09 settembre 2010

La bolla europea





Esiste l’Europa – intendo, come realtà e unità spirituale, non semplicemente come espressione geografica? Certamente sì, e sommariamente possiamo individuarla nei seguenti elementi:

- una complessa e in parte tuttora misteriosa preistoria, dalla civiltà di Stonehenge a quella dei nuraghi;

- un’ancor oggi stupefacente creatività ellenica, madre delle arti, della matematica, della filosofia, della storiografia, e che costituisce la radice identitaria più autentica e specifica dell’Europa;

- il contributo e l’elaborazione di Roma, soprattutto nella creazione dell’ordinamento giuridico e amministrativo e nella costruzione dei diritti civili e individuali, nella loro distinzione dalla sfera pubblica;

- e successivamente i convergenti contributi soprattutto dell’area italica, dell’area germanica, dell’area francese, dell’area britannica (inclusi i celti), nonché dell’incessante produzione del pensiero ebraico della diaspora;

- l’attiva recettività, sin dai tempi più remoti, ad apporti e influssi asiatici ed egizi, in molti campi, tra cui quello artistico, esoterico e religioso;

- l’avvento di una religione asiatica, dogmatica e intollerante, che si consocia al potere politico, legittimandolo e partecipando ad esso;

- e che pone bruscamente fine, per circa mille e quattrocento anni, alla libertà di pensiero, ricerca, insegnamento, religione, demolendo i templi degli altri culti e chiudendo le scuole filosofiche che non si allineano ad essa, istituendo la censura, sopprimendo o torturando pensatori e scienziati scomodi, lanciando guerre contro i diversamente credenti;

- la successiva, lenta e travagliata risurrezione del pensiero laico e indipendente dai secoli bui, la sua lunga lotta per riconquistare la libertà e ristabilire la tolleranza; il nascere della scienza nell’opposizione della gerarchia religiosa; l’indagine sui limiti del pensiero e del conoscere; il rinascimento e i lumi;

- la multisecolare resistenza contro l’invasione armata di un’altra religione asiatica, militante, ancora più crudamente dogmatica, violenta e intollerante (tranne una breve parentesi dovuta all’influsso dei pochi libri greci che non aveva bruciato), le cui armate erano penetrate fino a Poitiers e a Vienna;

- la fioritura di musica, di belle arti e belle lettere, nonché delle tecniche e delle industrie; la nascita del pensiero e del dibattito politici; la critica del potere e della morale costituiti; la scoperta del relativismo culturale e dell’inconscio;

- e, insieme, i conflitti sociali scatenati dall’industrializzazione capitalista, la critica socioecnomica, le rivoluzioni totalitarie, la resistenza e le cruente lotte per liberarsi dai regimi da esse sorti;

- l’approdo, nei nostri giorni, e oramai su scala non più europea, ma globale, a una condizione di incertezza, precarietà, cronicizzazione delle crisi.

Ma che percentuale degli abitanti dell’Europa ha conoscenza di queste cose, le apprezza, le ha interiorizzate come parte dell’identità, e le vive quotidianamente? Una percentuale irrilevante. E non solo delle masse popolari, ma anche dei ceti medi e alti. Queste sono cose che valgono per pochi cultori specialisti. Altri sono i poli di identificazione e interesse degli odierni abitatori dell’Europa: denaro, potere, droga, sesso, sport, moda, musica commerciale americana o perlomeno non europea. Gusti globalizzati. Che cosa c’è di europeo negli Europei? Praticamente niente. L’identità, la civiltà europea non esistono, nella società e nella politica dei paesi europei, se non indirettamente e vagamente. Eppure vengono addotte a fondamento legittimante dell’Unione Europea e del suo concreto potere politico – sostanzialmente non basato su democratiche elezioni – sui c.d. cittadini europei. L’Unione Europea non è la realtà e unità spirituale “Europa” e in nessun senso la rappresenta. Non ha niente in comune con essa, tolto il riferimento geografico. E’ un ordinamento giuridico-finanziario con caratteri burocratici, vagamente liberali e liberisti, in parte dirigisti. Ma niente di identitariamente o specificamente europeo come qualità.

Al popolo italiano, specificamente, si diceva e si dice: “dovete pagare o fare questo o quello per entrare in Europa, per restare in Europa, perché è l’Europa che ve lo chiede”. Ma, appunto, quando si invoca quell’Europa con simili appelli, si lascia – volutamente – nell’implicito che cosa il popolo dovrebbe intendere per “Europa”. E che cosa intende il popolo italiano per “Europa”? Spirito, cultura, civiltà? Aristotele e Kant? Virgilio e Coleridge? Haydn e Rameau? Caravaggio e Rembrandt? Keplero e Bohr? Bentham e Anna Arendt? No: il popolo italiano intende, e gli si lascia intendere, un’istituzione statuale o superstatuale di tipo assistenziale, che eroga sussidi, che supplisce all’inefficienza, agli sprechi, all’immoralità, alla debolezza finanziaria dello Stato e della pubblica amministrazione italiani. Il paese che rimane attaccato a questa istituzione, rimane un paese di prima classe; chi perde il contatto, scivola verso il terzo mondo e la povertà.

Le aspettative di assistenza e supplenza sono molto radicate nel sentire e nel credere delle popolazioni italiane, soprattutto al Sud, che vive tradizionalmente di trasferimenti a spese di altri, quindi è predisposto a credere a promesse di questo tipo. Altrettanto diffusa è l’esterofilia, la maggior stima dell’estero e per lo straniero rispetto al domestico – forse un retaggio dei molti secoli di sottomissione a dominatori stranieri di quasi tutte le regioni italiane. Forse anche del Piano Marshall. Quindi, ai fini della gestione e produzione dei comportamenti collettivi, era ed è stato psicologicamente efficace abbinare questi due elementi (l’assistenza e lo straniero) per fare accettare agli Italiani molti sacrifici e molti trasferimenti di potere a organismi non italiani e non elettivi. E per fare accettare l’Euro. L’Euro veniva presentato agli Italiani come una panacea, una garanzia di aggancio alla prosperità ed efficienza tedesche, ma anche alla rispettabilità del sistema tedesco. Si diceva – per giustificare fortissimi e numerosi prelievi fiscali “allo scopo di entrare nell’Euro” – che, a) entrando nell’Euro, avremmo salvaguardato il nostro potere d’acquisto; e, b) che i paesi forti si sarebbero fatti carico del nostro enorme debito pubblico. Si trattava di fare un modico sacrificio per essere ammessi all’interno del club dell’Euro, e poi la strada sarebbe stata in discesa. Una furbata, un affarone, insomma. Invece è accaduto tutt’altro, e troppi se ne sono accorti: il passaggio all’Euro a) ha tagliato del 40% circa il potere d’acquisto e, b) ci ha lasciato sulle spalle tutto il debito pubblico – perché era falso, era una menzogna, che entrare nell’Euro avrebbe comportato la comunitarizzazione dei singoli debiti pubblici nazionali. Per giunta, ci ha privati della possibilità di ridurre il debito pubblico, in quanto ha peggiorato il rapporto pil/spesa pubblica, poiché, impedendo la svalutazione competitiva, ha bloccato lo sviluppo economico, ci ha fatto perdere sia quote di mercato estero e costretti a interno, che quote di occupazione. Si osservi come le aspettative popolari circa l’UE e l’Euro fossero sostanzialmente opposte, tra Italia e paesi forti, nel senso che questi ultimi li vedevano come occasione e mezzo per dispiegare ed espandere la propria forza politico-economica, e non certo per farsi assistere o per aiutare altri.

L’ultima sveglia è arrivata mesi fa, allorché la Germania ha messo in chiaro e dimostrato coi fatti che non si farà assolutamente carico dei problemi dei paesi deboli, e che i popoli come i Tedeschi, che hanno le qualità giuste e le mettono in pratica – i popoli laboriosi, efficienti, seri, concreti, ligi alle norme – vanno avanti, reggendo il confronto con la globalizzazione, la Cina, l’India, la Turchia. I popoli parolai, inefficienti e assistenzialisti, sono per contro destinati a un rapido impoverimento. Impoverimento che oramai appare avere una causa non tanto contingente e politica, quanto etnico-culturale, radicata nella mentalità sociale, nelle prassi abituali del singolo popolo circa il lavoro, le regole, l’amministrazione. Una causa che quindi non si risolve cambiando governo, né cambiando le leggi, né incarcerando mafiosi e corrotti. Bisognerebbe cambiare la mentalità, i costumi, la psicologia collettiva di quei popoli, a tutti i livelli, dalla politica alla magistratura, dai liberi professionisti agli insegnanti, e anche del corpo elettorale: un compito assai complesso e difficile, che non si sa nemmeno con che strumenti affrontare. Qualcuno si aspettava che bastasse imporre vincoli di bilancio, alla spesa pubblica, ossia la “virtuosità” di Maastricht, per rieducare i popoli PIGS, o per costringerli a rieducarsi da sé, con uno sforzo interno ma imposto dall’esterno. Ebbene, i fatti hanno smentito tale aspettativa: i PIGS sono rimasti PIGS – hanno perso le setole, ma non il vizio. In fondo, la storia mostra che il successo di un popolo dipende essenzialmente dalle sue qualità etniche, molto meno dai suoi contingenti governi e dalle sue contingenti normative. Svizzeri, Tedeschi, Austriaci, Scandinavi, ad esempio, sono sempre andati bene o comunque meglio degli altri. E meglio degli altri gestiscono anche la presente crisi.

Oramai troppi italiani si sono accorti che le aspettative di aiuto europeo in essi indotte dalla propaganda erano illusorie, e che l’Unione Europea e l’Euro costano molto e rendono poco o nulla. Bruxelles è una sorta di Nuova Roma, burocratica, imperiale, lobbystica, finanziarizzata, corrotta (ricordate M.me Cresson? sapete che i bilanci comunitari non sono controllati da un soggetto autonomo? immaginate quanto continuano a mangiarci? ci salva il fatto che il budget UE è solo l’1% del pil). Una Nuova Roma grassa e grassatrice, autoreferenziale, assurda in interminabili e onerose prescrizioni elucubrate da funzionari strapagati e incompetenti. Una Nuova Roma iniqua, inefficiente, quando non nemica, a cominciare dalla politica agricola comune. E insieme pressoché impotente e senza prestigio, politicamente e militarmente, sulla scena mondiale, tanto quanto nel gestire la corrente crisi economica: infatti ciascun paese fa per sé (ciascun governo fa per il proprio lettorato) e guardando solo ai propri interessi, o al più all’esigenza di rassicurare i mercati. L’idea di un ordinamento che cresce e si impone anche politicamente attraverso un processo strisciante di aggregazione e centralizzazione di funzione dopo funzione, avocandole dagli Stati nazionali, è quindi palesemente fallita. E gli aiuti europei – che poi altro non sono che il parziale ritorno delle nostre tasse – ossia i fondi perequativi, a seguito dell’ingresso dei paesi orientali, vanno oramai quasi tutti ad essi, e non più a noi, aiutandoli anzi a farci concorrenza e ad attirare le nostre imprese e i nostri capitali.

Anche la componente idealista dell’europeismo italiano, cioè il sogno della grande Federazione Europea, è rimasta tradita: con l’inclusione di molti paesi disomogenei dell’Est europeo, Washington e Londra hanno oramai conseguito il loro tradizionale obiettivo di impedire l’integrazione politica europea. Politicamente, anzi, l’Unione è in via di dissoluzione. La vera beneficiaria della sua espansione a Est è la Nato, che se ne è servita per penetrare nell’area ex Comecon in antagonismo alla Russia e piazzare i missili più vicini alle sue frontiere.

A misura che l’opinione pubblica italiana si accorge che la realtà è questa, è naturale che diventi non semplicemente “euroscettica”, ma contraria a Bruxelles (e, i più informati, anche alla sua Bastiglia monetaria, l’Eurotower di Francoforte). E che voti di conseguenza. Gli entusiasmi europeisti della popolazione italiana si sgonfiano come una bolla via via che gli Italiani realizzano che l’Unione Europea non li aiuta, non li sostiene, non supplisce alla loro inefficiente e corrotta gestione politica. Anzi, impone tagli a quel welfare che in Italia è servito per mantenere la coesione sociale e geografica. Col prossimo aggravarsi della recessione italiana, che avevo preannunciato per la fine di questo mese e che si sta avverando, sarà sempre più così.

di Marco Della Luna

08 settembre 2010

400 banche Usa pronte a fallire. Sotto gli occhi dei "regolatori"...


Michel Barnier, commissario europeo per gli Affari finanziari, è stato chiarissimo nel suo intervento al Workshop Ambrosetti di Cernobbio, addirittura cristallino: nessuno potrà sfuggire alla nuova regolamentazione europea che, se il lavoro proseguirà con questo ritmo, sarà pronta in versione di bozza per il 15 settembre. No one, nessuno. Due i punti chiave: normative sui derivati e sullo short selling che, stando alle indiscrezioni, verrà vietato.

Dopo la mossa stalinista di Barack Obama, ora anche l'Europa mette - o prova a mettere - i bastoni tra le ruote al libero mercato: Londra ringrazia sentitamente. Come se questo servisse a qualcosa. Nonostante il crollo di Lehman, la bolla dei subprime e quanto è seguito, infatti, nulla è cambiato: i volumi dei derivati scambiati sono aumentati. Solo nel mercato valutario c’erano transazioni quotidiane per 3.300 miliardi di dollari nel 2007 mentre quest'anno sono stati superati i 4.000 miliardi. Le cose non vanno meglio per il segmento dei derivati sui tassi d’interesse, cresciuti nell’arco del 24 per cento nell’arco di un triennio, toccando i 2.100 miliardi di dollari scambiati ogni giorno.

Il dito di Barnier, difficilmente, riuscirà a frenare la diga che sta per esondare. D'altronde, le banche non hanno voglia di farsi regolamentare, basti pensare all'esempio che ho portato nell'articolo di giovedì scorso, ovvero l'oceano di scommesse sui cds contro il debito italiano. Ogni giorno sui mercati non regolamentati, il vero problema che Barnier non sembra vedere, si scambiano circa 575 milioni di dollari in protezione sul debito italiano.

