12 maggio 2010

I pirati della borsa



I mercati finanziari nei giorni scorsi hanno segnato forti ribassi assaltati dagli speculatori. Parliamoci chiaro, gli speculatori sono quelli che, avviato il ribasso - cioè dato l’arrembaggio alla nave dei risparmiatori spaventati, che vendono per paura - comprano quando i prezzi delle azioni sono molto più bassi. I ribassisti sono signori che, assistiti dagli strumenti finanziari, vendono azioni pur non possedendole. In un secondo momento comprano, quindi, le azioni che non avevano e hanno già venduto. Ma non sono i soli alla ricerca di facili guadagni. Il fatto stesso che ci sia qualcuno che vende perché impaurito, significa che anche questi era alla ricerca di rendimenti più alti, ma più rischiosi, altrimenti avrebbe tenuto le azioni in attesa dei dividendi (i cosiddetti cassettisti), o avrebbe acquistato Bot o Cct o avrebbe tenuto i soldi in banca, che sono investimenti assai più sicuri. La borsa, si sa, ha dei “cicli” in cui i listini scendono e salgono. Non pensiate che chi guadagna in queste situazioni siano degli anonimi investitori, spesso sono le stesse banche. Basta guardare i bilanci dell’ultimo anno delle banche per vedere che una delle voci più consistenti dei ricavi è quella relativa al trading mobiliare, cioè ai guadagni fatti comprando e vendendo azioni e titoli. Questa volta l’allarme ha colpito i mercati per il caso Grecia. Altre volte gli allarmi, i cosiddetti warning, sono stati più seri (11 settembre; mutui subprime), altre volte meno seri o addirittura immotivati. Tra i bassi di ieri e gli alti di oggi, il caso Grecia sarà dimenticato e i listini saranno ancora come si dice bullish, cioè in salita. I ribassisti si faranno rialzisti, perché devono portare all’incasso i loro “investimenti”. La borsa è ormai un fenomeno mondiale. Mentre fino a qualche tempo fa i mercati seguivano Wall Street, ora tutti influenzano tutti. Per assurdo, l’anomalia del mercato borsistico sta proprio nel fatto che registra non il reale valore delle aziende, ma il valore di mercato, cioè quanto si è disposti a pagare una azione (una piccola quota di una azienda) in un determinato momento. Si potrebbe, come propone l’ex ministro e ex presidente Consob, Luigi Spaventa, su Repubblica bloccare la strada ai ribassisti-speculatori, consentendo agli stati di intervenire sul mercato e acquistare titoli nel momento in cui gli speculatori attaccano, vanificando le loro previsioni al ribasso e infliggendogli delle perdite. E’ una strada percorribile, che presuppone la presenza di una montagna di euro, se consideriamo che, ad esempio, il valore degli scambi azionari di Milano di venerdi 7 maggio è stato di 6,6 miliardi e che la speculazione potrebbe ripetersi su più giorni. Per ora gli stati europei hanno reagito ponendo a difesa dei propri titoli e della moneta unica 500 miliardi, più 250 del Fondo monetario internazionale. Queste misure che pure hanno messo al riparo i listini dalle speculazioni sui titoli di stato non basteranno a fermare le speculazioni del mercato borsistico. Per fare questo è necessario introdurre una serie di restrizioni e premi per chi opera sui listini. Restrizioni e limitazioni nell’uso degli strumenti finanziari e che contrastino l’abuso della leva finanziaria - investire senza avere il denaro - per chi opera in borsa. Si possono vietare le vendite al ribasso per chi non possiede azioni. Lo si è già sperimentato sul listino milanese per qualche mese dopo la crisi finanziaria mondiale del 2009. L’obiezione è che alcuni investitori non entrerebbero sui mercati che avessero troppe limitazioni. Basterebbe prendere regole comuni, che valgano a Piazza affari, come a Hong Kong, come a Wall Street e i mercati sarebbero più lenti, ma più armonici, nelle loro crescite o ribassi. Chi l’ha detto che l’orso non possa salire le montagne, seppur lentamente? Le politiche fiscali dovrebbero poi incentivare gli investimenti duraturi. La borsa nasce come strumento per le imprese di raccolta del risparmio privato a prezzi più convenienti rispetto al credito concesso dalle banche. Negli ultimi anni si è trasformato in un modo per gonfiare il valore delle azioni prima del collocamento (le cosiddetta Ipo, initial public offering), tanto che il 90 per cento delle aziende valgono oggi meno che al momento della quotazione. Analizzando poi la capitalizzazione delle aziende quotate a Piazza affari vediamo che queste valgono circa il 30 per cento del Pil. Il 35 per cento del valore di capitalizzazione è dato dalle aziende ex statali o municipalizzate dell’energia e dei servizi di pubblica utilità (Eni, Enel, Acea, ecc.), aziende che si fanno un po’ di concorrenza tra loro, senza esagerare, ma le cui tariffe sono regolamentate. Un terzo del valore lo danno banche e assicurazioni, ma i premi e i tassi attivi e passivi riservati agli imprenditori e ai risparmiatori dai diversi sportelli si somigliano molto, senza parlare di cartelli, sembra un mercato con poca concorrenza. Meno di un terzo è dato dal valore delle piccole, medie e grandi imprese che si confrontano, per mezzo dei loro prodotti, con il mercato italiano ed estero. Se è vero che il mercato ha sempre ragione, un mercato finanziario mondiale regolamentato da paletti precisi dovrebbe averne ancora di più. E’ necessario tornare, quindi, allo spirito costitutivo dei mercati borsistici, raccogliere capitali per lo sviluppo e tenere fuori la speculazione, con misure che premino veramente chi tiene i propri soldi investiti in una azione per un periodo duraturo (5,7,10 anni), esentandolo (considerato che finanzia l’economia reale), dalle imposte sui dividendi e sui capital gains. Certamente gli Stati sono più forti e più ricchi degli speculatori, che pure vedono una ricchezza concentrata in poche mani, e se vogliono possono tenere a bada le speculazioni. Non si vedrebbe più la gente che vende perché impaurita, come quando una nave veniva assaltata dai corsari e prima di scappare sulle scialuppe cercava di portare via più oro possibile, lasciando comunque qualcosa in cabina per la fretta di mettere in salvo la pelle, a guadagno dei pirati.
di Alessandro L. Salvaneschi

