22 maggio 2010

La casta e le sforbiciatine


L’idea di stampare in arabo, nel 2002, una sorta di guida della Camera con tanto di copertina verde islamica sarà stata forse una botta di genio. Ma Dio sa quanto sarebbe utile una traduzione dei bilanci della politica italiana in italiano. Questa sarebbe, la vera svolta epocale. Intendiamoci, sarebbe insensato non apprezzare il taglio alle buste paga dei parlamentari e dei ministri. Tanto più dopo che Tremonti ha detto che sarà assai più netto della sforbiciatina proposta da Calderoli, quel 5% di limatura alle indennità che, mettendo al riparo la polpa delle diarie, dei rimborsi e delle prebende varie, era stato bollato anche dai giornali non ostili al governo come una «elemosina».

In un libro appena edito dalla Bocconi, «Classe dirigente - L’intreccio tra business e politica», Antonio Merlo della Pennsylvania University ha confrontato la retribuzione dei parlamentari italiani e americani. Scoprendo che durante la Prima Repubblica i nostri «risultano sottopagati rispetto ai loro colleghi» ma dal ’94 capita il contrario grazie a un aumento dal 1948 al 2006 del 9,9% l’anno. Performance strepitosa. Non accompagnata, però, da un parallelo impegno sui banchi. Ieri mattina, a «Radio24», il senatore leghista Sandro Mazzatorta ha spiegato che occorre «sfatare alcuni luoghi comuni. Si è parlato di un parlamento che lavora poco. Noi saremo un’eccezione ma arriviamo il lunedì sera e al giovedì sera siamo ancora qua». Giudichino i lettori. Dicono: ma ci sono commissioni, missioni, mille altre attività... Anche in America.

Ma il senato Usa si riunisce in assemblea 180 giorni l’anno. Il nostro, nel 2009, 114. Mai (mai) di lunedì, due volte (due!) di venerdì. Toccando in aprile il record: 7 ore d’aula. Quanto alle presenze, da decenni il tasso d’assenteismo medio d’un senatore yankee è del 3,1%, dei nostri il decuplo. Insomma, un taglio alla busta paga dei parlamentari e dei grandi manager «prima » che il governo tocchi gli stipendi e le pensioni degli italiani non è solo opportuno: è obbligatorio. Su un punto, però, quanti strillano contro «le sparate demagogiche » hanno ragione: non sarà quel taglio, per quanto sensibile, a risanare le casse. È doveroso, non risolutivo. È sul costo della politica e del suo indotto che si gioca la partita vera.

È normale, in questi tempi di vacche magre, che la Camera continui a costare un miliardo? Che il Senato abbia 11 palazzi più magazzini per un totale di 9 ettari e abbia assunto 35 nuovi commessi per rimpiazzare colleghi andati in pensione poco più che cinquantenni 15 anni dopo la riforma Dini? Che un presidente regionale guadagni fino a 175 mila euro netti contro una media dei governatori Usa di 88.523 lordi? Che i partiti ricevano fino a 300 milioni di rimborsi elettorali l’anno anche negli anni senza elezioni? Che si rastrellino voti distribuendo posti e consulenze e appalti messi in carico alla collettività? Che i costi dei voli blu siano segreti oggi inespugnabili?

Per questo, mentre Cameron a Londra insiste per rinunciare perfino alla scorta, la trasparenza «vera » dei bilanci, che spesso sembrano studiati per nascondere invece che spiegare ai cittadini come vengono spesi i soldi, sarebbe il segnale giusto... Ricorda ironico Tito Boeri che nel film «La classe dirigente» Peter O’Toole solleva un tavolo con la sola forza del pensiero e «non ci aspettiamo certo miracoli del genere». La trasparenza sì, però, ce l’aspettiamo. La trasparenza sì.

Gian Antonio Stella

20 maggio 2010

Presi per il PIL



La crisi finanziaria sta accartocciando le nostre economie. Esportazioni in caduta libera, licenziamenti selvaggi, investimenti in picchiata, sfratti esecutivi per milioni di famiglie e deficit pubblici impazziti (che pompano verso l’alto il debito pubblico) sono solo alcuni degli effetti disastrosi dell’attuale crisi economica mondiale.

