13 giugno 2010

Il vero volto della casta dei padroni




Un altro segno della crisi della sinistra è il libro di Filippo Astone "Il partito dei padroni" (Longanesi, 383 pg., 17,60 euro).
Un giornalista in forza al Mondo, il settimanale della Rcs, il giornale del salotto buono; una casa editrice che non sta nella tradizione della sinistra culturale italiana anche se oggi è un tassello di quel gruppo Mauri Spagnol che rappresenta l'outsider principale contro Mondadori e Rizzoli. Eppure il libro costituisce un'analisi impietosa, di quelle che la sinistra non riesce a fare, di quello che è oggi la classe padronale italiana, dei suoi equilibri politici interni e dei suoi comportamenti in diretta sul campo, a volte al limite del voltastomaco. Come il caso che Astone sceglie di mettere in apertura del libro per presentare "la faccia truce dei padroni" quella della Umbria Olii, distrutta da un incendio nel quale persero la vita cinque operai, bruciati vivi. Giorgio Del Papa, amministratore delegato e principale azionista dell'azienda, ha citato le famiglie degli operai morti chiedendo un risarcimento di 35 milioni di euro perché l'incendio sarebbe stato provocato dalla noncuranza di quei poveri lavoratori. Un'infamia oltre che un'ingiustizia, hanno risposto le famiglie, che si sono rivolte anche al Capo dello Stato (cosa ha risposto?) e che piene di rabbia e di dolore sono costrette a sostenere un vero e proprio processo giudiziario.

La faccia truce

Faccia truce o vero volto? A fronte di un caso come questo, il libro mette in evidenza come invece Condindustria, il partito dei padroni, cerchi invece di presentarsi con un volto moderno, riformatore, in cerca di una stabilizzazione del paese e di un clima politico meno rissoso. Il volto "cool" di Luca Cordero di Montezemolo, cresciuto in casa Fiat, uomo dalle mille poltrone e dalle ambizioni politiche soffocate a fatica, leader dell'associazione imprenditoriale e poi, dopo la successione di Emma Margegaglia, presidente di una Fondazione, Italia Futura, con la quale provare a tessere una strategia politica. Oppure il volto più ruspante e pragmatico dell'imprenditrice mantovana che a differenza dell'ex presidente Fiat, ha dislocato la Confindustria decisamente dalla parte del governo Berlusconi in cambio di favori, piccoli privilegi, vere e proprie prebende (anche per la propria famiglia, come dimostra il caso dei lavori alla Maddalena per il G8).
Se il caso della Umbria Olii è certamente il più estremo, è anche vero che dietro il volto suadente e moralizzatore, si nasconde un incessante lavorìo per ottenere risultati concreti da questo o quel governo. E dal governo Berlusconi Confindustria di risultati ne ha ottenuti non pochi come Astone scrive: la privatizzazione dei servizi pubblici locali con una possibile «grande abbuffata» da circa 100 miliardi di euro; la promessa del nucleare, con un giro di affari che supera i 30 miliardi; la riforma della scuola con gli incentivi agli istituti tecnici, il rilancio dei professionali, e un'università che viene di fatto consegnata ai privati; e poi tutti i tipi di incentivi, la detassazazione degli utili, il fondo di credito per le piccole imprese e altro ancora. Certo, ci sono le delusioni, la riduzione delle tasse che non arriva, grandi opere infrastrutturali che non decollano ma sostanzialmente il programma di governo segue pedissequamente quello di Confindustria. Perché, il punto è questo, il "partito dei padroni" si muove come un vero partito, ha una struttura di oltre 4 mila dipendenti per rappresentare 142 mila imprese, e ha un suo programma politico che resta piuttosto immutato nel tempo, presidente dopo presidente.

Il programma dei padroni

Un programma politico che si riassume in un'ideologia da «far west" in cui l'impresa deve essere liberata da "lacci e lacciuoli", libera nei suoi affari e nel suo profitto, messa al centro della vita politica e sociale. I quattro punti fondamentali di questo programma sono così definiti: «Privatizzare qualunque cosa tranne (per ora) l'aria; abbassare drasticamente le imposte e pertanto la spesa pubblica; riformare radicalmente la contrattazione e il diritto al lavoro per ottenere la massima flessibilità e minori costi; adoperarsi per attuare le riforme indispensabili a un paese moderno» cioè burocrazia più efficiente, infrastrutture, incentivi a ricerca e sviluppo. Questo programma non cambia mai e le richieste ai governi di turno sono sempre le stesse. E, se guardiamo agli ultimi venti anni, ci accorgiamo che questo programma è stato pazientemente applicato con certosina precisione (anche se questo non basta ancora al "partito dei padroni") sia dai governi Berlusconi che da quelli del centrosinistra.
Ma siccome non basta mai, la Confindustria si esercita con foga e determinazione nel "j'accuse" contro la politica, i suoi ritardi, i suoi riti, i suoi costi, additati come responsabili non secondari - i responsabili principali sono sempre i sindacati - dell'impasse italiana. Solo che quando si guarda in casa padronale ci si accorge - e questo il libro di Astone lo permette benissimo - che quei costi, quei ritardi, quelle alchimie sono esaltati all'ennesima potenza. Confindustria gestisce un bilancio complessivo - compresi i bilanci delle Unioni provinciali e regionali - di oltre 500 milioni di euro ma nessuno ne sa nulla (mentre per i bilanci dei sindacati viene chiesta, giustamente, la massima trasparenza); le sue regole interne, per l'elezione del Presidente, della Giunta, del Direttivo, delle svariate strutture che si controllano a vicenda, sono degni «del Partito comunista cinese». La lotta per il controllo delle Unioni provinciali, delle Commissioni nazionali e della Presidenza è senza esclusione di colpi. Al suo interno vivono correnti, cordate - ancora poco noto il "Salotto buono 2" che lega Cordero di Montezemolo, Della Valle, Luigi Abete, Vittorio Merloni - gli sgomitamenti delle ex aziende di Stato oggi colossi energetici come Eni e Enel. In prima fila nella lotta contro le "caste", Confindustria è un fior di casta, con i suoi mandarini e i suoi nepotismi, i costi eccessivi ma soprattutto i danni sociali che le sue scelte politiche provocano.

