01 novembre 2010

Quando Pasolini scrisse a un giovane fascista per salvare il suo mondo



Per essere reazionario, Pier Paolo Pasolini era reazionario. Basti pensare al suo testamento bio-poetico, quel "Saluto e augurio" che rivolge a un giovane fascista, definendolo "morto" e, però, affidandogli, fra le altre missioni che gli affida, quella di amare i poveri, sì, ma purché restino poveri: «Ama la loro voglia di vivere soli / nel loro mondo, tra prati e palazzi / dove non arrivi la parola / del nostro mondo; ama il confine che hanno segnato tra noi e loro; / ama il loro dialetto inventato ogni mattina, / per non farsi capire; per non condividere con nessuno la loro allegria».
Chiedere proprio a un giovane fascista di fare in modo che questa "allegria" incosciente e "diversa" fosse "difesa e conservata" era anche una forma di ipocrisia un po' vigliacca, esplicitamente dichiarata in finale di testo: «Prenditi tu, / sulle spalle, questo fardello. / Io non posso: nessuno ne capirebbe / lo scandalo». Insomma, un modo neanche tanto allegorico per dire: c'è un lavoro sporco da fare, impedire che i poveri, per andare incontro a una evoluzione dal loro stato di bisogno, siano inghiottiti dall'omologazione ("globalizzazione" la chiameremmo oggi) ma io non me lo posso permettere, fallo te che tanto sei un "morto".
Viene da pensare: e perché mai avrebbe dovuto essere proprio un giovane fascista a compiere questa opera salvifica del suo (di Pasolini) idilliaco mondo pre-moderno, sospeso fra le ridenti contrade di Casarsa nel Friuli e le borgate del sottoproletariato romano? Il vizio di prospettiva critica del poeta è evidente: per lui il fascismo, secondo i paradigmi della chiesa marxista alla quale nonostante tutto sosteneva appartenere, era l'avamposto della reazione al progresso che, sempre lui, detestava. Fosse stato veramente libero dai pregiudizi che diceva di aborrire, avrebbe potuto accorgersi facilmente che il momento storico in cui questo Paese è uscito dalla pre-modernità per entrare nella modernità, pur con tutte le sue contraddizioni, pur con tutti i suoi evitabili errori, fu proprio il Ventennio mussoliniano.
E non posso nemmeno pensare, da uomo di profonda cultura qual era, ignorasse che una delle molle propulsive del fascismo fosse stato quel Futurismo che tutto può essere considerato, tranne essere un movimento di retroguardia nemico del progresso e con il torcicollo storico. E quindi? Quindi, aveva semplicemente sbagliato destinatario della sua missiva. Quel fascista che aveva in mente lui era semplicemente sconosciuto all'indirizzo. Per quella conservazione e difesa della purezza proletaria che gli stava a cuore, contro qualsiasi insidia della modernità, avrebbe dovuto rivolgersi con più attendibile precisione a qualche suo correligionario marxista. Chessò?, a un khmer rosso, per esempio.