Uomini, mezzi uomini e...corruzione



A Porta a porta l'onorevole Nania, ex An, cercando di giustificare Scajola ha spiegato, poiché non era credibile che il ministro non si fosse reso conto che 600 mila euro per un appartamento di 180 metri quadri in una delle zone più suggestive di Roma era un prezzo totalmente fuori mercato, che è usuale che una persona comune quando si trova a trattare un affare con un uomo del potere sia naturalmente portata a fargli condizioni di favore senza che ciò comporti necessariamente una contropartita. Mio padre, Benso Fini, che nel dopoguerra ha diretto per 13 anni Il Corriere Lombardo, il primo quotidiano del pomeriggio italiano, allora assai importante, e che respingeva qualsiasi regalia, anche modesta, eccettuati i libri, mi ha insegnato che non si accettano favori immotivati. E questo mi ha evitato di cacciarmi in alcuni guai.

Nel 1979 lavoravo per il Nuovo Europeo di Mario Pirani e stavo trafficando per avere un'intervista da Toni Negri, in carcere da un mese. Oggi è semplice: ci si accorda con un parlamentare che entra in prigione e poi riferisce al giornalista. Allora le cose erano più complicate. Dopo estenuanti trattative riuscii a far arrivare a Negri le mie domande scritte e ad avere le sue risposte. Quando ebbi in mano tutto andai da Pirani, nel suo ufficio romano. Lui, che stava preparando il nuovo giornale, fu naturalmente molto contento: sarebbe stata la copertina del primo numero del "suo" Europeo. Nell'ufficio c'era anche l'Amministratore delegato Bruno Tassan Din che, preso dall'euforia, mi propose: «Venga con noi a Milano, sul nostro jet privato». «La ringrazio» risposi «ma ho già un biglietto Alitalia». «C'è anche Di Bella» disse Tassan Din per invogliarmi (era il direttore del Corriere). «Ragione in più per non venirci» replicai io, scherzando. Tassan Din parve molto seccato. Mezz'ora dopo Pirani mi richiamò nel suo ufficio: «Perché ha trattato così l'Amministratore delegato?». «Mio padre mi ha insegnato che non si accettano favori immotivati». Due anni dopo Tassan Din e Di Bella furono pescati nella P2. Se io fossi salito su quell'aereo i due avrebbero fatto probabilmente delle avances e io, magari non capendo subito bene, avrei potuto farmi trascinare in situazioni poco chiare e compromesso una volta mi sarei compromesso per sempre. In queste cose vale quello che vale per le ragazze: se si lasciano mettere una mano sul ginocchio si arriva alla hause. I politici si fanno mettere le mani su tutte e due le ginocchia. E questo mi stupisce un poco. Sono già dei miracolati, gente che non ha fatto un'ora di lavoro vero in vita sua, che non sa far nulla e sono potenti, ricchi e famosi.