La casta confindustriale

Messe di fila, nel capitolo titolato "La casta di lorsignori", le principali gesta confindustriali smentiscono platealmente quell'ideologia a base di meritocrazia e modernità, di flessibilità e crescita economica che pure professano. Anzi, descrivono «una foresta pietrificata» che ha grandi responsabilità nell'edificazione del "caso italiano". Il modo con cui Tronchetti Provera ha spennato gli azionisti Pirelli e poi quelli Telecom; il modo con cui Geronzi è stato portato alla presidenza di Generali senza essersi mai occupato di Assicurazioni in vita sua; il gioco delle scatole cinesi che permette a John Elkann di decidere i destini della Fiat possedendone direttamente solo il 6%; gli stipendi e le stock options che intascano i proprietari-manager delle imprese anche quando producono perdite favolose e senza alcun principio meritocratico; il caso Alitalia, Fastweb, senza dimenticare Parmalat e Cirio. Una carrellata che permette a Astone di concludere il libro con questa considerazione: «All'inizio ci siamo chiesti se, e in quale misura, i protagonisti del capitalismo nostrano abbiano corresponsabilità nella deriva italiana. A partire da una domanda: ma Marco Tronchetti Provera, Emma Marcegaglia, Luca Cordero di Montezemolo sono poi così diversi da Antonio Bassolino, Rossa Russo Jervolino e Mara Carfagna? Alla fine del viaggio la risposta è no». Le similitudini posso essere ampliate ma la sostanza è quella: una classe dirigente dedita a bacchettare tutto e tutti, a dispensare consigli all'universo mondo, si è arricchita grazie a quello Stato che vuole abbattere e grazie a sacrifici enormi di lavoratori e lavoratrici. Eppure è ancora lì, intoccabile, impunita che si erge a grande moralizzatrice, foraggiata e sostenuta dal cuore dell'ideologia berlusconiana che vuole l'imprenditoria come modello sociale di riferimento contro la politica parassitaria. Un modello che ha plasmato la società italiana e che costituisce oggi forse il vero lascito degli ultimi venti anni

12 giugno 2010

Bavaglio e oscurantismo per una stampa in caduta libera





Legge-bavaglio sulle intercettazioni: avanti così, verso l’oscurantismo. Ma siamo proprio sicuri che oscurare le notizie sia un male in sé? In altre parole: essere informati sempre e comunque, è un valore? La nostra risposta, amareggiata poiché una decente informazione su questo giornale presumiamo di fornirla, è no.

Gli scandali, infatti, non fanno più scandalo. Secondo l’ultima versione della mannaia Pdl sui segreti telefonici, «mai le intercettazioni saranno pubblicabili (nemmeno per riassunto) fino al processo, anche se ormai depositate e non più coperte da segreto, anche se penalmente rilevanti e su fatti non privati ma di interesse pubblico», come ha scritto ieri nel suo fondo in prima pagina sul Corriere l’ottimo cronista Luigi Ferrarella. I giornali che violeranno questo divieto saranno spellati vivi da multe di 309 mila euro a notizia, obbligando l’editore a vigilare sul lavoro dei giornalisti affinché non commettano il reato di lesa pubblicazione. Siamo quindi alla censura preventiva di Stato ma senza dirette misure di polizia, bensì tramite lo strumento, più morbido e viscido perché relegato al rapporto fra proprietà e redazioni, del Minculpop interno alle testate.

L’ennesimo colpo di piccone ad un diritto fondamentale della liberal-democrazia, la libertà d’informazione tutelato dall’articolo 21 della Costituzione. L’indignazione, ormai quotidiana per la stretta autoritaria del regimetto di Berlusconi, monta e sale, ancora una volta. Ma è un moto di rifiuto che essendo diventato routine, si fa assuefazione, speculare e contraria all’indifferenza con cui la maggior parte degli italiani accoglie queste news. L’industria dell’angoscia e del divertimento, il bastone e la carota con cui i media teleguidati dalla pubblicità lobotomizzano il cittadino-consumatore, trova il suo corrispettivo polemico nell’industria dell’indignazione e della mobilitazione permanente. La prima fa credere che esistano da una parte solo eventi luttuosi o irrazionali (cronaca nera, calamità naturali, crisi considerate come fatti inevitabili) e dall’altra spettacoli per distrarsi e farsela passare (i reality show, il gossip, i pettegolezzi, le “curiosità”); la seconda controbatte con requisitorie contro il potere politico ed economico ma a senso unico, parziali, viziate dall’ottica ristretta per cui in una democrazia occidentale basta rovesciare i mascalzoni al governo e tutto rifiorisce, come per magia, come se il problema non sia il sistema di vita che ci vede tutti sulla stessa barca.

