18 marzo 2010

I partiti si cambiano solo così

Lasciamo perdere, per un momento, la questione Berlusconi e le inaudite pressioni, intimidazioni, minacce che il presidente del Consiglio ha esercitato su un commissario dell'Authority per le Comunicazioni, Giancarlo Innocenzi, perché si desse da fare per chiudere Annozero, zittire Floris e la Dandini, impedire che vengano ospitati personaggi sgraditi al Cavaliere, come Ezio Mauro, Eugenio Scalfari, o, dio guardi, Antonio Di Pietro. «Se lei avesse un minimo di dignità dovrebbe dimettersi» ha sibilato Berlusconi a Innocenzi. Mentre è vero esattamente il contrario: se costui avesse avuto «un minimo di dignità» avrebbe dovuto mandare all'inferno l'energumeno ed eventualmente denunciarlo alla magistratura. Ma come avrebbe potuto il poveraccio? È un uomo di Berlusconi, è stato sottosegretario alle Comunicazioni in un suo governo e un suo dipendente quale Direttore dei servizi giornalistici Fininvest-Mediaset.

Ci sarebbe voluto non un coniglio, ma un samurai disposto al kharakiri per contrastare la violenza dell'energumeno e reggere una situazione talmente anomala, grottesca e pazzesca che non ha paragoni in alcun altro Stato al mondo, democratico o non democratico, tanto da far dire persino al Direttore generale della Rai, Masi, che «cose simili non si vedono nemmeno nello Zimbawe».

Ma lasciamo perdere la questione Berlusconi-Innocenzi-Minzolini non solo perché Il Fatto Quotidiano, oltre ad essere stato il primo a darne notizia la sta trattando con l'ampiezza che merita, ma perché ne presuppone un'altra.

Al di là dell'atteggiamento particolarmente spudorato e violento dell'energumeno, la domanda è: quale indipendenza può mai avere la Rai-Tv, Ente di Stato, e quindi di tutti i cittadini, quando il Consiglio di amministrazione è nominato dai partiti, il presidente pure, la Commissione di Vigilanza anche, l'Autority per le Comunicazioni e ogni altra Autority idem, quando non c'è dirigente, funzionario, conduttore di programmi, giornalista, usciere il cui posto di lavoro non dipenda dall'appartenenza a una qualche formazione politica, da un rapporto di fedeltà e sudditanza, più o meno mascherato, diretto o indiretto, a qualche partito o fazione di partito?
E la questione della Rai-Tv è solo la più emblematica e evidente dell'occupazione sistematica, arbitraria, illegittima che i partiti, queste associazioni private, hanno fatto di tutti gli apparati dello Stato, del parastato, dell'amministrazione pubblica, che poi ricade a pioggia anche sull'intera società (facciamo un esempio semplice semplice, tanto per capirci: a Firenze se sei architetto e non sei infeudato a sinistra non lavori).

Si parla tanto, di questi tempi, di riforme: istituzionali, costituzionali, della giustizia, eccetera. Ma la riforma più urgente, e principale, è quella dei partiti, nel senso di un loro drastico ridimensionamento, della loro cacciata da posizioni che occupano abusivamente, arbitrariamente, illegittimamente. Ma in democrazia solo i partiti possono riformare i partiti. E non lo faranno mai perché questo vorrebbe dire perdere il potere con cui condizionano l'intera società italiana, abusandola, stuprandola, ricattandola, richiedendo ai cittadini i più umilianti infeudamenti per ottenere, come favore, ciò che spetta loro di diritto.

Come se ne esce? Agli inizi degli anni Ottanta, quando l'abuso e il sopruso partitocratico era ancora, nonostante tutto,ben lontano da quello di oggi, Guglielmo Zucconi, direttore del Giorno, quotidiano appaltato alla Dc e al Psi, mi permise di scrivere nella mia rubrica, Calcio di Rigore, un articolo in cui invocavo provocatoriamente, per l'Italia, la soluzione che il generale Evren aveva adottato per la Turchia dove l'occupazione, la corruzione, il clientelismo dei partiti aveva raggiunto vertici intollerabili, ma comunque ancora lontani da quelli dell'Italia di oggi. Il generale Evren prese il potere, spazzò via tutta la nomenklatura partitocratica, e promise che, fatta una pulizia che in altro modo era impossibile, avrebbe restituito, entro cinque anni, il potere alle legittime istituzioni democratiche. Promessa che puntualmente mantenne. E oggi la Turchia, pur in mezzo alle mille contraddizioni di un Paese la cui realtà è resa difficile dalla presenza di una fortissima minoranza curda, è un Paese "normale" con una maggioranza, un'opposizione, un premier che rispetta le leggi e la magistratura, e partiti che stanno al loro posto e nel loro ruolo, che è quello di coagulare il consenso, e non esondano in tutta la società civile. Non è la Turchia che non ha i requisiti democratici per entrare in Europa. È l'Italia che non li ha più per restarci.