E sono, sempre secondo l'ente di vigilanza sui derivati, solo 17 i soggetti che vendono questa immunizzazione: Bank of America Merrill Lynch, Barclays, BNP Paribas, Calyon, Citibank, Credit Suisse, Deutsche Bank, Goldman Sachs, HSBC, JPMorgan, Morgan Stanley, Natixis, Nomura, Royal Bank of Scotland, Société Générale, UBS e l'italianissima - ancorché internazionalizzata - UniCredit.

Nel caso dell’Italia tutti concorrono alla vendita dei Cds, UniCredit compresa, la quale fa benissimo e non compie alcun reato. Con una media di 21 operazioni di copertura sul debito italiano, per le 17 regine dei derivati si aprono le porte delle commissioni. Infatti per ogni singola transazione le banche guadagnano cifre variabili rispetto all’entità: non è difficile capire chi siano gli scacchieri dietro a questa girandola di scommesse, più vendo più guadagno.

Il 39 per cento dei Cds circolanti sull’Italia sono detenuti da cinque soggetti: Paulson, quel filantropo di Soros, Moore, Citadel e il fondo sovrano China Investment Corporation: quattro hedge fund statunitensi e il principale veicolo d’investimento di Pechino sono attualmente su posizioni ribassiste nei confronti del nostro Paese. E non sono i soli.

Il peso degli investitori si fa sentire sempre di più sul debito italiano. Gli oltre 1.800 miliardi di euro convincono poco i mercati, che hanno deciso di proteggersi dalle brutte sorprese: dallo scorso marzo, quando erano stati accesi circa 5.600 contratti di protezione sui rischi italiani, si è passati a oltre 6.600 nelle ultime settimane. La scadenza media è di un anno, sintomo della percezione negativa che gli investitori hanno del nostro Paese. In compenso, la maggioranza va in frantumi tra polemiche corrosive e il nostro ministro dell'Economia si permette di bollare come "da bambini" i giudizi del governatore di Bankitalia, Mario Draghi.

Ma torniamo a Barnier, il quale a Cernobbio ha parlato chiaro. Cristallino. Peccato si sia ben guardato dal rivelare quanto lui e la Commissione Ue hanno di fatto già deciso e che ora devono trovare il modo, oltre che il coraggio, di comunicare. Gli stress test sulle banche vanno rifatti perché eseguiti con criteri ridicoli e soprattutto perché ritenuti non credibili dalle istituzioni finanziarie ma, soprattutto, dai soggetti corporate. Ovvero, le aziende che con le banche hanno a che fare ogni istante. Una larga parte delle quali, sia nel Regno Unito che nell'Europa continentale, hanno messo nel mirino le banche italiane, spagnole e tedesche e stanno conducendo stress tests indipendenti per valutare realmente la robustezza di questi istituti: le revenues di queste aziende, tanto per capire il loro peso, è di 240 miliardi di dollari l'anno.

«La cosa che ci sta facendo preoccupare maggiormente è il rischio del credito», ha dichiarato al Financial Times il tesoriere di uno dei principali gruppi industriali tedeschi, secondo cui «anche dopo gli stress tests, noi tutti continuiamo a porci la stessa domanda: le banche sono davvero sane? Penso che i tests, lungi dall'aver dato delle rassicurazioni, hanno solo aggiunto domande a domande e timori a timori, soprattutto qui in Germania».

Per Stuart Siddall, presidente dell'Association of Corporate Treasurers, le aziende hanno posto alla prima posizione delle loro priorità il fatto di chiarire realmente lo stato di salute delle banche: «Mai visto spendere tanto tempo, risorse ed energie rispetto al rischio di controparte».

Per il tesoriere di una grande aziende del settore media, «gli stress tests sono stati niente più che uno scherzo. Bisogna capire se l'imperatore ha ancora dei vestiti o è nudo e, soprattutto, cosa fare se la situazione reale è la seconda. Siamo paranoici al riguardo e monitoriamo i rumors del mercato molto attentamente». Altra ossessione per queste aziende sono i cds, un mercato che ormai interessa più di quello azionario: «Le agenzie di rating stanno agendo troppo lentamente - attacca il tesoriere di un altro grande gruppo industriale tedesco -, noi stiamo monitorando lo stato di salute delle banche ogni giorno, anche al fine di aggiustare i nostri limiti».

Per il tesoriere di un'azienda quotata nell'indice Ftse 100 della Borsa di Londra, quanto sta accadendo è la naturale risposta del mercato alla poca trasparenza d istituzioni e regolatori: «Non abbiamo alcun business con banche spagnole e anche con un paio di istituti italiani e tedeschi. Se le banche americane non vogliono avere a che fare con questa gente, perché dovremmo farlo noi?».

Già, perché? D'altronde non il sottoscritto ma Nouriel Roubini, uno che la crisi l'aveva anticipata pur restando inascoltato, ha chiaramente detto che se sarà possibile evitare l'opzione double-dip, una seconda fase di recessione è quasi ineluttabile: fase, durante la quale, a suo modo di vedere saranno circa 400 le banche Usa destinate a fallire.

Chissà perché Barnier non ha voluto spendere una parola su questo, limitandosi a mostrare la faccia cattiva agitando lo spettro della regolamentazione? Chissà, forse è troppo imbarazzante ammettere di aver dato vita a una farsa travestita da stress tests e ora ritrovarsi obbligato a rifarli, secondo criteri seri, prima che siano i soggetti privati, tramite i loro studi, a mostrare davvero quanto è nudo il Re bancario: il Core Tier 1 di moltissime banche, infatti, una volta ripulito da artifici e assets assolutamente inutili in fase di stress, raggiungono a malapena 2,5 per cento.

Se i grandi fondi stanno shortando le azioni di cinque grandi istituti bancari europei, tra cui Barclays e Intesa-San Paolo, qualche motivo ci sarà. Va bene la speculazione, va bene l'azzardo ma nessuno è così masochista da scommettere al ribasso contro un soggetto finanziario in salute. Chissà se questo semplice ragionamento avrà sfiorato la raffinata mente di Michel Barnier?

P.S. So di essere tacciato di pessimismo cosmico e catastrofismo à la page ma stavolta dubito che si possa mettere in dubbio quanto ho scritto, almeno stando al link che allego per tutti i lettori e che è stato pubblicato da Cnbc ventiquattro ore dopo l'invio del mio pezzo, ovvero ieri mattina dopo l'apertura delle contrattazioni. Leggete e chiedetevi se i regolatori con cui abbiamo a che fare non siano da prendere a calci nel sedere.

di Mauro Bottarelli

07 settembre 2010

L'ASCESA E IL DECLINO DEI POTERI ECONOMICI: IL CONFLITTO CINA-USA SI INASPRISCE





Strategie per minare e indebolire la Cina come potenza globale emergente

Gli Stati uniti hanno sviluppato una strategia dettagliata, complessa e ramificata per minare l'ascesa della Cina a potenza globale. La strategia include mosse economiche, politiche e militari studiate per indebolire la crescita dinamica cinese e contenere la sua espansione all'estero.

Strategie economiche

Washington, appoggiata dalla stampa finanziaria più autorevole, così come dai principali economisti ed "esperti", sostenne che occorreva intervenire nelle politiche economiche interne cinesi con misure pensate per smembrare il suo modello di crescita dinamica. La richiesta più diffusa è che la Cina sopravvaluti la sua valuta in modo da corrodere i suoi margini di competitività e indebolire le industrie impegnate nell'esportazione dinamica [28].

Nel passato, tra il 2000 e il 2008, la Cina ha rivalutto il suo tasso di scambio del 20%, riuscendo comunque a duplicare le proprie esportazioni verso gli Stati Uniti [29]. Ci sono riusciti aumentando la produttività, diminuendo i tassi di profitto e migliorando i controlli di qualità. Inoltre, il problema dei bilanci negativi per gli affari statunitensi è un problema cronico e mondiale - gli USA hanno bilanci negativi con oltre 90 paesi, inclusi Giappone e Unione Europea [30].

La coalizione anti-cinese, guidata dal complesso Washington - Wall Street, ha continuato a fare dure pressioni su Pechino affinché deregolamentassi il proprio settore finanziario per facilitare la scalata dei mercati finanziari cinesi, invocando violazioni di "scambi ed investimenti". La Casa Bianca vede nel potente settore finanziario l'unica leva attraverso la quale conquistare le vette di comando dell'economia cinese, attraverso fusioni ed acquisizioni. Questa campagna ha perso forza durante le crisi del periodo 2008 - 2010, indotta dall'attività speculativa di Wall Street. Il sistema finanziario cinese ne è stato a mala pena colpito, grazie alla sua struttura di regolamentazione pubblica e grazie ai vincoli sull'ingresso delle banche statunitensi.

Washington ha imposto misure protezioniste, contrarie alle regole dell'Organizzazione Mondiale del Commercio, sotto forma di tariffe sulle esportazioni cinesi di acciaio e abbigliamento, e il Congresso ha minacciato una tassa del 40% su tutte le esportazioni cinesi negli Stati Uniti - un invito ad una "guerra d'affari".

Gli Stati Uniti hanno bloccato svariati investimenti cinesi a larga scala, nonché l'acquisto di compagnie petrolifere, società tecologiche e altre imprese. In opposizione a questo, la Cina ha permesso alle multinazionali statunitensi di investire decine di miliardi di dollari e di subappaltare in vari settori dell'economia cinese. La Cina, come potenza mondiale emergente, è sicura del fatto che la propria economia dinamica può arginare le corporazioni statunitensi nella loro crescita, mentre gli Stati Uniti, di fronte al deterioramento della propria posizione, si preoccupano per qualunque accelerazione della "scalata cinese", una preoccupazione generata dalla fragilità economica, nascosta e camuffata da una retorica di "minaccia alla sicurezza".

Washington ha incoraggiato gli investitori oltreoceano e i fondi di investimento a sovranità cinese a creare un collegamento con le società finanziarie statunitensi impegnate in attività speculative, sperando così di rafforzare l'afflusso di capitali negli Stati Uniti e di creare una "cultura della speculazione" in Cina, per indebolire la produzione di capitale nell'apparato di pianificazione statale.

La Casa Bianca ha intensificato le sue minacce di rappresaglia economica in modo da minare ed escludere le esportazioni cinesi, oltre ad assicurare concessioni che compromettano la legittimità politica interna dei suoi governanti, se e quando dovessero accettare i dettami di Washington. I leader politici cinesi che dovessero concedere agli Stati Uniti la possibilità di decidere le politiche economiche interne provocherebbero pesanti opposizioni da parte degli uomini d'affari e dei lavoratori, che sono prevenuti nei confronti di quelle politiche. Una volta compromessi e indeboliti, messi di fronte ad un'opinione pubblica indiammata, i leader cinesi affronterebbero le pressioni interne ed esterne - mettendo a serio rischio la stabilità della Cina.

Washington ha dato vita ed orchestrato una campagna sui media internazionali, mobilitando il Fondo Monetario internazionale e l'Unione Europea per indebolire il modello industriale cinese, accusando la sua ascesa come potenza mondiale del proprio declino. Dai principali cronisti della stampa finanziaria "seria" alla sensazionale stampa scandalistica a grande tiratura, dai leader politici del Congresso ai funzionari anziani dell'esecutivo, ai proprietari di aziende manifatturiere non competitive e sindacalisti burocrati di un movimento laburista moribondo, è stata allestita una campagna per "affrontare" la Cina con una schiera di crimini e peccati che si estendende dalla competizione scorretta, salari bassi, sussidi statali, fino alla qualità scadente e alla scarsa sicurezza dei prodotti.

Gli accademici, gli economisti, i consulenti, gli esperti finanziari statunitensi e inglesi profondamente radicati nell'impero hanno incoraggiato le proprie controparti cinesi, così come gli investitori e i politici stranieri, a diffondere politiche in linea con le richieste della Casa Bianca. Lo scopo era di facilitare l'ingresso statunitense e di limitare l'espansione cinese verso l'estero.

Ogni giorno gli "esperti" statunitensi scroprivano nuover ragioni per invocare una "crisi imminente" in Cina: l'economia sta rallentando, o crescendo troppo in fretta; una "bolla" è pronta ad esplodere nel campo immobiliare [31]; le banche sono sovraccaricate da debiti, ponendo il sistema finanziario a rischio di collasso; l'inflazione sta crescendo senza controllo; gli investimenti oltreoceano stanno seguendo percorsi coloniali; l'economia è sbilanciata, troppo legata all'esportazione e non al consumo interno; la competitività delle esportazioni è uno dei fattori principali di squilibrio negli affari globali; i rapporti con la crescite economica asiatica minacciano la sicurezza nazionale cinese, ecc... Queste e molte altre argomentazioni, presentate come serie analisi economiche sul Financial Times, il Wall Street Journal e il New York Times, sono studiate per incolpare la Cina delle debolezze e del declino della competitività economica statunitense nel mondo. Lo scopo è quello di influenzare ed esercitare pressioni sui neoliberali cinesi "malleabili" o "accomodanti" affinché cambino le loro politiche. Cosa altrettanto importante, queste "critiche" sono pensate per unificare l'élite degli affari, della politica e militare, oltre a giustificare azioni aggressive nei confronti della Cina. Il problema di base con le analisi di questi esperti è che sono stati confutati dalla continua crescita dinamica della Cina, dalla sua abilità a gestire e regolare i prestiti finanziari per prevenire l'esplosione della bolla, dall'accoglienza sempre migliore da parte segli ospiti africani verso nuovi accordi di investimento, grazie a prestiti relativamente generosi e progetti per infrastrutture affiancati ad investimenti nel settore estrattivo [32]. Più di recente Washington ha convinto India e Brasile ad unirsi al coro di accuse alla Cina per scorrettezze negli affari, una delle alleanze piè pericolose che si stiano formando.

Offensiva politica

Il declino delle potenze imperialiste affermate, come gli Stati Uniti di oggi, ha un repertorio di automatismi pensati per screditare, sedurre, isolare e contenere le potenze mondiali emergenti come la Cina, mettendole sulla difensiva.

