07 ottobre 2010

In sedici anni ottantadue nuovi partiti

http://t0.gstatic.com/images?q=tbn:ANd9GcS4pbCHE9T5kjsjWWVMJNv9YK1WfNmupPFExZZ7_TDBjwyyZC0&t=1&usg=__ujRGb8ks1E_Hf669D_Ldd2ussTo=
Il Movimento sociale italiano di Gianfranco Fini, insieme con pochi altri, riuscì a sporgersi dalla prima repubblica e a mettere il naso nella seconda. Nel Parlamento nato nel 1994, dopo il referendum di Mario Segni e l'avvento del bipolarismo, c'erano anche i rimasugli del Psi, la Rete di Leoluca Orlando, la lista Pannella, naturalmente la Lega Nord, i Verdi allora guidati da Carlo Ripa di Meana. Ma forse il Msi fu l'ultimo partito della prima repubblica e Futuro e libertà, sempre di Gianfranco Fini, è certamente l'ultimo della seconda. Ma quest'altro record è destinato a essere battuto presto: quando nascerà l'ottantatreesimo partito? Se si contano (con qualche difficoltà e qualche margine di errore) soltanto i partiti che dal 1994 a oggi hanno avuto rappresentanza alla Camera dei deputati o al Senato (per aver ottenuto seggi alle elezioni o per essersi costituiti in gruppo o in sigla nel corso della legislatura), Futuro e libertà è infatti la formazione numero ottantadue.
La prolificità della democrazia italiana non è una qualità delle ultime due legislature, rissose, di frequenti compravendite, di prezzi alle stelle. Già in quel 1994 c'erano movimenti semi-marginali, venuti fuori dallo sbriciolamento di Mani pulite, come i Cristiano sociali nei quali si faceva le ossa Dario Franceschini, come Alleanza democratica di Willer Bordon, come il Patto Segni del suddetto Mario. E c'erano partitozzi di solido reducismo come quello Popolare di Mino Martinazzoli, o come il Centro cristiano democratico di Pierferdinando Casini. Ma siccome un po' si giocava sporco, o di riflesso, le camere ebbero due ulteriori Leghe, quella d'Azione meridionale e quella Alpina lombarda. Nell'anno e mezzo di premierato di Lamberto Dini, dopo il ribaltone, si cominciò timidamente a rimettere le carte in tavolo, a ricostituire identità, recinti sicuri: spuntò il Cdu (di ispirazione tedesca, come si vede) di Rocco Buttiglione, la Lega italiana federalista di bossiani delusi, la Federazione laburisti di Vaido Spini, altro passo di disgregazione socialista. Nella breve e recente storia dell'associazionismo parlamentare, il fermento dei superstiti e dei discendenti del Psi potrebbe occupare libri interi, separazione fra socialisti di destra e di sinistra, fusioni fra i socialisti demichelisiani e socialisti bobocraxiani, tentativi di ricomposizione di Enrico Boselli.
È stata persino più complicata la diaspora democristiana, con Casini, Buttiglione e Martinazzoli di cui si è detto, con l'Udr di Francesco Cossiga fondata nel 1998 per favorire la salita a Palazzo Chigi del primo (e ultimo) ex comunista, Massimo D'Alema, e da cui derivò l'Udeur di Clemente Mastella. Ma qua e là, oggi dimenticati, sono saltati fuori i Comitati Prodi, la Democrazia europea di Sergio D'Antoni, l'Italia di mezzo di Marco Follini, la Rosa Bianca di Savino Pezzotta e Bruno Tabacci, la incommensurabile sequela di Dc, l'ultima delle quali residente nelle mani di Gianfranco Rotondi, e di certo la Margherita di Francesco Rutelli, che nel frattempo è già entrato e uscito dal Pd per battezzare l'Api.
Naturalmente il conteggio che conduce alla vetta di ottantadue contempla il caso dei radicali, che una volta si chiamano lista Pannella, poi lista Bonino-Pannella, poi Rosa nel Pugno, ma sempre loro sono. Contempla alcune evoluzioni naturali tipo Pds-Ds-Pd. O tipo Msi-An-PdlFli. O tipo la fusione Ccd-Cdu che ha portato all'Udc. Ma non dimentica la sorte dei partiti storici, quelli del Pentapartito, come il Pli e Pri, che sprofondano, riemergono, cambiano nome, si scindono in gruppuscoli che durano qualche mese. Chi andasse a vedere troverebbe i liberali accasarsi nei partiti più strambi, ovviamente in Forza Italia, ma pure con Ad di Bordon, con Rinnovamento italiano di Lamberto Dini successivamente evoluto, appunto, nei liberaldemocratici, e poi con Segni, con Casini, e infine di nuovo col proprio nome brandito da Paolo Guzzanti. I repubblicani possono essere regionalisti popolari, europei, democratici con Antonio Maccanico, lamalfiani o sbarbatiani. Qualcuno, di certo, si sarà dimenticato della lista Magris costituita nel 1994 da Claudio Magris, che conquistò un seggio, il suo.
Ma chi ricorda gli Ecologisti democratici? Chi ricorda l'Unione democratica per i consumatori? L'Alleanza autonomista e progressista? Il Cantiere (Libertà e giustizia per l'Ulivo)? Il Movimento territorio lombardo? I Socialisti per la costituente? Una frotta di rivendicazioni morali, ideologiche, territoriali, dalle più nobili alle più speciose. E guarda caso la massima natalità si ebbe al Senato nella scorsa legislatura, quando il povero Romano Prodi aveva da elemosinare il sostegno del Movimento politico dei cittadini o del Partito democratico meridionale. A proposito del Movimento politi co dei cittadini, questo Movimento prima si chiamava Officina comunista e ora Per il bene comune; vive da una scissione del Partito dei comunisti italiani che a sua volta vive da una scissione di Rifondazione comunista che a sua volta visse per scissione dal Pds quando il Pds visse per trasformazione del Pci. Si capirà che se ci si fosse applicati a tutto il fermento extraparlamentare, non se ne sarebbe usciti interi. Eppure, per restare in area ex Pci, c'è il Partito comunista dei lavoratori di Marco Ferrando, i Comunisti-sinistra popolare di Marco Rizzo, naturalmente la Sinistra ecologia e libertà di Nichi Vendola, e almeno un'altra dozzina, Comunisti marxisti-leninisti (due partiti identici), Comunisti per la questione morale, una tal Piattaforma comunista, in una proliferazione che è di destra, di sinistra e di centro, e quindi Io Sud, Noi Sud. Forza Roma. Forza Lazio...
di Mattia Feltri