Potrebbero accontentarsi. Invece non ne hanno mai basta. Anche quando non prendono direttamente tangenti si fanno dare affitti a equo canone, pagare mezzi appartamenti, regalare anche la carta igienica. Scajola, per scagionarsi, ha detto che avrebbe dovuto essere un cretino per dare 80 assegni circolari davanti a dei testimoni. Ma c'è anche un'altra ipotesi: il senso di impunità che dà il potere, la convinzione che non si pagherà mai dazio. Lo abbiamo già visto in Tangentopoli. Pillitteri non si faceva consegnare sulla sua scrivania i quattrini, malamente avvolti in carta di giornale? E perché mai la classe dirigente di oggi dovrebbe essere diversa, quando sono quindici anni che non si fa che delegittimare la Magistratura e si è inzeppato il Codice penale, soprattutto per i reati finanziari, quelli di "lorsignori", di leggi talmente "garantiste" che arrivare a una sentenza definitiva è quasi impossibile? Amintore Fanfani, che da vero uomo di potere non ambiva al denaro, abitava all'ottavo piano di un normalissimo condominio in via Platone, non in un appartamento davanti al Colosseo. Ma Fanfani, oltre a essere stato un notevole docente universitario, aveva statura (politica) di statista. Questi son solo degli ometti.