di Massimo Fini

17 marzo 2010

L’Europa si arrende agli speculatori

Le pressioni degli ambienti finanziari e bancari angloamericani unite a quelle dei loro servi alla Casa Bianca e a Downing Street sono stati troppo forti. E così i ministri europei delle Finanze hanno rinunciato a trovare un accordo sul progetto di regolamentare l’attività dei fondi speculativi (hedge fund) ed aumentarne la trasparenza.
Se ne parlerà in una prossima riunione prima della fine della presidenza spagnola in giugno. La portavoce della presidenza Ue e il ministro spagnolo delle Finanze, Elena Salgado, presidente di turno dell’Ecofin, ha spiegato che la questione dei fondi speculativi è stato rimosso dall'agenda dei lavori per avere il consenso più ampio possibile. Si tratta infatti di mettersi d'accordo su una posizione generale dalla quale far partire i negoziati con il Parlamento europeo che dovrà dare semaforo verde al progetto.
E in tale sede nasceranno sicuramente ulteriori problemi che faranno in modo che se un testo di legge uscirà, esso sarà molto annacquato rispetto al testo iniziale. Anche a Strasburgo infatti operano indisturbate numerose lobby finanziarie che attraverso i soldi versati in ogni direzione indirizzano il voto dei gentili deputati, già ben predisposti in altri settori a sostenere gli interessi della grande industria. In particolare, per un settore che riguarda l’Italia, nel campo dell’alimentare dove la salvaguardia dell’agricoltura e dei prodotti tipici viene subordinata agli interessi dell’industria trasformatrice. Ma anche di quella chimica come dimostra il via libera della Commissione europea al via libera alla produzione di cibi OGM.
Ma la finanza resta il settore nel quale sono maggiori i guadagni per gli speculatori e per i loro amici politici. Quando si è cominciato a parlare in Europa di mettere un freno alle attività degli speculatori, siano essi banche o società finanziarie, subito da Washington e da Londra si è levato un intenso fuoco di fila.
Il segretario al Tesoro Usa, Timothy Geithner aveva protestato la settimana scorsa affermando che le nuove regole avrebbero danneggiato le banche Usa compromettendo la loro capacità di fare affari con l'Europa. Insomma le banche americane non possono permettersi di vedersi porre veti. Uguale reazione da Londra con il Cancelliere dello Scacchiere, Alistair Darling, a difendere le banche di casa. Che diamine, era la loro reazione, la speculazione è una cosa troppo seria che va lasciata in mano ai soli speculatori. Come la Goldman Sachs (la banca cara a Romano Prodi e Mario Draghi) o George Soros e tutti gli altri banditi della sua risma. Si deve infatti ricordare sempre che sono state le banche e le società anglosassoni a scatenare la crisi finanziaria del 2008 con le loro speculazioni sui derivati e su altri consimili titoli spazzatura. Gli stessi speculatori che grazie a prestiti di centinaia di miliardi di dollari sono stati salvati dal fallimento da Barack Obama che solamente i soliti idioti di casa nostra o dell’Europa intera possono considerare ancora qualcosa di diverso dal suo predecessore. Così quando Geithner protesta con Bruxelles, è sicuro che delle sue rimostranze se ne terrà conto, perché l’Unione europea, che pure dovrebbe aspirare a recitare un ruolo forte e autonomo nel mondo, finisce per non fare altro che calarsi le braghe di fronte ai diktat degli Stati Uniti.
In tutta questa vicenda risalta ancora una volta l’incompatibilità della presenza della Gran Bretagna nell’Unione europea ed il suo conflitto di interesse con gli altri Paesi membri. Non si tratta solamente del fatto che Londra possa continuare a lasciare mano libera alle banche britanniche di speculare a loro piacimento, utilizzando i suoi paradisi fiscali europei come Jersey e Guernsey, ma c’è anche la questione dell’euro nel cui sistema Londra non ha mai avuto alcuna intenzione di entrare. Diciamo questo a prescindere da qualsiasi giudizio di valore o di merito sulla moneta unica. Si ripropone in tal modo in tutta la sua chiarezza il no che Charles De Gaulle oppose sempre all’entrata di Londra nella Comunità economica europea, Il Generale considerava infatti gli inglesi una testa di ponte degli americani per sabotare dal di dentro qualsiasi progetto comunitario che volesse trasformarsi in un progetto politico come quello de “L’Europa delle Patrie” da lui vagheggiato.
Nelle prossime settimane il commissario ai servizi finanziari, il francese Michel Barnier, partirà per gli Stati Uniti per discutere della questione centrale oggi sul tavolo, ossia l'accesso al mercato europeo dei gestori di fondi basati in Europa ma i cui capitali risiedono alle isole Cayman o in altri paradisi fiscali. Misure drastiche da parte della Ue potrebbero infatti spingere molti fondi a lasciare Londra, qui risiede circa l'80% di quelli più importanti, per stabilirsi in altri Paesi al di fuori della Ue, ad incominciare dalla in Svizzera. Barnier ha insistito sul fatto che la linea europea non è protezionista ma che semmai è in linea con gli orientamenti emersi all’ultima riunione del G20 e che quindi essa va nella direzione del rafforzamento della trasparenza e della responsabilità.
Giulio Tremonti, che da sempre attacca il modello anglosassone della finanza fine a se stessa e svincolata dall’economia reale, anche se non ha gradito il rinvio della discussione sulla direttiva per gli hedge fund, giudica però importante che la macchina si sia messa in movimento e che la sensibilità europea sul tema sia cambiata, considerato che anni fa una discussione simile con la Gran Bretagna sarebbe stata addirittura irrealistica.
Nel frattempo negli Stati Uniti, tanto per dimostrare chi comanda davvero, le grandi banche di investimento, nonostante le raccomandazioni in senso contrario dello stesso Barack Obama, hanno continuato nel 2009 a versare premi di produzione, i bonus, ai dirigenti responsabili delle speculazioni ma che sono riusciti a rimettere in sesto i conti grazie all’aiuto pubblico. Anche a Wall Street infatti si socializzano le perdite e si privatizzano i profitti.
di Filippo Ghira

16 marzo 2010

La morte del dollaro con una crisi stile Grecia?




Yuan contro il dollaro per il ruolo di valuta estera globale

L’abitudine di accumulare riserve di dollari da parte delle banche centrali è diventata sempre più spiccata dopo la crisi finanziaria asiatica del 1997, quando gli speculatori valutari hanno accelerato una crisi della bilancia dei pagamenti di Thailandia, Indonesia e Corea del Sud richiedendo dollari per le valute locali ed esaurendo le riserve di dollari delle banche centrali.
Facendo un salto in avanti di 13 anni, la posizione del dollaro come valuta di riserva preferenziale nel mondo è stata messa in discussione a causa di un disavanzo di bilancio in rapido aumento che mantiene gli Stati Uniti dipendenti dai finanziamenti dall’estero. Lo scorso anno sia Russia che Cina hanno proposto un tipo di “valuta di riserva sovranazionale” per contrastare il dollaro mentre Brasile e India hanno anche discusso della sostituzione di altre attività per i loro titoli espressi in dollari.