Uno degli stratagemmi politici che dura da più tempo è la campagna di propaganda americana per i diritti umani, con cui sottolinea le violazioni perpetrate dalla cine, ignorando i propri attacchi e minimizzando le azioni dei propri alleati, come quelle dello stato di Israele. Screditando la politica interna cinese, il Dipartimento di Stato spera di gonfiare artificialmente l'autorità morale degli Stati Uniti e di spostare l'attenzione dalle proprie violazioni ai diritti umani, a lungo termine e su larga scala, costruendo una coalizione anti-Cina.

Mentre la propaganda sui diritti umani viene usata come arma per combattere l'avanzata economica cinese, Washington cerca la cooperazione della Cina nel tentativo di rallentare il proprio declino. I diplomatici statunitensi insistono nel voler "trattare la Cina alla pari", riconoscendola come "potenza mondiale" che deve "assumersi le proprie responsabilità" [33]. Dietro a questa retorica dipomatica c'è lo sforzo di costringere la Cina ad una politica di collaborazione e di sostegno alle strategie statunitensi come socio giovane, alle spese degli interessi economici cinesi. Ad esempio, se da un lato la Cina ha investito miliardi di dollari in joint venture con l'Iran e ha sviluppato relazioni d'affari in crescita, Washington pretende il supporto cinese per sanzioni che indeboliscano e degradino l'Iran per aumentare il potere militare statunitense nel Golfo [34]. In altre parole, la Cina dovrebbe rinunciare all'espansione del proprio proprio mercato per condividere la "responsabilità" nel controllo del mondo, cosa in cui gli Stati Uniti primeggiano. Allo stesso modo, sintetizzando il significato delle richieste avanzate dalla Casa Bianca di "assunzione di responsabilità" per "ribilanciare l'economia mondiale", questo si riduce ad imporre a Pechino una riduzione della propria crescita dinamica, in modo da permettere agli Stati Uniti di ottenere vantaggi negli affari e di ridurre ("ribilanciare") il proprio deficit.

Alternando gesti simbolici e positivi, come il riferirsi a Stati Uniti e Cina come il G2, le due potenze mondiali determinanti, la Casa Bianca ha di fatto incoraggiato un "fronte unito" con l'Unione Europea contro le presunte manovre cinesi di "protezionismo", "manipolazione della valuta" e altre norme economiche "ingiuste" [35].

Agli incontri internazionali come la recente conferenza tenutasi a Copenhagen sul riscaldamento globale, l'incontro sul GATT (General Agreement on Tariffs and Trade, ovvero l'accordo generale su tariffe e scambi, ndt), in cui si è discussa la liberalizzazione degli scambi, e l'incontro delle Nazioni Unite sull'Iran, Washington ha tentato di demonizzare la Cina indicandola come il principale ostacolo alla buona riuscita degli accordi globali, allontanando l'attenzione dalle azioni cinesi, quali la conformità agli standard sul clima, con cui si posiziona ben al di sopra degli Stati Uniti [36], l'opposizione al protezionismo e la ricerca di negoziazioni con l'Iran.

Nel tempo, questa offensiva imperialista ha provocato una risposta aggressiva da parte della Cina, che ha raggiunto una maggiore fiducia nelle proprie capacità di gestione del potere.

Strategie per contrastare le potenze imperialiste affermate

Una delle risposte più formidabili ed efficaci di una potenza economica emergente verso gli sforzi fatti da potenze imperialiste affermate per bloccare la sua avanzata è... di continuare a crescere ad un tasso raddoppiato o triplicato rispetto alla decrescita del suo avversario. Nulla mette alla prova la propaganda di "crisi" emanata dagli esperti statunitensi quanto, ad esempio, la notizia che nel primo trimestre del 2010 la Cina ha avuto una crescita del 12%, sei volte quanto previsto per gli Stati Uniti [37]. La politica cinese nei confronti degli attacchi e delle minacce statunitensi è stata soprattutto reattiva e difensiva, anziché aggressiva, specialmente durante la prima decade dell'avanzata verso la condizione di potenza globale.

La Cina ha sostenuto che il proprio tasso di scambio fosse un "affare interno" e ha risposto alle richieste statunitensi, rivalutando la propria valuta (2006 - 2008) del 20%. Più tardi la Cina ha specificato che il trambusto relativo alla valuta aveva poco a che fare con il deficit di scambi degli Stati Uniti, evidenziando come questo fosse legato alla debolezza strutturale dell'economia statunitense, ovvero ai pochi risparmi, la bassa creazione di capitale e la perdita di competitività.

Inizialmente la Cina ha protestato soltanto per quanto riguarda gli attacchi ai diritti umani, negando le proprie colpe o sostenendo che riguardassero affari interni. A partire dal 2010, comunque, la Cina ha iniziato a muoversi in maniera più aggressiva, pubblicando il proprio inventario di violazioni ai diritti umani perpetrate dagli Stati Uniti [38]. Quando Washington ha protestato per le violazioni ai danni dei separatisti Tibetani e Uiguri, la Cina ha rimproverato l'interferenza americana negli affari interni cinesi e ha minacciato di compiere rappresaglie, cosa che ha spinto Washington a fermare la propria crociata.

Pechino ha incoraggiato le multinazionali statunitensi ad investire in Cina e ad esportare i prodotti negli Stati Uniti. Vista la crescita complessiva cinese, l'ingresso delle corporazioni non ha aumentato il potere americano, ma piuttosto ha fornito alla Cina una lobby a Washington che si è opposta alle misure protezioniste.

La Cina ha fatto poco per vincolare l'espansione oltreoceano degli Stati Uniti, (dal momento che Washington ha un'eccellente attività di autodistruzione) e si è invece preoccupata di rafforzare la propria strategia su base economica di aumento degli investimenti, prendendo in prestito la tecnologia e arricchendo le proprie industrie di alta tecnologia. La Cina, nonostante le pressioni ricevute da Washington, si è rifiutata di appoggiare la sua campagna di sanzioni nei confronti dell'Iran e ha deciso di creare legami commerciali con l'Afghanistan, laddove l'occupazione militare statunitense costa miliardi di dollari e allontana gran parte degli afghani, inclusi i suoi investitori [39]. La Cina ha rifiutato di dare il proprio supporto alla strategia militare di Obama, volta a rafforzare l'impero. Se da un lato, quindi, partecipa agli incontri e alle conferenze bilaterali, dall'altro la strategia cinese è di non fare concessioni che possano mettere a rischio i suoi mercati oltreoceano, senza mettere direttamente a confronto le missioni militari promosse da Obama.

Cosa ancor più singolare, in Asia i paesi in maggior crescita hanno ignorato gli avvertimenti americani circa la "minaccia alla sicurezza" rappresentata dalla Cina e hanno espanso i loro affari e legami economici con il loro vicino. Col tempo l'Asia sta rimpiazzando gli Stati Uniti come il partner d'affari di Pechino con la crescita più rapida. Più di recente, nell'aprile 2010, l'India ha espresso preoccupazione sull'iniquità dei propri scambi con la Cina ed ha intrapreso negoziazioni per aumentare le proprie esportazioni.

Nell'insieme, la strategia imperialista statunitense, volta ad arginare il proprio declino e bloccare la crescita della Cina come potenza mondiale, ha fallito. I politici e i detrattori finanziari della Casa Bianca hanno ignorato le importanti fondamenta su cui è costruito l'impero cinese e la sua capacità di rimediare agli squilibri interni per sostenere l'espansione dinamica.


Le colonne portanti del potere globale

La Cina, come era capitato ad altre potenze globali emergenti, ha tentato - in questo caso con successo e senza l'utilizzo della forza - di porre le basi per un'impero economico sostenibile. La strategia include una complessa miscela di misure adottate dentro e fuori dai confini:

1. Gli investimenti oltroceano, per assicurarsi risorse strategiche, specialmente energia, metalli e cibo [40].

2. Gli investimenti interni di alto livello, per incrementare la capacità manifatturiera, introducendo tecnologia avanzata per migliorare il valore aggiunto e smorzare la propria dipendenza dall'importazione di componenti. Elevati investimenti sono percepiti come necessari per sostenere la competitività nelle esportazioni.

3. Le consistenti spinte a migliorare l'istruzione della forza lavoro, al fine di ottenere la supremazia industriale - con maggior rilievo ad ingegneri, scienziati e manager industriali rispetto a speculatori, banchieri e avvocati. Ad ogni modo, gli sforzi della Cina per promuovere la propria forza lavoro non otterranno successi a meno che non vengano riconosciuti ed integrati quei 200 - 300 milioni di lavoratori emigranti i cui figli sono attualmente esclusi dall'istruzione avanzata nelle principali città del paese [41].

4. Gli investimenti multi miliardari nelle infrastrutture, includendo dozzine di nuovi aeroporti, autostrade ad alto scorrimento e corsi d'acqua a creare collegamenti tra le regioni costiere e l'interno del paese, aumentando la crescita dinamica delle industrie. Tra i risultati, una minore migrazione ai centri di manifattura costieri, che in alcuni casi ha comportato scarsità di lavoro, ma che poi ha anche permesso un aumento significativo dei salari e minori squilibri geografici nello sviluppo dei poli vecchi e nuovi.

5. Mentre il lavoro professionalizzato comincia a prendere il posto di quello non professionalizzato, e mentre la crescita dinamica scala le vette della produzione ad alto valore aggiunto, altrettanto fanno i salari medi e la consapevolezza sociale, consentendo di diminuire la pressione sociale dovuta alle disuguaglianze tra classi.

6. Come risultato delle pressioni sociali, evidenziate in oltre 100.000 proteste locali, scioperi e dimostrazioni all'anno, il governo si è mosso cercando di diminuire le tensioni di classe, e lo ha fatto in parte con investimenti in assistenza sociale e altre spese di natura sociale. La Cina si sta spostando dall'acquisto di buoni del Tesoro statunitensi agli investimenti in sussidi per la sanità e l'istruzione pubblica nelle aree rurali. Riportando lo Stato nello sviluppo sociale, anziché affidarsi al mercato, che ha dimostrato la propria inefficienza, la Cina sta migliorando e ammodernando i processi di produzione nei lavori rurali.

Riassumendo, le colonne portanti della spinta dinamica cinese a diventare una potenza globale risiedono nel ribilanciamento dell'economia, nel miglioramento della propria base produttiva, nell'espansione del mercato interno, nel perseguire la crescita e la stabilità sociale e nel massimizzare l'accesso agli articoli essenziali alla produzione.


La versione cinese del "ribilanciamento" dell'economia: nuove contraddizioni

Il ribilanciamento cinese dell'economia interna è stato accompagnato da una trasformazione delle rapporti economici con gli Stati Uniti. Visto l'atteggiamento apertamente ostile adottato dai leader del Congresso e vista la condizione stagnante del mercato americano, la Cina ha aumentato i propri affari ed investimenti con l'Asia, in modo da diminuire la propria idpendenza dal mercato statunitense e con essa il rischio di dover affrontare la morsa protezionista [42]. Sebbene la Cina sia ancora un "creditore" per gli Stati Uniti, sta spostando i propri investimenti in affari più produttivi (e lucrativi). Non tutte le speculazioni cinesi oltreoceano sono state un successo, si vedano ad esempio alcuni uomini d'affari "istruiti in occidente", che hanno perso svariati miliardi di dollari investendo nel gruppo Blackstone o simili.

Il "ribilanciamento della crescita" cinese ottenuto attraverso il rafforzamento delle fondamenta per successive espansioni, deve affrontare rischi maggiori provenienti dall'interno che non dall'esterno. Entro i confini cinesi, svariati cambiamenti nella struttura sociale possono mettere in pericolo la stabilità del sistema, così come è successo per altre potenze affermate. La spinta verso un'espansione oltreoceano ha dato vita ad una parte della nuova classe dirigente pubblico-privato che ignora la necessità di sviluppare un mercato interno, specialmente per quello che riguarda gli investimenti nello sviluppo sociale. In secondo luogo, l'intera classe dirigente e l'élite al governo, se da un lato appoggiano formalmente il bisogno di migliorare le condizioni di lavoro, costruendo una rete di sicurezza sociale nelle aree rurali ed estendendo il diritto alla salute e all'istruzione agli emigranti, dall'altro si rifiutano di aumentare le proprie tasse, si oppongono a qualunque politica di redistribuzione e difendono i propri privilegi di famiglia creando le condizioni affinché si intensifichino le tensioni e i conflitti di classe.

Altrettanto deleterio per il futuro delle fondamenta dell'espensione cinese è l'emergere di una classe di speculatori particolarmente influente, soprattutto nel campo immobiliare, bancario e in quell'élite politica locale che favorisce le bolle economiche, che a loro volta minacciano l'intero sistema finanziario [43]. Mentre il regime, nonostante il controllo sulla politica monetaria e sul sistema finanziaro, adotta strategie per "sgonfiare" la bolla, non fa nulla dal punto di vista strutturale che possa insidiare questo settore o la classe dirigente. Inoltre, la speculazione nell'ambito immobiliare aumenta il costo delle case oltre le possibilità di gran parte dei lavoratori, e allo stesso tempo i prezzi gonfiati delle terre permettono l'espropriazione arbitraria dei proprietari da ufficiali locali e regionali legati agli speculatori edilizi, alimentando agitazioni di massa e in alcuni casi violente proteste.

La crescita delle importazioni, degli speculatori finanziari e di coloro che diventano miliardari grazie ad investimenti immobiliari potrebbe garantire un'apertura per il settore principale dell'impero statunitense: la classe dirigente finanziaria, immobiliare e delle assicurazioni. Fino ad ora le ripetute crisi ed instabilità indotte da questi settori nei periodi 1990 - 2001, 2000 - 2002, 2007 - 2010, hanno messo in pericolo la loro abilità di infiltrarsi nell'economia cinese.

Vista la continua crescita della Cina, particolarmente evidente oggi, con un +9% nel 2009 e un +12% nel 2010, mentre gli USA rantolavano attorno ad una crescita zero, chi ha di più da perdere se e quando Washington deciderà di innescare una guerra commerciale?


Confronto esterno sulla riorganizzazione interna: con gli USA ?