Massimo Fini

11 maggio 2010

Problema Greco, affare europeo

Non bisognava essere dei veggenti per indovinare che le draconiane "misure di austerità" imposte dal governo greco in cambio del prestito elargito dalla Ue e dal Fmi avrebbero causato imponenti proteste, con il rischio di violenze più o meno diffuse. E' noto che, ad Atene, la battaglia politica è sempre molto "vivace" e le organizzazioni sindacali piuttosto combattive. Il sangue che è già scorso è stato, probabilmente, causato da quelle frange di estrema sinistra, che in Grecia si riuniscono per lo più sotto le bandiere anarchiche, la cui presenza non va sopravvalutata. Si tratta di poche migliaia di persone che nella capitale stazionano nel quartiere di Exarchia, dove vivono in scalcagnate comunità all'interno di case occupate. Pur essendo un mito per gli "antagonisti" di tutta Europa, dal punto di vista politico questi gruppi radicali, anche se sono in grado di produrre danni, contano poco.
Sarebbe diverso se una parte della popolazione più indebolita dai piani governativi abbandonasse le forme pacifiche di contestazione. Nel giudicare le mosse del premier Papandreou, gli europei dovranno dunque tenere conto della sua esigenza di mantenere la pace sociale nella nazione. Le misure decise sono così pesanti che avrebbero provocato una reazione non solo nell'esuberante Grecia, ma in qualsiasi altro Paese europeo. Per rientrare dal debito fuori controllo, sono previsti il blocco degli stipendi dei lavoratori pubblici fino al 2014, l'abolizione di tredicesima e di quattordicesima per gli impiegati statali che guadagnano oltre 3.000 euri al mese, la cancellazioni di bonus che sono parte rilevante dello stipendio, l'aumento di altri due punti dell'Iva, con un incremento del 10% delle tasse su benzine, sigarette e alcolici, l'innalzamento dell'età pensionabile.
Va detto che quelle che sono state definite le cicale greche non se la passavano poi così bene nemmeno prima. I salari sono già bassi: quello minimo è pari al 60% dei corrispettivi olandese, belga, francese e al 50% dell'irlandese. La divisione della ricchezza, poi, è maggiormente sperequata rispetto agli altri Paesi dell'Eurozona. Il sistema economico greco ha molte colpe per l'attuale crisi. Il settore pubblico è ipertrofico ed inefficiente, essendo stato gonfiato con massicce assunzioni di carattere clientelare, l'evasione fiscale è immensa -perfino per un Paese come il nostro dove, al momento del conto, la domanda rituale è "con o senza fattura?"- la corruzione è ampiamente diffusa a tutti i livelli. Per l'economia greca, però, l'entrata nell'euro, tanto desiderata e poi raggiunta nel 2001, non è stato probabilmente un grande affare. Pur essendo i suoi prodotti poco competitivi, Atene non può più attuare svalutazioni competitive della moneta al fine di abbassare i prezzi delle sue merci, ma per rimettere in ordine i conti ha a disposizione solo lo strumento, doloroso, dei tagli e dell'innalzamento delle tasse.
Sono state comunque le esitazioni dell'Unione Europea ad aggravare la crisi, incoraggiando la speculazione finanziaria. La cancelliera Merkel, in particolare, ha a lungo tentennato, dando l'impressione di volere abbandonare la Grecia al proprio destino. Se è vero che la Germania non può essere il bancomat dei Paesi in difficoltà, bisogna però aggiungere che sono i tedeschi ad avere maggiormente guadagnato dall'entrata in vigore dell'euro, pur avendo abbandonato l'amato marco, vero e proprio simbolo identitario della nazione nel dopoguerra. Grazie alla parità monetaria, l'industria tedesca, infatti, ha potuto inondare con i suoi prodotti di alta qualità soprattutto i Paesi più deboli dell'area euro.
Giova inoltre ricordare che una parte consistente del debito greco è detenuto, oltre che da quelle francesi, dalle banche tedesche che, in caso di default, si potrebbero trovare nella condizione di chiedere sussidi governativi. Gli aiuti ad Atene sono dei prestiti al gravoso tasso del 5% che, se rimborsati, produrranno cospicui profitti per i Paesi che li hanno concessi i quali si indebitano a tassi minori. Si calcola che la stessa Germania guadagnerebbe, solo con la prima tranche di prestiti, 622 milioni di euri, la Francia 465 milioni e l'Italia 356 milioni. Comunque, la crisi greca, più di ogni altra cosa, ci ha mostrato che la solidarietà europea è un concetto aleatorio. Le settimane passate nell'incertezza, i toni "nazionalistici", con i quali i vari governi hanno voluto far mostra di difendere i risparmi dei propri cittadini, hanno evidenziato quanto l'Europa sia debole anche rispetto a quella moneta comune che riteneva il suo capolavoro e il suo gioiello.
Finalmente, la Merkel, mercoledì scorso, in un discorso al parlamento, che la stampa tedesca ha giudicato storico, ha dato l'impressione di assumersi le responsabilità che competono a un Paese così importante. Dopo avere dichiarato che "è in gioco il futuro dell'Europa e della Germania in Europa", la cancelliera ha aggiunto perentoriamente che "l'Europa oggi guarda alla Germania. Senza di noi o contro di noi non si può prendere alcuna decisione". Sembrerebbe la prima rivendicazione del ruolo di guida di Berlino in Europa, dopo decenni in cui la Germania ha messo ogni impegno per diluire la sua forza economica in un europeismo consensuale, negando di volere primeggiare anche politicamente. Ferma da tempo in stazione la locomotiva franco-tedesca, non sarebbe una brutta notizia che la sola Germania si decidesse a fare da traino per l'integrazione europea, abbandonando scrupoli e paure suscitati dal suo passato.
Sarebbe davvero eccessivo, però, trarre da un discorso parlamentare conclusioni politiche certe. L'Europa attuale, anche dal punto di vista economico, ha bisogno di rilevanti riforme che metteranno in luce se c'è davvero chi ambisce a fare da sprone agli altri. Oggi, si capisce che è stato sbagliato dotare della stessa moneta Paesi con divari economici troppo marcati. Probabilmente, si pensava di valersi ancora una volta del metodo funzionalista, compiendo un passo importante sul piano economico, nella convinzione che la coesione sociale scaturitane favorisse il rafforzamento delle istituzioni politiche. E' vero che l'integrazione continentale è nata con la Comunità europea del carbone e dell'acciaio (Ceca), ma adesso ci si è spinti a un punto in cui l'iniziativa politica deve precedere ogni altra istanza.
Anche nel governo dell'economia, senza una politica fiscale comune e senza un coordinamento delle finanze dei vari Paesi, l'euro rappresenterà più una gabbia che un'opportunità, lasciando i Paesi più deboli nelle grinfie degli avvoltoi alla Soros. In fin dei conti, mentre l'Europa trema per la crisi della Grecia che rappresenta solo lo 0,3% del pil mondiale, gli Usa non sembrano avere le stesse difficoltà per la quasi bancarotta della ben più sostanziosa (economicamente) California. Vale a dire che, senza la politica e senza un governo responsabile, le potenze economiche sono solo tigri di carta.
di Roberto Zavaglia