Sia ben chiaro: al primo modello, stile Studio Aperto, è preferibile il secondo, tipo Fatto Quotidiano, quanto meno perché quest’ultimo poggia su una moralità (benché acquattata sul contingente e nello specifico sull’antiberlusconismo eretto a metafisica). Ma entrambe sono facce della stessa medaglia, la fabbrica del nonsenso: si va da uno stordimento per ignoranza e manipolazione ad un automatismo da incazzati in servizio permanente effettivo, che la sanno sempre molto lunga ma in realtà sono dipendenti dalle malefatte altrui, e ne costituiscono, magari inconsapevolmente, il complemento e perciò il completamento. Gli uni si scontrano contro gli altri ma, psicanaliticamente, ne sono l’ombra, ripudiata e al tempo stesso cercata, desiderata, indispensabile. Ecco perché, dai e dai, la notizia del giorno, che sia pure frutto dell’intercettazione di turno, smuove le coscienze già smosse e lascia in un beato menefreghismo gli indifferenti abituali. Il bavaglio alla stampa è un’ignominia, d’accordo. Tuttavia, crediamo di poter affermare a ragion veduta che con la stampa che ci ritroviamo non è una gran perdita. La china su cui stiamo scendendo a passi da giganti ridurrà sempre più ampie parti dell’opinione pubblica alla disinformazione come fatto compiuto. Chi si batterà per contrastarla sarà condannato all’invisibilità e alla carboneria. Ma ricordiamoci che le più grandi rivoluzioni della Storia non si sono fatte stando ai primi posti della classifica di Freedom House. Si sono imposte, a prezzo di sacrifici e di sangue, con il prorompere della necessità di un popolo di abbattere i propri tiranni. E più la tirannia stringe il cappio, più cresce la necessità della ribellione. Più ci imbavagliano, più aumenta il bisogno vitale di respirare. Avanti così dunque: più ci umiliano, e prima verrà il giorno della ghigliottina.
di Alessio Mannino -



Per gentile concessione de “La Voce del Ribelle”

11 giugno 2010

La letale chiusura mentale di Israele


Il crollo della reputazione di Israele dopo il brutale attacco alla flottiglia di Gaza probabilmente non influenzerà i leader del Paese.

Ai vertici dei sistemi militare e politico di Israele vi sono due uomini, Ehud Barak e Benjamin Nethanyahu, responsabili dell’attacco alla flottiglia di Gaza che ha scioccato il mondo, ma che sembra essere salutato come un mero atto di autodifesa da parte del pubblico israeliano.

Sebbene provengano dalla sinistra (il Ministro della Difesa Barak dal Partito Laborista) e dalla destra (il Premier Nethanyahu dal Partito Likkud) della politica israeliana, la loro considerazione di Gaza in generale e quella della flottiglia in particolare è permeata dallo stesso background storico e dalla stessa visione del mondo.

Nella foto: Benjamin Nethanyahu (sull'aereo) e Ehud Barak (dietro) durante una visita ufficiale a una base dell'aeronautica israeliana.

Una volta, Ehud Barak era l’Ufficiale di Comando di Benjamin Nethanyahu nell’equivalente israeliano delle SAS [Servizio Aereo Speciale dell’Esercito inglese, ndt]. Più precisamente, servirono in un’unità simile a quella che comandò l’assalto alla nave Turca la scorsa settimana. Questa percezione della realtà nella Striscia di Gaza è condivisa da altri membri eminenti dell’élite militare e politica israeliana ed è ampiamente sostenuta dall’elettorato domestico ebraico.

È un modo facile di affrontare la realtà. Hamas, anche se è l’unico governo nel mondo arabo ad essere stato eletto democraticamente, deve essere eliminato, sia come forza politica che militare. E questo non solo perché continua la sua lotta contro l’occupazione israeliana degli ultimi 40 anni in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza lanciando missili primitivi su Israele – il più delle volte come rappresaglia ad un omicidio da parte di Israele di qualche suo attivista nei territori occupati. Ma principalmente è dovuto alla sua opposizione politica al tipo di “pace” che Israele vuole imporre ai palestinesi.

La pace forzata non è negoziabile per l’élite israeliana, ed offre ai palestinesi un controllo ed una sovranità limitati nella Striscia di Gaza ed in alcune zone della Cisgiordania. Si chiede ai palestinesi di smettere di lottare per la liberazione e l’auto-determinazione in cambio della costituzione di tre piccoli bantustan [territori del Sudafrica e della Namibia assegnati alle etnie nere dal governo sudafricano all'epoca dell'apartheid, ndt] sotto lo stretto controllo e la supervisione di Israele.

Quindi, il pensiero israeliano generale è che Hamas è un ostacolo formidabile per l’imposizione di una tale pace. Perciò la strategia dichiarata è chiara: affamare e costringere alla sottomissione i 1.5 milioni di palestinesi che vivono nel posto a più alta densità del mondo.

Si supponeva che l’assedio imposto nel 2006 spingesse gli abitanti di Gaza a sostituire l’attuale governo palestinese con uno che accettasse gli ordini di Israele – o che almeno prendesse parte all’inattiva autorità palestinese della Cisgiordania. Nel frattempo, Hamas ha catturato un soldato israeliano, Gilad Shalit, ed allora l’assedio si è intensificato. E ciò include un embargo delle merci più elementari, senza le quali la sopravvivenza risulta difficile ad un essere umano. Per mancanza di cibo e medicine, per mancanza di cemento e petrolio, la gente di Gaza vive in condizioni che le istituzioni internazionali e le agenzie hanno descritto come catastrofiche e criminali.