Sebbene l’attenzione dei media sia tutta concentrata sulla strada molto accidentata che dovrebbe portarci al “risanamento”, le montagne russe dell’economia mondiale hanno finalmente innescato un dibattito che mette in discussione la sostenibilità del nostro attuale modello di sviluppo fondato sulla crescita economica infinita. Tale critica non è soltanto basata sull’instabilità endemica delle dinamiche di mercato (di cui ormai vediamo gli effetti in tutti i settori), ma anche e soprattutto sull’impatto che questo modello economico ha sulle risorse limitate del pianeta e sul nostro benessere reale. Ma la nostra qualità della vita migliora davvero quando l’economia cresce del 2 o 3%? Possiamo davvero sacrificare il nostro ecosistema (con l’inevitabile conseguenza di distruggere noi stessi) per mantenere intatto un modello caratterizzato da squilibri e contraddizioni?

Per la prima volta da quando è stato inventato negli anni ‘40, il prodotto interno lordo (PIL) - ovvero l’icona popolare della crescita economica - è sotto accusa da parte di organismi internazionali e studiosi. Non sono più soltanto ONG come Sbilanciamoci, New Economics Foundation o il Movimento per la Decrescita Felice a sferrare l’attacco, ma anche tradizionali bastioni di ispirazione liberale. Persino l’Economist, un difensore del libero mercato, recentemente ha ospitato un dibattito sull’utilità del PIL concludendo che “si tratta di un pessimo indicatore per la misurazione del benessere” (http://www.economist.com/debate/days/view/503#mod_module). Anche l’OCSE, un altro colosso del tradizionalismo economico, ha cominciato a gettare dubbi sul dogma della crescita economica. Sul sito web dell’organizzazione intergovernativa, che raccoglie le economie più “sviluppate” del pianeta, si legge: “Per una buona parte del ventesimo secolo si è dato per scontato che la crescita economica fosse sinonimo di progresso, cioè, che un aumento del PIL significasse una vita migliore per tutti. Ma ora il mondo comincia a riconoscere che non è così semplice. Nonostante livelli sostenuti di crescita economica, non siamo più soddisfatti della nostra vita (e tanto meno più felici) di cinquant’anni fa” (http://www.oecd.org/pages/0,3417,en_40033426_40033828_1_1_1_1_1,00.html).

Questo dibattito ha cominciato (finalmente) a fare breccia nell’arena politica europea. Nel novembre 2007, l’Unione europea ha promosso una conferenza dal titolo ‘Al di là del PIL’ e, due anni più tardi, la Commissione ha emesso una direttiva su “Oltre il PIL: misurare il progresso in un mondo in cambiamento”, dove si sostiene che il PIL è stato scorrettamente utilizzato come un indicatore “generale dello sviluppo sociale e del progresso”, ma siccome non misura la sostenibilità ambientale e l’inclusione sociale, “occorre tenere conto di questi limiti quando se ne fa uso nelle analisi o nei dibattiti politici”. Secondo la Commissione Ue “il PIL non può costituire la chiave di lettura di tutte le questioni oggetto di dibattito pubblico”.

Alla fine dell’anno scorso, la Commissione sul progresso sociale creata dal presidente francese Nicholas Sarkozy e guidata dai premi Nobel Joseph Stiglitz e Amartya Sen ha sottolineato con forza l’inadeguatezza del PIL come misura del benessere sociale. Nel rapporto finale, la Commissione ricorda che il “PIL è una mera misura della produttività di un mercato, sebbene sia stata utilizzata come una misura di benessere economico. Questo ha comportato una confusione enorme nell’analisi di come vivono davvero le persone ed ha portato all’adozione di politiche sbagliate” (http://www.policyinnovations.org/ideas/innovations/data/000144/_res/id=sa_File1/economicperformancecommissionreport.pdf).