Pearl Harbor e 11 settembre: due catastrofi provvidenziali


E’ notizia di questi giorni che il presidente iraniano Ahmadinejad, parlando alle Nazioni Unite, abbia, e non per la prima volta, accusato gli Stati Uniti di essersi “procurati da soli” il disastro dell’11 settembre. Immediata, sdegnata uscita dall’aula dei rappresentanti statunitensi ed europei.
Eppure... eppure non è certamente stato il presidente iraniano il primo ad insinuare tale grave, orribile dubbio: sull’argomento lo scrittore statunitense D. R. Griffin ha scritto un interessantissimo libro che evidenzia le numerose, inoppugnabili incongruenze della tragedia.
Vediamone alcune: innanzitutto la non intercettazione, da parte dell’aviazione militare americana, dei velivoli di linea dirottati: se un volo commerciale non rispetta il piano di volo, scatta immediato l’allarme, ma non basta: il personale di bordo dell’American Airlines 11 tramite radio di bordo era riuscito ad avvertire che era in atto un dirottamento così come erano riusciti a segnalarlo, tramite cellulare, alcuni passeggeri dell’United Airlines 93: come mai la migliore aviazione militare del mondo non è intervenuta?
Ma andiamo avanti: lo schianto degli aerei contro le torri non è simultaneo e, ancora, i tempi tecnici per l’intervento dell’aviazione militare c’erano: ormai lo sapevano anche le pietre che nei cieli americani erano in volo aerei dirottati.
Sul fatto che strutture come le torri gemelle non potessero venir giù come castelli di carte anche se colpite da aeromobili si è ampiamente dibattuto ma, attenzione: alle 10,05 crolla la torre sud e alle 10,28 la torre nord... e allora, come si spiega che alle 17, 20 crolla il World Trade Center 7, non colpito dagli aerei?
Si dice che un quarto aereo abbia colpito il Pentagono ma, a parte i danni veramente esigui e non certamente paragonabili al crollo delle torri, non è stato trovato alcun relitto d’aereo nei pressi dell’edificio, non soltanto ma il segretario alla Difesa Rumsfeld in un’intervista del 12 ottobre 2001 si lasciò sfuggire una frase riguardo al “missile usato dai terroristi per colpire il Pentagono”...
In realtà, le incongruenze, anzi le vere e proprie assurdità nell’intera vicenda sono moltissime e fanno il paio, si può dire, con la fola delle armi di distruzione di massa in mano a Saddam Hussein, mai trovate. E’ un fatto, però, che le due cose, 11 settembre e armi di distruzione di massa in mano agli iracheni, costituirono il pretesto per l’invasione dell’Iraq.
A questo punto, viene in mente un altro pretesto... pardon, un altro episodio, assai più lontano nel tempo e nello spazio, verificatosi alle Hawaii nel dicembre 1941 e precisamente a Pearl Harbor.
All’epoca, l’America riforniva il Giappone di petrolio e minerale di ferro ma, dopo l’invasione da parte dell’Impero del Sol Levante di Manciuria e Indocina, gli Stati Uniti, affiancati naturalmente dall’Inghilterra, imposero ai nipponici uno strettissimo embargo (similmente a quanto avvenne in Europa con l’Italia, sempre per la questione coloniale); al riguardo, una semplice considerazione o domanda, che dir si voglia e non è una domanda retorica, vorremmo veramente che qualcuno ci desse chiarimenti in merito: come mai nessuno, né gli Usa né altre potenze all’epoca, alzò mai un dito né disse mai una parola contro la politica coloniale inglese, francese, olandese... una risposta, prego.
Il Giappone tentò in tutti i modi di evitare il confronto con l’America: nell’ottobre ‘41 il principe Konoye propose al presidente Roosvelt un incontro ad Honolulu, presenti anche i responsabili dell’esercito e della marina nipponici ma tale proposta venne rifiutata: è impensabile, a questo punto, che il governo americano potesse nutrire dubbi sull’inevitabilità o quanto meno la possibilità di un conflitto. Occorre inoltre aggiungere che l’attacco a Pearl Harbor non era affatto dato per scontato ma subordinato all’esito delle trattative nippo-americane; nonostante la consegna assoluta dell’ammiraglio Yamamoto al silenzio radio, tale consegna non fu rispettata appieno e messaggi radio nipponici furono captati dagli americani che avevano già decrittato da oltre un anno i cifrari giapponesi; nonostante la rotta più lunga adottata da Yamamoto per evitare di essere avvistati, segnali dell’avvicinamento della flotta giapponese furono captati dagli americani e inspiegabilmente ignorati, nonostante tutte le avvisaglie di possibili ostilità; è assolutamente inconcepibile, alla luce del semplice buonsenso, che una squadra navale come quella agli ordini dell’ammiraglio Yamamoto potesse avvicinarsi a una base come Pearl Harbor senza essere in qualche modo avvistata.
E dunque? Gli americani non avevano alcuna voglia di farsi trascinare nuovamente in una guerra in Europa, il ricordo del Primo Conflitto Mondiale con i suoi massacri era ancora troppo presente nella coscienza popolare e forse, in fin dei conti, Nazismo e Fascismo non costituivano una grande preoccupazione per gli statunitensi, anzi: il Duce non era affatto malvisto in America... ma il Giappone faceva parte del Tripartito e se avesse attaccato gli Stati Uniti, meglio ancora se proditoriamente, sarebbe stato giocoforza dichiarare guerra a Italia e Germania.
Non vogliamo andare oltre, abbiamo già dato sufficienti spunti di riflessione: Roosvelt voleva entrare in guerra, perchè temeva che una vittoria dell’Asse in Europa unita all’espansionismo nipponico avrebbero potuto pregiudicare più o meno gravemente gli interessi dell’America o addirittura una entrata in guerra successiva e magari in condizioni di inferiorità.
Pearl Harbor e 11 settembre: due “catastrofi” alla fine rivelatesi provvidenziali, per l’America, forse troppo, forse in modo sospetto e a chi obietta che tali accadimenti sono costati migliaia di vittime innocenti non possiamo che controbattere che il rischio di versare sangue innocente non ha mai fermato la belva umana, in nessuna epoca.
E’ notizia di questi giorni che il presidente iraniano Ahmadinejad, parlando alle Nazioni Unite, abbia, e non per la prima volta, accusato gli Stati Uniti di essersi “procurati da soli” il disastro dell’11 settembre. Immediata, sdegnata uscita dall’aula dei rappresentanti statunitensi ed europei.
Eppure... eppure non è certamente stato il presidente iraniano il primo ad insinuare tale grave, orribile dubbio: sull’argomento lo scrittore statunitense D. R. Griffin ha scritto un interessantissimo libro che evidenzia le numerose, inoppugnabili incongruenze della tragedia.
Vediamone alcune: innanzitutto la non intercettazione, da parte dell’aviazione militare americana, dei velivoli di linea dirottati: se un volo commerciale non rispetta il piano di volo, scatta immediato l’allarme, ma non basta: il personale di bordo dell’American Airlines 11 tramite radio di bordo era riuscito ad avvertire che era in atto un dirottamento così come erano riusciti a segnalarlo, tramite cellulare, alcuni passeggeri dell’United Airlines 93: come mai la migliore aviazione militare del mondo non è intervenuta?
Ma andiamo avanti: lo schianto degli aerei contro le torri non è simultaneo e, ancora, i tempi tecnici per l’intervento dell’aviazione militare c’erano: ormai lo sapevano anche le pietre che nei cieli americani erano in volo aerei dirottati.
Sul fatto che strutture come le torri gemelle non potessero venir giù come castelli di carte anche se colpite da aeromobili si è ampiamente dibattuto ma, attenzione: alle 10,05 crolla la torre sud e alle 10,28 la torre nord... e allora, come si spiega che alle 17, 20 crolla il World Trade Center 7, non colpito dagli aerei?
Si dice che un quarto aereo abbia colpito il Pentagono ma, a parte i danni veramente esigui e non certamente paragonabili al crollo delle torri, non è stato trovato alcun relitto d’aereo nei pressi dell’edificio, non soltanto ma il segretario alla Difesa Rumsfeld in un’intervista del 12 ottobre 2001 si lasciò sfuggire una frase riguardo al “missile usato dai terroristi per colpire il Pentagono”...
In realtà, le incongruenze, anzi le vere e proprie assurdità nell’intera vicenda sono moltissime e fanno il paio, si può dire, con la fola delle armi di distruzione di massa in mano a Saddam Hussein, mai trovate. E’ un fatto, però, che le due cose, 11 settembre e armi di distruzione di massa in mano agli iracheni, costituirono il pretesto per l’invasione dell’Iraq.
A questo punto, viene in mente un altro pretesto... pardon, un altro episodio, assai più lontano nel tempo e nello spazio, verificatosi alle Hawaii nel dicembre 1941 e precisamente a Pearl Harbor.
All’epoca, l’America riforniva il Giappone di petrolio e minerale di ferro ma, dopo l’invasione da parte dell’Impero del Sol Levante di Manciuria e Indocina, gli Stati Uniti, affiancati naturalmente dall’Inghilterra, imposero ai nipponici uno strettissimo embargo (similmente a quanto avvenne in Europa con l’Italia, sempre per la questione coloniale); al riguardo, una semplice considerazione o domanda, che dir si voglia e non è una domanda retorica, vorremmo veramente che qualcuno ci desse chiarimenti in merito: come mai nessuno, né gli Usa né altre potenze all’epoca, alzò mai un dito né disse mai una parola contro la politica coloniale inglese, francese, olandese... una risposta, prego.
Il Giappone tentò in tutti i modi di evitare il confronto con l’America: nell’ottobre ‘41 il principe Konoye propose al presidente Roosvelt un incontro ad Honolulu, presenti anche i responsabili dell’esercito e della marina nipponici ma tale proposta venne rifiutata: è impensabile, a questo punto, che il governo americano potesse nutrire dubbi sull’inevitabilità o quanto meno la possibilità di un conflitto. Occorre inoltre aggiungere che l’attacco a Pearl Harbor non era affatto dato per scontato ma subordinato all’esito delle trattative nippo-americane; nonostante la consegna assoluta dell’ammiraglio Yamamoto al silenzio radio, tale consegna non fu rispettata appieno e messaggi radio nipponici furono captati dagli americani che avevano già decrittato da oltre un anno i cifrari giapponesi; nonostante la rotta più lunga adottata da Yamamoto per evitare di essere avvistati, segnali dell’avvicinamento della flotta giapponese furono captati dagli americani e inspiegabilmente ignorati, nonostante tutte le avvisaglie di possibili ostilità; è assolutamente inconcepibile, alla luce del semplice buonsenso, che una squadra navale come quella agli ordini dell’ammiraglio Yamamoto potesse avvicinarsi a una base come Pearl Harbor senza essere in qualche modo avvistata.
E dunque? Gli americani non avevano alcuna voglia di farsi trascinare nuovamente in una guerra in Europa, il ricordo del Primo Conflitto Mondiale con i suoi massacri era ancora troppo presente nella coscienza popolare e forse, in fin dei conti, Nazismo e Fascismo non costituivano una grande preoccupazione per gli statunitensi, anzi: il Duce non era affatto malvisto in America... ma il Giappone faceva parte del Tripartito e se avesse attaccato gli Stati Uniti, meglio ancora se proditoriamente, sarebbe stato giocoforza dichiarare guerra a Italia e Germania.
Non vogliamo andare oltre, abbiamo già dato sufficienti spunti di riflessione: Roosvelt voleva entrare in guerra, perchè temeva che una vittoria dell’Asse in Europa unita all’espansionismo nipponico avrebbero potuto pregiudicare più o meno gravemente gli interessi dell’America o addirittura una entrata in guerra successiva e magari in condizioni di inferiorità.
Pearl Harbor e 11 settembre: due “catastrofi” alla fine rivelatesi provvidenziali, per l’America, forse troppo, forse in modo sospetto e a chi obietta che tali accadimenti sono costati migliaia di vittime innocenti non possiamo che controbattere che il rischio di versare sangue innocente non ha mai fermato la belva umana, in nessuna epoca.

