalisti e reporter indipendenti: il quadro che ne è uscito (che vi piaccia oppure no) contempla quanto scritto in precedenza. Ad esempio a Miami non mi sono sollazzato in spiaggia sotto il sole o sbronzato di tequila nei locali latinoamericani durante le notti brave, quanto piuttosto ho incontrato numerosi realtor, building developer e mortgage brokers, oltre che visitare i famosi appartamenti in svendita con il 60 % di sconto. Ad Atlanta invece (correndo non pochi rischi) ho visitato il quartiere dei neri a Downtown intervistando numerose persone che avevano appena perduto il posto di lavoro e vivevano con il sussidio federale. Quello che ne è uscito è un quadro con una logica di esame ben comprensiva se vista nel suo insieme. Il primo paese al mondo che ha delocalizzato (prima in Messico, poi in Cina, dopo in India ed ora in Vietnam) sono stati proprio gli Stati Uniti, ed ora stanno pagando il conto di quella scellerata strategia di svendere le loro produzioni all'Oriente e contestualmente anche i posti di lavoro. In parallelo a questo si è verificato uno spropositato overbulding (eccesso di costruzione) grazie al mutuo facile a soggetti underscoring (low and bad credit, solitamente persone di etnia nera, ispanica od orientale). La Fed ha poi aiutato a far peggiorare il tutto con grande incoscienza attravreso una politica monetaria suicida.

L'accusa più ridicola mi è stata mossa da italiani (che non sono mai stati negli USA) i quali contestano i dati da me forniti circa la composizione demografica dell'America sostenendo che secondo l'ultimo censimento la popolazione statunitense è costituita dal 60% di bianchi caucasici, il 15% da afroamericani, il 15 % ispanici, il 5% da orientali ed il restante da una molteplicità di etnie. Presa in senso generalizzato questa è la statistica media della popolazione americana. Tuttavia i 2/3 degli americani vive in aree metropolitane od urbane con più di 100.000 abitanti: l'intera economia statunitense è radicate e sviluppata nelle grandi aree metropolitane. Ma nelle aree metropolitane non abbiamo questa ripartizione: suvvia, non crediate ciecamente a me, ma almeno ai rapporti demografici che descrivono le aree in questione. Solo nelle prime dieci aree metropolitane (ce ne sono 52 in USA) vivono almeno più di 100 milioni di persone.

Metro AreaPopolazioneCaucasiciNeriIspaniciAsiatici
New York19.000.00035252010
Los Angeles12.800.00020104010
Chicago9.500.00030302510
Miami5.400.00015254510
Dallas6.300.00030352010
Seattle3.350.00050201510
Phoenix4.200.0005010255
Houston5.700.0002825355
Detroit4.400.000128155
Atlanta5.300.000385535

La tabella di sintesi conferma pienamente quanto avevo precedentemente espresso. Se invece andate a visitare i paesini rurali in cui vive il restante 1/3 degli americani scoprirete con grande sorpresa che la popolazione è costituita al 98% da bianchi caucasici (ad esempio Springfiled in Nebrasca rappresenta una insignificante nucleo cittadino con appena 1500 abitanti, il 99% dei quali sono bianchi caucasici). Sono i nuclei di insediamento nelle aree rurali che alzano abbondantemente la percentuale dei bianchi per tutta la popolazione, tuttavia queste piccolissime comunità vivono di una economia stanziale caratterizzata da relazioni commerciali quasi rarefatte: difficilmente vi troverete la sede di una grande corporation o il jet market di una famosa catena alimentare.

Inoltre anche i dati in percentuale che io stesso ho preso come riferimento (sull'ultimo censimento datato dieci anni or sono) sono discutibili. Ma in peggio. Infatti non contemplano i flussi di immigrati clandestini che entrano in America soprattutto dal Messico, una stima piuttosto ottimistica parla infatti di almeno 15 milioni di clandestini. Solo nella città di Houston si stimano 500.000 presenze. Sono proprio le grandi città metropolitane infatti che diventano le porte di ingresso preferite per l'immigrazione clandestina e per le migrazioni dei nuclei familiari. Ma il dato più significativo che conferma il profondo cambiamento del tessuto sociale statunitense è riferito ai diversi trand di crescita di ogni etnia, con in testa al momento la popolazione ispanica, la quale rappresenterà il 40 % della popolazione statunitense entro il 2030.

Chi ancora non fosse convinto di questo quadro spero si convinga almeno della voce autorevole di Market Watch, la prestigiosa testata giornalistica online statunitense, la quale ancora nel 2007 in un passato
redazionale analizzava i rischi per l'economia americana legati al credito facile a fasce sociali dal basso rating creditizio. Voglio terminare infine con una considerazione rivolta proprio a tutti coloro i quali in questa ultima settimana non hanno fatto altro che etichettarmi come razzista o leghista: fate attenzione invece, cari lettori, a non essere proprio voi i razzisti. Chi non lo avesse ancora compreso i cosidetti processi di integrazione tanto propagandati in passato come fenomenali processi di crescita culturali per tutti i paesi che li vogliano abbracciare, conditi da buonismo ed accoglienza sfacciata, altro non hanno fatto se non istituzionalizzare lo schiavismo moderno asservito al capitale e sfruttare senza limiti tutte quelle popolazioni che avrebbero dovuto essere oggetto di integrazione, spingendo proprio queste persone ad accettare lavori pericolosi, insalubri o fisicamente usuranti per una paga notevolmente inferiore a quella che sarebbe invece spettata ad un lavoratore autoctono.

E questa strada è stata perpetrata ai danni di altri lavoratori (italiani, tedeschi, francesi, inglesi, americani e cosi via) che hanno visto in pochissimi anni modificarsi verso il basso i loro livelli minimi salariali. L'unico beneficio che ha portato la menzogna dell'integrazione razziale è stato il vile aumento dei profitti delle grandi corporations che hanno beneficiato cosi di manodopera a costo inferiore senza tante seccature sindacali o rispetto per la dignità umana altrui. Chi invece si scalda tanto per consentire ed osannare le fenomali opportunità dell'integrazione, perchè così pensa di poter aiutare queste popolazioni dai mezzi limitati, non fa altro che condannarle ad una nuova era di schiavismo moderno, andando nel contempo a compromettere il tenore reddituale dei lavoratori autoctoni. Fate quindi attenzione, ed iniziate a considerare le opportune conseguenze (i famigerati side effects) di queste politiche di integrazione infelice, in quanto il modello americano è stato esportato in tutto il mondo, Europa compresa. Gheto capio.

di Eugenio Benetazzo