Ciononostante i reazionari, qual lui indubbiamente era, difettano nelle soluzioni che propongono ma sono spesso (non tutti…) dotati di una certa facoltà di preveggenza. Pasolini fu tra i primi ad accorgersi - eravamo intorno alla metà degli anni 70 - che il corso degli eventi stava prendendo la china che, di rimbalzo in rimbalzo, avrebbe prodotto la radicale trasformazione dei vincoli connettivi della società civile italiana, e non solo italiana. Anche perché avveduto della scuola francofortese dei vari Benjamin, Adorno, Horkheimer, Marcuse, Fromm, Löwenthal, declinò tempestivamente, o comunque ne fu tra i primi interpreti italiani, una critica serrata all'incipiente "società del consumo" nei suoi molteplici ingranaggi azzeranti. A cominciare da quel micidiale processo di schiacciamento del desiderio individuale sugli standard dei cicli produttivi del profitto capitalista über alles, fino a determinare una "mutazione antropologica" dell'individuo stesso. E non mancò nemmeno di indicare quale fosse lo strumento principale di cui i nuovi poteri si sarebbero serviti per realizzare lo scopo: la televisione.
Converrà rileggere le sue parole: «Per mezzo della televisione, il centro ha assimilato a sé l'intero paese che era così storicamente differenziato e ricco di culture originali. Ha cominciato un'opera di omologazione distruttrice di ogni autenticità e concretezza. Ha imposto cioè - come dicevo - i suoi modelli: che sono i modelli voluti dalla nuova industrializzazione, la quale non si accontenta più di un "uomo che consuma", ma pretende che non siano concepibili altre ideologie che quella del consumo, [del] nuovo fenomeno culturale "omologatore" che è l'edonismo di massa».
Porca miseria: queste parole furono pronunciate - credo - intorno al 1975, anno stesso della sua morte. Eravamo nel bel mezzo di una guerra civile. Le televisioni in Italia erano solo tre e tutte e tre erano controllate dall'apparato dei partiti. Le emittenti private avrebbero cominciato a trasmettere, e solo in ambito locale, nel 1976. Il Grande Fratello non ci aveva ancora convinti della sua verità, ovvero: che solo apparendo in Tv la realtà diventava realtà, e non era nemmeno stato ipotizzato come format di quel successo che avrebbe poi avuto nei palinsesti planetari. E questo reazionario poeta, narratore regista di cinema aveva già fotografato, con una messa a fuoco straordinaria, la macchina che ci avrebbe persuasi tutti di vivere nel "migliore dei mondi possibili". Manco il fascismo - sosteneva - era riuscito a tanto.
Per una corretta cronologia, basterà far caso che, in quel fatidico 1975, Silvio Berlusconi si occupava ancora solo di attività edilizia. Sconosciuto al grande pubblico, e allo stesso Pasolini ma non, probabilmente, al suo superconscio, il futuro avvento del "Grande Comunicatore" - e chi altri se non lui? - già dettava al poeta la profezia finale: «È attraverso lo spirito della televisione che si manifesta in concreto lo spirito del nuovo potere. Non c'è dubbio (lo si vede dai risultati) che la televisione sia autoritaria e repressiva come mai nessun mezzo di informazione al mondo». Che strano uomo questo Pasolini. Reazionario fino al punto di esaltare l'azione repressiva dei poliziotti a Valle Giulia, all'alba del 68, e lungimirante fino al limite di immaginare dove la società del "Drive in" ci avrebbe approdati: in quella dittatura del "Truman Show" che abbiamo sperimentato ben bene in questi ultimi 16 anni. E dalla quale, finalmente, stiamo cercando di uscire. Forse, un po', anche grazie a lui…
di Miro Renzaglia

