18 settembre 2010

11 settembre: il bluff del Pentagono

Il Pentagono rilasciò nel maggio 2006 ai principali mass media, un filmato delle telecamere di sicurezza del ministero della Difesa Usa, che avrebbe dovuto dimostrare l’esistenza dell’aereo che colpì l’11 settembre del 2001 l’edificio.
Intenzione, dissipare i dubbi su quanto avvenne quel giorno. In realtà non si vede nulla, ovvero le immagini riprese da una telecamera di sorveglianza dell’edificio mostrano che qualcosa va verso l’edificio e poi vi è una forte esplosione, ma la sagoma non è certamente quella di un grosso Boeing 757-200. Nessuna prova quindi a sostegno della tesi Usa che sia stato un aereo commerciale dirottato a colpire il Pentagono. Nessuna parte dell’aereo è stata mai ritrovata o mostrata in pubblico, anche sei il capo progetto restauro del Pentagono, Lee Evy dichiarò che “vi erano considerevoli prove dell’aereo all’esterno dell’edificio”. Vigili del Fuoco, ufficiali della Difesa, nessuno di loro ha mai visto un solo pezzo di fusoliera, tranne Donald Rumsfeld, segretario alla Difesa. Qualcosa però è esplosa nel colpire l’edificio, molto probabilmente un missile, sia per la dinamica dell’esplosione, sia per i danni provocati dall’impatto (basta osservare il buco nel quale è penetrato il sedicente apparecchio per accorgersi che è di appena 5-6 metri di larghezza, proseguendo poi la sua corsa attraverso altri 3 edifici del ministero, con un angolo di 45°, forando i palazzi da parte a parte e non sfondandoli come presumibilmente avrebbe fatto un grosso aereo passeggeri. Il testimone Steve Patterson dice di aver visto “un oggetto metallizzato passare… con un rumore simile a quello emesso da un caccia militare… per poi dirigersi verso il Pentagono”. Anche Tom Seibert, ingegnere che lavora al ministero della Difesa Usa afferma di aver sentito un rumore simile a quello di un missile e di avere poi udito una forte esplosione.
La tesi “ufficiale” Usa continua a sostenere che se tracce non sono state trovate è perché “l’aereo si sarebbe polverizzato, fuso e quindi pressoché sparito in un nube di calore”.
Così come ha dell’incredibile sostenere che il muso dell’aereo, fatto di materiale non certamente adatto da fungere come ariete, abbia sfondato vari muri perimetrali degli edifici. L’ipotesi più probabile è che si sia trattato di un missile “cruise”, che possono essere lanciati da unità di superficie e sottomarine o aeree. Hanno un preciso sistema di guida che gli consente di riconoscere la rotta immagazzinata nel computer di bordo, confrontandola con il terreno sottostante. A conferma del fatto che l’esplosione sia dovuta ad un missile, la testimonianza di Pierre Henri Bunel, ex ufficiale francese d’artiglieria, proveniente dalla famosa accademia militare di Saint-Cyr, esperto in esplosivi, effetti delle granate d’artiglieria su cose e persone e lotta antincendio contro le fiamme generate dalle granate.
Le argomentazioni portate dall’ex ufficiale dell’Armée iniziano con una precisa distinzione tra i due tipi classici d’esplosione: la deflagrazione e la detonazione. Questo perché è proprio partendo da qui e osservando le foto dell’esplosione ed i suoi danni, che si può cominciare a parlare con una certa sicurezza di un missile.
Gli esplosivi provocano un onda d’urto notevolissima, con relativi danni collaterali, i deflagranti di molto inferiore o addirittura niente. Orbene il carburante di un aereo civile, il kerosene in caso d’incidente può solo deflagrare…Inoltre anche i colori dell’esplosione sono diversi, nel primo caso giallo pallido che diviene arancione e rosso a mano a mano che ci si allontana dal punto dell’esplosione. Nel secondo caso il fumo sarà particolarmente nero, denso, quasi grasso mescolato alle fiamme.
Altro particolare interessante, i primi mezzi dei pompieri intervenuti utilizzano camion con serbatoi pieni d’acqua e non di liquido specifico che serve per combattere gli incendi con idrocarburi. L’acqua viene utilizzata proprio in quegli incendi di tipo urbano che necessitano di un rapido raffreddamento dei caseggiati, per poter poi operare meglio da parte delle squadre di pompieri. Si vedono chiaramente le fiamme ed il fumo di un classico incendio urbano.
Non vi sono poi tracce dense di oli combusti sulle pareti esterne e nell’interno dell’edificio colpito.
Ma Henry Brunel si spinge oltre e arriva alla conclusione che i fori nei muri, sono senza ombra di dubbio stati provocati da cariche cave… Queste cariche sono state studiate per perforare le corazze dei mezzi blindati ed i numerosi strati delle fortificazioni in cemento. Esse, grazie al loro dardo infuocato riescono a trapassare diversi strati di muro in cemento armato e quindi non ha avuto difficoltà alcuna ad oltrepassare addirittura tre edifici del pentagono, poi una volta all’interno esplode la carica vera e propria.
Ma se non è stato l’aereo del volo 77 dell’American Airlines a colpire il Pentagono, dove è finito il vero aereo con tutti i suoi passeggeri?
La mattina dell’11 settembre 2001, quando alle 8,55 l’aereo della American Airlines sparisce dai radar della FAA - l’ente federale che controlla i voli civili negli Stati Uniti - e circa alle 9,37 il Pentagono viene colpito da un ordigno (aereo-elicottero-missile?). Subito viene associata alla sparizione dell’aereo della AA, all’attacco che ha subito la sede delle difesa Usa.
Le prime notizie, dicono che alle 8,55 l’aereo ha spendo il “trasponder” di bordo (sistema che permette di rilevare da terra attraverso il radar i dati dell’aereo, quota, matricola ecc, rendendosi praticamente invisibile. La cosa è strana perché lo spegnimento del trasponder non fa altro che attirare l’attenzione sull’aereo da parte del sistema di difesa americano che ha sede nel Colorado, il Norad - Nord America Aereospace Defense Command - (http://airforce.dnd.ca/athomedocs/athomelef.htm) in meno di due minuti la sparizione viene segnalata come minaccia e si levano in volo i caccia. In pratica i presunti dirottatori avrebbero commesso una madornale ingenuità, facendo subito scattare le misure d’intercettazione dell’Usaf. A quel punto solo i radar militari potevano seguire il volo dell’aereo “scomparso” avendo a disposizione un sistema di rilevamento che non necessita del trasponder, come quelli civili della FAA, detti secondari (solo in alcune zone anche la FFA possiede radar in grado di rilevare aerei privi di trasponder).
Quindi le notizie diramate da questo momento sono solo di fonte militare: perché spegnere il trasponder così presto e così lontano dall’ipotetico obiettivo? Per renderlo forse solo invisibile ai radar civili, ma visibilissimo a quelli militari? Si sa solo da fonte civile l’ora del decollo dall’aeroporto Dulles di Washington di un aereo della AA con destinazione Los Angeles.
Il pilota ha contattato la torre di controllo l’ultima volta alle 8,50, poi da quel momento si perde il controllo dell’aereo, che avrebbe percorso circa 1000 km, per poi tornare indietro e colpire il Pentagono… secondo le fonti “ufficiali militari”.
Da allora la guerra “americana” contro Afghanistan, Iraq e forse domani Iran si è dispiegata in tutta la sua forza, foraggiata dalle menzogna artatamente costruite dal governo statunitense e dalla vile complicità degli “alleati” europei.
di Federico Dal Cortivo