Il FMI: “Quel giorno deve ancora venire”

Riaccendendo la discussione, Dominique Strauss-Kahn, il direttore del Fondo Monetario Internazionale (FMI) ha detto venerdì scorso che sarebbe “intellettualmente apprezzabile esaminare” la creazione di una nuova valuta di riserva globale per limitare la dipendenza dal dollaro.
Strauss-Kahn ha affermato che un giorno ci potrà essere un’attività di riserva emessa globalmente ma che “quel giorno deve ancora venire”. Ad ogni modo le sue osservazioni sono il segnale di una preoccupazione più generale in merito al predominio del dollaro e “fino a che punto l’intero sistema monetario internazionale dipende dalle politiche e dalle condizioni di un singolo paese, seppur dominante”.

Tutto questo rende inevitabile la domanda: quale sarà la prossima valuta di riserva globale che subentrerà al dollaro?

Le riserve di dollari: dieci anni di declino

L’ultimo rapporto sul foreign exchange pubblicato dal Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti mostra che la percentuale delle riserve di dollari è in costante diminuzione – anche prima della crisi finanziaria. Nel 2009 il dollaro costituiva ancora circa il 60% delle riserve estere, con l’euro a meno del 30% e più distanziati sterlina e yen (vedi grafico).





Secondo il Peterson Institute for International Economics, anche se il dollaro rimane la più importante valuta di riserva nel corso degli ultimi dieci anni fino al primo trimestre del 2009, con la correzione per gli effetti dei tassi di cambio la quota del dollaro nelle riserve del foreign exchange, a conti fatti, è diminuita del 4,3%.

Gli elementi di una valuta di riserva

Il rapporto del Tesoro americano indica diversi elementi chiave che sono stati identificati dagli economisti per determinare l’utilizzo di una valuta per le riserve:
• la dimensione dell’economia nazionale
• l’importanza dell’economia nel commercio internazionale
• la dimensione, la forza e l’apertura dei mercati finanziari
• la convertibilità della valuta
• l’utilizzo della valuta come valuta di ancoraggio
• le politiche macroeconomiche nazionali

I PIIGS stroncano l’euro

Sulla base di questi criteri, l’eurozona, simile agli Stati Uniti per dimensione, quota di commercio globale e convertibilità della valuta, rende l’euro un valido contendente per la corona del dollaro. E, a differenza del dollaro, nel corso degli ultimi dieci anni l’euro ha costantemente guadagnato quote di mercato nelle riserve estere globali ed è diventato la seconda valuta più diffusa (vedi grafico).
Purtroppo, il debito e problemi di bilancio dei PIIGS (Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia e Spagna) hanno danneggiato seriamente la fiducia e la credibilità dell’Unione Europea e dell’euro, stroncando sostanzialmente le possibilità dell’euro di essere un’alternativa al dollaro.
L’euro ha già raggiunto i minimi degli ultimi dodici mesi nei confronti dello yen, e i minimi degli ultimi nove mesi nei confronti del dollaro sulla speculazione che la valutazione del credito greco venga declassata ulteriormente. E’ anche in discussione la possibilità che l’Unione Europea e l’euro rimangano in condizioni soddisfacenti.

Il dollaro regna con liquidità suprema

Anche senza considerare il tracollo greco, è difficile competere nei confronti del dollaro con una tale carenza di liquidità all’interno dell’eurozona. Un motivo importante per cui il dollaro americano rimane la valuta di riserva è che il mercato obbligazionario americano è il mercato più liquido nel suo genere. Un mercato di debito liquido consente alle banche centrali di intervenire nei mercati foreign exchange per attutire le fluttuazioni delle valute.
Come è stato fatto notare dal rapporto del Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti:
“L’euro non è diventato equivalente al dollaro come valuta di riserva perché non esiste un mercato comune del debito nazionale all’interno dell’eurozona”.
Da questo punto di vista la sterlina e lo yen, le altre due valute di riserva preferenziali dopo l’euro, appaiono sbiadite in confronto al dollaro in termini di liquidità e agevolazioni del commercio globale. Inoltre, Moody’s ha messo in guardia su possibili declassamenti di Regno Unito e Giappone a causa del debito elevato, del pagamento degli interessi e di una crescita lenta del PIL (lunedì, ad un certo punto, la sterlina stava letteralmente precipitando ed è scesa ai minimi degli ultimi dieci mesi nei confronti del dollaro di fronte alle rinnovate preoccupazioni di un Parlamento in cui nessun partito ha la maggioranza assoluta).

Oro o yuan?

Mentre in molti sostengono un gold standard internazionale, o un altro sistema monetario internazionale basato su un paniere di materie prime e/o valute, è molto difficile vedere un adeguato consenso internazionale che ne decreti realmente la fattibilità.
Perciò dietro le quinte sta aspettando il renminbi cinese (RMB), detto anche yuan. La nomina di Zhu Min, vicegovernatore della banca centrale cinese, nelle vesti di consulente speciale al FMI sembra indicare il sì della Cina al programma per una valuta globale. Il Fondo, storicamente guidato da europei ma dominato dagli Stati Uniti, ha cercato di coinvolgere anche le economie emergenti come Brasile, Cina, India e Russia.
Ma secondo l’economista Geng Xiao, direttore del Brookings-Tsinghua Center for Public Policy, è nell’interesse della Cina – e del mondo – non liberarsi ancora del dollaro.