Come nel caso della flottiglia, ci sono strade alternative per rilasciare il soldato prigioniero, come scambiarlo con i migliaia di prigionieri politici detenuti da Israele. Molti di loro sono bambini, e parecchi sono detenuti senza processo. Gli israeliani sono andati a rilento nelle negoziazioni di tale scambio, che probabilmente non produrranno risultati nell’immediato futuro.

Ma Barak e Netanyahu, e chi gli sta attorno, sanno fin troppo bene che l’assedio di Gaza non provocherà nessun cambiamento nella posizione di Hamas e bisognerebbe dare retta al premier David Cameron, il quale, durante le Prime Minister’s Questions [convenzione del Parlamento britannico per la quale nelle sedute della Camera dei Comuni del mercoledì il premier spende mezz’ora di tempo per rispondere alle domande dei membri del parlamento, ndt] della scorsa settimana, ha osservato che la politica israeliana di fatto rinforza, più che indebolire, la stretta di Hamas su Gaza. Ma questa strategia, nonostante il suo scopo dichiarato, non è intenzionata ad avere successo, o almeno a Gerusalemme nessuno si preoccupa se continua ad essere inutile e futile.

Si sarebbe potuto pensare che il crollo della reputazione di Israele a livello internazionale avrebbe indotto un nuovo modo di pensare nei suoi leader. Ma le reazioni all’attacco della flottiglia negli ultimi giorni hanno chiaramente indicato che non c’è speranza per nessun tipo di cambiamento notevole nelle posizioni ufficiali. Un saldo impegno nel continuare l’assedio, nonchè un benvenuto da eroi ai soldati che hanno assaltato la nave nel Mediterraneo, dimostrano che la politica rimarrà la stessa a lungo.

La cosa non sorprende. Il governo Barak-Nethanyahu-Avigdor Lieberman non conosce nessun’altro modo di far fronte alla realtà in Palestina ed Israele. L’uso della forza bruta per imporre la propria volontà, oltre ad una febbrile macchina di propaganda che la descrive come autodifesa, mentre demonizza la popolazione di Gaza mezza morta di fame e considera terroristi coloro che la vogliono aiutare, è l’unico andamento possibile per questi politici. Le terribili conseguenze di morte e sofferenza di questa determinazione non li riguarda, e tanto meno li riguarda la condanna internazionale.

La vera srategia, diversa da quella dichiarata, è di continuare con questo stato di cose. Finche la comunità internazionale sarà compiaciuta, il mondo arabo impotente e Gaza controllata, Israele potrà ancora avere un’economia propserosa ed un elettorato che considera una vita dominata dall’esercito, il continuo conflitto e l’oppressione dei palestinesi come l’unica realtà di vita passata, presente e futura in Israele. Il Vice Presidente degli USA Joe Biden è stato recentemente umiliato da parte degli israeliani dal recente annuncio della costruzione di 1.600 nuove unità abitative nel conteso distretto di Ramat Shlomo a Gerusalemme, lo stesso giorno in cui era arrivato per arrestare la politica di insediamento. Ma il suo sostegno incondizionato alle ultime azioni israeliane permette ai leader ed al loro elettorato di sentirsi rivendicati.

Sarebbe sbagliato, comunque, ritenere che il sostegno dell’America ed una debole risposta dell’Europa alle politiche criminali di Israele come quelle portata avanti a Gaza siano le ragioni principali per il continuo assedio e lo strangolamento di Gaza. Quello che risulta più difficile è spiegare ai lettori di tutto il mondo quanto queste percezioni e questi comportamenti siano profondamente radicati nella psiche e nella mentalità di Israele. Ed è davvero difficile comprendere quanto diametricalmente opposti siano le comuni reazioni a certi avvenimenti, per esempio in Inghilterra, rispetto alle emozioni che innescano nella società ebraico-israelita.

Le reazioni internazionali sono basate sulla premessa che ulteriori ed imminenti concessioni ai palestinesi ed un continuo dialogo con l’élite politica israeliana produrrano una nuova realtà della questione. In occidente il pensiero ufficiale è che una soluzione davvero ragionevole ed accessibile è proprio dietro l’angolo se tutte le parti fanno un ultimo sforzo: la costituzione di un doppio stato.

Nulla è più lontano dalla realtà di questo scenario ottimistico. L’unica versione di questa soluzione che Israele considera accettabile è l’unica che sia la remissiva autorità palestinese che la più assertiva Hamas a Gaza non potrebbero mai accettare. Si sta offrendo di imprigionare i palestinesi in delle enclave senza stato in cambio della fine della loro lotta.

Quindi prima che si discuta su una soluzione alternativa – un singolo stato democratico per tutti, che io sostengo – o si esplori una più plausibile costituzione di un doppio stato, bisogna fondamentalmente trasformare la mentalità ufficiale e pubblica di Israele, poichè costituisce la principale barriera per una riconciliazione pacifica nella terra divisa a metà tra Israele e Palestina.