di Leonardo Incorvai

06 ottobre 2010

E un pirata inventò il capitalismo


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Il comportamento razionale dei filibustieri prefigura quello delle imprese


I marinai di un mercantile viaggiano tranquilli sulle onde. Una nave da duecento tonnellate appare all’orizzonte. Vista a distanza sembra inoffensiva. Batte bandiera inglese. Quando si fa più vicino, il naviglio rivela, però, tratti sinistri: è anch’esso un mercantile, ma alquanto modificato. Invece dei soliti sei cannoni, ne ha più di venti... La scena che Peter Leeson ci invita a contemplare in questo suo The Invisible Hook, ovvero alla lettera «l’uncino invisibile», che tratta dell’Economia secondo i pirati, è la minaccia di un arrembaggio: la nave misteriosa trasporta una ciurma di canaglie, comandate da un qualche Capitan Uncino. Gli ultimi dubbi verranno presto dissolti, perché i capi pirata amano personalizzare le loro insegne, variando lo schema di quella che è nota come la Bandiera della Morte, ovvero la Jolie Rouge (in seguito Jolly Roger), il drappo rosso — e poi nero — che reca teschio e ossa. Che cosa farà il comandante del mercantile alla vista di quello spauracchio dei mari? Magari si limiterà a seguire l’esortazione del Capitan Uncino della versione musicale di Edoardo Bennato: «Meglio che questa volta si arrenda». Ma cosa lo ha indotto a desistere da qualsiasi autodifesa?