Pochi giorni fa, il New York Times ha pubblicato sul suo magazine un lungo articolo dal titolo “L’ascesa e la caduta del PIL”, in cui si passano in rassegna i progetti di revisione dei sistemi statistici nazionali per introdurre misure correttive o sostitutive del prodotto interno lordo (http://www.nytimes.com/2010/05/16/magazine/16GDP-t.html?th&emc=th).

Questi sviluppi recenti traggono la loro origine da una branca importante della ricerca economica che ha ormai dimostrato come la qualità della vita e il progresso sociale siano indipendenti dalla crescita economica. In molti casi, proprio i paesi che vantano una crescita economica sostenuta sono quelli in cui il benessere dei cittadini è più a rischio. Eppure, immancabilmente a ogni tornata elettorale, i nostri politici continuano a riempirsi la bocca di promesse su come far crescere il paese. La crescita economica è parte integrante dei programmi di tutti i partiti politici e, nei dibattiti televisivi, non c’è candidato che faccia un discorso alternativo: un discorso informato sui fatti, in grado almeno di recepire il dibattito in corso a livello globale. Per quanto tempo ancora continueremo a farci prendere per il PIL?

di Lorenzo Fioramonti

Lorenzo Fioramonti è visiting professor all’Università di Heidelberg (Germania) e capo ricercatore della società di consulenza Beyond Development-Dopo lo Sviluppo Srl (http://www.be-dev.com/). Una versione sintetica di quest’ articolo è stata pubblicata sull’edizione internazionale del New York Times il 12 Maggio 2010 (http://www.nytimes.com/2010/05/12/opinion/12iht-edlet.html?scp=1&sq=fioramonti&st=cse).


Quando la burocrazia si mangia la politica



Un’altro presunto scandalo ha scosso i palazzi della politica romana. Alla provincia di Roma una ventina di consiglieri provinciali sarebbero sotto inchiesta per un affare di rimborsi gonfiati. Poiché presso l’ente provincia non è prevista l’indennità di carica (che esiste invece per i parlamentari e i consiglieri regionali), si è pensato a una forma di rimborso per la mancata attività (i cosiddetti giustificativi). Ovvero, chi fa il consigliere provinciale riceve un rimborso pari al reddito percepito nella attività lavorativa, diciamo così, “da borghese”. Se nella vita lavorativa guadagna mille euro al mese, gliene rimborsano mille, se ne guadagna seimila gliene rimborsano seimila. La magistratura romana sta accertando i presunti illeciti nelle dichiarazioni dei consiglieri provinciali. Si tratterebbe di assunzioni fittizie, di cifre gonfiate, richieste alla provincia da parte di alcuni consiglieri. Gli interessati comunque smentiscono, dichiarandosi innocenti.
Il fatto potrebbe scandalizzare l’opinione pubblica. Anche se resta lecito chiedersi per quale motivo un signore che fa politica dovrebbe lasciare il proprio lavoro, diventare consigliere provinciale (attività che, se fatta bene, presume un certo impegno) e qui lavorare gratis, se gratis non muove la coda nemmeno il cane. Se il sistema dei rimborsi non va bene, ne andrebbe previsto uno alla luce del giorno, rapportato al lavoro effettivamente svolto e uguale per tutti, proprio come per i parlamentari e i consiglieri regionali. Si può ragionare sulle cifre, che qualcuno giudica eccessive, ma qualcosa bisogna pur dare a chi si impegna al servizio del bene pubblico, altrimenti si alimentano il qualunquismo nell’opinione pubblica e la corruzione degli eletti ovvero la loro sottoposizione alle varie (io ti faccio eleggere e tu in cambio sostieni i miei interessi).
Sul sito della provincia di Roma è possibile comunque leggere l’anagrafe patrimoniale dei consiglieri: si va da un minimo di 16 mila a un massimo di 114 mila euro l’anno di costo complessivo, per un totale di meno di due milioni di euro per il 2009. I consiglieri provinciali sono attualmente 45, con la legge Calderoli dovrebbero diminuire del 20 per cento, già alle prossime elezioni. Sul medesimo sito è possibile leggere il costo di ciascuno dei 73 dirigenti dell’ente. Si va da un minimo di 94 mila sino ad un massimo di 193 mila euro lordi annui da loro percepiti. La struttura burocratica è divisa in quattordici dipartimenti, a loro volta organizzati in 40 servizi, divisi tra le varie competenze (servizi sociali, scuola, governo del territorio, ecc., ecc., ecc.), in tre uffici extradipartimentali (polizia provinciale, protezione civile, avvocatura provinciale) e diversi altri uffici. Ci sono inoltre 17 società partecipate, a vario titolo, dalla provincia. La provincia di Roma ha un bilancio che vede entrate complessive di 678 milioni di euro (2009). La spesa corrente è di circa 480 milioni. La spesa corrente “disponibile” (che serve per pagare gli interessi sull’indebitamento, i costi per la provincia capitale e sopratutto i costi per il personale) ammonta a 204 milioni. Quindi, ricapitolando, 2 milioni costano i consiglieri e oltre 200 milioni costa la macchina burocratica. Il rapporto è di uno a cento. Così per la spesa per gli investimenti (scuole, viabilità, mobilità, sport, restauri, patrimonio, tutela ambientale e altro) rimangono, alla fine, poco più di 148 milioni.
In questo modo scopriamo che la provincia è sopratutto una macchina che funziona per alimentare se stessa e la propria burocrazia. Da un presunto scandalo per rimborsi fittizi (dove è giusto che la magistratura faccia tutta la luce e colpisca esemplarmente eventuali illeciti) si passa così a numeri che la dicono lunga sul livello e sui limiti della spesa della provincia di Roma. La colpa non è certo di Nicola Zingaretti (l’attuale presidente, che anzi ha registrato nel 2009 un avanzo di gestione di 72 milioni, ridotto i costi degli interessi passivi dell’8 per cento e del personale per un milione), né dei dirigenti o dipendenti attuali che hanno vinto un regolare concorso, ma di un sistema che per anni ha alimentato la grande costosissima macchina della burocrazia che finisce per limitare, a causa del suo costo, anche tutte le scelte che la politica dovrebbe fare.