17 settembre 2010

Il ritorno del terribile giocattolaio


Chi possiede un po’ di familiarità con i retroscena degli attacchi dell’11 settembre 2001, saprà sicuramente chi è Dominik Suter. Si trattava del titolare dell’azienda di trasporti newyorchese nota come Urban Moving System, in realtà un’attività di copertura del Mossad israeliano, di cui Suter era un agente. I famosi “cinque israeliani danzanti”, che ballavano di gioia e si davano il cinque mentre filmavano gli edifici del WTC che crollavano al suolo, erano altrettante spie israeliane e furono arrestati dalla polizia newyorchese proprio accanto ad uno dei furgoncini della Urban Moving System di cui erano alle dipendenze. Uno dei cinque aveva con sé 4.700 dollari in contanti. Un altro aveva due passaporti esteri. All’interno del furgone venne trovato uno dei “taglierini” che i fantomatici 19 terroristi avrebbero utilizzato per dirottare gli aerei.

Si sospetta fortemente che i furgoncini della UMS siano stati utilizzati, fra le altre cose, per trasportare l’esplosivo destinato a minare i tre grattacieli demoliti l’11/9. Com’è noto, le cinque spie del Mossad arrestate (Sivan e Paul Kurzberg, Yaron Shmuel, Oded Ellner e Omer Marmari, tutti tra i 22 e i 27 anni di età), vennero rispedite in Israele dopo appena dieci settimane, grazie all’interessamento dell’allora capo della Homeland Security americana Michael Chertoff, anche lui cittadino israeliano (sua madre era stata tra i membri fondatori del Mossad). Tre dei “cinque israeliani danzanti” (Shmuel, Ellner e Marmari) comparvero in seguito anche alla tv israeliana, dichiarando che la loro missione era “semplicemente” quella di documentare l’evento. Non spiegarono però perché tale documentazione producesse in loro tanto sollazzo.

Non si trattò, peraltro, delle uniche spie israeliane arrestate su suolo americano a ridosso dell’11/9. Stando a quanto sostiene Fox News, nei mesi precedenti la data degli attacchi furono arrestati almeno 140 israeliani sospettati di essere coinvolti in operazioni di spionaggio; altri 60 vennero arrestati dopo l’11/9. Tutto questo fa pensare, ovviamente, che negli Stati Uniti fosse in preparazione un’operazione di intelligence del Mossad di assai ampie proporzioni, strettamente connessa agli eventi dell’11/9.

Due giorni dopo l’arresto delle cinque spie, Dominik Suter fuggì precipitosamente in Israele, sotto il naso degli agenti dell’FBI, intenti a sequestrare computer e scatole di documenti nella sede centrale della UMS a Weehawken, in New Jersey. Quando tre mesi dopo i cameramen del programma 20/20 della ABC arrivarono per filmare gli uffici dell’azienda, il personale sembrava essere fuggito via in fretta e furia. “Sembrava che l’azienda fosse stata chiusa in gran fretta”, si legge sul sito della ABC, “c’erano telefoni cellulari sparsi dappertutto; le linee telefoniche dell’azienda erano ancora operative e gli oggetti di proprietà di dozzine di clienti erano ammassati in magazzino”.

Fin qui i fatti che sono noti più o meno a tutti. Pochi sanno però che la Urban Moving System non era l’unica attività di copertura del Mossad in cui Suter fosse coinvolto. Suter è registrato anche come agente di un’altra compagnia, la Gould Street Corporation. Per gestire questa seconda attività, Suter risultava titolare di un ufficio situato al n. 73-75 di Gould Street a Bajonne, in New Jersey.

Dando un’occhiata con Google Earth, si può notare che al 73-75 di Gould Street hanno sede alcuni grossi capannoni:

All’interno di questi capannoni, si trovava il deposito merce di un’altra azienda, la E & W River Corporation, con sede al n. 73 di Gould Street. Questa azienda risulta concessionaria della vendita dello Zoom Copter (foto in alto), che dovrebbe essere un’altra vecchia conoscenza degli studiosi dell’11/9. Lo Zoom Copter era un giocattolo che veniva venduto, nei giorni precedenti all’11/9, in piccoli chioschi sparsi nei centri commerciali degli Stati Uniti. Secondo quanto riportato da Fox News, vi erano “migliaia” di questi punti vendita, tutti gestiti da sedicenti “studenti d’arte” israeliani (la maggior parte dei quali era priva di permesso di soggiorno). Come riferito dalla Fox, gli “studenti d’arte” non erano altro che agenti del Mossad israeliano operanti su suolo americano, probabilmente per preparare la grande e sanguinosa messinscena dell’11/9, e utilizzavano la vendita di giocattoli e dipinti come ennesima copertura per le loro attività di spionaggio. Questa massiccia presenza di cittadini israeliani in territorio americano fra il 2000 e il 2001 aveva insospettito la DEA, l’agenzia antidroga statunitense, che aveva iniziato ad indagare sulle piccole rivendite di giocattoli, sospettando un’operazione dell’intelligence israeliano; ma gli agenti della DEA erano stati fermati pochi mesi prima dell’11/9 dal Procuratore Generale John Ashcroft (altro fanatico cristiano-sionista legato a gruppi radicali come Stand for Israel; il suo Ashcroft Group lavora oggi per la IAI, l’industria aerospaziale israeliana) e dal direttore dell’FBI, Louis Freeh.