Il fatto è che — almeno nella stragrande maggioranza — quei predoni del mare godevano fama non solo di essere spietati con chi non cedeva subito le armi, ma anche di essere fedeli alla parola data: chi si arrende avrà salva la vita, anche se perderà la roba. Uno scambio abbastanza equo per tutti coloro che si trovavano sospesi «tra il Diavolo e il profondo mare azzurro»: da una parte quelli che avevano tentato la sorte sulle onde; dall’altra i pirati stessi, che sfidavano la morte affrontando tempeste, abbordaggi, o magari l’implacabile «giustizia» di chi viveva sotto la legge.
Questo il paradosso dei pirati pacifisti. Come scrive Leeson: «La Jolly Roger finiva per salvare la vita ai marinai delle navi da carico. Segnalando l’identità dei pirati e i potenziali obiettivi preveniva una battaglia sanguinosa che avrebbe inutilmente ferito o ucciso non solo dei pirati ma anche degli innocenti marinai. Paradossalmente, dunque, l’effetto del lugubre simbolismo del teschio era simile a quello di una colomba che tiene nel becco un ramoscello d’ulivo!». I pirati erano capaci di beffarsi delle potenze del mondo intero e di elaborare insieme strumenti semiotici di mediazione piuttosto sofisticati — e tutto allo scopo di minimizzare i costi e massimizzare i profitti delle loro... imprese. Qui valeva la legge dell’Uncino Invisibile, degno correlato piratesco della Mano Invisibile di Adam Smith. La ricerca dell’utile personale di ciascun cittadino finiva per produrre la ricchezza della nazione; allo stesso modo, l’egoismo di ciascun pirata era funzionale all’economia di quello «Stato in miniatura» rappresentato dalla nave di questi predatori del mare.
Come scrive Leeson, i pirati erano sì dei «fuorilegge assoluti», ma non per questo erano incapaci di forme articolate di autogoverno. La loro massimizzazione del «piacere» richiedeva appunto «potere e libertà», e tutto questo era garantito da una «democrazia anarchica» che permetteva di affrontare con successo la grande questione che sottende l’origine dello Stato moderno. Per dirla con Baruch Spinoza: com’è possibile che ogni individuo ceda alla struttura pubblica una porzione della propria libertà e nello stesso tempo eviti «che la sua coscienza soggiaccia assolutamente all’altrui diritto»? La risposta è: definendo un sistema di controlli e contrappesi che garantisca che qualsiasi struttura statuale, «lungi dal convertire in bestie gli uomini dotati di ragione o farne degli automi», consenta invece «che la loro mente e il loro corpo possano con sicurezza esercitare le loro funzioni. Il vero fine dello Stato è la libertà».
È singolare, nota Leeson, che tutto ciò venisse realizzato con più di un secolo di anticipo rispetto al sistema di checks and balances escogitato dai padri fondatori di quell’«esperimento democratico» grazie a cui tredici colonie del Nordamerica divennero il nucleo degli Stati Uniti. Prima che contro la Corona e il Parlamento d’Inghilterra insorgessero i «risoluti ribelli», già si erano ammutinati non pochi marinai delle navi di sua maestà, per non dire delle piratesche «canaglie di tutto il mondo» che rifiutavano di chinare il capo di fronte a qualsiasi autorità. Il vero esperimento democratico è stato il loro — e le società aperte di cui oggi l’Occidente va tanto orgoglioso non hanno fatto che imparare da quei «mostri».
Non è perché fossero istintivamente miti o portati alla democrazia che i pirati finirono con lo scegliere la politica dell’intimidazione nei confronti del nemico esterno e quella del buon governo al proprio interno. Credo che ci possa aiutare a mettere in luce i tratti più salienti dell’Uncino Invisibile un modello elaborato da Elliot Sober in un contesto diverso (il dibattito sulla selezione darwiniana): in breve, biglie di diverso colore vengono filtrate da un crivello, i cui fori — che immaginiamo tutti uguali — bloccano quelle di dimensione superiore al diametro dell’apertura. Supponiamo inoltre che le biglie così piccole da non essere fermate dai buchi siano tutte colorate di rosso; possiamo concludere che il crivello seleziona solo biglie di quel colore. Ma quel tratto è tipicamente contingente: che il rosso si stabilizzi come carattere distintivo delle biglie «sopravvissute» è una mera conseguenza del meccanismo sottostante che discrimina le biglie per dimensione e del fatto «accidentale» che tutte le biglie abbastanza piccole sono di quel colore. Dunque, non è perché sono rosse che le biglie passano attraverso quel crivello; piuttosto, il fatto che sono rosse è un segno che esse erano adatte a superare l’ostacolo. Analogamente, possiamo dire che i nostri pirati erano «buoni» solo perché la loro bontà è stata selezionata come «tratto contingente» dalla logica economica che coordinava le loro pratiche.
Nel caso del crivello di Sober è facile individuare il meccanismo sottostante (se il diametro della biglia è maggiore di quello del foro, questa non passa). Nel caso dei pirati la ragione nascosta di tutto il processo è appunto l’Uncino Invisibile: la pirateria tra Seicento e Settecento aveva favorito l’evoluzione di quei tratti «buoni» perché questi erano i caratteri più vantaggiosi. Dunque, non solo l’analogia bensì anche la differenza con il crivello di Sober è istruttiva: le biglie ben poco fanno per modificare il crivello; le scelte dei pirati, invece, riescono a rimodellare il sistema di contromisure adottate dalle marine delle varie nazioni, nominalmente o realmente in guerra contro di loro. È un po’ come se il tingere di rosso alcune biglie ne riducesse la dimensione rendendole più «agili e snelle», in modo da eludere le maglie del crivello! I pirati sanno scegliere i colori, ed è grazie al rosso o al nero della Jolly Roger che riescono a piegare ai loro scopi le maglie di qualsiasi crivello venga loro opposto dal commercio «legale». Ma sanno anche che la mossa è rischiosa, perché li segnala come fuorilegge. Non diversamente, è rischioso per i pavoni possedere code sgargianti o per gli alci avere grandi palchi di corna per sedurre le femmine. Nello spirito darwiniano ciò funziona, anche se quegli animali rischiano maggiormente di apparire come possibili vittime dei predatori; quando riescono nei loro intenti, però, sono loro i «predatori» nella gara degli amori. E così sono i pirati, che il loro vessillo segnala inequivocabilmente come nemici di tutte le bandiere, ma che — quando il colpo va a segno — consente loro di ottenere quella «felicità» di cui vanno in cerca, e magari senza troppo spargimento di sangue.