Gli Stati Uniti ha contratto debiti con almeno 91 paesi oltre alla Cina, a dimostrazione del fatto che il problema risiede nella struttura dell'economia statunitense. Qualunque misura punitiva per limitare le esportazioni cinesi negli USA non farebbero altro che aumentare i debiti con altri esportatori concorrenti. Una diminuzione delle importazioni statunitensi dalla Cina non risulterebbero in un aumento della manifattura americana, a causa della natura sottocapitalizzata di quest'ultima, direttamente legata alla posizione dominante del capitale finanziario nel trovare e nel ridistrubuire i risparmi. Inoltre, "terzi" paesi potrebbero ri-esportare prodotti fabbricati in Cina, mettendo gli Stati Uniti nella non invidiabile posizione di dover ingaggiare una guerra commerciale con chiunque oppure ammettere il fatto che un'economia basata sulla finanza, al giorno d'oggi, non è competitiva.

La decisione della Cina di trasferire sempre di più il proprio surplus dagli acquisti in buoni del Tesoro statunitense in investimenti più produttivi, come ad esempio lo sviluppo del proprio "hinterland" o speculazioni strategiche oltreoceano in materie prime e nel settore energetico, potrebbero forzare il Ministro del Tesoro americano ad aumentare i tassi d'interesse per impedire una massiccia fuga dal dollaro. Tassi d'interessi in aumento potrebbero giovare ai commercianti, ma potrebbero anche affievolire qualunque possibilità di recupero o addirittura far affondare il paese di nuovo nella depressione. Nulla indebolisce un impero globale più del fatto di fover rimpatriare gli investimenti oltreoceano e vincolare i prestiti stranieri al sostentamento di un'economia interna in continuo riassetto.

Il perseguimento delle politiche protezioniste avrebbe un impatto maggiormente negativo sulle multinazionali americane in Cina, poiché la maggior parte dei loro prodotti viene esportata nel mercato statunitense: Washington si darebbe la zappa sui piedi. Non solo, una guerra commerciale potrebbe espandersi ed influenzare negativamente il mercato automobilistico degli Stati Uniti. General Motors e Ford fanno molti più affari in Cina che negli USA, dove stanno andando pesantemente in rosso [44]. Una guerra commerciale da parte degli Stati Uniti avrebbe un impatto inizialmente negativo sulla Cina, fino a che questa non riuscisse a rimettersi in sella, traendo vantaggio dai potenziali 400 milioni di consumatori nelle regioni più interne del paese. Non solo, gli economisti cinesi stanno rapidamente diversificando gli scambi con l'Asia, l'America Latina, l'Africa, il Medio Oriente, la Russia, e anche con l'Unione Europea. Il protezionismo potrebbe creare qualche posto di lavoro negli Stati Uniti in alcuni settori manifatturieri non competitivi, ma costerebbe molti più posti di lavoro nel settore commerciale (Wal Mart), che dipende dagli articoli a basso prezzo per i consumatori con scarse possibilità economiche.

La retorica commerciale bellicosa sul Campidoglio e sulle politiche di contrasto diretto adottate dalla Casa Bianca è un atteggiamento pericoloso, pensato per deviare l'attenzione dalle debolezze profonde e strutturali delle basi su cui è fondato l'impero. Il settore finanziario pesantemente arroccato e l'altrettanto dominante metafisica militare, che impartisce ordini alla politica estera, hanno portato gli Stati Uniti lungo il ripido pendio delle crisi economoche croniche, delle costose guerre senza fine, delle disuguaglianze di classe ed etico-raziali sempre più profonde, così come del declino degli standard di vita.

Nel nuovo ordine mondiale competitivo multi-polare, gli USA non riescono a seguire con successo la tattica di ostacolare una potenza imperialista emergente bloccandole l'accesso a risorse strategiche attraverso boicottaggi coloniali. La Casa Bianca non riesce a fermare la Cina con i suoi investimenti lucrativi e gli accordi commericali nemmeno nei paesi sotto occupazione americana, come l'Iraq e l'Afghanistan. Per quanto riguarda i paesi sotto la sfera d'influenza americana, come il Taiwan, la Corea del Sud e il Giappone, il tasso di crescita degli scambi e degli investimenti con la Cina supera già di gran lunga quelli statunitensi. Tanto meno si può sperare da un assedio militare unilaterale, quindi gli Stati Uniti sembrano destinati a non poter contenere l'avanzata cinese come protagonista dell'economia mondiale, come potenza imperialista di recente affermazione.

La principale debolezza della Cina è al suo interno, nelle radicate divisioni di classe e nello sfruttamento di alcuni ceti, che l'attuale elite politica, profondamente legata da vincoli economici e familiari, potrà migliorare ma non eliminare [45]. Per ora la Cina è stata in grado di espandersi a livello globale attraverso una forma di "imperialismo sociale", distribuendo una parte delle ricchezze prodotte all'estero ad un ceto medio urbano in crescita e a manager, professionisti, speculatori immobiliari e membri dei partiti regionali.

Al contrario, le conquiste militari oltreoceano degli Stati Uniti sono state costose e senza alcun ritorno economico, ma anzi, con danni a lungo termine all'economia civile, sia nelle sue manifestazioni interne che in quelle esterne. L'Iraq e l'Afghanistan non contribuiscono all'erario se si confronta con quanto è stato depredato dall'Inghilterra in India, Sud Africa e Rhodesia (Zimbabwe). In un mondo sempre più basato sui rapporti commerciali, le guerre coloniali non hanno futuro economico. Immensi budget militari e centinaia di basi, alleanze con stati neo-coloniali sono gli ultimi strumenti con i quali è possibile competere in un mercato globale. Questa è la ragione per cui gli Stati Uniti sono un impero in declino e la Cina, con il suo approccio di tipo commerciale, è un impero emergente con una "nuova modalità" (sui generis).


Transizione da impero a repubblica?

Di fronte all'evidente declino economico statunitense, la classe dirigente può ammettere che questo impero non è sostenibile? Gli Stati Uniti potrebbero aumentare le proprie esportazioni in Cina e la propria quota di scambi mondiali per bilanciare i conti solo se decidessero di portare avanti profondi cambiamenti politici ed economici.

Nulla all'infuori di una rivoluzione politica ed economica può ribaltare il declino degli Stati Uniti. La cosa fondamentale √® dare un nuovo assetto all'economia statunitense, passando da basi finanziarie ad altre industriali, ma un cambiamento di questa portata richiede un maggior benessere sociale, anzichè un potere arroccato tra Wall Street e Washington [46]. Quello che passa per l'attuale settore manifatturiero americano non dimostra alcuna spinta per un cambiamento così¨ storico. Al momento gli industriali hanno permesso l'acquisito quote o addirittura il rilevamento da parte di istituzioni finanziarie: hanno perso la loro caratteristica distintica come settore produttivo.

Anche assumendo che ci sia un cambiamento politico verso una nuova industrializzazione degli Stati Uniti, l'indistria dovrebbe abbassare i propri profitti, aumentare gli investimenti in ricerca applicata e sviluppo, e migliorare in modo significativo la qualità dei propri prodotti per diventare competitiva nei mercati interni ed esteri. Occorrerebbe ricollocare enormi somme ora impegnate in guerre, "marketing" e speculazioni, dedicandole a servizi sociali, quali piani di unificazione nazionale della sanità, ingegneria di alto livello e formazione professionale industriale avanzata, solo in questo modo si potrebbe aumentare l'efficienza e la competitività del mercato interno.

Il trasferimento di un bilione di dollari in spese militari per guerre coloniali potrebbe facilmente finanziare settori dell'economia come la produzione di beni di qualità per il consumo locale ed oltreoceano, includendo la riduzione di componenti tossiche nelle merci e nelle materie prime, oltre alle sorgenti energetiche dannose per l'ambiente.

Ricollocando il denaro speso nelle basi militari si potrebbe aumentarne l'afflusso e ridurne il deflusso all'estero. Ponendo fine ai legami politici e ai sussidi plurimiliardari agli stati militarizzati come Israele e abolendo le sanzioni sui principali mercati economici, come quello dell'Iran, si potrebbe diminuire lo sperpero di soldi dalle casse degli Stati Uniti e aumentarne l'ingresso, oltre alle opportunità per il settore produttivo da un capo all'altro del mondo musulmano, che conta circa 1.5 miliardi di persone.

Concentrando gli investimenti interni ed oltreoceano sui mercati in crescita dell'energia pulita e della tecnologia si creerebbero nuovi posti di lavoro e si abbasserebbero i costi di vita, migliorandone peraltro gli standard. Tasse di confisca per milionari/miliardari, specialmente per l'intera elite di Wall Street, e limiti superiori di tasso su tutte le entrate oltre il milione di dollari potrebbero finanziare la sicurezza sociale e un sistema sanitario pubblico su base nazionale, che ridurrebbe le spese sia all'industria che allo stato. Il passaggio da impero a repubblica richiede un totale riassetto del potere sociale, e una vasta ristrutturazione dell'economia. Solo allora gli Stati Uniti sarebbero in grado di competere economicamente con la Cina.

Un cambiamento da potenza imperialista militare, corrosa da un'elite politica corrotta e vincolata ad un'élite economica parassita e speculatrice, ad una repubblica produttiva con un'economia equilibrata e competitiva richiede cambiamenti politici fondamentali e una rivoluzione ideologica profonda. Per innescare questo riassetto politico ed economico occorre una nuova configurazione dello stato che persegua investimenti pubblici creando industrie competitive, che intensifichi il mercato interno ed aumenti i servizi sociali.

Per espandere i mercati esteri, Washington deve dare un taglio ai boicottaggi e al servilismo militare verso Israele, tanto propagandato dalla quinta colonna pro-isreliana radicata nelle più importanti istituzioni finanziarie e politiche, che hanno il pieno controllo dell'assemblea legislativa [47].

Porre fine alla costruzione di un impero su basi militari permetterebbe di dare il via ai finanziamenti pubblici per innovazioni tecnologiche civili; eliminando le restrizioni sulle vendite di articoli tecnologici all'estero si potrebbe ridurre il deficit di scambi, migliorando la produzione locale e i livelli di competitività.

Per un'accelerazione maggiore è necessario un confronto faccia a faccia tra gli ideologi del capitale finanziario e un rifiuto deciso di qualunque loro sforzo nel dirottare l'attenzione dal loro ruolo nella distruzione dell'America. La campagna di "biasimo" per la Cina, per ciò che in realtà è stato causato da squilibri strutturali interni agli USA, deve essere affrontato prima che ci porti ad una nuova, costosa ed autodistruttiva guerra commerciale, se non peggio.

Gli "squilibri" interni della Cina sono profondi e diffusi, pillarse col tempo possono indebolire le basi dell'espansione verso l'esterno. Le disuguaglianze di classe, lo sviluppo regional non uniforme, la corruzione della sanità pubblica e privata e i trattamenti discriminatori nei confronti degli emigranti, trattati come cittadini di serie B (un sistema di cittadinanza a due facce) saranno risolti internamente nonappena le divisioni socio-economiche si trasformeranno in lotta di classe. Cambiamenti radicali del sistema sanitario privatizzato in un sistema pubblico e nazionale sono essenziali, ma tali cambiamenti richiedono la ripresa della lotta di classe contro interessi acquisiti, sia statali che privati [48].


Conclusioni

Come già successo nel passato, una potenza imperialista che deve affrontare profondi squilibri interni, perdita di competitività nel mercato e un'eccessiva dipendenza dalle attività finanziarie va in cerca di retribuzioni politiche, alleanze militari e restrizioni commerciali che possano rallentare il proprio crollo [49]. La propaganda, che fa leva su sentimenti sciovinisti utilizzando come capro espiatorio uno stato imperialista emergente e modellando le alleanze militari per "circondare" la Cina, non hanno avuto alcun impatto. Non hanno fermato i paesi geograficamente vicini alla Cina dal rafforzare i legami economici. Non c'è alcuna speranza che questo dato cambi nell'immediato futuro. La Cina continuerà a crescere con tassi a due cirfe. L'impero statunitense continuerà ad essere impantanato in una condizione di torpore cronico, nelle sue guerre senza fine, farà sempre più affidamento sulle potenzialità della sovversione politica, promuovendo i regimi separatisti che - prevedibilmente - collasseranno o verranno abbattuti. Gli Stati Uniti, a differenza delle potenze coloniali affermate del passato, non possono negare alla Cina l'accesso alle materie prime, come si è visto nel caso del Giappone. Viviamo in un mondo post-coloniale, dove la maggior parte dei regimi fa affari e investe denaro con chiunque paghi i prezzi di mercato. La Cina, a differenza del Giappone, dipende dalla salvaguardia dei mercati attraverso la competitività economica - potere di mercato - non dalla conquista militare. A differenza del Giappone, ha una forza lavoro consistente; non ha bisogno di conquistare e sfruttare lavoratori di paesi stranieri
La costruzione dell'impero cinese, basata sull'economia, è in sintonia con i tempi moderni, guidata da un'elite libera di creare legami senza rendere conto a nessuno, mentre gli Stati Uniti sono afflitti dagli speculatori finanziari, che hanno corroso ed eroso l'economia, devastanto i complessi industriali e trasformando case abbandonate in enormi parcheggi.

Se è vero che l'elite imperialista statunitense è in perdita e quindi non è in grado di contenere l'ascesa cinese a potenza mondiale, √® altrettanto vero che anche la classe lavoratrice americana è in perdita e non può quindi sostenere il passaggio da impero militare a repubblica produttiva. La caduta economica e le elite politice e sociali hanno depoliticizzato il malcontento; le crisi economiche sistemiche sono state trasformate in malattie individuali e private. A lungo termine, qualcosa dovrà rompersi; il militarismo e il potere sionista salasseranno e isoleranno gli Stati Uniti, che si troveranno a dover reagire con violenza... Più tempo passerà, più sarà violenta la rinascita della repubblica. Gli imperi non si spengono pacificamente, nè tantomeno le elite finanziarie, immerse in una condizione di straordinario benessere e potere, abbandoneranno le loro posizioni di privilegio senza opporre resistenza. Solo il tempo ci dirò quanto resisterà il popolo americano all'espropriazione delle case, allo schiavismo dei datori di lavoro, alla colonizzazione della quinta colonna e al declino interno di un impero costruito su basi militari.