La rivalutazione dello yuan non risolve nulla

In un’intervista con McKinsley Quarterly, Xiao ha fatto notare che, da ambo le parti, non c’è stata alcuna discussione sullo squilibrio commerciale tra Cina e Stati Uniti. Tuttavia esistono alcune differenze filosofiche tra i due poiché gli Stati Uniti pongono una maggiore enfasi sulla correzione a breve termine attraverso il prezzo e il tasso di cambio del RMB mentre i cinesi pongono una maggiore enfasi sul cambiamento strutturale e istituzionale a medio e lungo termine. Xiao ritiene che sia difficile che il tasso di cambio corregga la bilancia commerciale:
“Anche se si modifica il tasso di cambio, questo avrà un modestissimo impatto sul disavanzo commerciale americano perché gli Stati Uniti compreranno da altri paesi”.

Tempo di riformare e fluttuare

La Cina ha bisogno di tempo per approvare le difficili riforme economiche in ambito nazionale prima che possa consentire alla propria valuta di fluttuare liberamente nei confronti del dollaro, come spiega Xiao:
“La Cina ha bisogno di un benchmark in modo che il prezzo possa essere confrontato con il prezzo globale, con la struttura di prezzo, compatibile con l’efficienza. E’ per questa ragione che la riforma dei prezzi è più importante della modifica del tasso di cambio… la modifica del tasso di cambio non cambierebbe le inefficienze… perché gli aiuti interni sono ancora presenti”.
Xiao valuta che alla Cina occorreranno dai 5 ai 10 anni per correggere le proprie distorsioni – la riforma terriera, la riforma del settore energetico, la riforma delle aziende di proprietà statale e la previdenza sociale. Solo quando la produttività della Cina raggiungerà quella degli Stati Uniti le strutture dei prezzi dei due paesi potranno convergere.

Lo scenario peggiore

Uno scenario peggiore potrebbe verificarsi se la Cina consentisse il perdurare delle aspettative di apprezzamento del RMB, costruendo ulteriori riserve foreign exchange, come avvisa Xiao:
“Non vedo altri modi per la Cina per ridurre in modo significativo la quantità di titoli in dollari… ma se incalzata, la Cina può sempre fare di più. E anche se marginalmente, anche solo un po’ di più può avere un grosso impatto sul mercato”.

Il dollaro comanda… per ora

Sicuramente, nel corso del tempo, la Cina dovrebbe essere in grado di trasformarsi in una moderna economia di mercato. E se l’economia cinese continua a cresce al ritmo attuale, il RMB alla fine diventerà una delle valute di riserva importanti, come il dollaro americano.
Ma per ora, ci sono diversi elementi a forte sostegno del dollaro. Oltre ad un mercato del debito liquido, molte materie prime, tra cui petrolio e oro, sono quotate nella moneta americana. All’incirca l’88% delle attività giornaliere del foreign exchange interessano dollari americani. Una moneta sostanzialmente agevola il commercio globale ed è possibile stabilire il prezzo delle materie prime in modo omogeneo ovunque esse vengano trattate.
E la Cina, il principale debitore degli Stati Uniti con un immenso pacchetto di titoli del Tesoro pari a 894,8 miliardi di dollari alla fine del dicembre scorso, si sta spostando verso titoli americani a più lungo termine e, contemporaneamente, sta accumulando azioni americane, aumentando il suo pacchetto complessivo di titoli americani a lungo termine.
Gli enormi pacchetti cinesi di riserve di dollari sotto forma di titoli del Tesoro americano sono diventati oggetto di preoccupazione per i funzionari da entrambe le coste del Pacifico. Tuttavia rimane il fatto che, facendo un confronto, il dollaro rimane la valuta più liquida e più stabile. In tal senso, è improbabile che nell’immediato futuro la Cina riduca in modo significativo i propri pacchetti di attività in dollari.

Detronizzato entro il 2050 ?

La maggior parte degli esperti occidentali sembra concordare sul fatto che la prospettiva di una sostituzione del dollaro con una nuova valuta di riserva mondiale è difficile che si materializzi presto perché non c’è alcuna alternativa seria all’orizzonte.
Rimangono dubbi anche sul fatto che i cinesi possano contrastare il biglietto verde. Ad ogni modo sembra si stia formando un’opinione più o meno comune tra vari esperti occidentali sul fatto che i cinesi abbiano intrapreso chiaramente il cammino per sfidare il dollaro in un periodo di transizione di 10-15 anni, il che coincide approssimativamente con le proiezioni di Geng Xiao.
L’economista britannico Angus Maddison prevede che la Cina supererà gli Stati Uniti entro il 2015. Tracciando un parallelo storico con l’ultimo avvicendamento nella valuta di riserva (dalla sterlina inglese al dollaro americano) ci si attende che il renminbi cinese subentri al dollaro come valuta di riserva intorno al 2050, alla metà del ventunesimo secolo.

La morte del dollaro con una crisi in stile-Grecia?

Nel frattempo, anche se la crisi del debito delle nazioni più in difficoltà dell’Europa meridionale si è ultimamente impadronita delle prime pagine dei giornali, Moody’s e i suoi pari hanno espresso preoccupazioni sulla prosperità finanziaria di Giappone, Regno Unito e Stati Uniti, concentrandosi principalmente sul debito e gli impegni debito di queste nazioni più grandi.