di L.Q. Cincinnato

22 maggio 2010

La casta e le sforbiciatine


L’idea di stampare in arabo, nel 2002, una sorta di guida della Camera con tanto di copertina verde islamica sarà stata forse una botta di genio. Ma Dio sa quanto sarebbe utile una traduzione dei bilanci della politica italiana in italiano. Questa sarebbe, la vera svolta epocale. Intendiamoci, sarebbe insensato non apprezzare il taglio alle buste paga dei parlamentari e dei ministri. Tanto più dopo che Tremonti ha detto che sarà assai più netto della sforbiciatina proposta da Calderoli, quel 5% di limatura alle indennità che, mettendo al riparo la polpa delle diarie, dei rimborsi e delle prebende varie, era stato bollato anche dai giornali non ostili al governo come una «elemosina».

In un libro appena edito dalla Bocconi, «Classe dirigente - L’intreccio tra business e politica», Antonio Merlo della Pennsylvania University ha confrontato la retribuzione dei parlamentari italiani e americani. Scoprendo che durante la Prima Repubblica i nostri «risultano sottopagati rispetto ai loro colleghi» ma dal ’94 capita il contrario grazie a un aumento dal 1948 al 2006 del 9,9% l’anno. Performance strepitosa. Non accompagnata, però, da un parallelo impegno sui banchi. Ieri mattina, a «Radio24», il senatore leghista Sandro Mazzatorta ha spiegato che occorre «sfatare alcuni luoghi comuni. Si è parlato di un parlamento che lavora poco. Noi saremo un’eccezione ma arriviamo il lunedì sera e al giovedì sera siamo ancora qua». Giudichino i lettori. Dicono: ma ci sono commissioni, missioni, mille altre attività... Anche in America.