Il Professor Ilan Pappé dirige il Centro Europeo per gli Studi Palestinesi presso l’Università di Exter ed è l’autore di “The Ethnic Cleansing of Palestine” [“La Pulizia Etnica della Palestina”, ndt]

13 giugno 2010

Il vero volto della casta dei padroni




Un altro segno della crisi della sinistra è il libro di Filippo Astone "Il partito dei padroni" (Longanesi, 383 pg., 17,60 euro).
Un giornalista in forza al Mondo, il settimanale della Rcs, il giornale del salotto buono; una casa editrice che non sta nella tradizione della sinistra culturale italiana anche se oggi è un tassello di quel gruppo Mauri Spagnol che rappresenta l'outsider principale contro Mondadori e Rizzoli. Eppure il libro costituisce un'analisi impietosa, di quelle che la sinistra non riesce a fare, di quello che è oggi la classe padronale italiana, dei suoi equilibri politici interni e dei suoi comportamenti in diretta sul campo, a volte al limite del voltastomaco. Come il caso che Astone sceglie di mettere in apertura del libro per presentare "la faccia truce dei padroni" quella della Umbria Olii, distrutta da un incendio nel quale persero la vita cinque operai, bruciati vivi. Giorgio Del Papa, amministratore delegato e principale azionista dell'azienda, ha citato le famiglie degli operai morti chiedendo un risarcimento di 35 milioni di euro perché l'incendio sarebbe stato provocato dalla noncuranza di quei poveri lavoratori. Un'infamia oltre che un'ingiustizia, hanno risposto le famiglie, che si sono rivolte anche al Capo dello Stato (cosa ha risposto?) e che piene di rabbia e di dolore sono costrette a sostenere un vero e proprio processo giudiziario.

La faccia truce

Faccia truce o vero volto? A fronte di un caso come questo, il libro mette in evidenza come invece Condindustria, il partito dei padroni, cerchi invece di presentarsi con un volto moderno, riformatore, in cerca di una stabilizzazione del paese e di un clima politico meno rissoso. Il volto "cool" di Luca Cordero di Montezemolo, cresciuto in casa Fiat, uomo dalle mille poltrone e dalle ambizioni politiche soffocate a fatica, leader dell'associazione imprenditoriale e poi, dopo la successione di Emma Margegaglia, presidente di una Fondazione, Italia Futura, con la quale provare a tessere una strategia politica. Oppure il volto più ruspante e pragmatico dell'imprenditrice mantovana che a differenza dell'ex presidente Fiat, ha dislocato la Confindustria decisamente dalla parte del governo Berlusconi in cambio di favori, piccoli privilegi, vere e proprie prebende (anche per la propria famiglia, come dimostra il caso dei lavori alla Maddalena per il G8).
Se il caso della Umbria Olii è certamente il più estremo, è anche vero che dietro il volto suadente e moralizzatore, si nasconde un incessante lavorìo per ottenere risultati concreti da questo o quel governo. E dal governo Berlusconi Confindustria di risultati ne ha ottenuti non pochi come Astone scrive: la privatizzazione dei servizi pubblici locali con una possibile «grande abbuffata» da circa 100 miliardi di euro; la promessa del nucleare, con un giro di affari che supera i 30 miliardi; la riforma della scuola con gli incentivi agli istituti tecnici, il rilancio dei professionali, e un'università che viene di fatto consegnata ai privati; e poi tutti i tipi di incentivi, la detassazazione degli utili, il fondo di credito per le piccole imprese e altro ancora. Certo, ci sono le delusioni, la riduzione delle tasse che non arriva, grandi opere infrastrutturali che non decollano ma sostanzialmente il programma di governo segue pedissequamente quello di Confindustria. Perché, il punto è questo, il "partito dei padroni" si muove come un vero partito, ha una struttura di oltre 4 mila dipendenti per rappresentare 142 mila imprese, e ha un suo programma politico che resta piuttosto immutato nel tempo, presidente dopo presidente.

Il programma dei padroni

Un programma politico che si riassume in un'ideologia da «far west" in cui l'impresa deve essere liberata da "lacci e lacciuoli", libera nei suoi affari e nel suo profitto, messa al centro della vita politica e sociale. I quattro punti fondamentali di questo programma sono così definiti: «Privatizzare qualunque cosa tranne (per ora) l'aria; abbassare drasticamente le imposte e pertanto la spesa pubblica; riformare radicalmente la contrattazione e il diritto al lavoro per ottenere la massima flessibilità e minori costi; adoperarsi per attuare le riforme indispensabili a un paese moderno» cioè burocrazia più efficiente, infrastrutture, incentivi a ricerca e sviluppo. Questo programma non cambia mai e le richieste ai governi di turno sono sempre le stesse. E, se guardiamo agli ultimi venti anni, ci accorgiamo che questo programma è stato pazientemente applicato con certosina precisione (anche se questo non basta ancora al "partito dei padroni") sia dai governi Berlusconi che da quelli del centrosinistra.
Ma siccome non basta mai, la Confindustria si esercita con foga e determinazione nel "j'accuse" contro la politica, i suoi ritardi, i suoi riti, i suoi costi, additati come responsabili non secondari - i responsabili principali sono sempre i sindacati - dell'impasse italiana. Solo che quando si guarda in casa padronale ci si accorge - e questo il libro di Astone lo permette benissimo - che quei costi, quei ritardi, quelle alchimie sono esaltati all'ennesima potenza. Confindustria gestisce un bilancio complessivo - compresi i bilanci delle Unioni provinciali e regionali - di oltre 500 milioni di euro ma nessuno ne sa nulla (mentre per i bilanci dei sindacati viene chiesta, giustamente, la massima trasparenza); le sue regole interne, per l'elezione del Presidente, della Giunta, del Direttivo, delle svariate strutture che si controllano a vicenda, sono degni «del Partito comunista cinese». La lotta per il controllo delle Unioni provinciali, delle Commissioni nazionali e della Presidenza è senza esclusione di colpi. Al suo interno vivono correnti, cordate - ancora poco noto il "Salotto buono 2" che lega Cordero di Montezemolo, Della Valle, Luigi Abete, Vittorio Merloni - gli sgomitamenti delle ex aziende di Stato oggi colossi energetici come Eni e Enel. In prima fila nella lotta contro le "caste", Confindustria è un fior di casta, con i suoi mandarini e i suoi nepotismi, i costi eccessivi ma soprattutto i danni sociali che le sue scelte politiche provocano.