FINE

di James Petras
Fonte: www.globalresearch.ca

09 settembre 2010

La bolla europea





Esiste l’Europa – intendo, come realtà e unità spirituale, non semplicemente come espressione geografica? Certamente sì, e sommariamente possiamo individuarla nei seguenti elementi:

- una complessa e in parte tuttora misteriosa preistoria, dalla civiltà di Stonehenge a quella dei nuraghi;

- un’ancor oggi stupefacente creatività ellenica, madre delle arti, della matematica, della filosofia, della storiografia, e che costituisce la radice identitaria più autentica e specifica dell’Europa;

- il contributo e l’elaborazione di Roma, soprattutto nella creazione dell’ordinamento giuridico e amministrativo e nella costruzione dei diritti civili e individuali, nella loro distinzione dalla sfera pubblica;

- e successivamente i convergenti contributi soprattutto dell’area italica, dell’area germanica, dell’area francese, dell’area britannica (inclusi i celti), nonché dell’incessante produzione del pensiero ebraico della diaspora;

- l’attiva recettività, sin dai tempi più remoti, ad apporti e influssi asiatici ed egizi, in molti campi, tra cui quello artistico, esoterico e religioso;

- l’avvento di una religione asiatica, dogmatica e intollerante, che si consocia al potere politico, legittimandolo e partecipando ad esso;

- e che pone bruscamente fine, per circa mille e quattrocento anni, alla libertà di pensiero, ricerca, insegnamento, religione, demolendo i templi degli altri culti e chiudendo le scuole filosofiche che non si allineano ad essa, istituendo la censura, sopprimendo o torturando pensatori e scienziati scomodi, lanciando guerre contro i diversamente credenti;

- la successiva, lenta e travagliata risurrezione del pensiero laico e indipendente dai secoli bui, la sua lunga lotta per riconquistare la libertà e ristabilire la tolleranza; il nascere della scienza nell’opposizione della gerarchia religiosa; l’indagine sui limiti del pensiero e del conoscere; il rinascimento e i lumi;

- la multisecolare resistenza contro l’invasione armata di un’altra religione asiatica, militante, ancora più crudamente dogmatica, violenta e intollerante (tranne una breve parentesi dovuta all’influsso dei pochi libri greci che non aveva bruciato), le cui armate erano penetrate fino a Poitiers e a Vienna;

- la fioritura di musica, di belle arti e belle lettere, nonché delle tecniche e delle industrie; la nascita del pensiero e del dibattito politici; la critica del potere e della morale costituiti; la scoperta del relativismo culturale e dell’inconscio;

- e, insieme, i conflitti sociali scatenati dall’industrializzazione capitalista, la critica socioecnomica, le rivoluzioni totalitarie, la resistenza e le cruente lotte per liberarsi dai regimi da esse sorti;

- l’approdo, nei nostri giorni, e oramai su scala non più europea, ma globale, a una condizione di incertezza, precarietà, cronicizzazione delle crisi.

Ma che percentuale degli abitanti dell’Europa ha conoscenza di queste cose, le apprezza, le ha interiorizzate come parte dell’identità, e le vive quotidianamente? Una percentuale irrilevante. E non solo delle masse popolari, ma anche dei ceti medi e alti. Queste sono cose che valgono per pochi cultori specialisti. Altri sono i poli di identificazione e interesse degli odierni abitatori dell’Europa: denaro, potere, droga, sesso, sport, moda, musica commerciale americana o perlomeno non europea. Gusti globalizzati. Che cosa c’è di europeo negli Europei? Praticamente niente. L’identità, la civiltà europea non esistono, nella società e nella politica dei paesi europei, se non indirettamente e vagamente. Eppure vengono addotte a fondamento legittimante dell’Unione Europea e del suo concreto potere politico – sostanzialmente non basato su democratiche elezioni – sui c.d. cittadini europei. L’Unione Europea non è la realtà e unità spirituale “Europa” e in nessun senso la rappresenta. Non ha niente in comune con essa, tolto il riferimento geografico. E’ un ordinamento giuridico-finanziario con caratteri burocratici, vagamente liberali e liberisti, in parte dirigisti. Ma niente di identitariamente o specificamente europeo come qualità.

Al popolo italiano, specificamente, si diceva e si dice: “dovete pagare o fare questo o quello per entrare in Europa, per restare in Europa, perché è l’Europa che ve lo chiede”. Ma, appunto, quando si invoca quell’Europa con simili appelli, si lascia – volutamente – nell’implicito che cosa il popolo dovrebbe intendere per “Europa”. E che cosa intende il popolo italiano per “Europa”? Spirito, cultura, civiltà? Aristotele e Kant? Virgilio e Coleridge? Haydn e Rameau? Caravaggio e Rembrandt? Keplero e Bohr? Bentham e Anna Arendt? No: il popolo italiano intende, e gli si lascia intendere, un’istituzione statuale o superstatuale di tipo assistenziale, che eroga sussidi, che supplisce all’inefficienza, agli sprechi, all’immoralità, alla debolezza finanziaria dello Stato e della pubblica amministrazione italiani. Il paese che rimane attaccato a questa istituzione, rimane un paese di prima classe; chi perde il contatto, scivola verso il terzo mondo e la povertà.

Le aspettative di assistenza e supplenza sono molto radicate nel sentire e nel credere delle popolazioni italiane, soprattutto al Sud, che vive tradizionalmente di trasferimenti a spese di altri, quindi è predisposto a credere a promesse di questo tipo. Altrettanto diffusa è l’esterofilia, la maggior stima dell’estero e per lo straniero rispetto al domestico – forse un retaggio dei molti secoli di sottomissione a dominatori stranieri di quasi tutte le regioni italiane. Forse anche del Piano Marshall. Quindi, ai fini della gestione e produzione dei comportamenti collettivi, era ed è stato psicologicamente efficace abbinare questi due elementi (l’assistenza e lo straniero) per fare accettare agli Italiani molti sacrifici e molti trasferimenti di potere a organismi non italiani e non elettivi. E per fare accettare l’Euro. L’Euro veniva presentato agli Italiani come una panacea, una garanzia di aggancio alla prosperità ed efficienza tedesche, ma anche alla rispettabilità del sistema tedesco. Si diceva – per giustificare fortissimi e numerosi prelievi fiscali “allo scopo di entrare nell’Euro” – che, a) entrando nell’Euro, avremmo salvaguardato il nostro potere d’acquisto; e, b) che i paesi forti si sarebbero fatti carico del nostro enorme debito pubblico. Si trattava di fare un modico sacrificio per essere ammessi all’interno del club dell’Euro, e poi la strada sarebbe stata in discesa. Una furbata, un affarone, insomma. Invece è accaduto tutt’altro, e troppi se ne sono accorti: il passaggio all’Euro a) ha tagliato del 40% circa il potere d’acquisto e, b) ci ha lasciato sulle spalle tutto il debito pubblico – perché era falso, era una menzogna, che entrare nell’Euro avrebbe comportato la comunitarizzazione dei singoli debiti pubblici nazionali. Per giunta, ci ha privati della possibilità di ridurre il debito pubblico, in quanto ha peggiorato il rapporto pil/spesa pubblica, poiché, impedendo la svalutazione competitiva, ha bloccato lo sviluppo economico, ci ha fatto perdere sia quote di mercato estero e costretti a interno, che quote di occupazione. Si osservi come le aspettative popolari circa l’UE e l’Euro fossero sostanzialmente opposte, tra Italia e paesi forti, nel senso che questi ultimi li vedevano come occasione e mezzo per dispiegare ed espandere la propria forza politico-economica, e non certo per farsi assistere o per aiutare altri.

L’ultima sveglia è arrivata mesi fa, allorché la Germania ha messo in chiaro e dimostrato coi fatti che non si farà assolutamente carico dei problemi dei paesi deboli, e che i popoli come i Tedeschi, che hanno le qualità giuste e le mettono in pratica – i popoli laboriosi, efficienti, seri, concreti, ligi alle norme – vanno avanti, reggendo il confronto con la globalizzazione, la Cina, l’India, la Turchia. I popoli parolai, inefficienti e assistenzialisti, sono per contro destinati a un rapido impoverimento. Impoverimento che oramai appare avere una causa non tanto contingente e politica, quanto etnico-culturale, radicata nella mentalità sociale, nelle prassi abituali del singolo popolo circa il lavoro, le regole, l’amministrazione. Una causa che quindi non si risolve cambiando governo, né cambiando le leggi, né incarcerando mafiosi e corrotti. Bisognerebbe cambiare la mentalità, i costumi, la psicologia collettiva di quei popoli, a tutti i livelli, dalla politica alla magistratura, dai liberi professionisti agli insegnanti, e anche del corpo elettorale: un compito assai complesso e difficile, che non si sa nemmeno con che strumenti affrontare. Qualcuno si aspettava che bastasse imporre vincoli di bilancio, alla spesa pubblica, ossia la “virtuosità” di Maastricht, per rieducare i popoli PIGS, o per costringerli a rieducarsi da sé, con uno sforzo interno ma imposto dall’esterno. Ebbene, i fatti hanno smentito tale aspettativa: i PIGS sono rimasti PIGS – hanno perso le setole, ma non il vizio. In fondo, la storia mostra che il successo di un popolo dipende essenzialmente dalle sue qualità etniche, molto meno dai suoi contingenti governi e dalle sue contingenti normative. Svizzeri, Tedeschi, Austriaci, Scandinavi, ad esempio, sono sempre andati bene o comunque meglio degli altri. E meglio degli altri gestiscono anche la presente crisi.

Oramai troppi italiani si sono accorti che le aspettative di aiuto europeo in essi indotte dalla propaganda erano illusorie, e che l’Unione Europea e l’Euro costano molto e rendono poco o nulla. Bruxelles è una sorta di Nuova Roma, burocratica, imperiale, lobbystica, finanziarizzata, corrotta (ricordate M.me Cresson? sapete che i bilanci comunitari non sono controllati da un soggetto autonomo? immaginate quanto continuano a mangiarci? ci salva il fatto che il budget UE è solo l’1% del pil). Una Nuova Roma grassa e grassatrice, autoreferenziale, assurda in interminabili e onerose prescrizioni elucubrate da funzionari strapagati e incompetenti. Una Nuova Roma iniqua, inefficiente, quando non nemica, a cominciare dalla politica agricola comune. E insieme pressoché impotente e senza prestigio, politicamente e militarmente, sulla scena mondiale, tanto quanto nel gestire la corrente crisi economica: infatti ciascun paese fa per sé (ciascun governo fa per il proprio lettorato) e guardando solo ai propri interessi, o al più all’esigenza di rassicurare i mercati. L’idea di un ordinamento che cresce e si impone anche politicamente attraverso un processo strisciante di aggregazione e centralizzazione di funzione dopo funzione, avocandole dagli Stati nazionali, è quindi palesemente fallita. E gli aiuti europei – che poi altro non sono che il parziale ritorno delle nostre tasse – ossia i fondi perequativi, a seguito dell’ingresso dei paesi orientali, vanno oramai quasi tutti ad essi, e non più a noi, aiutandoli anzi a farci concorrenza e ad attirare le nostre imprese e i nostri capitali.

Anche la componente idealista dell’europeismo italiano, cioè il sogno della grande Federazione Europea, è rimasta tradita: con l’inclusione di molti paesi disomogenei dell’Est europeo, Washington e Londra hanno oramai conseguito il loro tradizionale obiettivo di impedire l’integrazione politica europea. Politicamente, anzi, l’Unione è in via di dissoluzione. La vera beneficiaria della sua espansione a Est è la Nato, che se ne è servita per penetrare nell’area ex Comecon in antagonismo alla Russia e piazzare i missili più vicini alle sue frontiere.

A misura che l’opinione pubblica italiana si accorge che la realtà è questa, è naturale che diventi non semplicemente “euroscettica”, ma contraria a Bruxelles (e, i più informati, anche alla sua Bastiglia monetaria, l’Eurotower di Francoforte). E che voti di conseguenza. Gli entusiasmi europeisti della popolazione italiana si sgonfiano come una bolla via via che gli Italiani realizzano che l’Unione Europea non li aiuta, non li sostiene, non supplisce alla loro inefficiente e corrotta gestione politica. Anzi, impone tagli a quel welfare che in Italia è servito per mantenere la coesione sociale e geografica. Col prossimo aggravarsi della recessione italiana, che avevo preannunciato per la fine di questo mese e che si sta avverando, sarà sempre più così.

di Marco Della Luna

08 settembre 2010

400 banche Usa pronte a fallire. Sotto gli occhi dei "regolatori"...


Michel Barnier, commissario europeo per gli Affari finanziari, è stato chiarissimo nel suo intervento al Workshop Ambrosetti di Cernobbio, addirittura cristallino: nessuno potrà sfuggire alla nuova regolamentazione europea che, se il lavoro proseguirà con questo ritmo, sarà pronta in versione di bozza per il 15 settembre. No one, nessuno. Due i punti chiave: normative sui derivati e sullo short selling che, stando alle indiscrezioni, verrà vietato.

Dopo la mossa stalinista di Barack Obama, ora anche l'Europa mette - o prova a mettere - i bastoni tra le ruote al libero mercato: Londra ringrazia sentitamente. Come se questo servisse a qualcosa. Nonostante il crollo di Lehman, la bolla dei subprime e quanto è seguito, infatti, nulla è cambiato: i volumi dei derivati scambiati sono aumentati. Solo nel mercato valutario c’erano transazioni quotidiane per 3.300 miliardi di dollari nel 2007 mentre quest'anno sono stati superati i 4.000 miliardi. Le cose non vanno meglio per il segmento dei derivati sui tassi d’interesse, cresciuti nell’arco del 24 per cento nell’arco di un triennio, toccando i 2.100 miliardi di dollari scambiati ogni giorno.

Il dito di Barnier, difficilmente, riuscirà a frenare la diga che sta per esondare. D'altronde, le banche non hanno voglia di farsi regolamentare, basti pensare all'esempio che ho portato nell'articolo di giovedì scorso, ovvero l'oceano di scommesse sui cds contro il debito italiano. Ogni giorno sui mercati non regolamentati, il vero problema che Barnier non sembra vedere, si scambiano circa 575 milioni di dollari in protezione sul debito italiano.