12 maggio 2010

I pirati della borsa



I mercati finanziari nei giorni scorsi hanno segnato forti ribassi assaltati dagli speculatori. Parliamoci chiaro, gli speculatori sono quelli che, avviato il ribasso - cioè dato l’arrembaggio alla nave dei risparmiatori spaventati, che vendono per paura - comprano quando i prezzi delle azioni sono molto più bassi. I ribassisti sono signori che, assistiti dagli strumenti finanziari, vendono azioni pur non possedendole. In un secondo momento comprano, quindi, le azioni che non avevano e hanno già venduto. Ma non sono i soli alla ricerca di facili guadagni. Il fatto stesso che ci sia qualcuno che vende perché impaurito, significa che anche questi era alla ricerca di rendimenti più alti, ma più rischiosi, altrimenti avrebbe tenuto le azioni in attesa dei dividendi (i cosiddetti cassettisti), o avrebbe acquistato Bot o Cct o avrebbe tenuto i soldi in banca, che sono investimenti assai più sicuri. La borsa, si sa, ha dei “cicli” in cui i listini scendono e salgono. Non pensiate che chi guadagna in queste situazioni siano degli anonimi investitori, spesso sono le stesse banche. Basta guardare i bilanci dell’ultimo anno delle banche per vedere che una delle voci più consistenti dei ricavi è quella relativa al trading mobiliare, cioè ai guadagni fatti comprando e vendendo azioni e titoli. Questa volta l’allarme ha colpito i mercati per il caso Grecia. Altre volte gli allarmi, i cosiddetti warning, sono stati più seri (11 settembre; mutui subprime), altre volte meno seri o addirittura immotivati. Tra i bassi di ieri e gli alti di oggi, il caso Grecia sarà dimenticato e i listini saranno ancora come si dice bullish, cioè in salita. I ribassisti si faranno rialzisti, perché devono portare all’incasso i loro “investimenti”. La borsa è ormai un fenomeno mondiale. Mentre fino a qualche tempo fa i mercati seguivano Wall Street, ora tutti influenzano tutti. Per assurdo, l’anomalia del mercato borsistico sta proprio nel fatto che registra non il reale valore delle aziende, ma il valore di mercato, cioè quanto si è disposti a pagare una azione (una piccola quota di una azienda) in un determinato momento. Si potrebbe, come propone l’ex ministro e ex presidente Consob, Luigi Spaventa, su Repubblica bloccare la strada ai ribassisti-speculatori, consentendo agli stati di intervenire sul mercato e acquistare titoli nel momento in cui gli speculatori attaccano, vanificando le loro previsioni al ribasso e infliggendogli delle perdite. E’ una strada percorribile, che presuppone la presenza di una montagna di euro, se consideriamo che, ad esempio, il valore degli scambi azionari di Milano di venerdi 7 maggio è stato di 6,6 miliardi e che la speculazione potrebbe ripetersi su più giorni. Per ora gli stati europei hanno reagito ponendo a difesa dei propri titoli e della moneta unica 500 miliardi, più 250 del Fondo monetario internazionale. Queste misure che pure hanno messo al riparo i listini dalle speculazioni sui titoli di stato non basteranno a fermare le speculazioni del mercato borsistico. Per fare questo è necessario introdurre una serie di restrizioni e premi per chi opera sui listini. Restrizioni e limitazioni nell’uso degli strumenti finanziari e che contrastino l’abuso della leva finanziaria - investire senza avere il denaro - per chi opera in borsa. Si possono vietare le vendite al ribasso per chi non possiede azioni. Lo si è già sperimentato sul listino milanese per qualche mese dopo la crisi finanziaria mondiale del 2009. L’obiezione è che alcuni investitori non entrerebbero sui mercati che avessero troppe limitazioni. Basterebbe prendere regole comuni, che valgano a Piazza affari, come a Hong Kong, come a Wall Street e i mercati sarebbero più lenti, ma più armonici, nelle loro crescite o ribassi. Chi l’ha detto che l’orso non possa salire le montagne, seppur lentamente? Le politiche fiscali dovrebbero poi incentivare gli investimenti duraturi. La borsa nasce come strumento per le imprese di raccolta del risparmio privato a prezzi più convenienti rispetto al credito concesso dalle banche. Negli ultimi anni si è trasformato in un modo per gonfiare il valore delle azioni prima del collocamento (le cosiddetta Ipo, initial public offering), tanto che il 90 per cento delle aziende valgono oggi meno che al momento della quotazione. Analizzando poi la capitalizzazione delle aziende quotate a Piazza affari vediamo che queste valgono circa il 30 per cento del Pil. Il 35 per cento del valore di capitalizzazione è dato dalle aziende ex statali o municipalizzate dell’energia e dei servizi di pubblica utilità (Eni, Enel, Acea, ecc.), aziende che si fanno un po’ di concorrenza tra loro, senza esagerare, ma le cui tariffe sono regolamentate. Un terzo del valore lo danno banche e assicurazioni, ma i premi e i tassi attivi e passivi riservati agli imprenditori e ai risparmiatori dai diversi sportelli si somigliano molto, senza parlare di cartelli, sembra un mercato con poca concorrenza. Meno di un terzo è dato dal valore delle piccole, medie e grandi imprese che si confrontano, per mezzo dei loro prodotti, con il mercato italiano ed estero. Se è vero che il mercato ha sempre ragione, un mercato finanziario mondiale regolamentato da paletti precisi dovrebbe averne ancora di più. E’ necessario tornare, quindi, allo spirito costitutivo dei mercati borsistici, raccogliere capitali per lo sviluppo e tenere fuori la speculazione, con misure che premino veramente chi tiene i propri soldi investiti in una azione per un periodo duraturo (5,7,10 anni), esentandolo (considerato che finanzia l’economia reale), dalle imposte sui dividendi e sui capital gains. Certamente gli Stati sono più forti e più ricchi degli speculatori, che pure vedono una ricchezza concentrata in poche mani, e se vogliono possono tenere a bada le speculazioni. Non si vedrebbe più la gente che vende perché impaurita, come quando una nave veniva assaltata dai corsari e prima di scappare sulle scialuppe cercava di portare via più oro possibile, lasciando comunque qualcosa in cabina per la fretta di mettere in salvo la pelle, a guadagno dei pirati.
di Alessandro L. Salvaneschi