Ad esempio, l’interesse pagato sul debito del Tesoro americano è in crescita esponenziale negli ultimi due anni e ci si attende che raggiunga i 700 miliardi di dollari all’anno entro la fine del decennio. E’ probabile che il rapporto tra debito totale e PIL superi il 90% quest’anno negli Stati Uniti, indebitando il paese addirittura più di Spagna e Portogallo. Mentre gli Stati Uniti si stanno godendo la posizione di valuta di riserva, questa non è assolutamente garantita per il futuro. Per ora gli investitori stanno cercando rifugio nel mercato obbligazionario americano. Ad ogni modo un sistema politico malato, il debito e il disavanzo potrebbero far affondare inevitabilmente l’America in una crisi in stile Grecia, spingendo ancor di più per una morte anticipata del dollaro.

di Dian L. Chu

18 marzo 2010

I partiti si cambiano solo così

Lasciamo perdere, per un momento, la questione Berlusconi e le inaudite pressioni, intimidazioni, minacce che il presidente del Consiglio ha esercitato su un commissario dell'Authority per le Comunicazioni, Giancarlo Innocenzi, perché si desse da fare per chiudere Annozero, zittire Floris e la Dandini, impedire che vengano ospitati personaggi sgraditi al Cavaliere, come Ezio Mauro, Eugenio Scalfari, o, dio guardi, Antonio Di Pietro. «Se lei avesse un minimo di dignità dovrebbe dimettersi» ha sibilato Berlusconi a Innocenzi. Mentre è vero esattamente il contrario: se costui avesse avuto «un minimo di dignità» avrebbe dovuto mandare all'inferno l'energumeno ed eventualmente denunciarlo alla magistratura. Ma come avrebbe potuto il poveraccio? È un uomo di Berlusconi, è stato sottosegretario alle Comunicazioni in un suo governo e un suo dipendente quale Direttore dei servizi giornalistici Fininvest-Mediaset.

Ci sarebbe voluto non un coniglio, ma un samurai disposto al kharakiri per contrastare la violenza dell'energumeno e reggere una situazione talmente anomala, grottesca e pazzesca che non ha paragoni in alcun altro Stato al mondo, democratico o non democratico, tanto da far dire persino al Direttore generale della Rai, Masi, che «cose simili non si vedono nemmeno nello Zimbawe».

Ma lasciamo perdere la questione Berlusconi-Innocenzi-Minzolini non solo perché Il Fatto Quotidiano, oltre ad essere stato il primo a darne notizia la sta trattando con l'ampiezza che merita, ma perché ne presuppone un'altra.

Al di là dell'atteggiamento particolarmente spudorato e violento dell'energumeno, la domanda è: quale indipendenza può mai avere la Rai-Tv, Ente di Stato, e quindi di tutti i cittadini, quando il Consiglio di amministrazione è nominato dai partiti, il presidente pure, la Commissione di Vigilanza anche, l'Autority per le Comunicazioni e ogni altra Autority idem, quando non c'è dirigente, funzionario, conduttore di programmi, giornalista, usciere il cui posto di lavoro non dipenda dall'appartenenza a una qualche formazione politica, da un rapporto di fedeltà e sudditanza, più o meno mascherato, diretto o indiretto, a qualche partito o fazione di partito?
E la questione della Rai-Tv è solo la più emblematica e evidente dell'occupazione sistematica, arbitraria, illegittima che i partiti, queste associazioni private, hanno fatto di tutti gli apparati dello Stato, del parastato, dell'amministrazione pubblica, che poi ricade a pioggia anche sull'intera società (facciamo un esempio semplice semplice, tanto per capirci: a Firenze se sei architetto e non sei infeudato a sinistra non lavori).

Si parla tanto, di questi tempi, di riforme: istituzionali, costituzionali, della giustizia, eccetera. Ma la riforma più urgente, e principale, è quella dei partiti, nel senso di un loro drastico ridimensionamento, della loro cacciata da posizioni che occupano abusivamente, arbitrariamente, illegittimamente. Ma in democrazia solo i partiti possono riformare i partiti. E non lo faranno mai perché questo vorrebbe dire perdere il potere con cui condizionano l'intera società italiana, abusandola, stuprandola, ricattandola, richiedendo ai cittadini i più umilianti infeudamenti per ottenere, come favore, ciò che spetta loro di diritto.

Come se ne esce? Agli inizi degli anni Ottanta, quando l'abuso e il sopruso partitocratico era ancora, nonostante tutto,ben lontano da quello di oggi, Guglielmo Zucconi, direttore del Giorno, quotidiano appaltato alla Dc e al Psi, mi permise di scrivere nella mia rubrica, Calcio di Rigore, un articolo in cui invocavo provocatoriamente, per l'Italia, la soluzione che il generale Evren aveva adottato per la Turchia dove l'occupazione, la corruzione, il clientelismo dei partiti aveva raggiunto vertici intollerabili, ma comunque ancora lontani da quelli dell'Italia di oggi. Il generale Evren prese il potere, spazzò via tutta la nomenklatura partitocratica, e promise che, fatta una pulizia che in altro modo era impossibile, avrebbe restituito, entro cinque anni, il potere alle legittime istituzioni democratiche. Promessa che puntualmente mantenne. E oggi la Turchia, pur in mezzo alle mille contraddizioni di un Paese la cui realtà è resa difficile dalla presenza di una fortissima minoranza curda, è un Paese "normale" con una maggioranza, un'opposizione, un premier che rispetta le leggi e la magistratura, e partiti che stanno al loro posto e nel loro ruolo, che è quello di coagulare il consenso, e non esondano in tutta la società civile. Non è la Turchia che non ha i requisiti democratici per entrare in Europa. È l'Italia che non li ha più per restarci.