30 ottobre 2010

L'economia del disastro globale







Decrescita o diverso modello di sviluppo? Le contraddizioni del capitalismo, i ritardi della sinistra sulla questione ambientale, l'assuefazione a considerarci tutti consumatori. E le lungimiranti analisi dell'economista Georgescu-Rogen che già negli anni '70 rifletteva su guerra, demografia, stili di vita

La crescita del prodotto è lo strumento perseguito per il superamento della crisi. Una politica criticata dall' ambientalismo più qualificato. Tu che ne pensi?

Credo che come valore principale si dovrebbe pensare non tanto alla crescita, quanto a un diverso modello di sviluppo economico, rispettoso della natura. Tuttavia diffido della parola "decrescita", mi pare sia un errore dei sostenitori di questa tesi, peraltro preparati, agguerriti, intelligenti ... Non si tratta di decrescita, ma di adottare stili di vita diversi. Se ciò fosse tecnicamente concepibile, bisognerebbe però vedere se l'umanità è disposta ad aderire a un modello di questo genere: e questo è un problema politico.

Già, la gente ha assunto la crescita ormai come norma di vita.

Certo. Bisogna però ricordare che, per tutta la prima fase del capitalismo, la crescita è stata provvidenziale; e lo è ancora nei paesi poveri. Il superamento delle condizioni di miseria del primo capitalismo, durato in pratica tutto l'800, è stato un fatto straordinario. Quanto poi alla capacità di crescita attuale va detto che non tutto il mondo ne è capace. Alcuni paesi - Cina, India, Brasile - lo sono, e ovviamente aggravano le condizioni ambientali. Ma nel resto del mondo, il capitalismo non è nemmeno più capace di crescita.
Infatti. C'è questo doppio problema. La crescita - a parte la sua ricaduta negativa sull'ecosistema - sembra non funzionare più...
Una delle ragioni per le quali non funziona più è che negli ultimi trent'anni le modalità della crescita capitalistica hanno generato disoccupazione e disuguaglianze: i ricchi sono diventati più ricchi, i poveri più poveri ... E questo ha provocato la crisi attuale: se i redditi da lavoro sono bassi, è bassa la domanda effettiva, l'economia non cresce e i capitali si spostano sulla finanza, con i risultati che abbiamo visto.

Il capitalismo non tiene più ?

Credo proprio che lo si possa dire: lo si vede. E al fondo credo ci sia una questione su cui era stato molto chiaro Marx, quando scrive, nelle ultime pagine del III libro del Capitale, che il «processo lavorativo è soltanto un processo tra l'uomo e la natura». Se ci si riflette, qualsiasi processo produttivo, per quanto complesso, mediato da macchine, ecc., alla fine è un rapporto tra uomo e natura.

Da tempo mi domando come sia possibile che grandi economisti, imprenditori, politici (a Davos, Cernobbio, Capri...) discutano del futuro del mondo senza nemmeno nominare l'ambiente.

Come se le merci che producono non fossero fatte di natura...

Un fatto che qualsiasi persona di buon senso dovrebbe considerare ... Nelle forme primitive di economia il rapporto tra uomo e natura attraverso il lavoro era immediato ed evidente; ma anche il lavoro moderno, tecnicamente più complesso, alla fine risulta essere un rapporto, seppure mediato, tra uomo e natura. Allora si può dire che tendenzialmente si genera un conflitto tra lo sviluppo materiale della produzione e la sua forma sociale; e che così come ci sono dei limiti al saggio di sfruttamento del lavoro, oltre il quale si danno crisi economiche, così esiste un limite al saggio di sfruttamento della natura, oltre il quale si danno crisi della stessa natura.

D'altronde questa sproporzione tra disponibilità di natura e uso della medesima è un fatto recente, che appartiene al capitalismo, ma è enormemente aumentata nel dopoguerra, con la società dei consumi.

Certamente. E su questo credo si debba riflettere partendo dal pensiero di Georgescu-Roegen, un grande economista poco noto; il quale ci ricorda che anche il processo produttivo è regolato dalle leggi della termodinamica, e che per la legge dell'entropia la materia è soggetta a una dissipazione irreversibile. Ciò significa che nel lungo periodo, ma non tanto lungo, la decrescita non sarà una scelta, ma un fatto di natura: la legge della termodinamica funziona per tutti. Da ciò Georgescu non trae però conclusioni catastrofiche. Sì domanda invece: si potrebbe fare qualcosa? La sua risposta è sì: e si articola in un programma bioeconomico minimale, formulato in otto punti. Il primo afferma che dovrebbe essere proibita non solo la guerra, ma anche la produzione di ogni strumento bellico. E non solo per ragioni morali, ma perché le forze produttive così liberate potrebbero essere impiegate al fine di consentire ai paesi sottosviluppati di raggiungere rapidamente gli standard di una vita buona. Perché un progetto di diverso sviluppo deve essere condiviso a livello universale, altrimenti non può funzionare. Inoltre - afferma Georgescu - la popolazione mondiale dovrebbe ridursi fino a renderne possibile la nutrizione mediante la sola agricoltura organica. Ma oggi la questione demografica non viene nemmeno posta ...