Dominic Suter era dunque il “trait d’union”, l’elemento unificante di due di queste attività di copertura: la Urban Moving System e la vendita degli elicotteri giocattolo.

La cosa preoccupante è che, stando a quanto riferisce Wayne Madsen in questo articolo, negli USA si starebbe verificando in questi giorni una reviviscenza dell’invasione degli “studenti d’arte” israeliani, proprio come avvenuto fra il 2000 e il 2001. La Transportation Security Administration (TSA) riferisce che alcuni di questi “studenti” avrebbero iniziato a battere la zona di Brea, in California, per vendere porta a porta dipinti e articoli di vario genere. Anche nella zona di Atlanta alcuni stranieri, la cui descrizione corrisponde a quella di cittadini israeliani, avrebbero iniziato a contattare telefonicamente e di persona le famiglie del luogo chiedendo la possibilità di ospitare studenti israeliani presso le loro abitazioni per uno “scambio alla pari”. In vari centri commerciali degli Stati Uniti sono poi comparsi piccoli chioschi, gestiti da israeliani, che vendono cosmetici ricavati da “sali del Mar Morto con tecniche piuttosto “aggressive” e che sono improvvisamente spariti dopo le segnalazioni arrivate alle autorità da parte di alcuni cittadini. Uno dei centri commerciali in cui tali attività sono state segnalate è il Coronado Mall di Albuquerque, in New Mexico, non lontano dalle base aerea di Kirtland, che ospita uno dei più importanti centri di stoccaggio delle armi nucleari degli Stati uniti. I sospetti che l’intelligence israeliana sia al lavoro per realizzare una seconda (e più grave) operazione false-flag come quella dell’11/9 sono dunque giustificati, soprattutto alla luce della recente accelerazione delle ostilità israeliane verso l’Iran, cui gli Stati Uniti – senza una nuova catastrofe da addossare questa volta alla Repubblica Islamica – difficilmente sarebbero disposti a prestare supporto militare.
di Gianluca Freda

16 settembre 2010

Ecco la strategia dei grandi player di Long Island



Prima che leggiate questo articolo, è meglio premettere qualcosa: sono liberale, liberista e mercatista convinto. Ritengo la speculazione, nella maggior parte dei casi, utile al buon funzionamento dei mercati, una sorta di «pesce spazzino» degli acquari: evita la creazione sistematica di bolle (o ne facilita l'esplosione prima che le dimensioni divengano ingestibili), attacca azioni sopravvalutate riportandole a valori accettabili (o affossandole, Enron è il caso più eclatante), smaschera i bilanci allegri di aziende che capitalizzano come multinazionali pur basandosi su debiti e scatole cinesi. Detto questo, c'è speculazione e speculazione. Quando questa diventa non sistematica ma addirittura strategica per finalità non solo di lucro ma addirittura di re-indirizzamento dei sistemi, politici ed economici, allora si passa alla categoria delle consorterie, dei grand commis.

E' quello che sta accadendo negli Usa. Non amo Barack Obama e ritengo le sue ultime scelte sbagliate o comunque tiepide rispetto alla difficoltà del momento ma qualcuno, molto potente, non si sta limitando ai giudizi e alle critiche: sta agendo per sabotare, attraverso i mercati, lo status quo. Al mondo, si sa, ci sono circoli molto influenti: l'Aspen Institute, il Council for Foreign Affairs, la Trilaterale, il gruppo Bilderberg. Ma ci sono altri simposi, altrettanto potenti, che non si danno né nomi né denominazioni: peccato che, a conti fatti, decidano per tutti noi. O quasi. Da venticinque anni a questa parte il leggendario stratega di Wall Street, Byron Wien, ora con il Blackstone Group, organizza un summit estivo con i principali player statunitensi per parlare di economia globale e investimenti.

Quest'anno non è stato diverso dagli altri, poche settimane fa una cinquantina di persone, tra cui dieci miliardari, si sono seduti attorno al tavolo imbandito da Wien e hanno fornito una indicazione netta sul futuro: Obama non va, la situazione economica è «gloomy» (fosca, ndr), occorre un cambio di marcia. «La visione generale è di un quadro di crescita molto lenta nel lungo termine, con un rischio reale di recessione», ha riassunto Wien in un report per gli investitori di Blackstone, secondo cui «l'amministrazione Obama è vista come ostile al business e in grado di scoraggiare sia gli investimenti che la creazione di nuovi posti di lavoro. La compagnie e gli imprenditori sono riluttanti nell'assumere nuovi lavoratori perché non riescono a calcolare con precisioni i costi dell'assicurazione sanitaria voluta dalla rivoluzione obamiana e temono un aumento della pressione fiscale».

I nomi dei partecipanti al summit sono segretissimi ma negli scorsi anni al pranzo organizzato a Long Island hanno sempre partecipato George Soros, Julian Roberson e James Chanos: ovvero, veri e propri pezzi da novanta. Esattamente come il padrone di casa, le cui «Dieci sorprese» erano diventate una lettura obbligata a Wall Street quando lavorava per Morgan Stanley. «Il pessimismo economico da parte dei più abbienti è perfettamente giustificabile, visto che fin dall'inizio della campagna elettorale del 2008 sono stati dipinti come dei villani dal Partito Democratico: anche se sembra che il vento politico stia cambiando, un vero cambiamento è lontano mesi, se non anni», ha dichiarato al riguardo Jim Iuorio della TJM Institutional Services.