La casta confindustriale

Messe di fila, nel capitolo titolato "La casta di lorsignori", le principali gesta confindustriali smentiscono platealmente quell'ideologia a base di meritocrazia e modernità, di flessibilità e crescita economica che pure professano. Anzi, descrivono «una foresta pietrificata» che ha grandi responsabilità nell'edificazione del "caso italiano". Il modo con cui Tronchetti Provera ha spennato gli azionisti Pirelli e poi quelli Telecom; il modo con cui Geronzi è stato portato alla presidenza di Generali senza essersi mai occupato di Assicurazioni in vita sua; il gioco delle scatole cinesi che permette a John Elkann di decidere i destini della Fiat possedendone direttamente solo il 6%; gli stipendi e le stock options che intascano i proprietari-manager delle imprese anche quando producono perdite favolose e senza alcun principio meritocratico; il caso Alitalia, Fastweb, senza dimenticare Parmalat e Cirio. Una carrellata che permette a Astone di concludere il libro con questa considerazione: «All'inizio ci siamo chiesti se, e in quale misura, i protagonisti del capitalismo nostrano abbiano corresponsabilità nella deriva italiana. A partire da una domanda: ma Marco Tronchetti Provera, Emma Marcegaglia, Luca Cordero di Montezemolo sono poi così diversi da Antonio Bassolino, Rossa Russo Jervolino e Mara Carfagna? Alla fine del viaggio la risposta è no». Le similitudini posso essere ampliate ma la sostanza è quella: una classe dirigente dedita a bacchettare tutto e tutti, a dispensare consigli all'universo mondo, si è arricchita grazie a quello Stato che vuole abbattere e grazie a sacrifici enormi di lavoratori e lavoratrici. Eppure è ancora lì, intoccabile, impunita che si erge a grande moralizzatrice, foraggiata e sostenuta dal cuore dell'ideologia berlusconiana che vuole l'imprenditoria come modello sociale di riferimento contro la politica parassitaria. Un modello che ha plasmato la società italiana e che costituisce oggi forse il vero lascito degli ultimi venti anni

12 giugno 2010

Bavaglio e oscurantismo per una stampa in caduta libera





Legge-bavaglio sulle intercettazioni: avanti così, verso l’oscurantismo. Ma siamo proprio sicuri che oscurare le notizie sia un male in sé? In altre parole: essere informati sempre e comunque, è un valore? La nostra risposta, amareggiata poiché una decente informazione su questo giornale presumiamo di fornirla, è no.

Gli scandali, infatti, non fanno più scandalo. Secondo l’ultima versione della mannaia Pdl sui segreti telefonici, «mai le intercettazioni saranno pubblicabili (nemmeno per riassunto) fino al processo, anche se ormai depositate e non più coperte da segreto, anche se penalmente rilevanti e su fatti non privati ma di interesse pubblico», come ha scritto ieri nel suo fondo in prima pagina sul Corriere l’ottimo cronista Luigi Ferrarella. I giornali che violeranno questo divieto saranno spellati vivi da multe di 309 mila euro a notizia, obbligando l’editore a vigilare sul lavoro dei giornalisti affinché non commettano il reato di lesa pubblicazione. Siamo quindi alla censura preventiva di Stato ma senza dirette misure di polizia, bensì tramite lo strumento, più morbido e viscido perché relegato al rapporto fra proprietà e redazioni, del Minculpop interno alle testate.

L’ennesimo colpo di piccone ad un diritto fondamentale della liberal-democrazia, la libertà d’informazione tutelato dall’articolo 21 della Costituzione. L’indignazione, ormai quotidiana per la stretta autoritaria del regimetto di Berlusconi, monta e sale, ancora una volta. Ma è un moto di rifiuto che essendo diventato routine, si fa assuefazione, speculare e contraria all’indifferenza con cui la maggior parte degli italiani accoglie queste news. L’industria dell’angoscia e del divertimento, il bastone e la carota con cui i media teleguidati dalla pubblicità lobotomizzano il cittadino-consumatore, trova il suo corrispettivo polemico nell’industria dell’indignazione e della mobilitazione permanente. La prima fa credere che esistano da una parte solo eventi luttuosi o irrazionali (cronaca nera, calamità naturali, crisi considerate come fatti inevitabili) e dall’altra spettacoli per distrarsi e farsela passare (i reality show, il gossip, i pettegolezzi, le “curiosità”); la seconda controbatte con requisitorie contro il potere politico ed economico ma a senso unico, parziali, viziate dall’ottica ristretta per cui in una democrazia occidentale basta rovesciare i mascalzoni al governo e tutto rifiorisce, come per magia, come se il problema non sia il sistema di vita che ci vede tutti sulla stessa barca.