Anzi, si lamenta la denatalità, e quindi la caduta di consumi come carrozzelle, pannolini , ecc.

Ormai dell'umanità, di tutti noi, si parla non più come di lavoratori, ma solo come di consumatori. E anche a questo proposito bisogna tenere presente che anche quando (se mai giorno verrà) le energie rinnovabili saranno davvero convenienti e sicure, i risparmi che ne avremo saranno molto minori di quanto ci si promette. Ogni spreco di energia deve dunque essere evitato: mentre normalmente noi viviamo troppo al caldo d'inverno, troppo al freddo d'estate, spingiamo l'automobile a troppa velocità, usiamo troppe lampadine ... Il programma di Georgescu dice poi molto altro: dovremmo rinunciare ai troppi prodotti inutili; liberarci dalla moda di sostituire abiti, mobili, elettrodomestici, e quanto è ancora utile; i beni durevoli devono essere ancor più durevoli e perciò riparabili. L'ultimo punto è che dobbiamo liberarci dalla frenesia del fare, e capire che requisito importante per una buona vita è l'ozio. Ozio - aggiungo io - inteso come tempo libero liberato dall'ansia e impiegato in maniera intelligente. E su questo credo non si possa non convenire, per rinviare il momento del disordine e nel frattempo vivere una vita migliore. Però, domanda politica: siamo pronti, noi per primi, ma soprattutto i potenti della terra, a fare nostro il programma di Georgescu?

Questa era la domanda che ti volevo porre. Anche perché Georgescu-Roegen scriveva negli anni '70, quando ancora il consumo non si era ancora imposto come fattore primo di definizione della vita ..

Infatti. E la cosa interessante è che il programma di Georgescu richiama un famoso scritto di Keynes (del 1930): Le prospettive economiche per i nostri nipoti. Molti di questi punti lì c'erano già: guerra, problema demografico, stili di vita, tempo libero ... Due autori di grande statura che avevano precocemente colto il punto, insistendo sulla desiderabilità di altri stili di vita... Anche se Georgescu ragiona in maniera più direttamente funzionale alla difesa della natura. Rimane comunque la domanda: siamo pronti?

Nessuno è pronto, temo. Ma, passando a un altro argomento: le sinistre sono sempre state assenti riguardo al tema ambiente, e talora su posizioni nettamente ostili. In ciò contraddicendo la loro stessa funzione, perché per lo più sono i poveri a pagare inquinamento, alluvioni, desertificazioni, tossicità diffusa ... Eppoi perché, insomma, le sinistre sono nate contro il capitalismo: non toccherebbe a loro per prime occuparsi di un problema che proprio dal capitalismo deriva?

Questa tradizione non ambientalista delle sinistre è dipesa anche da uno scarso approfondimento di questi temi. Mentre curiosamente l' hanno fatto un paio di capitalisti illuminati. Io di solito diffido della definizione di "capitalisti illuminati", tuttavia due debbo ricordarli. Uno, il senatore Giovanni Agnelli, che nei primi anni trenta sosteneva la necessità di una riduzione dell'orario di lavoro, in dura polemica con un preoccupatissimo Luigi Einaudi. L'altro, Henry Ford con la sua politica di alti salari (che molto interessò Antonio Gramsci): i lavoratori devono essere ben pagati, affinché possano comperare le merci che essi stessi producono.

Un'iniziativa che in sintesi già prefigurava la società dei consumi...