Uomini, mezzi uomini e...corruzione



A Porta a porta l'onorevole Nania, ex An, cercando di giustificare Scajola ha spiegato, poiché non era credibile che il ministro non si fosse reso conto che 600 mila euro per un appartamento di 180 metri quadri in una delle zone più suggestive di Roma era un prezzo totalmente fuori mercato, che è usuale che una persona comune quando si trova a trattare un affare con un uomo del potere sia naturalmente portata a fargli condizioni di favore senza che ciò comporti necessariamente una contropartita. Mio padre, Benso Fini, che nel dopoguerra ha diretto per 13 anni Il Corriere Lombardo, il primo quotidiano del pomeriggio italiano, allora assai importante, e che respingeva qualsiasi regalia, anche modesta, eccettuati i libri, mi ha insegnato che non si accettano favori immotivati. E questo mi ha evitato di cacciarmi in alcuni guai.

Nel 1979 lavoravo per il Nuovo Europeo di Mario Pirani e stavo trafficando per avere un'intervista da Toni Negri, in carcere da un mese. Oggi è semplice: ci si accorda con un parlamentare che entra in prigione e poi riferisce al giornalista. Allora le cose erano più complicate. Dopo estenuanti trattative riuscii a far arrivare a Negri le mie domande scritte e ad avere le sue risposte. Quando ebbi in mano tutto andai da Pirani, nel suo ufficio romano. Lui, che stava preparando il nuovo giornale, fu naturalmente molto contento: sarebbe stata la copertina del primo numero del "suo" Europeo. Nell'ufficio c'era anche l'Amministratore delegato Bruno Tassan Din che, preso dall'euforia, mi propose: «Venga con noi a Milano, sul nostro jet privato». «La ringrazio» risposi «ma ho già un biglietto Alitalia». «C'è anche Di Bella» disse Tassan Din per invogliarmi (era il direttore del Corriere). «Ragione in più per non venirci» replicai io, scherzando. Tassan Din parve molto seccato. Mezz'ora dopo Pirani mi richiamò nel suo ufficio: «Perché ha trattato così l'Amministratore delegato?». «Mio padre mi ha insegnato che non si accettano favori immotivati». Due anni dopo Tassan Din e Di Bella furono pescati nella P2. Se io fossi salito su quell'aereo i due avrebbero fatto probabilmente delle avances e io, magari non capendo subito bene, avrei potuto farmi trascinare in situazioni poco chiare e compromesso una volta mi sarei compromesso per sempre. In queste cose vale quello che vale per le ragazze: se si lasciano mettere una mano sul ginocchio si arriva alla hause. I politici si fanno mettere le mani su tutte e due le ginocchia. E questo mi stupisce un poco. Sono già dei miracolati, gente che non ha fatto un'ora di lavoro vero in vita sua, che non sa far nulla e sono potenti, ricchi e famosi.