Sia ben chiaro: al primo modello, stile Studio Aperto, è preferibile il secondo, tipo Fatto Quotidiano, quanto meno perché quest’ultimo poggia su una moralità (benché acquattata sul contingente e nello specifico sull’antiberlusconismo eretto a metafisica). Ma entrambe sono facce della stessa medaglia, la fabbrica del nonsenso: si va da uno stordimento per ignoranza e manipolazione ad un automatismo da incazzati in servizio permanente effettivo, che la sanno sempre molto lunga ma in realtà sono dipendenti dalle malefatte altrui, e ne costituiscono, magari inconsapevolmente, il complemento e perciò il completamento. Gli uni si scontrano contro gli altri ma, psicanaliticamente, ne sono l’ombra, ripudiata e al tempo stesso cercata, desiderata, indispensabile. Ecco perché, dai e dai, la notizia del giorno, che sia pure frutto dell’intercettazione di turno, smuove le coscienze già smosse e lascia in un beato menefreghismo gli indifferenti abituali. Il bavaglio alla stampa è un’ignominia, d’accordo. Tuttavia, crediamo di poter affermare a ragion veduta che con la stampa che ci ritroviamo non è una gran perdita. La china su cui stiamo scendendo a passi da giganti ridurrà sempre più ampie parti dell’opinione pubblica alla disinformazione come fatto compiuto. Chi si batterà per contrastarla sarà condannato all’invisibilità e alla carboneria. Ma ricordiamoci che le più grandi rivoluzioni della Storia non si sono fatte stando ai primi posti della classifica di Freedom House. Si sono imposte, a prezzo di sacrifici e di sangue, con il prorompere della necessità di un popolo di abbattere i propri tiranni. E più la tirannia stringe il cappio, più cresce la necessità della ribellione. Più ci imbavagliano, più aumenta il bisogno vitale di respirare. Avanti così dunque: più ci umiliano, e prima verrà il giorno della ghigliottina.
di Alessio Mannino -



Per gentile concessione de “La Voce del Ribelle”

11 giugno 2010

La letale chiusura mentale di Israele


Il crollo della reputazione di Israele dopo il brutale attacco alla flottiglia di Gaza probabilmente non influenzerà i leader del Paese.

Ai vertici dei sistemi militare e politico di Israele vi sono due uomini, Ehud Barak e Benjamin Nethanyahu, responsabili dell’attacco alla flottiglia di Gaza che ha scioccato il mondo, ma che sembra essere salutato come un mero atto di autodifesa da parte del pubblico israeliano.

Sebbene provengano dalla sinistra (il Ministro della Difesa Barak dal Partito Laborista) e dalla destra (il Premier Nethanyahu dal Partito Likkud) della politica israeliana, la loro considerazione di Gaza in generale e quella della flottiglia in particolare è permeata dallo stesso background storico e dalla stessa visione del mondo.

Nella foto: Benjamin Nethanyahu (sull'aereo) e Ehud Barak (dietro) durante una visita ufficiale a una base dell'aeronautica israeliana.

Una volta, Ehud Barak era l’Ufficiale di Comando di Benjamin Nethanyahu nell’equivalente israeliano delle SAS [Servizio Aereo Speciale dell’Esercito inglese, ndt]. Più precisamente, servirono in un’unità simile a quella che comandò l’assalto alla nave Turca la scorsa settimana. Questa percezione della realtà nella Striscia di Gaza è condivisa da altri membri eminenti dell’élite militare e politica israeliana ed è ampiamente sostenuta dall’elettorato domestico ebraico.

È un modo facile di affrontare la realtà. Hamas, anche se è l’unico governo nel mondo arabo ad essere stato eletto democraticamente, deve essere eliminato, sia come forza politica che militare. E questo non solo perché continua la sua lotta contro l’occupazione israeliana degli ultimi 40 anni in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza lanciando missili primitivi su Israele – il più delle volte come rappresaglia ad un omicidio da parte di Israele di qualche suo attivista nei territori occupati. Ma principalmente è dovuto alla sua opposizione politica al tipo di “pace” che Israele vuole imporre ai palestinesi.

La pace forzata non è negoziabile per l’élite israeliana, ed offre ai palestinesi un controllo ed una sovranità limitati nella Striscia di Gaza ed in alcune zone della Cisgiordania. Si chiede ai palestinesi di smettere di lottare per la liberazione e l’auto-determinazione in cambio della costituzione di tre piccoli bantustan [territori del Sudafrica e della Namibia assegnati alle etnie nere dal governo sudafricano all'epoca dell'apartheid, ndt] sotto lo stretto controllo e la supervisione di Israele.

Quindi, il pensiero israeliano generale è che Hamas è un ostacolo formidabile per l’imposizione di una tale pace. Perciò la strategia dichiarata è chiara: affamare e costringere alla sottomissione i 1.5 milioni di palestinesi che vivono nel posto a più alta densità del mondo.

Si supponeva che l’assedio imposto nel 2006 spingesse gli abitanti di Gaza a sostituire l’attuale governo palestinese con uno che accettasse gli ordini di Israele – o che almeno prendesse parte all’inattiva autorità palestinese della Cisgiordania. Nel frattempo, Hamas ha catturato un soldato israeliano, Gilad Shalit, ed allora l’assedio si è intensificato. E ciò include un embargo delle merci più elementari, senza le quali la sopravvivenza risulta difficile ad un essere umano. Per mancanza di cibo e medicine, per mancanza di cemento e petrolio, la gente di Gaza vive in condizioni che le istituzioni internazionali e le agenzie hanno descritto come catastrofiche e criminali.