di Giulio Giorello

07 ottobre 2010

In sedici anni ottantadue nuovi partiti

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Il Movimento sociale italiano di Gianfranco Fini, insieme con pochi altri, riuscì a sporgersi dalla prima repubblica e a mettere il naso nella seconda. Nel Parlamento nato nel 1994, dopo il referendum di Mario Segni e l'avvento del bipolarismo, c'erano anche i rimasugli del Psi, la Rete di Leoluca Orlando, la lista Pannella, naturalmente la Lega Nord, i Verdi allora guidati da Carlo Ripa di Meana. Ma forse il Msi fu l'ultimo partito della prima repubblica e Futuro e libertà, sempre di Gianfranco Fini, è certamente l'ultimo della seconda. Ma quest'altro record è destinato a essere battuto presto: quando nascerà l'ottantatreesimo partito? Se si contano (con qualche difficoltà e qualche margine di errore) soltanto i partiti che dal 1994 a oggi hanno avuto rappresentanza alla Camera dei deputati o al Senato (per aver ottenuto seggi alle elezioni o per essersi costituiti in gruppo o in sigla nel corso della legislatura), Futuro e libertà è infatti la formazione numero ottantadue.
La prolificità della democrazia italiana non è una qualità delle ultime due legislature, rissose, di frequenti compravendite, di prezzi alle stelle. Già in quel 1994 c'erano movimenti semi-marginali, venuti fuori dallo sbriciolamento di Mani pulite, come i Cristiano sociali nei quali si faceva le ossa Dario Franceschini, come Alleanza democratica di Willer Bordon, come il Patto Segni del suddetto Mario. E c'erano partitozzi di solido reducismo come quello Popolare di Mino Martinazzoli, o come il Centro cristiano democratico di Pierferdinando Casini. Ma siccome un po' si giocava sporco, o di riflesso, le camere ebbero due ulteriori Leghe, quella d'Azione meridionale e quella Alpina lombarda. Nell'anno e mezzo di premierato di Lamberto Dini, dopo il ribaltone, si cominciò timidamente a rimettere le carte in tavolo, a ricostituire identità, recinti sicuri: spuntò il Cdu (di ispirazione tedesca, come si vede) di Rocco Buttiglione, la Lega italiana federalista di bossiani delusi, la Federazione laburisti di Vaido Spini, altro passo di disgregazione socialista. Nella breve e recente storia dell'associazionismo parlamentare, il fermento dei superstiti e dei discendenti del Psi potrebbe occupare libri interi, separazione fra socialisti di destra e di sinistra, fusioni fra i socialisti demichelisiani e socialisti bobocraxiani, tentativi di ricomposizione di Enrico Boselli.
È stata persino più complicata la diaspora democristiana, con Casini, Buttiglione e Martinazzoli di cui si è detto, con l'Udr di Francesco Cossiga fondata nel 1998 per favorire la salita a Palazzo Chigi del primo (e ultimo) ex comunista, Massimo D'Alema, e da cui derivò l'Udeur di Clemente Mastella. Ma qua e là, oggi dimenticati, sono saltati fuori i Comitati Prodi, la Democrazia europea di Sergio D'Antoni, l'Italia di mezzo di Marco Follini, la Rosa Bianca di Savino Pezzotta e Bruno Tabacci, la incommensurabile sequela di Dc, l'ultima delle quali residente nelle mani di Gianfranco Rotondi, e di certo la Margherita di Francesco Rutelli, che nel frattempo è già entrato e uscito dal Pd per battezzare l'Api.
Naturalmente il conteggio che conduce alla vetta di ottantadue contempla il caso dei radicali, che una volta si chiamano lista Pannella, poi lista Bonino-Pannella, poi Rosa nel Pugno, ma sempre loro sono. Contempla alcune evoluzioni naturali tipo Pds-Ds-Pd. O tipo Msi-An-PdlFli. O tipo la fusione Ccd-Cdu che ha portato all'Udc. Ma non dimentica la sorte dei partiti storici, quelli del Pentapartito, come il Pli e Pri, che sprofondano, riemergono, cambiano nome, si scindono in gruppuscoli che durano qualche mese. Chi andasse a vedere troverebbe i liberali accasarsi nei partiti più strambi, ovviamente in Forza Italia, ma pure con Ad di Bordon, con Rinnovamento italiano di Lamberto Dini successivamente evoluto, appunto, nei liberaldemocratici, e poi con Segni, con Casini, e infine di nuovo col proprio nome brandito da Paolo Guzzanti. I repubblicani possono essere regionalisti popolari, europei, democratici con Antonio Maccanico, lamalfiani o sbarbatiani. Qualcuno, di certo, si sarà dimenticato della lista Magris costituita nel 1994 da Claudio Magris, che conquistò un seggio, il suo.
Ma chi ricorda gli Ecologisti democratici? Chi ricorda l'Unione democratica per i consumatori? L'Alleanza autonomista e progressista? Il Cantiere (Libertà e giustizia per l'Ulivo)? Il Movimento territorio lombardo? I Socialisti per la costituente? Una frotta di rivendicazioni morali, ideologiche, territoriali, dalle più nobili alle più speciose. E guarda caso la massima natalità si ebbe al Senato nella scorsa legislatura, quando il povero Romano Prodi aveva da elemosinare il sostegno del Movimento politico dei cittadini o del Partito democratico meridionale. A proposito del Movimento politi co dei cittadini, questo Movimento prima si chiamava Officina comunista e ora Per il bene comune; vive da una scissione del Partito dei comunisti italiani che a sua volta vive da una scissione di Rifondazione comunista che a sua volta visse per scissione dal Pds quando il Pds visse per trasformazione del Pci. Si capirà che se ci si fosse applicati a tutto il fermento extraparlamentare, non se ne sarebbe usciti interi. Eppure, per restare in area ex Pci, c'è il Partito comunista dei lavoratori di Marco Ferrando, i Comunisti-sinistra popolare di Marco Rizzo, naturalmente la Sinistra ecologia e libertà di Nichi Vendola, e almeno un'altra dozzina, Comunisti marxisti-leninisti (due partiti identici), Comunisti per la questione morale, una tal Piattaforma comunista, in una proliferazione che è di destra, di sinistra e di centro, e quindi Io Sud, Noi Sud. Forza Roma. Forza Lazio...
di Mattia Feltri