Per Wien, «solo pochissimi dei presenti hanno dato possibilità all'indice Standard&Poor's di raggiungere i 1200 punti l'anno prossimo». E quindi, dove investono i grandi player? Shortano in patria e in Europa e si lanciano sui seguenti segmenti: «Immobili con destinazione d'uso business, terre a destinazione agricola e Africa», queste le tre parole che Wien ha reso noto ai suoi investitori: insomma, scelte non proprio da «regular investors» ma da strateghi. Esattamente come George Soros, l'unico che al pranzo rituale del 2007 parlava a chiare lettere di recessione e mercato dell'orso: aveva ragione lui. Quest'anno, invece, la visione che abbiamo descritto prima è stata condivisa praticamente all'unanimità: «Nessuno, finito il pranzo, è corso a piazzare un ordine», ha chiosato sornione Wien.

Il problema è che quanto deciso da Long Island non è il futuro, è già il presente. La scorsa settimana, infatti, la Banca Mondiale ha avuto il buon cuore di pubblicare il report che si aspettava da mesi e dal quale si desume che gli acquisti di terreni nelle nazioni in via di sviluppo sono aumentati fino a quota 45 milioni di ettari nel 2009, un salto di dieci punti dai livelli dello scorso decennio. Due terzi, nemmeno a dirlo, si sono registrati in Africa, dove le difese delle istituzioni a scalate e acquisizioni sono più deboli o inesistenti a causa anche della corruzione dilagante. E non si tratta, come si potrebbe pensare, di fondi sovrani del Medio Oriente o della Cina ma anche di fondi occidentali - molti dei quali quotati all'AIM di Londra -, decisi come non mai a battere la concorrenza asiatica verso la nuova frontiera: ovvero, il controllo del suolo su cui scommettere «long» dopo aver shortato i subprime statunitensi.

«Le terre agricole produttive sono la scommessa di profitto del futuro, ci ho piazzato sopra un grosso stock di liquidità», ha dichiarato Michael Burry, star di «The Big Short». Ovviamente, non tutti i paesi hanno accettato di buon grado questa colonizzazione finanziaria: il Brasile, ad esempio, ha posto un limite per acro alle acquisizione estere di terreni, soprattutto nel Mato Grosso e in Amazzonia. «Le terre brasiliane devono restare ai brasiliani», ha dichiarato Guillherme Cassel, ministro dell'Agricoltura brasiliano in una sorta di deja vù emergenziale delle politica adottata negli anni Settanta dal regime militare per congelare gli acquisti esteri. Poco, però, per far desistere gente come SinoLatin Capital, Goldman Sachs, Harvest Capital o Berkshire Hathaway, la quale vede infatti il suo boss, Warren Buffett, in fase di esplorazione di una venture da 400 milioni di dollari nel business di soia e zucchero con un partner brasiliano (una sorta di prestanome di lusso per aggirare le nuove norme).

L'Argentina sta pensando a una mossa simile a quella dei vicini brasiliani visto che già il 7 per cento del suo territorio è in mano straniere, a partire dai 900mila ettari di proprietà dei Benetton in Patagonia fino alle holdings di George Soros, il filantropo, di Ted Turner e di Joe Lewis, capace di vietare l'ingresso al pubblico allo straordinario «Lago nascosto». Il perché è presto detto: al di là dell'investimento nei futuri granai mondiali, il business attuale per i paesi a grande attività industriale come la Cina è quello di scaricare altrove i costi ambientali della loro crescita a dismisura: le società industriali o «di transizione», come le definisce la Banca Mondiale, stanno perdendo ogni anno 2,9 milioni di ettari di terreni coltivabili.

Per Cheng Siwei, boss del gigante cinese dell'energia alternativa, i danni ambientali in Cina ammontano al 13,5 per cento del Pil ogni anno, un dato che può far terminare in secondo piano il dato record della crescita. Stessa cosa vale per l'India. Da qui al 2050, d'altronde, la Banca Mondiale stima che la produzione dovrà crescere del 70 per cento per venire in contro a tre priorità: l'aumento delle bocche da sfamare, l'aumento dell'utilizzo di granaglie per l'alimentazione animale da allevamento e la produzione di biocarburante. Non sarà facile, anchè perché le riserve teoriche di terreno sono a quota 445 milioni di ettari a fronte di 1,5 miliardi di ettari di produzione. La scorsa settimana, dieci persone sono morte in Mozambico per i tumulti scoppiati a seguito del bando russo dell'export di grano, il cui prezzo è raddoppiato dal giugno scorso.

Stando alla Banca Mondiale il numero di persone che ogni notte va a dormire con lo stomaco vuoto è salito da 830 milioni a oltre 1 miliardo negli ultimi tre anni. Ovviamente, questi progetti portano con sé anche investimenti, know how e infrastrutture di trasporto e collegamento prima inesistenti, come ad esempio è accaduto sulla costa pacifica del Perù. Il problema è che la terra non è una commodity, nonostante molti politici e grandi players pensino il contrario. Come vedete, io come voi, siamo sempre un passo - se non due - indietro rispetto a chi decide come andranno le cose: forse sarebbe il caso, prima di mettersi a discettare su regolamentazioni bancarie e sesso degli angeli, guardare a quella nuova categoria del business che sia chiama «geo-finanza».