di Massimo Fini

17 marzo 2010

L’Europa si arrende agli speculatori

Le pressioni degli ambienti finanziari e bancari angloamericani unite a quelle dei loro servi alla Casa Bianca e a Downing Street sono stati troppo forti. E così i ministri europei delle Finanze hanno rinunciato a trovare un accordo sul progetto di regolamentare l’attività dei fondi speculativi (hedge fund) ed aumentarne la trasparenza.
Se ne parlerà in una prossima riunione prima della fine della presidenza spagnola in giugno. La portavoce della presidenza Ue e il ministro spagnolo delle Finanze, Elena Salgado, presidente di turno dell’Ecofin, ha spiegato che la questione dei fondi speculativi è stato rimosso dall'agenda dei lavori per avere il consenso più ampio possibile. Si tratta infatti di mettersi d'accordo su una posizione generale dalla quale far partire i negoziati con il Parlamento europeo che dovrà dare semaforo verde al progetto.
E in tale sede nasceranno sicuramente ulteriori problemi che faranno in modo che se un testo di legge uscirà, esso sarà molto annacquato rispetto al testo iniziale. Anche a Strasburgo infatti operano indisturbate numerose lobby finanziarie che attraverso i soldi versati in ogni direzione indirizzano il voto dei gentili deputati, già ben predisposti in altri settori a sostenere gli interessi della grande industria. In particolare, per un settore che riguarda l’Italia, nel campo dell’alimentare dove la salvaguardia dell’agricoltura e dei prodotti tipici viene subordinata agli interessi dell’industria trasformatrice. Ma anche di quella chimica come dimostra il via libera della Commissione europea al via libera alla produzione di cibi OGM.
Ma la finanza resta il settore nel quale sono maggiori i guadagni per gli speculatori e per i loro amici politici. Quando si è cominciato a parlare in Europa di mettere un freno alle attività degli speculatori, siano essi banche o società finanziarie, subito da Washington e da Londra si è levato un intenso fuoco di fila.
Il segretario al Tesoro Usa, Timothy Geithner aveva protestato la settimana scorsa affermando che le nuove regole avrebbero danneggiato le banche Usa compromettendo la loro capacità di fare affari con l'Europa. Insomma le banche americane non possono permettersi di vedersi porre veti. Uguale reazione da Londra con il Cancelliere dello Scacchiere, Alistair Darling, a difendere le banche di casa. Che diamine, era la loro reazione, la speculazione è una cosa troppo seria che va lasciata in mano ai soli speculatori. Come la Goldman Sachs (la banca cara a Romano Prodi e Mario Draghi) o George Soros e tutti gli altri banditi della sua risma. Si deve infatti ricordare sempre che sono state le banche e le società anglosassoni a scatenare la crisi finanziaria del 2008 con le loro speculazioni sui derivati e su altri consimili titoli spazzatura. Gli stessi speculatori che grazie a prestiti di centinaia di miliardi di dollari sono stati salvati dal fallimento da Barack Obama che solamente i soliti idioti di casa nostra o dell’Europa intera possono considerare ancora qualcosa di diverso dal suo predecessore. Così quando Geithner protesta con Bruxelles, è sicuro che delle sue rimostranze se ne terrà conto, perché l’Unione europea, che pure dovrebbe aspirare a recitare un ruolo forte e autonomo nel mondo, finisce per non fare altro che calarsi le braghe di fronte ai diktat degli Stati Uniti.
In tutta questa vicenda risalta ancora una volta l’incompatibilità della presenza della Gran Bretagna nell’Unione europea ed il suo conflitto di interesse con gli altri Paesi membri. Non si tratta solamente del fatto che Londra possa continuare a lasciare mano libera alle banche britanniche di speculare a loro piacimento, utilizzando i suoi paradisi fiscali europei come Jersey e Guernsey, ma c’è anche la questione dell’euro nel cui sistema Londra non ha mai avuto alcuna intenzione di entrare. Diciamo questo a prescindere da qualsiasi giudizio di valore o di merito sulla moneta unica. Si ripropone in tal modo in tutta la sua chiarezza il no che Charles De Gaulle oppose sempre all’entrata di Londra nella Comunità economica europea, Il Generale considerava infatti gli inglesi una testa di ponte degli americani per sabotare dal di dentro qualsiasi progetto comunitario che volesse trasformarsi in un progetto politico come quello de “L’Europa delle Patrie” da lui vagheggiato.
Nelle prossime settimane il commissario ai servizi finanziari, il francese Michel Barnier, partirà per gli Stati Uniti per discutere della questione centrale oggi sul tavolo, ossia l'accesso al mercato europeo dei gestori di fondi basati in Europa ma i cui capitali risiedono alle isole Cayman o in altri paradisi fiscali. Misure drastiche da parte della Ue potrebbero infatti spingere molti fondi a lasciare Londra, qui risiede circa l'80% di quelli più importanti, per stabilirsi in altri Paesi al di fuori della Ue, ad incominciare dalla in Svizzera. Barnier ha insistito sul fatto che la linea europea non è protezionista ma che semmai è in linea con gli orientamenti emersi all’ultima riunione del G20 e che quindi essa va nella direzione del rafforzamento della trasparenza e della responsabilità.
Giulio Tremonti, che da sempre attacca il modello anglosassone della finanza fine a se stessa e svincolata dall’economia reale, anche se non ha gradito il rinvio della discussione sulla direttiva per gli hedge fund, giudica però importante che la macchina si sia messa in movimento e che la sensibilità europea sul tema sia cambiata, considerato che anni fa una discussione simile con la Gran Bretagna sarebbe stata addirittura irrealistica.
Nel frattempo negli Stati Uniti, tanto per dimostrare chi comanda davvero, le grandi banche di investimento, nonostante le raccomandazioni in senso contrario dello stesso Barack Obama, hanno continuato nel 2009 a versare premi di produzione, i bonus, ai dirigenti responsabili delle speculazioni ma che sono riusciti a rimettere in sesto i conti grazie all’aiuto pubblico. Anche a Wall Street infatti si socializzano le perdite e si privatizzano i profitti.
di Filippo Ghira

16 marzo 2010

La morte del dollaro con una crisi stile Grecia?




Yuan contro il dollaro per il ruolo di valuta estera globale

L’abitudine di accumulare riserve di dollari da parte delle banche centrali è diventata sempre più spiccata dopo la crisi finanziaria asiatica del 1997, quando gli speculatori valutari hanno accelerato una crisi della bilancia dei pagamenti di Thailandia, Indonesia e Corea del Sud richiedendo dollari per le valute locali ed esaurendo le riserve di dollari delle banche centrali.
Facendo un salto in avanti di 13 anni, la posizione del dollaro come valuta di riserva preferenziale nel mondo è stata messa in discussione a causa di un disavanzo di bilancio in rapido aumento che mantiene gli Stati Uniti dipendenti dai finanziamenti dall’estero. Lo scorso anno sia Russia che Cina hanno proposto un tipo di “valuta di riserva sovranazionale” per contrastare il dollaro mentre Brasile e India hanno anche discusso della sostituzione di altre attività per i loro titoli espressi in dollari.