Ma il senato Usa si riunisce in assemblea 180 giorni l’anno. Il nostro, nel 2009, 114. Mai (mai) di lunedì, due volte (due!) di venerdì. Toccando in aprile il record: 7 ore d’aula. Quanto alle presenze, da decenni il tasso d’assenteismo medio d’un senatore yankee è del 3,1%, dei nostri il decuplo. Insomma, un taglio alla busta paga dei parlamentari e dei grandi manager «prima » che il governo tocchi gli stipendi e le pensioni degli italiani non è solo opportuno: è obbligatorio. Su un punto, però, quanti strillano contro «le sparate demagogiche » hanno ragione: non sarà quel taglio, per quanto sensibile, a risanare le casse. È doveroso, non risolutivo. È sul costo della politica e del suo indotto che si gioca la partita vera.

È normale, in questi tempi di vacche magre, che la Camera continui a costare un miliardo? Che il Senato abbia 11 palazzi più magazzini per un totale di 9 ettari e abbia assunto 35 nuovi commessi per rimpiazzare colleghi andati in pensione poco più che cinquantenni 15 anni dopo la riforma Dini? Che un presidente regionale guadagni fino a 175 mila euro netti contro una media dei governatori Usa di 88.523 lordi? Che i partiti ricevano fino a 300 milioni di rimborsi elettorali l’anno anche negli anni senza elezioni? Che si rastrellino voti distribuendo posti e consulenze e appalti messi in carico alla collettività? Che i costi dei voli blu siano segreti oggi inespugnabili?

Per questo, mentre Cameron a Londra insiste per rinunciare perfino alla scorta, la trasparenza «vera » dei bilanci, che spesso sembrano studiati per nascondere invece che spiegare ai cittadini come vengono spesi i soldi, sarebbe il segnale giusto... Ricorda ironico Tito Boeri che nel film «La classe dirigente» Peter O’Toole solleva un tavolo con la sola forza del pensiero e «non ci aspettiamo certo miracoli del genere». La trasparenza sì, però, ce l’aspettiamo. La trasparenza sì.

Gian Antonio Stella

20 maggio 2010

Presi per il PIL



La crisi finanziaria sta accartocciando le nostre economie. Esportazioni in caduta libera, licenziamenti selvaggi, investimenti in picchiata, sfratti esecutivi per milioni di famiglie e deficit pubblici impazziti (che pompano verso l’alto il debito pubblico) sono solo alcuni degli effetti disastrosi dell’attuale crisi economica mondiale.

Sebbene l’attenzione dei media sia tutta concentrata sulla strada molto accidentata che dovrebbe portarci al “risanamento”, le montagne russe dell’economia mondiale hanno finalmente innescato un dibattito che mette in discussione la sostenibilità del nostro attuale modello di sviluppo fondato sulla crescita economica infinita. Tale critica non è soltanto basata sull’instabilità endemica delle dinamiche di mercato (di cui ormai vediamo gli effetti in tutti i settori), ma anche e soprattutto sull’impatto che questo modello economico ha sulle risorse limitate del pianeta e sul nostro benessere reale. Ma la nostra qualità della vita migliora davvero quando l’economia cresce del 2 o 3%? Possiamo davvero sacrificare il nostro ecosistema (con l’inevitabile conseguenza di distruggere noi stessi) per mantenere intatto un modello caratterizzato da squilibri e contraddizioni?

Per la prima volta da quando è stato inventato negli anni ‘40, il prodotto interno lordo (PIL) - ovvero l’icona popolare della crescita economica - è sotto accusa da parte di organismi internazionali e studiosi. Non sono più soltanto ONG come Sbilanciamoci, New Economics Foundation o il Movimento per la Decrescita Felice a sferrare l’attacco, ma anche tradizionali bastioni di ispirazione liberale. Persino l’Economist, un difensore del libero mercato, recentemente ha ospitato un dibattito sull’utilità del PIL concludendo che “si tratta di un pessimo indicatore per la misurazione del benessere” (http://www.economist.com/debate/days/view/503#mod_module). Anche l’OCSE, un altro colosso del tradizionalismo economico, ha cominciato a gettare dubbi sul dogma della crescita economica. Sul sito web dell’organizzazione intergovernativa, che raccoglie le economie più “sviluppate” del pianeta, si legge: “Per una buona parte del ventesimo secolo si è dato per scontato che la crescita economica fosse sinonimo di progresso, cioè, che un aumento del PIL significasse una vita migliore per tutti. Ma ora il mondo comincia a riconoscere che non è così semplice. Nonostante livelli sostenuti di crescita economica, non siamo più soddisfatti della nostra vita (e tanto meno più felici) di cinquant’anni fa” (http://www.oecd.org/pages/0,3417,en_40033426_40033828_1_1_1_1_1,00.html).