I grandi player stanno giocando su due tavoli: scommettono sul ribasso dei mercati, shortando equity e si lanciano nel grande business del futuro, l'acquisizione di terra, settore precluso al 99 per cento degli investitori. Chi shorta Deutsche Bank fa una scommessa e prende un rischio, chi impone per legge il pessimismo (oltre a creare le condizioni, attraverso l'indottrinamento mediatico dell'opinione pubblica e il finanziamento a chi è pronto a sostenere i loro interessi, per un cambio della decisione politica imposta dalla sovranità popolare, seppur molto limitato nella lobbystica America dei Caucus) per guadagnarci e conquistare - letteralmente - il mondo a costo di saldo, sta decidendo anche il nostro futuro. Non so a voi ma a me non va. Altro che perdere tempo su quella pantomima di Basilea 3...

di Mauro Bottarelli

18 settembre 2010

11 settembre: il bluff del Pentagono

Il Pentagono rilasciò nel maggio 2006 ai principali mass media, un filmato delle telecamere di sicurezza del ministero della Difesa Usa, che avrebbe dovuto dimostrare l’esistenza dell’aereo che colpì l’11 settembre del 2001 l’edificio.
Intenzione, dissipare i dubbi su quanto avvenne quel giorno. In realtà non si vede nulla, ovvero le immagini riprese da una telecamera di sorveglianza dell’edificio mostrano che qualcosa va verso l’edificio e poi vi è una forte esplosione, ma la sagoma non è certamente quella di un grosso Boeing 757-200. Nessuna prova quindi a sostegno della tesi Usa che sia stato un aereo commerciale dirottato a colpire il Pentagono. Nessuna parte dell’aereo è stata mai ritrovata o mostrata in pubblico, anche sei il capo progetto restauro del Pentagono, Lee Evy dichiarò che “vi erano considerevoli prove dell’aereo all’esterno dell’edificio”. Vigili del Fuoco, ufficiali della Difesa, nessuno di loro ha mai visto un solo pezzo di fusoliera, tranne Donald Rumsfeld, segretario alla Difesa. Qualcosa però è esplosa nel colpire l’edificio, molto probabilmente un missile, sia per la dinamica dell’esplosione, sia per i danni provocati dall’impatto (basta osservare il buco nel quale è penetrato il sedicente apparecchio per accorgersi che è di appena 5-6 metri di larghezza, proseguendo poi la sua corsa attraverso altri 3 edifici del ministero, con un angolo di 45°, forando i palazzi da parte a parte e non sfondandoli come presumibilmente avrebbe fatto un grosso aereo passeggeri. Il testimone Steve Patterson dice di aver visto “un oggetto metallizzato passare… con un rumore simile a quello emesso da un caccia militare… per poi dirigersi verso il Pentagono”. Anche Tom Seibert, ingegnere che lavora al ministero della Difesa Usa afferma di aver sentito un rumore simile a quello di un missile e di avere poi udito una forte esplosione.
La tesi “ufficiale” Usa continua a sostenere che se tracce non sono state trovate è perché “l’aereo si sarebbe polverizzato, fuso e quindi pressoché sparito in un nube di calore”.
Così come ha dell’incredibile sostenere che il muso dell’aereo, fatto di materiale non certamente adatto da fungere come ariete, abbia sfondato vari muri perimetrali degli edifici. L’ipotesi più probabile è che si sia trattato di un missile “cruise”, che possono essere lanciati da unità di superficie e sottomarine o aeree. Hanno un preciso sistema di guida che gli consente di riconoscere la rotta immagazzinata nel computer di bordo, confrontandola con il terreno sottostante. A conferma del fatto che l’esplosione sia dovuta ad un missile, la testimonianza di Pierre Henri Bunel, ex ufficiale francese d’artiglieria, proveniente dalla famosa accademia militare di Saint-Cyr, esperto in esplosivi, effetti delle granate d’artiglieria su cose e persone e lotta antincendio contro le fiamme generate dalle granate.
Le argomentazioni portate dall’ex ufficiale dell’Armée iniziano con una precisa distinzione tra i due tipi classici d’esplosione: la deflagrazione e la detonazione. Questo perché è proprio partendo da qui e osservando le foto dell’esplosione ed i suoi danni, che si può cominciare a parlare con una certa sicurezza di un missile.
Gli esplosivi provocano un onda d’urto notevolissima, con relativi danni collaterali, i deflagranti di molto inferiore o addirittura niente. Orbene il carburante di un aereo civile, il kerosene in caso d’incidente può solo deflagrare…Inoltre anche i colori dell’esplosione sono diversi, nel primo caso giallo pallido che diviene arancione e rosso a mano a mano che ci si allontana dal punto dell’esplosione. Nel secondo caso il fumo sarà particolarmente nero, denso, quasi grasso mescolato alle fiamme.
Altro particolare interessante, i primi mezzi dei pompieri intervenuti utilizzano camion con serbatoi pieni d’acqua e non di liquido specifico che serve per combattere gli incendi con idrocarburi. L’acqua viene utilizzata proprio in quegli incendi di tipo urbano che necessitano di un rapido raffreddamento dei caseggiati, per poter poi operare meglio da parte delle squadre di pompieri. Si vedono chiaramente le fiamme ed il fumo di un classico incendio urbano.
Non vi sono poi tracce dense di oli combusti sulle pareti esterne e nell’interno dell’edificio colpito.
Ma Henry Brunel si spinge oltre e arriva alla conclusione che i fori nei muri, sono senza ombra di dubbio stati provocati da cariche cave… Queste cariche sono state studiate per perforare le corazze dei mezzi blindati ed i numerosi strati delle fortificazioni in cemento. Esse, grazie al loro dardo infuocato riescono a trapassare diversi strati di muro in cemento armato e quindi non ha avuto difficoltà alcuna ad oltrepassare addirittura tre edifici del pentagono, poi una volta all’interno esplode la carica vera e propria.
Ma se non è stato l’aereo del volo 77 dell’American Airlines a colpire il Pentagono, dove è finito il vero aereo con tutti i suoi passeggeri?
La mattina dell’11 settembre 2001, quando alle 8,55 l’aereo della American Airlines sparisce dai radar della FAA - l’ente federale che controlla i voli civili negli Stati Uniti - e circa alle 9,37 il Pentagono viene colpito da un ordigno (aereo-elicottero-missile?). Subito viene associata alla sparizione dell’aereo della AA, all’attacco che ha subito la sede delle difesa Usa.
Le prime notizie, dicono che alle 8,55 l’aereo ha spendo il “trasponder” di bordo (sistema che permette di rilevare da terra attraverso il radar i dati dell’aereo, quota, matricola ecc, rendendosi praticamente invisibile. La cosa è strana perché lo spegnimento del trasponder non fa altro che attirare l’attenzione sull’aereo da parte del sistema di difesa americano che ha sede nel Colorado, il Norad - Nord America Aereospace Defense Command - (http://airforce.dnd.ca/athomedocs/athomelef.htm) in meno di due minuti la sparizione viene segnalata come minaccia e si levano in volo i caccia. In pratica i presunti dirottatori avrebbero commesso una madornale ingenuità, facendo subito scattare le misure d’intercettazione dell’Usaf. A quel punto solo i radar militari potevano seguire il volo dell’aereo “scomparso” avendo a disposizione un sistema di rilevamento che non necessita del trasponder, come quelli civili della FAA, detti secondari (solo in alcune zone anche la FFA possiede radar in grado di rilevare aerei privi di trasponder).
Quindi le notizie diramate da questo momento sono solo di fonte militare: perché spegnere il trasponder così presto e così lontano dall’ipotetico obiettivo? Per renderlo forse solo invisibile ai radar civili, ma visibilissimo a quelli militari? Si sa solo da fonte civile l’ora del decollo dall’aeroporto Dulles di Washington di un aereo della AA con destinazione Los Angeles.
Il pilota ha contattato la torre di controllo l’ultima volta alle 8,50, poi da quel momento si perde il controllo dell’aereo, che avrebbe percorso circa 1000 km, per poi tornare indietro e colpire il Pentagono… secondo le fonti “ufficiali militari”.
Da allora la guerra “americana” contro Afghanistan, Iraq e forse domani Iran si è dispiegata in tutta la sua forza, foraggiata dalle menzogna artatamente costruite dal governo statunitense e dalla vile complicità degli “alleati” europei.
di Federico Dal Cortivo