Certamente. Ma la cosa interessante è che Kojève, il grande intellettuale studioso di Hegel, russo d'origine poi approdato in Francia, diceva che Ford era il Marx del XX secolo: per aver colto la contraddizione e il rischio di lavoratori che non potevano comperare ciò che essi stessi producevano. Un tema caro anche a Claudio Napoleoni, quando diceva che il lavoratore si trova davanti, come nemico, ciò che egli stesso ha prodotto. Ford non era mica un sant'uomo, era durissimo coi sindacati, ma da un punto di vista strettamente economico aveva colto il problema. D'altronde nemmeno Keynes voleva abbattere il capitalismo: voleva farlo funzionare meglio, anzi salvarlo, come dichiarava esplicitamente. Mentre molti parlavano di lui come di un bolscevico, a cominciare proprio da Einaudi. Ma per tornare alla tua domanda circa le sinistre di oggi, la mia risposta è in interrogativo: dove sono oggi le sinistre?

Queste tante piazze piene di gente, di giovani soprattutto, queste manifestazioni sempre più frequenti, molto spesso centrate proprio su problemi ecologici: acqua, nucleare, rifiuti, distruzione di parchi, cementificazione di litorali .... Non significa nulla tutto questo? Se ci pensi, questi tanti conflitti "minori", diciamo, sono tutti riconducibili alla radice capitalista. Un'analisi in qualche misura approfondita scopre che la radice è sempre l'impianto capitalistico. Queste sinistre, possibile che non se ne accorgano? Che non vedano che questa potrebbe essere una base da cui partire?

Tutto questo è però molto frammentato, manca la sintesi, quindi manca quella che potrebbe essere la base concettuale e ideale di un progetto di sinistra ... Certo, questo dovrebbe essere il compito della sinistra: portare a sintesi tutte le istanze nobili e progressiste ... Ma questa è una sensibilità che mi pare manchi alle sinistre ... L'unico che aveva provato a ragionare di queste cose, era stato Berlinguer con il suo discorso sull'austerità. Era un discorso molto alto, che toccava proprio i temi di cui abbiamo parlato; tanto alto che non era stato capito, e letto addirittura come un invito ai compagni a tirare la cinghia.


GIORGIO LUNGHINI
Carla Ravaioli

29 ottobre 2010

Così ci ingannano sui farmaci




Uno studio rivela come le aziende farmaceutiche riscrivano gli articoli scientifici per gonfiare le virtù di una medicina o nasconderne i danni collaterali. Ed è sulla base di questi "falsi" che spesso vengono fatte le ricette

Gli articoli scientifici che riportano studi clinici controllati riguardanti nuovi farmaci rappresentano la base per redigere articoli più divulgativi che influenzano le prescrizioni da parte dei medici che raramente leggono gli articoli originali. Le industrie colgono questa opportunità per rendere gli articoli il più possibile favorevoli al nuovo farmaco, facendoli revisionare - o addirittura scrivere completamente - da esperti che rimangono anonimi, sono i cosiddetti "scrittori fantasma". Molto spesso non si tratta di modificare i risultati, ma di presentarli in modo attraente, enfatizzando piccoli risultati e minimizzando l'eventuale presenza di effetti tossici.

Particolare attenzione viene riservata al riassunto del lavoro, perché in generale questo non è oggetto di molto interesse da parte dei valutatori, mentre rappresenta la parte dell'articolo che più frequentemente è letta e determina l'impressione finale da parte del lettore.

Questo modo di operare è evidentemente non-etico e non riguarda solo le industrie interessate, ma anche i ricercatori clinici che accettano di firmare lavori scientifici scritti da altri. Uno studio pubblicato su "Plos Medicine" analizza i documenti messi a disposizione da parte della Giustizia Federale degli Stati Uniti che riguardano in particolare parecchi articoli scritti per commentare gli effetti favorevoli della terapia ormonale in menopausa da parte di una ditta specializzata nella stesura di articoli scientifici a pagamento. I ghost writer cercavano di mitigare il rischio di tumore della mammella dovuto all'uso della terapia ormonale magnificando benefici cardiovascolari e prevenzione della demenza, della malattia di Parkinson (e persino delle rughe, senza ovviamente alcuna base scientifica).