Il FMI: “Quel giorno deve ancora venire”

Riaccendendo la discussione, Dominique Strauss-Kahn, il direttore del Fondo Monetario Internazionale (FMI) ha detto venerdì scorso che sarebbe “intellettualmente apprezzabile esaminare” la creazione di una nuova valuta di riserva globale per limitare la dipendenza dal dollaro.
Strauss-Kahn ha affermato che un giorno ci potrà essere un’attività di riserva emessa globalmente ma che “quel giorno deve ancora venire”. Ad ogni modo le sue osservazioni sono il segnale di una preoccupazione più generale in merito al predominio del dollaro e “fino a che punto l’intero sistema monetario internazionale dipende dalle politiche e dalle condizioni di un singolo paese, seppur dominante”.

Tutto questo rende inevitabile la domanda: quale sarà la prossima valuta di riserva globale che subentrerà al dollaro?

Le riserve di dollari: dieci anni di declino

L’ultimo rapporto sul foreign exchange pubblicato dal Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti mostra che la percentuale delle riserve di dollari è in costante diminuzione – anche prima della crisi finanziaria. Nel 2009 il dollaro costituiva ancora circa il 60% delle riserve estere, con l’euro a meno del 30% e più distanziati sterlina e yen (vedi grafico).





Secondo il Peterson Institute for International Economics, anche se il dollaro rimane la più importante valuta di riserva nel corso degli ultimi dieci anni fino al primo trimestre del 2009, con la correzione per gli effetti dei tassi di cambio la quota del dollaro nelle riserve del foreign exchange, a conti fatti, è diminuita del 4,3%.

Gli elementi di una valuta di riserva

Il rapporto del Tesoro americano indica diversi elementi chiave che sono stati identificati dagli economisti per determinare l’utilizzo di una valuta per le riserve:
• la dimensione dell’economia nazionale
• l’importanza dell’economia nel commercio internazionale
• la dimensione, la forza e l’apertura dei mercati finanziari
• la convertibilità della valuta
• l’utilizzo della valuta come valuta di ancoraggio
• le politiche macroeconomiche nazionali

I PIIGS stroncano l’euro

Sulla base di questi criteri, l’eurozona, simile agli Stati Uniti per dimensione, quota di commercio globale e convertibilità della valuta, rende l’euro un valido contendente per la corona del dollaro. E, a differenza del dollaro, nel corso degli ultimi dieci anni l’euro ha costantemente guadagnato quote di mercato nelle riserve estere globali ed è diventato la seconda valuta più diffusa (vedi grafico).
Purtroppo, il debito e problemi di bilancio dei PIIGS (Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia e Spagna) hanno danneggiato seriamente la fiducia e la credibilità dell’Unione Europea e dell’euro, stroncando sostanzialmente le possibilità dell’euro di essere un’alternativa al dollaro.
L’euro ha già raggiunto i minimi degli ultimi dodici mesi nei confronti dello yen, e i minimi degli ultimi nove mesi nei confronti del dollaro sulla speculazione che la valutazione del credito greco venga declassata ulteriormente. E’ anche in discussione la possibilità che l’Unione Europea e l’euro rimangano in condizioni soddisfacenti.

Il dollaro regna con liquidità suprema

Anche senza considerare il tracollo greco, è difficile competere nei confronti del dollaro con una tale carenza di liquidità all’interno dell’eurozona. Un motivo importante per cui il dollaro americano rimane la valuta di riserva è che il mercato obbligazionario americano è il mercato più liquido nel suo genere. Un mercato di debito liquido consente alle banche centrali di intervenire nei mercati foreign exchange per attutire le fluttuazioni delle valute.
Come è stato fatto notare dal rapporto del Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti:
“L’euro non è diventato equivalente al dollaro come valuta di riserva perché non esiste un mercato comune del debito nazionale all’interno dell’eurozona”.
Da questo punto di vista la sterlina e lo yen, le altre due valute di riserva preferenziali dopo l’euro, appaiono sbiadite in confronto al dollaro in termini di liquidità e agevolazioni del commercio globale. Inoltre, Moody’s ha messo in guardia su possibili declassamenti di Regno Unito e Giappone a causa del debito elevato, del pagamento degli interessi e di una crescita lenta del PIL (lunedì, ad un certo punto, la sterlina stava letteralmente precipitando ed è scesa ai minimi degli ultimi dieci mesi nei confronti del dollaro di fronte alle rinnovate preoccupazioni di un Parlamento in cui nessun partito ha la maggioranza assoluta).

Oro o yuan?

Mentre in molti sostengono un gold standard internazionale, o un altro sistema monetario internazionale basato su un paniere di materie prime e/o valute, è molto difficile vedere un adeguato consenso internazionale che ne decreti realmente la fattibilità.
Perciò dietro le quinte sta aspettando il renminbi cinese (RMB), detto anche yuan. La nomina di Zhu Min, vicegovernatore della banca centrale cinese, nelle vesti di consulente speciale al FMI sembra indicare il sì della Cina al programma per una valuta globale. Il Fondo, storicamente guidato da europei ma dominato dagli Stati Uniti, ha cercato di coinvolgere anche le economie emergenti come Brasile, Cina, India e Russia.
Ma secondo l’economista Geng Xiao, direttore del Brookings-Tsinghua Center for Public Policy, è nell’interesse della Cina – e del mondo – non liberarsi ancora del dollaro.