17 settembre 2010

Il ritorno del terribile giocattolaio


Chi possiede un po’ di familiarità con i retroscena degli attacchi dell’11 settembre 2001, saprà sicuramente chi è Dominik Suter. Si trattava del titolare dell’azienda di trasporti newyorchese nota come Urban Moving System, in realtà un’attività di copertura del Mossad israeliano, di cui Suter era un agente. I famosi “cinque israeliani danzanti”, che ballavano di gioia e si davano il cinque mentre filmavano gli edifici del WTC che crollavano al suolo, erano altrettante spie israeliane e furono arrestati dalla polizia newyorchese proprio accanto ad uno dei furgoncini della Urban Moving System di cui erano alle dipendenze. Uno dei cinque aveva con sé 4.700 dollari in contanti. Un altro aveva due passaporti esteri. All’interno del furgone venne trovato uno dei “taglierini” che i fantomatici 19 terroristi avrebbero utilizzato per dirottare gli aerei.

Si sospetta fortemente che i furgoncini della UMS siano stati utilizzati, fra le altre cose, per trasportare l’esplosivo destinato a minare i tre grattacieli demoliti l’11/9. Com’è noto, le cinque spie del Mossad arrestate (Sivan e Paul Kurzberg, Yaron Shmuel, Oded Ellner e Omer Marmari, tutti tra i 22 e i 27 anni di età), vennero rispedite in Israele dopo appena dieci settimane, grazie all’interessamento dell’allora capo della Homeland Security americana Michael Chertoff, anche lui cittadino israeliano (sua madre era stata tra i membri fondatori del Mossad). Tre dei “cinque israeliani danzanti” (Shmuel, Ellner e Marmari) comparvero in seguito anche alla tv israeliana, dichiarando che la loro missione era “semplicemente” quella di documentare l’evento. Non spiegarono però perché tale documentazione producesse in loro tanto sollazzo.

Non si trattò, peraltro, delle uniche spie israeliane arrestate su suolo americano a ridosso dell’11/9. Stando a quanto sostiene Fox News, nei mesi precedenti la data degli attacchi furono arrestati almeno 140 israeliani sospettati di essere coinvolti in operazioni di spionaggio; altri 60 vennero arrestati dopo l’11/9. Tutto questo fa pensare, ovviamente, che negli Stati Uniti fosse in preparazione un’operazione di intelligence del Mossad di assai ampie proporzioni, strettamente connessa agli eventi dell’11/9.

Due giorni dopo l’arresto delle cinque spie, Dominik Suter fuggì precipitosamente in Israele, sotto il naso degli agenti dell’FBI, intenti a sequestrare computer e scatole di documenti nella sede centrale della UMS a Weehawken, in New Jersey. Quando tre mesi dopo i cameramen del programma 20/20 della ABC arrivarono per filmare gli uffici dell’azienda, il personale sembrava essere fuggito via in fretta e furia. “Sembrava che l’azienda fosse stata chiusa in gran fretta”, si legge sul sito della ABC, “c’erano telefoni cellulari sparsi dappertutto; le linee telefoniche dell’azienda erano ancora operative e gli oggetti di proprietà di dozzine di clienti erano ammassati in magazzino”.

Fin qui i fatti che sono noti più o meno a tutti. Pochi sanno però che la Urban Moving System non era l’unica attività di copertura del Mossad in cui Suter fosse coinvolto. Suter è registrato anche come agente di un’altra compagnia, la Gould Street Corporation. Per gestire questa seconda attività, Suter risultava titolare di un ufficio situato al n. 73-75 di Gould Street a Bajonne, in New Jersey.

Dando un’occhiata con Google Earth, si può notare che al 73-75 di Gould Street hanno sede alcuni grossi capannoni:

All’interno di questi capannoni, si trovava il deposito merce di un’altra azienda, la E & W River Corporation, con sede al n. 73 di Gould Street. Questa azienda risulta concessionaria della vendita dello Zoom Copter (foto in alto), che dovrebbe essere un’altra vecchia conoscenza degli studiosi dell’11/9. Lo Zoom Copter era un giocattolo che veniva venduto, nei giorni precedenti all’11/9, in piccoli chioschi sparsi nei centri commerciali degli Stati Uniti. Secondo quanto riportato da Fox News, vi erano “migliaia” di questi punti vendita, tutti gestiti da sedicenti “studenti d’arte” israeliani (la maggior parte dei quali era priva di permesso di soggiorno). Come riferito dalla Fox, gli “studenti d’arte” non erano altro che agenti del Mossad israeliano operanti su suolo americano, probabilmente per preparare la grande e sanguinosa messinscena dell’11/9, e utilizzavano la vendita di giocattoli e dipinti come ennesima copertura per le loro attività di spionaggio. Questa massiccia presenza di cittadini israeliani in territorio americano fra il 2000 e il 2001 aveva insospettito la DEA, l’agenzia antidroga statunitense, che aveva iniziato ad indagare sulle piccole rivendite di giocattoli, sospettando un’operazione dell’intelligence israeliano; ma gli agenti della DEA erano stati fermati pochi mesi prima dell’11/9 dal Procuratore Generale John Ashcroft (altro fanatico cristiano-sionista legato a gruppi radicali come Stand for Israel; il suo Ashcroft Group lavora oggi per la IAI, l’industria aerospaziale israeliana) e dal direttore dell’FBI, Louis Freeh.