Pearl Harbor e 11 settembre: due catastrofi provvidenziali


E’ notizia di questi giorni che il presidente iraniano Ahmadinejad, parlando alle Nazioni Unite, abbia, e non per la prima volta, accusato gli Stati Uniti di essersi “procurati da soli” il disastro dell’11 settembre. Immediata, sdegnata uscita dall’aula dei rappresentanti statunitensi ed europei.
Eppure... eppure non è certamente stato il presidente iraniano il primo ad insinuare tale grave, orribile dubbio: sull’argomento lo scrittore statunitense D. R. Griffin ha scritto un interessantissimo libro che evidenzia le numerose, inoppugnabili incongruenze della tragedia.
Vediamone alcune: innanzitutto la non intercettazione, da parte dell’aviazione militare americana, dei velivoli di linea dirottati: se un volo commerciale non rispetta il piano di volo, scatta immediato l’allarme, ma non basta: il personale di bordo dell’American Airlines 11 tramite radio di bordo era riuscito ad avvertire che era in atto un dirottamento così come erano riusciti a segnalarlo, tramite cellulare, alcuni passeggeri dell’United Airlines 93: come mai la migliore aviazione militare del mondo non è intervenuta?
Ma andiamo avanti: lo schianto degli aerei contro le torri non è simultaneo e, ancora, i tempi tecnici per l’intervento dell’aviazione militare c’erano: ormai lo sapevano anche le pietre che nei cieli americani erano in volo aerei dirottati.
Sul fatto che strutture come le torri gemelle non potessero venir giù come castelli di carte anche se colpite da aeromobili si è ampiamente dibattuto ma, attenzione: alle 10,05 crolla la torre sud e alle 10,28 la torre nord... e allora, come si spiega che alle 17, 20 crolla il World Trade Center 7, non colpito dagli aerei?
Si dice che un quarto aereo abbia colpito il Pentagono ma, a parte i danni veramente esigui e non certamente paragonabili al crollo delle torri, non è stato trovato alcun relitto d’aereo nei pressi dell’edificio, non soltanto ma il segretario alla Difesa Rumsfeld in un’intervista del 12 ottobre 2001 si lasciò sfuggire una frase riguardo al “missile usato dai terroristi per colpire il Pentagono”...
In realtà, le incongruenze, anzi le vere e proprie assurdità nell’intera vicenda sono moltissime e fanno il paio, si può dire, con la fola delle armi di distruzione di massa in mano a Saddam Hussein, mai trovate. E’ un fatto, però, che le due cose, 11 settembre e armi di distruzione di massa in mano agli iracheni, costituirono il pretesto per l’invasione dell’Iraq.
A questo punto, viene in mente un altro pretesto... pardon, un altro episodio, assai più lontano nel tempo e nello spazio, verificatosi alle Hawaii nel dicembre 1941 e precisamente a Pearl Harbor.
All’epoca, l’America riforniva il Giappone di petrolio e minerale di ferro ma, dopo l’invasione da parte dell’Impero del Sol Levante di Manciuria e Indocina, gli Stati Uniti, affiancati naturalmente dall’Inghilterra, imposero ai nipponici uno strettissimo embargo (similmente a quanto avvenne in Europa con l’Italia, sempre per la questione coloniale); al riguardo, una semplice considerazione o domanda, che dir si voglia e non è una domanda retorica, vorremmo veramente che qualcuno ci desse chiarimenti in merito: come mai nessuno, né gli Usa né altre potenze all’epoca, alzò mai un dito né disse mai una parola contro la politica coloniale inglese, francese, olandese... una risposta, prego.
Il Giappone tentò in tutti i modi di evitare il confronto con l’America: nell’ottobre ‘41 il principe Konoye propose al presidente Roosvelt un incontro ad Honolulu, presenti anche i responsabili dell’esercito e della marina nipponici ma tale proposta venne rifiutata: è impensabile, a questo punto, che il governo americano potesse nutrire dubbi sull’inevitabilità o quanto meno la possibilità di un conflitto. Occorre inoltre aggiungere che l’attacco a Pearl Harbor non era affatto dato per scontato ma subordinato all’esito delle trattative nippo-americane; nonostante la consegna assoluta dell’ammiraglio Yamamoto al silenzio radio, tale consegna non fu rispettata appieno e messaggi radio nipponici furono captati dagli americani che avevano già decrittato da oltre un anno i cifrari giapponesi; nonostante la rotta più lunga adottata da Yamamoto per evitare di essere avvistati, segnali dell’avvicinamento della flotta giapponese furono captati dagli americani e inspiegabilmente ignorati, nonostante tutte le avvisaglie di possibili ostilità; è assolutamente inconcepibile, alla luce del semplice buonsenso, che una squadra navale come quella agli ordini dell’ammiraglio Yamamoto potesse avvicinarsi a una base come Pearl Harbor senza essere in qualche modo avvistata.
E dunque? Gli americani non avevano alcuna voglia di farsi trascinare nuovamente in una guerra in Europa, il ricordo del Primo Conflitto Mondiale con i suoi massacri era ancora troppo presente nella coscienza popolare e forse, in fin dei conti, Nazismo e Fascismo non costituivano una grande preoccupazione per gli statunitensi, anzi: il Duce non era affatto malvisto in America... ma il Giappone faceva parte del Tripartito e se avesse attaccato gli Stati Uniti, meglio ancora se proditoriamente, sarebbe stato giocoforza dichiarare guerra a Italia e Germania.
Non vogliamo andare oltre, abbiamo già dato sufficienti spunti di riflessione: Roosvelt voleva entrare in guerra, perchè temeva che una vittoria dell’Asse in Europa unita all’espansionismo nipponico avrebbero potuto pregiudicare più o meno gravemente gli interessi dell’America o addirittura una entrata in guerra successiva e magari in condizioni di inferiorità.
Pearl Harbor e 11 settembre: due “catastrofi” alla fine rivelatesi provvidenziali, per l’America, forse troppo, forse in modo sospetto e a chi obietta che tali accadimenti sono costati migliaia di vittime innocenti non possiamo che controbattere che il rischio di versare sangue innocente non ha mai fermato la belva umana, in nessuna epoca.
E’ notizia di questi giorni che il presidente iraniano Ahmadinejad, parlando alle Nazioni Unite, abbia, e non per la prima volta, accusato gli Stati Uniti di essersi “procurati da soli” il disastro dell’11 settembre. Immediata, sdegnata uscita dall’aula dei rappresentanti statunitensi ed europei.
Eppure... eppure non è certamente stato il presidente iraniano il primo ad insinuare tale grave, orribile dubbio: sull’argomento lo scrittore statunitense D. R. Griffin ha scritto un interessantissimo libro che evidenzia le numerose, inoppugnabili incongruenze della tragedia.
Vediamone alcune: innanzitutto la non intercettazione, da parte dell’aviazione militare americana, dei velivoli di linea dirottati: se un volo commerciale non rispetta il piano di volo, scatta immediato l’allarme, ma non basta: il personale di bordo dell’American Airlines 11 tramite radio di bordo era riuscito ad avvertire che era in atto un dirottamento così come erano riusciti a segnalarlo, tramite cellulare, alcuni passeggeri dell’United Airlines 93: come mai la migliore aviazione militare del mondo non è intervenuta?
Ma andiamo avanti: lo schianto degli aerei contro le torri non è simultaneo e, ancora, i tempi tecnici per l’intervento dell’aviazione militare c’erano: ormai lo sapevano anche le pietre che nei cieli americani erano in volo aerei dirottati.
Sul fatto che strutture come le torri gemelle non potessero venir giù come castelli di carte anche se colpite da aeromobili si è ampiamente dibattuto ma, attenzione: alle 10,05 crolla la torre sud e alle 10,28 la torre nord... e allora, come si spiega che alle 17, 20 crolla il World Trade Center 7, non colpito dagli aerei?
Si dice che un quarto aereo abbia colpito il Pentagono ma, a parte i danni veramente esigui e non certamente paragonabili al crollo delle torri, non è stato trovato alcun relitto d’aereo nei pressi dell’edificio, non soltanto ma il segretario alla Difesa Rumsfeld in un’intervista del 12 ottobre 2001 si lasciò sfuggire una frase riguardo al “missile usato dai terroristi per colpire il Pentagono”...
In realtà, le incongruenze, anzi le vere e proprie assurdità nell’intera vicenda sono moltissime e fanno il paio, si può dire, con la fola delle armi di distruzione di massa in mano a Saddam Hussein, mai trovate. E’ un fatto, però, che le due cose, 11 settembre e armi di distruzione di massa in mano agli iracheni, costituirono il pretesto per l’invasione dell’Iraq.
A questo punto, viene in mente un altro pretesto... pardon, un altro episodio, assai più lontano nel tempo e nello spazio, verificatosi alle Hawaii nel dicembre 1941 e precisamente a Pearl Harbor.
All’epoca, l’America riforniva il Giappone di petrolio e minerale di ferro ma, dopo l’invasione da parte dell’Impero del Sol Levante di Manciuria e Indocina, gli Stati Uniti, affiancati naturalmente dall’Inghilterra, imposero ai nipponici uno strettissimo embargo (similmente a quanto avvenne in Europa con l’Italia, sempre per la questione coloniale); al riguardo, una semplice considerazione o domanda, che dir si voglia e non è una domanda retorica, vorremmo veramente che qualcuno ci desse chiarimenti in merito: come mai nessuno, né gli Usa né altre potenze all’epoca, alzò mai un dito né disse mai una parola contro la politica coloniale inglese, francese, olandese... una risposta, prego.
Il Giappone tentò in tutti i modi di evitare il confronto con l’America: nell’ottobre ‘41 il principe Konoye propose al presidente Roosvelt un incontro ad Honolulu, presenti anche i responsabili dell’esercito e della marina nipponici ma tale proposta venne rifiutata: è impensabile, a questo punto, che il governo americano potesse nutrire dubbi sull’inevitabilità o quanto meno la possibilità di un conflitto. Occorre inoltre aggiungere che l’attacco a Pearl Harbor non era affatto dato per scontato ma subordinato all’esito delle trattative nippo-americane; nonostante la consegna assoluta dell’ammiraglio Yamamoto al silenzio radio, tale consegna non fu rispettata appieno e messaggi radio nipponici furono captati dagli americani che avevano già decrittato da oltre un anno i cifrari giapponesi; nonostante la rotta più lunga adottata da Yamamoto per evitare di essere avvistati, segnali dell’avvicinamento della flotta giapponese furono captati dagli americani e inspiegabilmente ignorati, nonostante tutte le avvisaglie di possibili ostilità; è assolutamente inconcepibile, alla luce del semplice buonsenso, che una squadra navale come quella agli ordini dell’ammiraglio Yamamoto potesse avvicinarsi a una base come Pearl Harbor senza essere in qualche modo avvistata.
E dunque? Gli americani non avevano alcuna voglia di farsi trascinare nuovamente in una guerra in Europa, il ricordo del Primo Conflitto Mondiale con i suoi massacri era ancora troppo presente nella coscienza popolare e forse, in fin dei conti, Nazismo e Fascismo non costituivano una grande preoccupazione per gli statunitensi, anzi: il Duce non era affatto malvisto in America... ma il Giappone faceva parte del Tripartito e se avesse attaccato gli Stati Uniti, meglio ancora se proditoriamente, sarebbe stato giocoforza dichiarare guerra a Italia e Germania.
Non vogliamo andare oltre, abbiamo già dato sufficienti spunti di riflessione: Roosvelt voleva entrare in guerra, perchè temeva che una vittoria dell’Asse in Europa unita all’espansionismo nipponico avrebbero potuto pregiudicare più o meno gravemente gli interessi dell’America o addirittura una entrata in guerra successiva e magari in condizioni di inferiorità.
Pearl Harbor e 11 settembre: due “catastrofi” alla fine rivelatesi provvidenziali, per l’America, forse troppo, forse in modo sospetto e a chi obietta che tali accadimenti sono costati migliaia di vittime innocenti non possiamo che controbattere che il rischio di versare sangue innocente non ha mai fermato la belva umana, in nessuna epoca.