La rivalutazione dello yuan non risolve nulla

In un’intervista con McKinsley Quarterly, Xiao ha fatto notare che, da ambo le parti, non c’è stata alcuna discussione sullo squilibrio commerciale tra Cina e Stati Uniti. Tuttavia esistono alcune differenze filosofiche tra i due poiché gli Stati Uniti pongono una maggiore enfasi sulla correzione a breve termine attraverso il prezzo e il tasso di cambio del RMB mentre i cinesi pongono una maggiore enfasi sul cambiamento strutturale e istituzionale a medio e lungo termine. Xiao ritiene che sia difficile che il tasso di cambio corregga la bilancia commerciale:
“Anche se si modifica il tasso di cambio, questo avrà un modestissimo impatto sul disavanzo commerciale americano perché gli Stati Uniti compreranno da altri paesi”.

Tempo di riformare e fluttuare

La Cina ha bisogno di tempo per approvare le difficili riforme economiche in ambito nazionale prima che possa consentire alla propria valuta di fluttuare liberamente nei confronti del dollaro, come spiega Xiao:
“La Cina ha bisogno di un benchmark in modo che il prezzo possa essere confrontato con il prezzo globale, con la struttura di prezzo, compatibile con l’efficienza. E’ per questa ragione che la riforma dei prezzi è più importante della modifica del tasso di cambio… la modifica del tasso di cambio non cambierebbe le inefficienze… perché gli aiuti interni sono ancora presenti”.
Xiao valuta che alla Cina occorreranno dai 5 ai 10 anni per correggere le proprie distorsioni – la riforma terriera, la riforma del settore energetico, la riforma delle aziende di proprietà statale e la previdenza sociale. Solo quando la produttività della Cina raggiungerà quella degli Stati Uniti le strutture dei prezzi dei due paesi potranno convergere.

Lo scenario peggiore

Uno scenario peggiore potrebbe verificarsi se la Cina consentisse il perdurare delle aspettative di apprezzamento del RMB, costruendo ulteriori riserve foreign exchange, come avvisa Xiao:
“Non vedo altri modi per la Cina per ridurre in modo significativo la quantità di titoli in dollari… ma se incalzata, la Cina può sempre fare di più. E anche se marginalmente, anche solo un po’ di più può avere un grosso impatto sul mercato”.

Il dollaro comanda… per ora

Sicuramente, nel corso del tempo, la Cina dovrebbe essere in grado di trasformarsi in una moderna economia di mercato. E se l’economia cinese continua a cresce al ritmo attuale, il RMB alla fine diventerà una delle valute di riserva importanti, come il dollaro americano.
Ma per ora, ci sono diversi elementi a forte sostegno del dollaro. Oltre ad un mercato del debito liquido, molte materie prime, tra cui petrolio e oro, sono quotate nella moneta americana. All’incirca l’88% delle attività giornaliere del foreign exchange interessano dollari americani. Una moneta sostanzialmente agevola il commercio globale ed è possibile stabilire il prezzo delle materie prime in modo omogeneo ovunque esse vengano trattate.
E la Cina, il principale debitore degli Stati Uniti con un immenso pacchetto di titoli del Tesoro pari a 894,8 miliardi di dollari alla fine del dicembre scorso, si sta spostando verso titoli americani a più lungo termine e, contemporaneamente, sta accumulando azioni americane, aumentando il suo pacchetto complessivo di titoli americani a lungo termine.
Gli enormi pacchetti cinesi di riserve di dollari sotto forma di titoli del Tesoro americano sono diventati oggetto di preoccupazione per i funzionari da entrambe le coste del Pacifico. Tuttavia rimane il fatto che, facendo un confronto, il dollaro rimane la valuta più liquida e più stabile. In tal senso, è improbabile che nell’immediato futuro la Cina riduca in modo significativo i propri pacchetti di attività in dollari.

Detronizzato entro il 2050 ?

La maggior parte degli esperti occidentali sembra concordare sul fatto che la prospettiva di una sostituzione del dollaro con una nuova valuta di riserva mondiale è difficile che si materializzi presto perché non c’è alcuna alternativa seria all’orizzonte.
Rimangono dubbi anche sul fatto che i cinesi possano contrastare il biglietto verde. Ad ogni modo sembra si stia formando un’opinione più o meno comune tra vari esperti occidentali sul fatto che i cinesi abbiano intrapreso chiaramente il cammino per sfidare il dollaro in un periodo di transizione di 10-15 anni, il che coincide approssimativamente con le proiezioni di Geng Xiao.
L’economista britannico Angus Maddison prevede che la Cina supererà gli Stati Uniti entro il 2015. Tracciando un parallelo storico con l’ultimo avvicendamento nella valuta di riserva (dalla sterlina inglese al dollaro americano) ci si attende che il renminbi cinese subentri al dollaro come valuta di riserva intorno al 2050, alla metà del ventunesimo secolo.

La morte del dollaro con una crisi in stile-Grecia?

Nel frattempo, anche se la crisi del debito delle nazioni più in difficoltà dell’Europa meridionale si è ultimamente impadronita delle prime pagine dei giornali, Moody’s e i suoi pari hanno espresso preoccupazioni sulla prosperità finanziaria di Giappone, Regno Unito e Stati Uniti, concentrandosi principalmente sul debito e gli impegni debito di queste nazioni più grandi.

Ad esempio, l’interesse pagato sul debito del Tesoro americano è in crescita esponenziale negli ultimi due anni e ci si attende che raggiunga i 700 miliardi di dollari all’anno entro la fine del decennio. E’ probabile che il rapporto tra debito totale e PIL superi il 90% quest’anno negli Stati Uniti, indebitando il paese addirittura più di Spagna e Portogallo. Mentre gli Stati Uniti si stanno godendo la posizione di valuta di riserva, questa non è assolutamente garantita per il futuro. Per ora gli investitori stanno cercando rifugio nel mercato obbligazionario americano. Ad ogni modo un sistema politico malato, il debito e il disavanzo potrebbero far affondare inevitabilmente l’America in una crisi in stile Grecia, spingendo ancor di più per una morte anticipata del dollaro.

di Dian L. Chu