E sono, sempre secondo l'ente di vigilanza sui derivati, solo 17 i soggetti che vendono questa immunizzazione: Bank of America Merrill Lynch, Barclays, BNP Paribas, Calyon, Citibank, Credit Suisse, Deutsche Bank, Goldman Sachs, HSBC, JPMorgan, Morgan Stanley, Natixis, Nomura, Royal Bank of Scotland, Société Générale, UBS e l'italianissima - ancorché internazionalizzata - UniCredit.

Nel caso dell’Italia tutti concorrono alla vendita dei Cds, UniCredit compresa, la quale fa benissimo e non compie alcun reato. Con una media di 21 operazioni di copertura sul debito italiano, per le 17 regine dei derivati si aprono le porte delle commissioni. Infatti per ogni singola transazione le banche guadagnano cifre variabili rispetto all’entità: non è difficile capire chi siano gli scacchieri dietro a questa girandola di scommesse, più vendo più guadagno.

Il 39 per cento dei Cds circolanti sull’Italia sono detenuti da cinque soggetti: Paulson, quel filantropo di Soros, Moore, Citadel e il fondo sovrano China Investment Corporation: quattro hedge fund statunitensi e il principale veicolo d’investimento di Pechino sono attualmente su posizioni ribassiste nei confronti del nostro Paese. E non sono i soli.

Il peso degli investitori si fa sentire sempre di più sul debito italiano. Gli oltre 1.800 miliardi di euro convincono poco i mercati, che hanno deciso di proteggersi dalle brutte sorprese: dallo scorso marzo, quando erano stati accesi circa 5.600 contratti di protezione sui rischi italiani, si è passati a oltre 6.600 nelle ultime settimane. La scadenza media è di un anno, sintomo della percezione negativa che gli investitori hanno del nostro Paese. In compenso, la maggioranza va in frantumi tra polemiche corrosive e il nostro ministro dell'Economia si permette di bollare come "da bambini" i giudizi del governatore di Bankitalia, Mario Draghi.

Ma torniamo a Barnier, il quale a Cernobbio ha parlato chiaro. Cristallino. Peccato si sia ben guardato dal rivelare quanto lui e la Commissione Ue hanno di fatto già deciso e che ora devono trovare il modo, oltre che il coraggio, di comunicare. Gli stress test sulle banche vanno rifatti perché eseguiti con criteri ridicoli e soprattutto perché ritenuti non credibili dalle istituzioni finanziarie ma, soprattutto, dai soggetti corporate. Ovvero, le aziende che con le banche hanno a che fare ogni istante. Una larga parte delle quali, sia nel Regno Unito che nell'Europa continentale, hanno messo nel mirino le banche italiane, spagnole e tedesche e stanno conducendo stress tests indipendenti per valutare realmente la robustezza di questi istituti: le revenues di queste aziende, tanto per capire il loro peso, è di 240 miliardi di dollari l'anno.

«La cosa che ci sta facendo preoccupare maggiormente è il rischio del credito», ha dichiarato al Financial Times il tesoriere di uno dei principali gruppi industriali tedeschi, secondo cui «anche dopo gli stress tests, noi tutti continuiamo a porci la stessa domanda: le banche sono davvero sane? Penso che i tests, lungi dall'aver dato delle rassicurazioni, hanno solo aggiunto domande a domande e timori a timori, soprattutto qui in Germania».

Per Stuart Siddall, presidente dell'Association of Corporate Treasurers, le aziende hanno posto alla prima posizione delle loro priorità il fatto di chiarire realmente lo stato di salute delle banche: «Mai visto spendere tanto tempo, risorse ed energie rispetto al rischio di controparte».

Per il tesoriere di una grande aziende del settore media, «gli stress tests sono stati niente più che uno scherzo. Bisogna capire se l'imperatore ha ancora dei vestiti o è nudo e, soprattutto, cosa fare se la situazione reale è la seconda. Siamo paranoici al riguardo e monitoriamo i rumors del mercato molto attentamente». Altra ossessione per queste aziende sono i cds, un mercato che ormai interessa più di quello azionario: «Le agenzie di rating stanno agendo troppo lentamente - attacca il tesoriere di un altro grande gruppo industriale tedesco -, noi stiamo monitorando lo stato di salute delle banche ogni giorno, anche al fine di aggiustare i nostri limiti».

Per il tesoriere di un'azienda quotata nell'indice Ftse 100 della Borsa di Londra, quanto sta accadendo è la naturale risposta del mercato alla poca trasparenza d istituzioni e regolatori: «Non abbiamo alcun business con banche spagnole e anche con un paio di istituti italiani e tedeschi. Se le banche americane non vogliono avere a che fare con questa gente, perché dovremmo farlo noi?».

Già, perché? D'altronde non il sottoscritto ma Nouriel Roubini, uno che la crisi l'aveva anticipata pur restando inascoltato, ha chiaramente detto che se sarà possibile evitare l'opzione double-dip, una seconda fase di recessione è quasi ineluttabile: fase, durante la quale, a suo modo di vedere saranno circa 400 le banche Usa destinate a fallire.

Chissà perché Barnier non ha voluto spendere una parola su questo, limitandosi a mostrare la faccia cattiva agitando lo spettro della regolamentazione? Chissà, forse è troppo imbarazzante ammettere di aver dato vita a una farsa travestita da stress tests e ora ritrovarsi obbligato a rifarli, secondo criteri seri, prima che siano i soggetti privati, tramite i loro studi, a mostrare davvero quanto è nudo il Re bancario: il Core Tier 1 di moltissime banche, infatti, una volta ripulito da artifici e assets assolutamente inutili in fase di stress, raggiungono a malapena 2,5 per cento.

Se i grandi fondi stanno shortando le azioni di cinque grandi istituti bancari europei, tra cui Barclays e Intesa-San Paolo, qualche motivo ci sarà. Va bene la speculazione, va bene l'azzardo ma nessuno è così masochista da scommettere al ribasso contro un soggetto finanziario in salute. Chissà se questo semplice ragionamento avrà sfiorato la raffinata mente di Michel Barnier?

P.S. So di essere tacciato di pessimismo cosmico e catastrofismo à la page ma stavolta dubito che si possa mettere in dubbio quanto ho scritto, almeno stando al link che allego per tutti i lettori e che è stato pubblicato da Cnbc ventiquattro ore dopo l'invio del mio pezzo, ovvero ieri mattina dopo l'apertura delle contrattazioni. Leggete e chiedetevi se i regolatori con cui abbiamo a che fare non siano da prendere a calci nel sedere.

di Mauro Bottarelli

07 settembre 2010

L'ASCESA E IL DECLINO DEI POTERI ECONOMICI: IL CONFLITTO CINA-USA SI INASPRISCE





Strategie per minare e indebolire la Cina come potenza globale emergente

Gli Stati uniti hanno sviluppato una strategia dettagliata, complessa e ramificata per minare l'ascesa della Cina a potenza globale. La strategia include mosse economiche, politiche e militari studiate per indebolire la crescita dinamica cinese e contenere la sua espansione all'estero.

Strategie economiche

Washington, appoggiata dalla stampa finanziaria più autorevole, così come dai principali economisti ed "esperti", sostenne che occorreva intervenire nelle politiche economiche interne cinesi con misure pensate per smembrare il suo modello di crescita dinamica. La richiesta più diffusa è che la Cina sopravvaluti la sua valuta in modo da corrodere i suoi margini di competitività e indebolire le industrie impegnate nell'esportazione dinamica [28].

Nel passato, tra il 2000 e il 2008, la Cina ha rivalutto il suo tasso di scambio del 20%, riuscendo comunque a duplicare le proprie esportazioni verso gli Stati Uniti [29]. Ci sono riusciti aumentando la produttività, diminuendo i tassi di profitto e migliorando i controlli di qualità. Inoltre, il problema dei bilanci negativi per gli affari statunitensi è un problema cronico e mondiale - gli USA hanno bilanci negativi con oltre 90 paesi, inclusi Giappone e Unione Europea [30].

La coalizione anti-cinese, guidata dal complesso Washington - Wall Street, ha continuato a fare dure pressioni su Pechino affinché deregolamentassi il proprio settore finanziario per facilitare la scalata dei mercati finanziari cinesi, invocando violazioni di "scambi ed investimenti". La Casa Bianca vede nel potente settore finanziario l'unica leva attraverso la quale conquistare le vette di comando dell'economia cinese, attraverso fusioni ed acquisizioni. Questa campagna ha perso forza durante le crisi del periodo 2008 - 2010, indotta dall'attività speculativa di Wall Street. Il sistema finanziario cinese ne è stato a mala pena colpito, grazie alla sua struttura di regolamentazione pubblica e grazie ai vincoli sull'ingresso delle banche statunitensi.

Washington ha imposto misure protezioniste, contrarie alle regole dell'Organizzazione Mondiale del Commercio, sotto forma di tariffe sulle esportazioni cinesi di acciaio e abbigliamento, e il Congresso ha minacciato una tassa del 40% su tutte le esportazioni cinesi negli Stati Uniti - un invito ad una "guerra d'affari".

Gli Stati Uniti hanno bloccato svariati investimenti cinesi a larga scala, nonché l'acquisto di compagnie petrolifere, società tecologiche e altre imprese. In opposizione a questo, la Cina ha permesso alle multinazionali statunitensi di investire decine di miliardi di dollari e di subappaltare in vari settori dell'economia cinese. La Cina, come potenza mondiale emergente, è sicura del fatto che la propria economia dinamica può arginare le corporazioni statunitensi nella loro crescita, mentre gli Stati Uniti, di fronte al deterioramento della propria posizione, si preoccupano per qualunque accelerazione della "scalata cinese", una preoccupazione generata dalla fragilità economica, nascosta e camuffata da una retorica di "minaccia alla sicurezza".

Washington ha incoraggiato gli investitori oltreoceano e i fondi di investimento a sovranità cinese a creare un collegamento con le società finanziarie statunitensi impegnate in attività speculative, sperando così di rafforzare l'afflusso di capitali negli Stati Uniti e di creare una "cultura della speculazione" in Cina, per indebolire la produzione di capitale nell'apparato di pianificazione statale.

La Casa Bianca ha intensificato le sue minacce di rappresaglia economica in modo da minare ed escludere le esportazioni cinesi, oltre ad assicurare concessioni che compromettano la legittimità politica interna dei suoi governanti, se e quando dovessero accettare i dettami di Washington. I leader politici cinesi che dovessero concedere agli Stati Uniti la possibilità di decidere le politiche economiche interne provocherebbero pesanti opposizioni da parte degli uomini d'affari e dei lavoratori, che sono prevenuti nei confronti di quelle politiche. Una volta compromessi e indeboliti, messi di fronte ad un'opinione pubblica indiammata, i leader cinesi affronterebbero le pressioni interne ed esterne - mettendo a serio rischio la stabilità della Cina.

Washington ha dato vita ed orchestrato una campagna sui media internazionali, mobilitando il Fondo Monetario internazionale e l'Unione Europea per indebolire il modello industriale cinese, accusando la sua ascesa come potenza mondiale del proprio declino. Dai principali cronisti della stampa finanziaria "seria" alla sensazionale stampa scandalistica a grande tiratura, dai leader politici del Congresso ai funzionari anziani dell'esecutivo, ai proprietari di aziende manifatturiere non competitive e sindacalisti burocrati di un movimento laburista moribondo, è stata allestita una campagna per "affrontare" la Cina con una schiera di crimini e peccati che si estendende dalla competizione scorretta, salari bassi, sussidi statali, fino alla qualità scadente e alla scarsa sicurezza dei prodotti.

Gli accademici, gli economisti, i consulenti, gli esperti finanziari statunitensi e inglesi profondamente radicati nell'impero hanno incoraggiato le proprie controparti cinesi, così come gli investitori e i politici stranieri, a diffondere politiche in linea con le richieste della Casa Bianca. Lo scopo era di facilitare l'ingresso statunitense e di limitare l'espansione cinese verso l'estero.

Ogni giorno gli "esperti" statunitensi scroprivano nuover ragioni per invocare una "crisi imminente" in Cina: l'economia sta rallentando, o crescendo troppo in fretta; una "bolla" è pronta ad esplodere nel campo immobiliare [31]; le banche sono sovraccaricate da debiti, ponendo il sistema finanziario a rischio di collasso; l'inflazione sta crescendo senza controllo; gli investimenti oltreoceano stanno seguendo percorsi coloniali; l'economia è sbilanciata, troppo legata all'esportazione e non al consumo interno; la competitività delle esportazioni è uno dei fattori principali di squilibrio negli affari globali; i rapporti con la crescite economica asiatica minacciano la sicurezza nazionale cinese, ecc... Queste e molte altre argomentazioni, presentate come serie analisi economiche sul Financial Times, il Wall Street Journal e il New York Times, sono studiate per incolpare la Cina delle debolezze e del declino della competitività economica statunitense nel mondo. Lo scopo è quello di influenzare ed esercitare pressioni sui neoliberali cinesi "malleabili" o "accomodanti" affinché cambino le loro politiche. Cosa altrettanto importante, queste "critiche" sono pensate per unificare l'élite degli affari, della politica e militare, oltre a giustificare azioni aggressive nei confronti della Cina. Il problema di base con le analisi di questi esperti è che sono stati confutati dalla continua crescita dinamica della Cina, dalla sua abilità a gestire e regolare i prestiti finanziari per prevenire l'esplosione della bolla, dall'accoglienza sempre migliore da parte segli ospiti africani verso nuovi accordi di investimento, grazie a prestiti relativamente generosi e progetti per infrastrutture affiancati ad investimenti nel settore estrattivo [32]. Più di recente Washington ha convinto India e Brasile ad unirsi al coro di accuse alla Cina per scorrettezze negli affari, una delle alleanze piè pericolose che si stiano formando.

Offensiva politica

Il declino delle potenze imperialiste affermate, come gli Stati Uniti di oggi, ha un repertorio di automatismi pensati per screditare, sedurre, isolare e contenere le potenze mondiali emergenti come la Cina, mettendole sulla difensiva.