di Leonardo Incorvai

06 ottobre 2010

E un pirata inventò il capitalismo


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Il comportamento razionale dei filibustieri prefigura quello delle imprese


I marinai di un mercantile viaggiano tranquilli sulle onde. Una nave da duecento tonnellate appare all’orizzonte. Vista a distanza sembra inoffensiva. Batte bandiera inglese. Quando si fa più vicino, il naviglio rivela, però, tratti sinistri: è anch’esso un mercantile, ma alquanto modificato. Invece dei soliti sei cannoni, ne ha più di venti... La scena che Peter Leeson ci invita a contemplare in questo suo The Invisible Hook, ovvero alla lettera «l’uncino invisibile», che tratta dell’Economia secondo i pirati, è la minaccia di un arrembaggio: la nave misteriosa trasporta una ciurma di canaglie, comandate da un qualche Capitan Uncino. Gli ultimi dubbi verranno presto dissolti, perché i capi pirata amano personalizzare le loro insegne, variando lo schema di quella che è nota come la Bandiera della Morte, ovvero la Jolie Rouge (in seguito Jolly Roger), il drappo rosso — e poi nero — che reca teschio e ossa. Che cosa farà il comandante del mercantile alla vista di quello spauracchio dei mari? Magari si limiterà a seguire l’esortazione del Capitan Uncino della versione musicale di Edoardo Bennato: «Meglio che questa volta si arrenda». Ma cosa lo ha indotto a desistere da qualsiasi autodifesa?