Potrebbero accontentarsi. Invece non ne hanno mai basta. Anche quando non prendono direttamente tangenti si fanno dare affitti a equo canone, pagare mezzi appartamenti, regalare anche la carta igienica. Scajola, per scagionarsi, ha detto che avrebbe dovuto essere un cretino per dare 80 assegni circolari davanti a dei testimoni. Ma c'è anche un'altra ipotesi: il senso di impunità che dà il potere, la convinzione che non si pagherà mai dazio. Lo abbiamo già visto in Tangentopoli. Pillitteri non si faceva consegnare sulla sua scrivania i quattrini, malamente avvolti in carta di giornale? E perché mai la classe dirigente di oggi dovrebbe essere diversa, quando sono quindici anni che non si fa che delegittimare la Magistratura e si è inzeppato il Codice penale, soprattutto per i reati finanziari, quelli di "lorsignori", di leggi talmente "garantiste" che arrivare a una sentenza definitiva è quasi impossibile? Amintore Fanfani, che da vero uomo di potere non ambiva al denaro, abitava all'ottavo piano di un normalissimo condominio in via Platone, non in un appartamento davanti al Colosseo. Ma Fanfani, oltre a essere stato un notevole docente universitario, aveva statura (politica) di statista. Questi son solo degli ometti.