Uno degli stratagemmi politici che dura da più tempo è la campagna di propaganda americana per i diritti umani, con cui sottolinea le violazioni perpetrate dalla cine, ignorando i propri attacchi e minimizzando le azioni dei propri alleati, come quelle dello stato di Israele. Screditando la politica interna cinese, il Dipartimento di Stato spera di gonfiare artificialmente l'autorità morale degli Stati Uniti e di spostare l'attenzione dalle proprie violazioni ai diritti umani, a lungo termine e su larga scala, costruendo una coalizione anti-Cina.

Mentre la propaganda sui diritti umani viene usata come arma per combattere l'avanzata economica cinese, Washington cerca la cooperazione della Cina nel tentativo di rallentare il proprio declino. I diplomatici statunitensi insistono nel voler "trattare la Cina alla pari", riconoscendola come "potenza mondiale" che deve "assumersi le proprie responsabilità" [33]. Dietro a questa retorica dipomatica c'è lo sforzo di costringere la Cina ad una politica di collaborazione e di sostegno alle strategie statunitensi come socio giovane, alle spese degli interessi economici cinesi. Ad esempio, se da un lato la Cina ha investito miliardi di dollari in joint venture con l'Iran e ha sviluppato relazioni d'affari in crescita, Washington pretende il supporto cinese per sanzioni che indeboliscano e degradino l'Iran per aumentare il potere militare statunitense nel Golfo [34]. In altre parole, la Cina dovrebbe rinunciare all'espansione del proprio proprio mercato per condividere la "responsabilità" nel controllo del mondo, cosa in cui gli Stati Uniti primeggiano. Allo stesso modo, sintetizzando il significato delle richieste avanzate dalla Casa Bianca di "assunzione di responsabilità" per "ribilanciare l'economia mondiale", questo si riduce ad imporre a Pechino una riduzione della propria crescita dinamica, in modo da permettere agli Stati Uniti di ottenere vantaggi negli affari e di ridurre ("ribilanciare") il proprio deficit.

Alternando gesti simbolici e positivi, come il riferirsi a Stati Uniti e Cina come il G2, le due potenze mondiali determinanti, la Casa Bianca ha di fatto incoraggiato un "fronte unito" con l'Unione Europea contro le presunte manovre cinesi di "protezionismo", "manipolazione della valuta" e altre norme economiche "ingiuste" [35].

Agli incontri internazionali come la recente conferenza tenutasi a Copenhagen sul riscaldamento globale, l'incontro sul GATT (General Agreement on Tariffs and Trade, ovvero l'accordo generale su tariffe e scambi, ndt), in cui si è discussa la liberalizzazione degli scambi, e l'incontro delle Nazioni Unite sull'Iran, Washington ha tentato di demonizzare la Cina indicandola come il principale ostacolo alla buona riuscita degli accordi globali, allontanando l'attenzione dalle azioni cinesi, quali la conformità agli standard sul clima, con cui si posiziona ben al di sopra degli Stati Uniti [36], l'opposizione al protezionismo e la ricerca di negoziazioni con l'Iran.

Nel tempo, questa offensiva imperialista ha provocato una risposta aggressiva da parte della Cina, che ha raggiunto una maggiore fiducia nelle proprie capacità di gestione del potere.

Strategie per contrastare le potenze imperialiste affermate

Una delle risposte più formidabili ed efficaci di una potenza economica emergente verso gli sforzi fatti da potenze imperialiste affermate per bloccare la sua avanzata è... di continuare a crescere ad un tasso raddoppiato o triplicato rispetto alla decrescita del suo avversario. Nulla mette alla prova la propaganda di "crisi" emanata dagli esperti statunitensi quanto, ad esempio, la notizia che nel primo trimestre del 2010 la Cina ha avuto una crescita del 12%, sei volte quanto previsto per gli Stati Uniti [37]. La politica cinese nei confronti degli attacchi e delle minacce statunitensi è stata soprattutto reattiva e difensiva, anziché aggressiva, specialmente durante la prima decade dell'avanzata verso la condizione di potenza globale.

La Cina ha sostenuto che il proprio tasso di scambio fosse un "affare interno" e ha risposto alle richieste statunitensi, rivalutando la propria valuta (2006 - 2008) del 20%. Più tardi la Cina ha specificato che il trambusto relativo alla valuta aveva poco a che fare con il deficit di scambi degli Stati Uniti, evidenziando come questo fosse legato alla debolezza strutturale dell'economia statunitense, ovvero ai pochi risparmi, la bassa creazione di capitale e la perdita di competitività.

Inizialmente la Cina ha protestato soltanto per quanto riguarda gli attacchi ai diritti umani, negando le proprie colpe o sostenendo che riguardassero affari interni. A partire dal 2010, comunque, la Cina ha iniziato a muoversi in maniera più aggressiva, pubblicando il proprio inventario di violazioni ai diritti umani perpetrate dagli Stati Uniti [38]. Quando Washington ha protestato per le violazioni ai danni dei separatisti Tibetani e Uiguri, la Cina ha rimproverato l'interferenza americana negli affari interni cinesi e ha minacciato di compiere rappresaglie, cosa che ha spinto Washington a fermare la propria crociata.

Pechino ha incoraggiato le multinazionali statunitensi ad investire in Cina e ad esportare i prodotti negli Stati Uniti. Vista la crescita complessiva cinese, l'ingresso delle corporazioni non ha aumentato il potere americano, ma piuttosto ha fornito alla Cina una lobby a Washington che si è opposta alle misure protezioniste.

La Cina ha fatto poco per vincolare l'espansione oltreoceano degli Stati Uniti, (dal momento che Washington ha un'eccellente attività di autodistruzione) e si è invece preoccupata di rafforzare la propria strategia su base economica di aumento degli investimenti, prendendo in prestito la tecnologia e arricchendo le proprie industrie di alta tecnologia. La Cina, nonostante le pressioni ricevute da Washington, si è rifiutata di appoggiare la sua campagna di sanzioni nei confronti dell'Iran e ha deciso di creare legami commerciali con l'Afghanistan, laddove l'occupazione militare statunitense costa miliardi di dollari e allontana gran parte degli afghani, inclusi i suoi investitori [39]. La Cina ha rifiutato di dare il proprio supporto alla strategia militare di Obama, volta a rafforzare l'impero. Se da un lato, quindi, partecipa agli incontri e alle conferenze bilaterali, dall'altro la strategia cinese è di non fare concessioni che possano mettere a rischio i suoi mercati oltreoceano, senza mettere direttamente a confronto le missioni militari promosse da Obama.

Cosa ancor più singolare, in Asia i paesi in maggior crescita hanno ignorato gli avvertimenti americani circa la "minaccia alla sicurezza" rappresentata dalla Cina e hanno espanso i loro affari e legami economici con il loro vicino. Col tempo l'Asia sta rimpiazzando gli Stati Uniti come il partner d'affari di Pechino con la crescita più rapida. Più di recente, nell'aprile 2010, l'India ha espresso preoccupazione sull'iniquità dei propri scambi con la Cina ed ha intrapreso negoziazioni per aumentare le proprie esportazioni.

Nell'insieme, la strategia imperialista statunitense, volta ad arginare il proprio declino e bloccare la crescita della Cina come potenza mondiale, ha fallito. I politici e i detrattori finanziari della Casa Bianca hanno ignorato le importanti fondamenta su cui è costruito l'impero cinese e la sua capacità di rimediare agli squilibri interni per sostenere l'espansione dinamica.


Le colonne portanti del potere globale

La Cina, come era capitato ad altre potenze globali emergenti, ha tentato - in questo caso con successo e senza l'utilizzo della forza - di porre le basi per un'impero economico sostenibile. La strategia include una complessa miscela di misure adottate dentro e fuori dai confini:

1. Gli investimenti oltroceano, per assicurarsi risorse strategiche, specialmente energia, metalli e cibo [40].

2. Gli investimenti interni di alto livello, per incrementare la capacità manifatturiera, introducendo tecnologia avanzata per migliorare il valore aggiunto e smorzare la propria dipendenza dall'importazione di componenti. Elevati investimenti sono percepiti come necessari per sostenere la competitività nelle esportazioni.

3. Le consistenti spinte a migliorare l'istruzione della forza lavoro, al fine di ottenere la supremazia industriale - con maggior rilievo ad ingegneri, scienziati e manager industriali rispetto a speculatori, banchieri e avvocati. Ad ogni modo, gli sforzi della Cina per promuovere la propria forza lavoro non otterranno successi a meno che non vengano riconosciuti ed integrati quei 200 - 300 milioni di lavoratori emigranti i cui figli sono attualmente esclusi dall'istruzione avanzata nelle principali città del paese [41].

4. Gli investimenti multi miliardari nelle infrastrutture, includendo dozzine di nuovi aeroporti, autostrade ad alto scorrimento e corsi d'acqua a creare collegamenti tra le regioni costiere e l'interno del paese, aumentando la crescita dinamica delle industrie. Tra i risultati, una minore migrazione ai centri di manifattura costieri, che in alcuni casi ha comportato scarsità di lavoro, ma che poi ha anche permesso un aumento significativo dei salari e minori squilibri geografici nello sviluppo dei poli vecchi e nuovi.

5. Mentre il lavoro professionalizzato comincia a prendere il posto di quello non professionalizzato, e mentre la crescita dinamica scala le vette della produzione ad alto valore aggiunto, altrettanto fanno i salari medi e la consapevolezza sociale, consentendo di diminuire la pressione sociale dovuta alle disuguaglianze tra classi.

6. Come risultato delle pressioni sociali, evidenziate in oltre 100.000 proteste locali, scioperi e dimostrazioni all'anno, il governo si è mosso cercando di diminuire le tensioni di classe, e lo ha fatto in parte con investimenti in assistenza sociale e altre spese di natura sociale. La Cina si sta spostando dall'acquisto di buoni del Tesoro statunitensi agli investimenti in sussidi per la sanità e l'istruzione pubblica nelle aree rurali. Riportando lo Stato nello sviluppo sociale, anziché affidarsi al mercato, che ha dimostrato la propria inefficienza, la Cina sta migliorando e ammodernando i processi di produzione nei lavori rurali.

Riassumendo, le colonne portanti della spinta dinamica cinese a diventare una potenza globale risiedono nel ribilanciamento dell'economia, nel miglioramento della propria base produttiva, nell'espansione del mercato interno, nel perseguire la crescita e la stabilità sociale e nel massimizzare l'accesso agli articoli essenziali alla produzione.


La versione cinese del "ribilanciamento" dell'economia: nuove contraddizioni

Il ribilanciamento cinese dell'economia interna è stato accompagnato da una trasformazione delle rapporti economici con gli Stati Uniti. Visto l'atteggiamento apertamente ostile adottato dai leader del Congresso e vista la condizione stagnante del mercato americano, la Cina ha aumentato i propri affari ed investimenti con l'Asia, in modo da diminuire la propria idpendenza dal mercato statunitense e con essa il rischio di dover affrontare la morsa protezionista [42]. Sebbene la Cina sia ancora un "creditore" per gli Stati Uniti, sta spostando i propri investimenti in affari più produttivi (e lucrativi). Non tutte le speculazioni cinesi oltreoceano sono state un successo, si vedano ad esempio alcuni uomini d'affari "istruiti in occidente", che hanno perso svariati miliardi di dollari investendo nel gruppo Blackstone o simili.

Il "ribilanciamento della crescita" cinese ottenuto attraverso il rafforzamento delle fondamenta per successive espansioni, deve affrontare rischi maggiori provenienti dall'interno che non dall'esterno. Entro i confini cinesi, svariati cambiamenti nella struttura sociale possono mettere in pericolo la stabilità del sistema, così come è successo per altre potenze affermate. La spinta verso un'espansione oltreoceano ha dato vita ad una parte della nuova classe dirigente pubblico-privato che ignora la necessità di sviluppare un mercato interno, specialmente per quello che riguarda gli investimenti nello sviluppo sociale. In secondo luogo, l'intera classe dirigente e l'élite al governo, se da un lato appoggiano formalmente il bisogno di migliorare le condizioni di lavoro, costruendo una rete di sicurezza sociale nelle aree rurali ed estendendo il diritto alla salute e all'istruzione agli emigranti, dall'altro si rifiutano di aumentare le proprie tasse, si oppongono a qualunque politica di redistribuzione e difendono i propri privilegi di famiglia creando le condizioni affinché si intensifichino le tensioni e i conflitti di classe.

Altrettanto deleterio per il futuro delle fondamenta dell'espensione cinese è l'emergere di una classe di speculatori particolarmente influente, soprattutto nel campo immobiliare, bancario e in quell'élite politica locale che favorisce le bolle economiche, che a loro volta minacciano l'intero sistema finanziario [43]. Mentre il regime, nonostante il controllo sulla politica monetaria e sul sistema finanziaro, adotta strategie per "sgonfiare" la bolla, non fa nulla dal punto di vista strutturale che possa insidiare questo settore o la classe dirigente. Inoltre, la speculazione nell'ambito immobiliare aumenta il costo delle case oltre le possibilità di gran parte dei lavoratori, e allo stesso tempo i prezzi gonfiati delle terre permettono l'espropriazione arbitraria dei proprietari da ufficiali locali e regionali legati agli speculatori edilizi, alimentando agitazioni di massa e in alcuni casi violente proteste.

La crescita delle importazioni, degli speculatori finanziari e di coloro che diventano miliardari grazie ad investimenti immobiliari potrebbe garantire un'apertura per il settore principale dell'impero statunitense: la classe dirigente finanziaria, immobiliare e delle assicurazioni. Fino ad ora le ripetute crisi ed instabilità indotte da questi settori nei periodi 1990 - 2001, 2000 - 2002, 2007 - 2010, hanno messo in pericolo la loro abilità di infiltrarsi nell'economia cinese.

Vista la continua crescita della Cina, particolarmente evidente oggi, con un +9% nel 2009 e un +12% nel 2010, mentre gli USA rantolavano attorno ad una crescita zero, chi ha di più da perdere se e quando Washington deciderà di innescare una guerra commerciale?


Confronto esterno sulla riorganizzazione interna: con gli USA ?