Tutto ciò non può che nuocere all'appropriatezza delle terapie, ma serve invece a gonfiare le prescrizioni e i profitti. È importante che i medici siano critici nella lettura della documentazione che ricevono, controllando i dati se possibile sui lavori originali. Occorre anche che il Servizio Sanitario Nazionale dissemini informazioni oggettive per ridurre la sproporzione oggi esistente fra messaggi dell'industria farmaceutica e informazione indipendente.

Silvio Garattini, direttore Istituto Mario Negri di Milano

01 novembre 2010

Quando Pasolini scrisse a un giovane fascista per salvare il suo mondo



Per essere reazionario, Pier Paolo Pasolini era reazionario. Basti pensare al suo testamento bio-poetico, quel "Saluto e augurio" che rivolge a un giovane fascista, definendolo "morto" e, però, affidandogli, fra le altre missioni che gli affida, quella di amare i poveri, sì, ma purché restino poveri: «Ama la loro voglia di vivere soli / nel loro mondo, tra prati e palazzi / dove non arrivi la parola / del nostro mondo; ama il confine che hanno segnato tra noi e loro; / ama il loro dialetto inventato ogni mattina, / per non farsi capire; per non condividere con nessuno la loro allegria».
Chiedere proprio a un giovane fascista di fare in modo che questa "allegria" incosciente e "diversa" fosse "difesa e conservata" era anche una forma di ipocrisia un po' vigliacca, esplicitamente dichiarata in finale di testo: «Prenditi tu, / sulle spalle, questo fardello. / Io non posso: nessuno ne capirebbe / lo scandalo». Insomma, un modo neanche tanto allegorico per dire: c'è un lavoro sporco da fare, impedire che i poveri, per andare incontro a una evoluzione dal loro stato di bisogno, siano inghiottiti dall'omologazione ("globalizzazione" la chiameremmo oggi) ma io non me lo posso permettere, fallo te che tanto sei un "morto".
Viene da pensare: e perché mai avrebbe dovuto essere proprio un giovane fascista a compiere questa opera salvifica del suo (di Pasolini) idilliaco mondo pre-moderno, sospeso fra le ridenti contrade di Casarsa nel Friuli e le borgate del sottoproletariato romano? Il vizio di prospettiva critica del poeta è evidente: per lui il fascismo, secondo i paradigmi della chiesa marxista alla quale nonostante tutto sosteneva appartenere, era l'avamposto della reazione al progresso che, sempre lui, detestava. Fosse stato veramente libero dai pregiudizi che diceva di aborrire, avrebbe potuto accorgersi facilmente che il momento storico in cui questo Paese è uscito dalla pre-modernità per entrare nella modernità, pur con tutte le sue contraddizioni, pur con tutti i suoi evitabili errori, fu proprio il Ventennio mussoliniano.
E non posso nemmeno pensare, da uomo di profonda cultura qual era, ignorasse che una delle molle propulsive del fascismo fosse stato quel Futurismo che tutto può essere considerato, tranne essere un movimento di retroguardia nemico del progresso e con il torcicollo storico. E quindi? Quindi, aveva semplicemente sbagliato destinatario della sua missiva. Quel fascista che aveva in mente lui era semplicemente sconosciuto all'indirizzo. Per quella conservazione e difesa della purezza proletaria che gli stava a cuore, contro qualsiasi insidia della modernità, avrebbe dovuto rivolgersi con più attendibile precisione a qualche suo correligionario marxista. Chessò?, a un khmer rosso, per esempio.