Massimo Fini

11 maggio 2010

Problema Greco, affare europeo

Non bisognava essere dei veggenti per indovinare che le draconiane "misure di austerità" imposte dal governo greco in cambio del prestito elargito dalla Ue e dal Fmi avrebbero causato imponenti proteste, con il rischio di violenze più o meno diffuse. E' noto che, ad Atene, la battaglia politica è sempre molto "vivace" e le organizzazioni sindacali piuttosto combattive. Il sangue che è già scorso è stato, probabilmente, causato da quelle frange di estrema sinistra, che in Grecia si riuniscono per lo più sotto le bandiere anarchiche, la cui presenza non va sopravvalutata. Si tratta di poche migliaia di persone che nella capitale stazionano nel quartiere di Exarchia, dove vivono in scalcagnate comunità all'interno di case occupate. Pur essendo un mito per gli "antagonisti" di tutta Europa, dal punto di vista politico questi gruppi radicali, anche se sono in grado di produrre danni, contano poco.
Sarebbe diverso se una parte della popolazione più indebolita dai piani governativi abbandonasse le forme pacifiche di contestazione. Nel giudicare le mosse del premier Papandreou, gli europei dovranno dunque tenere conto della sua esigenza di mantenere la pace sociale nella nazione. Le misure decise sono così pesanti che avrebbero provocato una reazione non solo nell'esuberante Grecia, ma in qualsiasi altro Paese europeo. Per rientrare dal debito fuori controllo, sono previsti il blocco degli stipendi dei lavoratori pubblici fino al 2014, l'abolizione di tredicesima e di quattordicesima per gli impiegati statali che guadagnano oltre 3.000 euri al mese, la cancellazioni di bonus che sono parte rilevante dello stipendio, l'aumento di altri due punti dell'Iva, con un incremento del 10% delle tasse su benzine, sigarette e alcolici, l'innalzamento dell'età pensionabile.
Va detto che quelle che sono state definite le cicale greche non se la passavano poi così bene nemmeno prima. I salari sono già bassi: quello minimo è pari al 60% dei corrispettivi olandese, belga, francese e al 50% dell'irlandese. La divisione della ricchezza, poi, è maggiormente sperequata rispetto agli altri Paesi dell'Eurozona. Il sistema economico greco ha molte colpe per l'attuale crisi. Il settore pubblico è ipertrofico ed inefficiente, essendo stato gonfiato con massicce assunzioni di carattere clientelare, l'evasione fiscale è immensa -perfino per un Paese come il nostro dove, al momento del conto, la domanda rituale è "con o senza fattura?"- la corruzione è ampiamente diffusa a tutti i livelli. Per l'economia greca, però, l'entrata nell'euro, tanto desiderata e poi raggiunta nel 2001, non è stato probabilmente un grande affare. Pur essendo i suoi prodotti poco competitivi, Atene non può più attuare svalutazioni competitive della moneta al fine di abbassare i prezzi delle sue merci, ma per rimettere in ordine i conti ha a disposizione solo lo strumento, doloroso, dei tagli e dell'innalzamento delle tasse.
Sono state comunque le esitazioni dell'Unione Europea ad aggravare la crisi, incoraggiando la speculazione finanziaria. La cancelliera Merkel, in particolare, ha a lungo tentennato, dando l'impressione di volere abbandonare la Grecia al proprio destino. Se è vero che la Germania non può essere il bancomat dei Paesi in difficoltà, bisogna però aggiungere che sono i tedeschi ad avere maggiormente guadagnato dall'entrata in vigore dell'euro, pur avendo abbandonato l'amato marco, vero e proprio simbolo identitario della nazione nel dopoguerra. Grazie alla parità monetaria, l'industria tedesca, infatti, ha potuto inondare con i suoi prodotti di alta qualità soprattutto i Paesi più deboli dell'area euro.
Giova inoltre ricordare che una parte consistente del debito greco è detenuto, oltre che da quelle francesi, dalle banche tedesche che, in caso di default, si potrebbero trovare nella condizione di chiedere sussidi governativi. Gli aiuti ad Atene sono dei prestiti al gravoso tasso del 5% che, se rimborsati, produrranno cospicui profitti per i Paesi che li hanno concessi i quali si indebitano a tassi minori. Si calcola che la stessa Germania guadagnerebbe, solo con la prima tranche di prestiti, 622 milioni di euri, la Francia 465 milioni e l'Italia 356 milioni. Comunque, la crisi greca, più di ogni altra cosa, ci ha mostrato che la solidarietà europea è un concetto aleatorio. Le settimane passate nell'incertezza, i toni "nazionalistici", con i quali i vari governi hanno voluto far mostra di difendere i risparmi dei propri cittadini, hanno evidenziato quanto l'Europa sia debole anche rispetto a quella moneta comune che riteneva il suo capolavoro e il suo gioiello.
Finalmente, la Merkel, mercoledì scorso, in un discorso al parlamento, che la stampa tedesca ha giudicato storico, ha dato l'impressione di assumersi le responsabilità che competono a un Paese così importante. Dopo avere dichiarato che "è in gioco il futuro dell'Europa e della Germania in Europa", la cancelliera ha aggiunto perentoriamente che "l'Europa oggi guarda alla Germania. Senza di noi o contro di noi non si può prendere alcuna decisione". Sembrerebbe la prima rivendicazione del ruolo di guida di Berlino in Europa, dopo decenni in cui la Germania ha messo ogni impegno per diluire la sua forza economica in un europeismo consensuale, negando di volere primeggiare anche politicamente. Ferma da tempo in stazione la locomotiva franco-tedesca, non sarebbe una brutta notizia che la sola Germania si decidesse a fare da traino per l'integrazione europea, abbandonando scrupoli e paure suscitati dal suo passato.
Sarebbe davvero eccessivo, però, trarre da un discorso parlamentare conclusioni politiche certe. L'Europa attuale, anche dal punto di vista economico, ha bisogno di rilevanti riforme che metteranno in luce se c'è davvero chi ambisce a fare da sprone agli altri. Oggi, si capisce che è stato sbagliato dotare della stessa moneta Paesi con divari economici troppo marcati. Probabilmente, si pensava di valersi ancora una volta del metodo funzionalista, compiendo un passo importante sul piano economico, nella convinzione che la coesione sociale scaturitane favorisse il rafforzamento delle istituzioni politiche. E' vero che l'integrazione continentale è nata con la Comunità europea del carbone e dell'acciaio (Ceca), ma adesso ci si è spinti a un punto in cui l'iniziativa politica deve precedere ogni altra istanza.
Anche nel governo dell'economia, senza una politica fiscale comune e senza un coordinamento delle finanze dei vari Paesi, l'euro rappresenterà più una gabbia che un'opportunità, lasciando i Paesi più deboli nelle grinfie degli avvoltoi alla Soros. In fin dei conti, mentre l'Europa trema per la crisi della Grecia che rappresenta solo lo 0,3% del pil mondiale, gli Usa non sembrano avere le stesse difficoltà per la quasi bancarotta della ben più sostanziosa (economicamente) California. Vale a dire che, senza la politica e senza un governo responsabile, le potenze economiche sono solo tigri di carta.
di Roberto Zavaglia