Dominic Suter era dunque il “trait d’union”, l’elemento unificante di due di queste attività di copertura: la Urban Moving System e la vendita degli elicotteri giocattolo.

La cosa preoccupante è che, stando a quanto riferisce Wayne Madsen in questo articolo, negli USA si starebbe verificando in questi giorni una reviviscenza dell’invasione degli “studenti d’arte” israeliani, proprio come avvenuto fra il 2000 e il 2001. La Transportation Security Administration (TSA) riferisce che alcuni di questi “studenti” avrebbero iniziato a battere la zona di Brea, in California, per vendere porta a porta dipinti e articoli di vario genere. Anche nella zona di Atlanta alcuni stranieri, la cui descrizione corrisponde a quella di cittadini israeliani, avrebbero iniziato a contattare telefonicamente e di persona le famiglie del luogo chiedendo la possibilità di ospitare studenti israeliani presso le loro abitazioni per uno “scambio alla pari”. In vari centri commerciali degli Stati Uniti sono poi comparsi piccoli chioschi, gestiti da israeliani, che vendono cosmetici ricavati da “sali del Mar Morto con tecniche piuttosto “aggressive” e che sono improvvisamente spariti dopo le segnalazioni arrivate alle autorità da parte di alcuni cittadini. Uno dei centri commerciali in cui tali attività sono state segnalate è il Coronado Mall di Albuquerque, in New Mexico, non lontano dalle base aerea di Kirtland, che ospita uno dei più importanti centri di stoccaggio delle armi nucleari degli Stati uniti. I sospetti che l’intelligence israeliana sia al lavoro per realizzare una seconda (e più grave) operazione false-flag come quella dell’11/9 sono dunque giustificati, soprattutto alla luce della recente accelerazione delle ostilità israeliane verso l’Iran, cui gli Stati Uniti – senza una nuova catastrofe da addossare questa volta alla Repubblica Islamica – difficilmente sarebbero disposti a prestare supporto militare.
di Gianluca Freda

16 settembre 2010

Ecco la strategia dei grandi player di Long Island



Prima che leggiate questo articolo, è meglio premettere qualcosa: sono liberale, liberista e mercatista convinto. Ritengo la speculazione, nella maggior parte dei casi, utile al buon funzionamento dei mercati, una sorta di «pesce spazzino» degli acquari: evita la creazione sistematica di bolle (o ne facilita l'esplosione prima che le dimensioni divengano ingestibili), attacca azioni sopravvalutate riportandole a valori accettabili (o affossandole, Enron è il caso più eclatante), smaschera i bilanci allegri di aziende che capitalizzano come multinazionali pur basandosi su debiti e scatole cinesi. Detto questo, c'è speculazione e speculazione. Quando questa diventa non sistematica ma addirittura strategica per finalità non solo di lucro ma addirittura di re-indirizzamento dei sistemi, politici ed economici, allora si passa alla categoria delle consorterie, dei grand commis.

E' quello che sta accadendo negli Usa. Non amo Barack Obama e ritengo le sue ultime scelte sbagliate o comunque tiepide rispetto alla difficoltà del momento ma qualcuno, molto potente, non si sta limitando ai giudizi e alle critiche: sta agendo per sabotare, attraverso i mercati, lo status quo. Al mondo, si sa, ci sono circoli molto influenti: l'Aspen Institute, il Council for Foreign Affairs, la Trilaterale, il gruppo Bilderberg. Ma ci sono altri simposi, altrettanto potenti, che non si danno né nomi né denominazioni: peccato che, a conti fatti, decidano per tutti noi. O quasi. Da venticinque anni a questa parte il leggendario stratega di Wall Street, Byron Wien, ora con il Blackstone Group, organizza un summit estivo con i principali player statunitensi per parlare di economia globale e investimenti.

Quest'anno non è stato diverso dagli altri, poche settimane fa una cinquantina di persone, tra cui dieci miliardari, si sono seduti attorno al tavolo imbandito da Wien e hanno fornito una indicazione netta sul futuro: Obama non va, la situazione economica è «gloomy» (fosca, ndr), occorre un cambio di marcia. «La visione generale è di un quadro di crescita molto lenta nel lungo termine, con un rischio reale di recessione», ha riassunto Wien in un report per gli investitori di Blackstone, secondo cui «l'amministrazione Obama è vista come ostile al business e in grado di scoraggiare sia gli investimenti che la creazione di nuovi posti di lavoro. La compagnie e gli imprenditori sono riluttanti nell'assumere nuovi lavoratori perché non riescono a calcolare con precisioni i costi dell'assicurazione sanitaria voluta dalla rivoluzione obamiana e temono un aumento della pressione fiscale».

I nomi dei partecipanti al summit sono segretissimi ma negli scorsi anni al pranzo organizzato a Long Island hanno sempre partecipato George Soros, Julian Roberson e James Chanos: ovvero, veri e propri pezzi da novanta. Esattamente come il padrone di casa, le cui «Dieci sorprese» erano diventate una lettura obbligata a Wall Street quando lavorava per Morgan Stanley. «Il pessimismo economico da parte dei più abbienti è perfettamente giustificabile, visto che fin dall'inizio della campagna elettorale del 2008 sono stati dipinti come dei villani dal Partito Democratico: anche se sembra che il vento politico stia cambiando, un vero cambiamento è lontano mesi, se non anni», ha dichiarato al riguardo Jim Iuorio della TJM Institutional Services.