Come nel caso della flottiglia, ci sono strade alternative per rilasciare il soldato prigioniero, come scambiarlo con i migliaia di prigionieri politici detenuti da Israele. Molti di loro sono bambini, e parecchi sono detenuti senza processo. Gli israeliani sono andati a rilento nelle negoziazioni di tale scambio, che probabilmente non produrranno risultati nell’immediato futuro.

Ma Barak e Netanyahu, e chi gli sta attorno, sanno fin troppo bene che l’assedio di Gaza non provocherà nessun cambiamento nella posizione di Hamas e bisognerebbe dare retta al premier David Cameron, il quale, durante le Prime Minister’s Questions [convenzione del Parlamento britannico per la quale nelle sedute della Camera dei Comuni del mercoledì il premier spende mezz’ora di tempo per rispondere alle domande dei membri del parlamento, ndt] della scorsa settimana, ha osservato che la politica israeliana di fatto rinforza, più che indebolire, la stretta di Hamas su Gaza. Ma questa strategia, nonostante il suo scopo dichiarato, non è intenzionata ad avere successo, o almeno a Gerusalemme nessuno si preoccupa se continua ad essere inutile e futile.

Si sarebbe potuto pensare che il crollo della reputazione di Israele a livello internazionale avrebbe indotto un nuovo modo di pensare nei suoi leader. Ma le reazioni all’attacco della flottiglia negli ultimi giorni hanno chiaramente indicato che non c’è speranza per nessun tipo di cambiamento notevole nelle posizioni ufficiali. Un saldo impegno nel continuare l’assedio, nonchè un benvenuto da eroi ai soldati che hanno assaltato la nave nel Mediterraneo, dimostrano che la politica rimarrà la stessa a lungo.

La cosa non sorprende. Il governo Barak-Nethanyahu-Avigdor Lieberman non conosce nessun’altro modo di far fronte alla realtà in Palestina ed Israele. L’uso della forza bruta per imporre la propria volontà, oltre ad una febbrile macchina di propaganda che la descrive come autodifesa, mentre demonizza la popolazione di Gaza mezza morta di fame e considera terroristi coloro che la vogliono aiutare, è l’unico andamento possibile per questi politici. Le terribili conseguenze di morte e sofferenza di questa determinazione non li riguarda, e tanto meno li riguarda la condanna internazionale.

La vera srategia, diversa da quella dichiarata, è di continuare con questo stato di cose. Finche la comunità internazionale sarà compiaciuta, il mondo arabo impotente e Gaza controllata, Israele potrà ancora avere un’economia propserosa ed un elettorato che considera una vita dominata dall’esercito, il continuo conflitto e l’oppressione dei palestinesi come l’unica realtà di vita passata, presente e futura in Israele. Il Vice Presidente degli USA Joe Biden è stato recentemente umiliato da parte degli israeliani dal recente annuncio della costruzione di 1.600 nuove unità abitative nel conteso distretto di Ramat Shlomo a Gerusalemme, lo stesso giorno in cui era arrivato per arrestare la politica di insediamento. Ma il suo sostegno incondizionato alle ultime azioni israeliane permette ai leader ed al loro elettorato di sentirsi rivendicati.

Sarebbe sbagliato, comunque, ritenere che il sostegno dell’America ed una debole risposta dell’Europa alle politiche criminali di Israele come quelle portata avanti a Gaza siano le ragioni principali per il continuo assedio e lo strangolamento di Gaza. Quello che risulta più difficile è spiegare ai lettori di tutto il mondo quanto queste percezioni e questi comportamenti siano profondamente radicati nella psiche e nella mentalità di Israele. Ed è davvero difficile comprendere quanto diametricalmente opposti siano le comuni reazioni a certi avvenimenti, per esempio in Inghilterra, rispetto alle emozioni che innescano nella società ebraico-israelita.

Le reazioni internazionali sono basate sulla premessa che ulteriori ed imminenti concessioni ai palestinesi ed un continuo dialogo con l’élite politica israeliana produrrano una nuova realtà della questione. In occidente il pensiero ufficiale è che una soluzione davvero ragionevole ed accessibile è proprio dietro l’angolo se tutte le parti fanno un ultimo sforzo: la costituzione di un doppio stato.

Nulla è più lontano dalla realtà di questo scenario ottimistico. L’unica versione di questa soluzione che Israele considera accettabile è l’unica che sia la remissiva autorità palestinese che la più assertiva Hamas a Gaza non potrebbero mai accettare. Si sta offrendo di imprigionare i palestinesi in delle enclave senza stato in cambio della fine della loro lotta.

Quindi prima che si discuta su una soluzione alternativa – un singolo stato democratico per tutti, che io sostengo – o si esplori una più plausibile costituzione di un doppio stato, bisogna fondamentalmente trasformare la mentalità ufficiale e pubblica di Israele, poichè costituisce la principale barriera per una riconciliazione pacifica nella terra divisa a metà tra Israele e Palestina.

Il Professor Ilan Pappé dirige il Centro Europeo per gli Studi Palestinesi presso l’Università di Exter ed è l’autore di “The Ethnic Cleansing of Palestine” [“La Pulizia Etnica della Palestina”, ndt]