Il fatto è che — almeno nella stragrande maggioranza — quei predoni del mare godevano fama non solo di essere spietati con chi non cedeva subito le armi, ma anche di essere fedeli alla parola data: chi si arrende avrà salva la vita, anche se perderà la roba. Uno scambio abbastanza equo per tutti coloro che si trovavano sospesi «tra il Diavolo e il profondo mare azzurro»: da una parte quelli che avevano tentato la sorte sulle onde; dall’altra i pirati stessi, che sfidavano la morte affrontando tempeste, abbordaggi, o magari l’implacabile «giustizia» di chi viveva sotto la legge.
Questo il paradosso dei pirati pacifisti. Come scrive Leeson: «La Jolly Roger finiva per salvare la vita ai marinai delle navi da carico. Segnalando l’identità dei pirati e i potenziali obiettivi preveniva una battaglia sanguinosa che avrebbe inutilmente ferito o ucciso non solo dei pirati ma anche degli innocenti marinai. Paradossalmente, dunque, l’effetto del lugubre simbolismo del teschio era simile a quello di una colomba che tiene nel becco un ramoscello d’ulivo!». I pirati erano capaci di beffarsi delle potenze del mondo intero e di elaborare insieme strumenti semiotici di mediazione piuttosto sofisticati — e tutto allo scopo di minimizzare i costi e massimizzare i profitti delle loro... imprese. Qui valeva la legge dell’Uncino Invisibile, degno correlato piratesco della Mano Invisibile di Adam Smith. La ricerca dell’utile personale di ciascun cittadino finiva per produrre la ricchezza della nazione; allo stesso modo, l’egoismo di ciascun pirata era funzionale all’economia di quello «Stato in miniatura» rappresentato dalla nave di questi predatori del mare.
Come scrive Leeson, i pirati erano sì dei «fuorilegge assoluti», ma non per questo erano incapaci di forme articolate di autogoverno. La loro massimizzazione del «piacere» richiedeva appunto «potere e libertà», e tutto questo era garantito da una «democrazia anarchica» che permetteva di affrontare con successo la grande questione che sottende l’origine dello Stato moderno. Per dirla con Baruch Spinoza: com’è possibile che ogni individuo ceda alla struttura pubblica una porzione della propria libertà e nello stesso tempo eviti «che la sua coscienza soggiaccia assolutamente all’altrui diritto»? La risposta è: definendo un sistema di controlli e contrappesi che garantisca che qualsiasi struttura statuale, «lungi dal convertire in bestie gli uomini dotati di ragione o farne degli automi», consenta invece «che la loro mente e il loro corpo possano con sicurezza esercitare le loro funzioni. Il vero fine dello Stato è la libertà».
È singolare, nota Leeson, che tutto ciò venisse realizzato con più di un secolo di anticipo rispetto al sistema di checks and balances escogitato dai padri fondatori di quell’«esperimento democratico» grazie a cui tredici colonie del Nordamerica divennero il nucleo degli Stati Uniti. Prima che contro la Corona e il Parlamento d’Inghilterra insorgessero i «risoluti ribelli», già si erano ammutinati non pochi marinai delle navi di sua maestà, per non dire delle piratesche «canaglie di tutto il mondo» che rifiutavano di chinare il capo di fronte a qualsiasi autorità. Il vero esperimento democratico è stato il loro — e le società aperte di cui oggi l’Occidente va tanto orgoglioso non hanno fatto che imparare da quei «mostri».
Non è perché fossero istintivamente miti o portati alla democrazia che i pirati finirono con lo scegliere la politica dell’intimidazione nei confronti del nemico esterno e quella del buon governo al proprio interno. Credo che ci possa aiutare a mettere in luce i tratti più salienti dell’Uncino Invisibile un modello elaborato da Elliot Sober in un contesto diverso (il dibattito sulla selezione darwiniana): in breve, biglie di diverso colore vengono filtrate da un crivello, i cui fori — che immaginiamo tutti uguali — bloccano quelle di dimensione superiore al diametro dell’apertura. Supponiamo inoltre che le biglie così piccole da non essere fermate dai buchi siano tutte colorate di rosso; possiamo concludere che il crivello seleziona solo biglie di quel colore. Ma quel tratto è tipicamente contingente: che il rosso si stabilizzi come carattere distintivo delle biglie «sopravvissute» è una mera conseguenza del meccanismo sottostante che discrimina le biglie per dimensione e del fatto «accidentale» che tutte le biglie abbastanza piccole sono di quel colore. Dunque, non è perché sono rosse che le biglie passano attraverso quel crivello; piuttosto, il fatto che sono rosse è un segno che esse erano adatte a superare l’ostacolo. Analogamente, possiamo dire che i nostri pirati erano «buoni» solo perché la loro bontà è stata selezionata come «tratto contingente» dalla logica economica che coordinava le loro pratiche.
Nel caso del crivello di Sober è facile individuare il meccanismo sottostante (se il diametro della biglia è maggiore di quello del foro, questa non passa). Nel caso dei pirati la ragione nascosta di tutto il processo è appunto l’Uncino Invisibile: la pirateria tra Seicento e Settecento aveva favorito l’evoluzione di quei tratti «buoni» perché questi erano i caratteri più vantaggiosi. Dunque, non solo l’analogia bensì anche la differenza con il crivello di Sober è istruttiva: le biglie ben poco fanno per modificare il crivello; le scelte dei pirati, invece, riescono a rimodellare il sistema di contromisure adottate dalle marine delle varie nazioni, nominalmente o realmente in guerra contro di loro. È un po’ come se il tingere di rosso alcune biglie ne riducesse la dimensione rendendole più «agili e snelle», in modo da eludere le maglie del crivello! I pirati sanno scegliere i colori, ed è grazie al rosso o al nero della Jolly Roger che riescono a piegare ai loro scopi le maglie di qualsiasi crivello venga loro opposto dal commercio «legale». Ma sanno anche che la mossa è rischiosa, perché li segnala come fuorilegge. Non diversamente, è rischioso per i pavoni possedere code sgargianti o per gli alci avere grandi palchi di corna per sedurre le femmine. Nello spirito darwiniano ciò funziona, anche se quegli animali rischiano maggiormente di apparire come possibili vittime dei predatori; quando riescono nei loro intenti, però, sono loro i «predatori» nella gara degli amori. E così sono i pirati, che il loro vessillo segnala inequivocabilmente come nemici di tutte le bandiere, ma che — quando il colpo va a segno — consente loro di ottenere quella «felicità» di cui vanno in cerca, e magari senza troppo spargimento di sangue.

di Giulio Giorello