Questo dibattito ha cominciato (finalmente) a fare breccia nell’arena politica europea. Nel novembre 2007, l’Unione europea ha promosso una conferenza dal titolo ‘Al di là del PIL’ e, due anni più tardi, la Commissione ha emesso una direttiva su “Oltre il PIL: misurare il progresso in un mondo in cambiamento”, dove si sostiene che il PIL è stato scorrettamente utilizzato come un indicatore “generale dello sviluppo sociale e del progresso”, ma siccome non misura la sostenibilità ambientale e l’inclusione sociale, “occorre tenere conto di questi limiti quando se ne fa uso nelle analisi o nei dibattiti politici”. Secondo la Commissione Ue “il PIL non può costituire la chiave di lettura di tutte le questioni oggetto di dibattito pubblico”.

Alla fine dell’anno scorso, la Commissione sul progresso sociale creata dal presidente francese Nicholas Sarkozy e guidata dai premi Nobel Joseph Stiglitz e Amartya Sen ha sottolineato con forza l’inadeguatezza del PIL come misura del benessere sociale. Nel rapporto finale, la Commissione ricorda che il “PIL è una mera misura della produttività di un mercato, sebbene sia stata utilizzata come una misura di benessere economico. Questo ha comportato una confusione enorme nell’analisi di come vivono davvero le persone ed ha portato all’adozione di politiche sbagliate” (http://www.policyinnovations.org/ideas/innovations/data/000144/_res/id=sa_File1/economicperformancecommissionreport.pdf).

Pochi giorni fa, il New York Times ha pubblicato sul suo magazine un lungo articolo dal titolo “L’ascesa e la caduta del PIL”, in cui si passano in rassegna i progetti di revisione dei sistemi statistici nazionali per introdurre misure correttive o sostitutive del prodotto interno lordo (http://www.nytimes.com/2010/05/16/magazine/16GDP-t.html?th&emc=th).

Questi sviluppi recenti traggono la loro origine da una branca importante della ricerca economica che ha ormai dimostrato come la qualità della vita e il progresso sociale siano indipendenti dalla crescita economica. In molti casi, proprio i paesi che vantano una crescita economica sostenuta sono quelli in cui il benessere dei cittadini è più a rischio. Eppure, immancabilmente a ogni tornata elettorale, i nostri politici continuano a riempirsi la bocca di promesse su come far crescere il paese. La crescita economica è parte integrante dei programmi di tutti i partiti politici e, nei dibattiti televisivi, non c’è candidato che faccia un discorso alternativo: un discorso informato sui fatti, in grado almeno di recepire il dibattito in corso a livello globale. Per quanto tempo ancora continueremo a farci prendere per il PIL?

di Lorenzo Fioramonti

Lorenzo Fioramonti è visiting professor all’Università di Heidelberg (Germania) e capo ricercatore della società di consulenza Beyond Development-Dopo lo Sviluppo Srl (http://www.be-dev.com/). Una versione sintetica di quest’ articolo è stata pubblicata sull’edizione internazionale del New York Times il 12 Maggio 2010 (http://www.nytimes.com/2010/05/12/opinion/12iht-edlet.html?scp=1&sq=fioramonti&st=cse).