Per Wien, «solo pochissimi dei presenti hanno dato possibilità all'indice Standard&Poor's di raggiungere i 1200 punti l'anno prossimo». E quindi, dove investono i grandi player? Shortano in patria e in Europa e si lanciano sui seguenti segmenti: «Immobili con destinazione d'uso business, terre a destinazione agricola e Africa», queste le tre parole che Wien ha reso noto ai suoi investitori: insomma, scelte non proprio da «regular investors» ma da strateghi. Esattamente come George Soros, l'unico che al pranzo rituale del 2007 parlava a chiare lettere di recessione e mercato dell'orso: aveva ragione lui. Quest'anno, invece, la visione che abbiamo descritto prima è stata condivisa praticamente all'unanimità: «Nessuno, finito il pranzo, è corso a piazzare un ordine», ha chiosato sornione Wien.

Il problema è che quanto deciso da Long Island non è il futuro, è già il presente. La scorsa settimana, infatti, la Banca Mondiale ha avuto il buon cuore di pubblicare il report che si aspettava da mesi e dal quale si desume che gli acquisti di terreni nelle nazioni in via di sviluppo sono aumentati fino a quota 45 milioni di ettari nel 2009, un salto di dieci punti dai livelli dello scorso decennio. Due terzi, nemmeno a dirlo, si sono registrati in Africa, dove le difese delle istituzioni a scalate e acquisizioni sono più deboli o inesistenti a causa anche della corruzione dilagante. E non si tratta, come si potrebbe pensare, di fondi sovrani del Medio Oriente o della Cina ma anche di fondi occidentali - molti dei quali quotati all'AIM di Londra -, decisi come non mai a battere la concorrenza asiatica verso la nuova frontiera: ovvero, il controllo del suolo su cui scommettere «long» dopo aver shortato i subprime statunitensi.

«Le terre agricole produttive sono la scommessa di profitto del futuro, ci ho piazzato sopra un grosso stock di liquidità», ha dichiarato Michael Burry, star di «The Big Short». Ovviamente, non tutti i paesi hanno accettato di buon grado questa colonizzazione finanziaria: il Brasile, ad esempio, ha posto un limite per acro alle acquisizione estere di terreni, soprattutto nel Mato Grosso e in Amazzonia. «Le terre brasiliane devono restare ai brasiliani», ha dichiarato Guillherme Cassel, ministro dell'Agricoltura brasiliano in una sorta di deja vù emergenziale delle politica adottata negli anni Settanta dal regime militare per congelare gli acquisti esteri. Poco, però, per far desistere gente come SinoLatin Capital, Goldman Sachs, Harvest Capital o Berkshire Hathaway, la quale vede infatti il suo boss, Warren Buffett, in fase di esplorazione di una venture da 400 milioni di dollari nel business di soia e zucchero con un partner brasiliano (una sorta di prestanome di lusso per aggirare le nuove norme).

L'Argentina sta pensando a una mossa simile a quella dei vicini brasiliani visto che già il 7 per cento del suo territorio è in mano straniere, a partire dai 900mila ettari di proprietà dei Benetton in Patagonia fino alle holdings di George Soros, il filantropo, di Ted Turner e di Joe Lewis, capace di vietare l'ingresso al pubblico allo straordinario «Lago nascosto». Il perché è presto detto: al di là dell'investimento nei futuri granai mondiali, il business attuale per i paesi a grande attività industriale come la Cina è quello di scaricare altrove i costi ambientali della loro crescita a dismisura: le società industriali o «di transizione», come le definisce la Banca Mondiale, stanno perdendo ogni anno 2,9 milioni di ettari di terreni coltivabili.

Per Cheng Siwei, boss del gigante cinese dell'energia alternativa, i danni ambientali in Cina ammontano al 13,5 per cento del Pil ogni anno, un dato che può far terminare in secondo piano il dato record della crescita. Stessa cosa vale per l'India. Da qui al 2050, d'altronde, la Banca Mondiale stima che la produzione dovrà crescere del 70 per cento per venire in contro a tre priorità: l'aumento delle bocche da sfamare, l'aumento dell'utilizzo di granaglie per l'alimentazione animale da allevamento e la produzione di biocarburante. Non sarà facile, anchè perché le riserve teoriche di terreno sono a quota 445 milioni di ettari a fronte di 1,5 miliardi di ettari di produzione. La scorsa settimana, dieci persone sono morte in Mozambico per i tumulti scoppiati a seguito del bando russo dell'export di grano, il cui prezzo è raddoppiato dal giugno scorso.

Stando alla Banca Mondiale il numero di persone che ogni notte va a dormire con lo stomaco vuoto è salito da 830 milioni a oltre 1 miliardo negli ultimi tre anni. Ovviamente, questi progetti portano con sé anche investimenti, know how e infrastrutture di trasporto e collegamento prima inesistenti, come ad esempio è accaduto sulla costa pacifica del Perù. Il problema è che la terra non è una commodity, nonostante molti politici e grandi players pensino il contrario. Come vedete, io come voi, siamo sempre un passo - se non due - indietro rispetto a chi decide come andranno le cose: forse sarebbe il caso, prima di mettersi a discettare su regolamentazioni bancarie e sesso degli angeli, guardare a quella nuova categoria del business che sia chiama «geo-finanza».

I grandi player stanno giocando su due tavoli: scommettono sul ribasso dei mercati, shortando equity e si lanciano nel grande business del futuro, l'acquisizione di terra, settore precluso al 99 per cento degli investitori. Chi shorta Deutsche Bank fa una scommessa e prende un rischio, chi impone per legge il pessimismo (oltre a creare le condizioni, attraverso l'indottrinamento mediatico dell'opinione pubblica e il finanziamento a chi è pronto a sostenere i loro interessi, per un cambio della decisione politica imposta dalla sovranità popolare, seppur molto limitato nella lobbystica America dei Caucus) per guadagnarci e conquistare - letteralmente - il mondo a costo di saldo, sta decidendo anche il nostro futuro. Non so a voi ma a me non va. Altro che perdere tempo su quella pantomima di Basilea 3...

di Mauro Bottarelli