Gli Stati Uniti ha contratto debiti con almeno 91 paesi oltre alla Cina, a dimostrazione del fatto che il problema risiede nella struttura dell'economia statunitense. Qualunque misura punitiva per limitare le esportazioni cinesi negli USA non farebbero altro che aumentare i debiti con altri esportatori concorrenti. Una diminuzione delle importazioni statunitensi dalla Cina non risulterebbero in un aumento della manifattura americana, a causa della natura sottocapitalizzata di quest'ultima, direttamente legata alla posizione dominante del capitale finanziario nel trovare e nel ridistrubuire i risparmi. Inoltre, "terzi" paesi potrebbero ri-esportare prodotti fabbricati in Cina, mettendo gli Stati Uniti nella non invidiabile posizione di dover ingaggiare una guerra commerciale con chiunque oppure ammettere il fatto che un'economia basata sulla finanza, al giorno d'oggi, non è competitiva.

La decisione della Cina di trasferire sempre di più il proprio surplus dagli acquisti in buoni del Tesoro statunitense in investimenti più produttivi, come ad esempio lo sviluppo del proprio "hinterland" o speculazioni strategiche oltreoceano in materie prime e nel settore energetico, potrebbero forzare il Ministro del Tesoro americano ad aumentare i tassi d'interesse per impedire una massiccia fuga dal dollaro. Tassi d'interessi in aumento potrebbero giovare ai commercianti, ma potrebbero anche affievolire qualunque possibilità di recupero o addirittura far affondare il paese di nuovo nella depressione. Nulla indebolisce un impero globale più del fatto di fover rimpatriare gli investimenti oltreoceano e vincolare i prestiti stranieri al sostentamento di un'economia interna in continuo riassetto.

Il perseguimento delle politiche protezioniste avrebbe un impatto maggiormente negativo sulle multinazionali americane in Cina, poiché la maggior parte dei loro prodotti viene esportata nel mercato statunitense: Washington si darebbe la zappa sui piedi. Non solo, una guerra commerciale potrebbe espandersi ed influenzare negativamente il mercato automobilistico degli Stati Uniti. General Motors e Ford fanno molti più affari in Cina che negli USA, dove stanno andando pesantemente in rosso [44]. Una guerra commerciale da parte degli Stati Uniti avrebbe un impatto inizialmente negativo sulla Cina, fino a che questa non riuscisse a rimettersi in sella, traendo vantaggio dai potenziali 400 milioni di consumatori nelle regioni più interne del paese. Non solo, gli economisti cinesi stanno rapidamente diversificando gli scambi con l'Asia, l'America Latina, l'Africa, il Medio Oriente, la Russia, e anche con l'Unione Europea. Il protezionismo potrebbe creare qualche posto di lavoro negli Stati Uniti in alcuni settori manifatturieri non competitivi, ma costerebbe molti più posti di lavoro nel settore commerciale (Wal Mart), che dipende dagli articoli a basso prezzo per i consumatori con scarse possibilità economiche.

La retorica commerciale bellicosa sul Campidoglio e sulle politiche di contrasto diretto adottate dalla Casa Bianca è un atteggiamento pericoloso, pensato per deviare l'attenzione dalle debolezze profonde e strutturali delle basi su cui è fondato l'impero. Il settore finanziario pesantemente arroccato e l'altrettanto dominante metafisica militare, che impartisce ordini alla politica estera, hanno portato gli Stati Uniti lungo il ripido pendio delle crisi economoche croniche, delle costose guerre senza fine, delle disuguaglianze di classe ed etico-raziali sempre più profonde, così come del declino degli standard di vita.

Nel nuovo ordine mondiale competitivo multi-polare, gli USA non riescono a seguire con successo la tattica di ostacolare una potenza imperialista emergente bloccandole l'accesso a risorse strategiche attraverso boicottaggi coloniali. La Casa Bianca non riesce a fermare la Cina con i suoi investimenti lucrativi e gli accordi commericali nemmeno nei paesi sotto occupazione americana, come l'Iraq e l'Afghanistan. Per quanto riguarda i paesi sotto la sfera d'influenza americana, come il Taiwan, la Corea del Sud e il Giappone, il tasso di crescita degli scambi e degli investimenti con la Cina supera già di gran lunga quelli statunitensi. Tanto meno si può sperare da un assedio militare unilaterale, quindi gli Stati Uniti sembrano destinati a non poter contenere l'avanzata cinese come protagonista dell'economia mondiale, come potenza imperialista di recente affermazione.

La principale debolezza della Cina è al suo interno, nelle radicate divisioni di classe e nello sfruttamento di alcuni ceti, che l'attuale elite politica, profondamente legata da vincoli economici e familiari, potrà migliorare ma non eliminare [45]. Per ora la Cina è stata in grado di espandersi a livello globale attraverso una forma di "imperialismo sociale", distribuendo una parte delle ricchezze prodotte all'estero ad un ceto medio urbano in crescita e a manager, professionisti, speculatori immobiliari e membri dei partiti regionali.

Al contrario, le conquiste militari oltreoceano degli Stati Uniti sono state costose e senza alcun ritorno economico, ma anzi, con danni a lungo termine all'economia civile, sia nelle sue manifestazioni interne che in quelle esterne. L'Iraq e l'Afghanistan non contribuiscono all'erario se si confronta con quanto è stato depredato dall'Inghilterra in India, Sud Africa e Rhodesia (Zimbabwe). In un mondo sempre più basato sui rapporti commerciali, le guerre coloniali non hanno futuro economico. Immensi budget militari e centinaia di basi, alleanze con stati neo-coloniali sono gli ultimi strumenti con i quali è possibile competere in un mercato globale. Questa è la ragione per cui gli Stati Uniti sono un impero in declino e la Cina, con il suo approccio di tipo commerciale, è un impero emergente con una "nuova modalità" (sui generis).


Transizione da impero a repubblica?

Di fronte all'evidente declino economico statunitense, la classe dirigente può ammettere che questo impero non è sostenibile? Gli Stati Uniti potrebbero aumentare le proprie esportazioni in Cina e la propria quota di scambi mondiali per bilanciare i conti solo se decidessero di portare avanti profondi cambiamenti politici ed economici.

Nulla all'infuori di una rivoluzione politica ed economica può ribaltare il declino degli Stati Uniti. La cosa fondamentale √® dare un nuovo assetto all'economia statunitense, passando da basi finanziarie ad altre industriali, ma un cambiamento di questa portata richiede un maggior benessere sociale, anzichè un potere arroccato tra Wall Street e Washington [46]. Quello che passa per l'attuale settore manifatturiero americano non dimostra alcuna spinta per un cambiamento così¨ storico. Al momento gli industriali hanno permesso l'acquisito quote o addirittura il rilevamento da parte di istituzioni finanziarie: hanno perso la loro caratteristica distintica come settore produttivo.

Anche assumendo che ci sia un cambiamento politico verso una nuova industrializzazione degli Stati Uniti, l'indistria dovrebbe abbassare i propri profitti, aumentare gli investimenti in ricerca applicata e sviluppo, e migliorare in modo significativo la qualità dei propri prodotti per diventare competitiva nei mercati interni ed esteri. Occorrerebbe ricollocare enormi somme ora impegnate in guerre, "marketing" e speculazioni, dedicandole a servizi sociali, quali piani di unificazione nazionale della sanità, ingegneria di alto livello e formazione professionale industriale avanzata, solo in questo modo si potrebbe aumentare l'efficienza e la competitività del mercato interno.

Il trasferimento di un bilione di dollari in spese militari per guerre coloniali potrebbe facilmente finanziare settori dell'economia come la produzione di beni di qualità per il consumo locale ed oltreoceano, includendo la riduzione di componenti tossiche nelle merci e nelle materie prime, oltre alle sorgenti energetiche dannose per l'ambiente.

Ricollocando il denaro speso nelle basi militari si potrebbe aumentarne l'afflusso e ridurne il deflusso all'estero. Ponendo fine ai legami politici e ai sussidi plurimiliardari agli stati militarizzati come Israele e abolendo le sanzioni sui principali mercati economici, come quello dell'Iran, si potrebbe diminuire lo sperpero di soldi dalle casse degli Stati Uniti e aumentarne l'ingresso, oltre alle opportunità per il settore produttivo da un capo all'altro del mondo musulmano, che conta circa 1.5 miliardi di persone.

Concentrando gli investimenti interni ed oltreoceano sui mercati in crescita dell'energia pulita e della tecnologia si creerebbero nuovi posti di lavoro e si abbasserebbero i costi di vita, migliorandone peraltro gli standard. Tasse di confisca per milionari/miliardari, specialmente per l'intera elite di Wall Street, e limiti superiori di tasso su tutte le entrate oltre il milione di dollari potrebbero finanziare la sicurezza sociale e un sistema sanitario pubblico su base nazionale, che ridurrebbe le spese sia all'industria che allo stato. Il passaggio da impero a repubblica richiede un totale riassetto del potere sociale, e una vasta ristrutturazione dell'economia. Solo allora gli Stati Uniti sarebbero in grado di competere economicamente con la Cina.

Un cambiamento da potenza imperialista militare, corrosa da un'elite politica corrotta e vincolata ad un'élite economica parassita e speculatrice, ad una repubblica produttiva con un'economia equilibrata e competitiva richiede cambiamenti politici fondamentali e una rivoluzione ideologica profonda. Per innescare questo riassetto politico ed economico occorre una nuova configurazione dello stato che persegua investimenti pubblici creando industrie competitive, che intensifichi il mercato interno ed aumenti i servizi sociali.

Per espandere i mercati esteri, Washington deve dare un taglio ai boicottaggi e al servilismo militare verso Israele, tanto propagandato dalla quinta colonna pro-isreliana radicata nelle più importanti istituzioni finanziarie e politiche, che hanno il pieno controllo dell'assemblea legislativa [47].

Porre fine alla costruzione di un impero su basi militari permetterebbe di dare il via ai finanziamenti pubblici per innovazioni tecnologiche civili; eliminando le restrizioni sulle vendite di articoli tecnologici all'estero si potrebbe ridurre il deficit di scambi, migliorando la produzione locale e i livelli di competitività.

Per un'accelerazione maggiore è necessario un confronto faccia a faccia tra gli ideologi del capitale finanziario e un rifiuto deciso di qualunque loro sforzo nel dirottare l'attenzione dal loro ruolo nella distruzione dell'America. La campagna di "biasimo" per la Cina, per ciò che in realtà è stato causato da squilibri strutturali interni agli USA, deve essere affrontato prima che ci porti ad una nuova, costosa ed autodistruttiva guerra commerciale, se non peggio.

Gli "squilibri" interni della Cina sono profondi e diffusi, pillarse col tempo possono indebolire le basi dell'espansione verso l'esterno. Le disuguaglianze di classe, lo sviluppo regional non uniforme, la corruzione della sanità pubblica e privata e i trattamenti discriminatori nei confronti degli emigranti, trattati come cittadini di serie B (un sistema di cittadinanza a due facce) saranno risolti internamente nonappena le divisioni socio-economiche si trasformeranno in lotta di classe. Cambiamenti radicali del sistema sanitario privatizzato in un sistema pubblico e nazionale sono essenziali, ma tali cambiamenti richiedono la ripresa della lotta di classe contro interessi acquisiti, sia statali che privati [48].


Conclusioni

Come già successo nel passato, una potenza imperialista che deve affrontare profondi squilibri interni, perdita di competitività nel mercato e un'eccessiva dipendenza dalle attività finanziarie va in cerca di retribuzioni politiche, alleanze militari e restrizioni commerciali che possano rallentare il proprio crollo [49]. La propaganda, che fa leva su sentimenti sciovinisti utilizzando come capro espiatorio uno stato imperialista emergente e modellando le alleanze militari per "circondare" la Cina, non hanno avuto alcun impatto. Non hanno fermato i paesi geograficamente vicini alla Cina dal rafforzare i legami economici. Non c'è alcuna speranza che questo dato cambi nell'immediato futuro. La Cina continuerà a crescere con tassi a due cirfe. L'impero statunitense continuerà ad essere impantanato in una condizione di torpore cronico, nelle sue guerre senza fine, farà sempre più affidamento sulle potenzialità della sovversione politica, promuovendo i regimi separatisti che - prevedibilmente - collasseranno o verranno abbattuti. Gli Stati Uniti, a differenza delle potenze coloniali affermate del passato, non possono negare alla Cina l'accesso alle materie prime, come si è visto nel caso del Giappone. Viviamo in un mondo post-coloniale, dove la maggior parte dei regimi fa affari e investe denaro con chiunque paghi i prezzi di mercato. La Cina, a differenza del Giappone, dipende dalla salvaguardia dei mercati attraverso la competitività economica - potere di mercato - non dalla conquista militare. A differenza del Giappone, ha una forza lavoro consistente; non ha bisogno di conquistare e sfruttare lavoratori di paesi stranieri
La costruzione dell'impero cinese, basata sull'economia, è in sintonia con i tempi moderni, guidata da un'elite libera di creare legami senza rendere conto a nessuno, mentre gli Stati Uniti sono afflitti dagli speculatori finanziari, che hanno corroso ed eroso l'economia, devastanto i complessi industriali e trasformando case abbandonate in enormi parcheggi.

Se è vero che l'elite imperialista statunitense è in perdita e quindi non è in grado di contenere l'ascesa cinese a potenza mondiale, √® altrettanto vero che anche la classe lavoratrice americana è in perdita e non può quindi sostenere il passaggio da impero militare a repubblica produttiva. La caduta economica e le elite politice e sociali hanno depoliticizzato il malcontento; le crisi economiche sistemiche sono state trasformate in malattie individuali e private. A lungo termine, qualcosa dovrà rompersi; il militarismo e il potere sionista salasseranno e isoleranno gli Stati Uniti, che si troveranno a dover reagire con violenza... Più tempo passerà, più sarà violenta la rinascita della repubblica. Gli imperi non si spengono pacificamente, nè tantomeno le elite finanziarie, immerse in una condizione di straordinario benessere e potere, abbandoneranno le loro posizioni di privilegio senza opporre resistenza. Solo il tempo ci dirò quanto resisterà il popolo americano all'espropriazione delle case, allo schiavismo dei datori di lavoro, alla colonizzazione della quinta colonna e al declino interno di un impero costruito su basi militari.


FINE

di James Petras
Fonte: www.globalresearch.ca