Quando la burocrazia si mangia la politica



Un’altro presunto scandalo ha scosso i palazzi della politica romana. Alla provincia di Roma una ventina di consiglieri provinciali sarebbero sotto inchiesta per un affare di rimborsi gonfiati. Poiché presso l’ente provincia non è prevista l’indennità di carica (che esiste invece per i parlamentari e i consiglieri regionali), si è pensato a una forma di rimborso per la mancata attività (i cosiddetti giustificativi). Ovvero, chi fa il consigliere provinciale riceve un rimborso pari al reddito percepito nella attività lavorativa, diciamo così, “da borghese”. Se nella vita lavorativa guadagna mille euro al mese, gliene rimborsano mille, se ne guadagna seimila gliene rimborsano seimila. La magistratura romana sta accertando i presunti illeciti nelle dichiarazioni dei consiglieri provinciali. Si tratterebbe di assunzioni fittizie, di cifre gonfiate, richieste alla provincia da parte di alcuni consiglieri. Gli interessati comunque smentiscono, dichiarandosi innocenti.
Il fatto potrebbe scandalizzare l’opinione pubblica. Anche se resta lecito chiedersi per quale motivo un signore che fa politica dovrebbe lasciare il proprio lavoro, diventare consigliere provinciale (attività che, se fatta bene, presume un certo impegno) e qui lavorare gratis, se gratis non muove la coda nemmeno il cane. Se il sistema dei rimborsi non va bene, ne andrebbe previsto uno alla luce del giorno, rapportato al lavoro effettivamente svolto e uguale per tutti, proprio come per i parlamentari e i consiglieri regionali. Si può ragionare sulle cifre, che qualcuno giudica eccessive, ma qualcosa bisogna pur dare a chi si impegna al servizio del bene pubblico, altrimenti si alimentano il qualunquismo nell’opinione pubblica e la corruzione degli eletti ovvero la loro sottoposizione alle varie (io ti faccio eleggere e tu in cambio sostieni i miei interessi).
Sul sito della provincia di Roma è possibile comunque leggere l’anagrafe patrimoniale dei consiglieri: si va da un minimo di 16 mila a un massimo di 114 mila euro l’anno di costo complessivo, per un totale di meno di due milioni di euro per il 2009. I consiglieri provinciali sono attualmente 45, con la legge Calderoli dovrebbero diminuire del 20 per cento, già alle prossime elezioni. Sul medesimo sito è possibile leggere il costo di ciascuno dei 73 dirigenti dell’ente. Si va da un minimo di 94 mila sino ad un massimo di 193 mila euro lordi annui da loro percepiti. La struttura burocratica è divisa in quattordici dipartimenti, a loro volta organizzati in 40 servizi, divisi tra le varie competenze (servizi sociali, scuola, governo del territorio, ecc., ecc., ecc.), in tre uffici extradipartimentali (polizia provinciale, protezione civile, avvocatura provinciale) e diversi altri uffici. Ci sono inoltre 17 società partecipate, a vario titolo, dalla provincia. La provincia di Roma ha un bilancio che vede entrate complessive di 678 milioni di euro (2009). La spesa corrente è di circa 480 milioni. La spesa corrente “disponibile” (che serve per pagare gli interessi sull’indebitamento, i costi per la provincia capitale e sopratutto i costi per il personale) ammonta a 204 milioni. Quindi, ricapitolando, 2 milioni costano i consiglieri e oltre 200 milioni costa la macchina burocratica. Il rapporto è di uno a cento. Così per la spesa per gli investimenti (scuole, viabilità, mobilità, sport, restauri, patrimonio, tutela ambientale e altro) rimangono, alla fine, poco più di 148 milioni.
In questo modo scopriamo che la provincia è sopratutto una macchina che funziona per alimentare se stessa e la propria burocrazia. Da un presunto scandalo per rimborsi fittizi (dove è giusto che la magistratura faccia tutta la luce e colpisca esemplarmente eventuali illeciti) si passa così a numeri che la dicono lunga sul livello e sui limiti della spesa della provincia di Roma. La colpa non è certo di Nicola Zingaretti (l’attuale presidente, che anzi ha registrato nel 2009 un avanzo di gestione di 72 milioni, ridotto i costi degli interessi passivi dell’8 per cento e del personale per un milione), né dei dirigenti o dipendenti attuali che hanno vinto un regolare concorso, ma di un sistema che per anni ha alimentato la grande costosissima macchina della burocrazia che finisce per limitare, a causa del suo costo, anche tutte le scelte che la politica dovrebbe fare.

di L.Q. Cincinnato