Ciononostante i reazionari, qual lui indubbiamente era, difettano nelle soluzioni che propongono ma sono spesso (non tutti…) dotati di una certa facoltà di preveggenza. Pasolini fu tra i primi ad accorgersi - eravamo intorno alla metà degli anni 70 - che il corso degli eventi stava prendendo la china che, di rimbalzo in rimbalzo, avrebbe prodotto la radicale trasformazione dei vincoli connettivi della società civile italiana, e non solo italiana. Anche perché avveduto della scuola francofortese dei vari Benjamin, Adorno, Horkheimer, Marcuse, Fromm, Löwenthal, declinò tempestivamente, o comunque ne fu tra i primi interpreti italiani, una critica serrata all'incipiente "società del consumo" nei suoi molteplici ingranaggi azzeranti. A cominciare da quel micidiale processo di schiacciamento del desiderio individuale sugli standard dei cicli produttivi del profitto capitalista über alles, fino a determinare una "mutazione antropologica" dell'individuo stesso. E non mancò nemmeno di indicare quale fosse lo strumento principale di cui i nuovi poteri si sarebbero serviti per realizzare lo scopo: la televisione.
Converrà rileggere le sue parole: «Per mezzo della televisione, il centro ha assimilato a sé l'intero paese che era così storicamente differenziato e ricco di culture originali. Ha cominciato un'opera di omologazione distruttrice di ogni autenticità e concretezza. Ha imposto cioè - come dicevo - i suoi modelli: che sono i modelli voluti dalla nuova industrializzazione, la quale non si accontenta più di un "uomo che consuma", ma pretende che non siano concepibili altre ideologie che quella del consumo, [del] nuovo fenomeno culturale "omologatore" che è l'edonismo di massa».
Porca miseria: queste parole furono pronunciate - credo - intorno al 1975, anno stesso della sua morte. Eravamo nel bel mezzo di una guerra civile. Le televisioni in Italia erano solo tre e tutte e tre erano controllate dall'apparato dei partiti. Le emittenti private avrebbero cominciato a trasmettere, e solo in ambito locale, nel 1976. Il Grande Fratello non ci aveva ancora convinti della sua verità, ovvero: che solo apparendo in Tv la realtà diventava realtà, e non era nemmeno stato ipotizzato come format di quel successo che avrebbe poi avuto nei palinsesti planetari. E questo reazionario poeta, narratore regista di cinema aveva già fotografato, con una messa a fuoco straordinaria, la macchina che ci avrebbe persuasi tutti di vivere nel "migliore dei mondi possibili". Manco il fascismo - sosteneva - era riuscito a tanto.
Per una corretta cronologia, basterà far caso che, in quel fatidico 1975, Silvio Berlusconi si occupava ancora solo di attività edilizia. Sconosciuto al grande pubblico, e allo stesso Pasolini ma non, probabilmente, al suo superconscio, il futuro avvento del "Grande Comunicatore" - e chi altri se non lui? - già dettava al poeta la profezia finale: «È attraverso lo spirito della televisione che si manifesta in concreto lo spirito del nuovo potere. Non c'è dubbio (lo si vede dai risultati) che la televisione sia autoritaria e repressiva come mai nessun mezzo di informazione al mondo». Che strano uomo questo Pasolini. Reazionario fino al punto di esaltare l'azione repressiva dei poliziotti a Valle Giulia, all'alba del 68, e lungimirante fino al limite di immaginare dove la società del "Drive in" ci avrebbe approdati: in quella dittatura del "Truman Show" che abbiamo sperimentato ben bene in questi ultimi 16 anni. E dalla quale, finalmente, stiamo cercando di uscire. Forse, un po', anche grazie a lui…
di Miro Renzaglia

30 ottobre 2010

L'economia del disastro globale







Decrescita o diverso modello di sviluppo? Le contraddizioni del capitalismo, i ritardi della sinistra sulla questione ambientale, l'assuefazione a considerarci tutti consumatori. E le lungimiranti analisi dell'economista Georgescu-Rogen che già negli anni '70 rifletteva su guerra, demografia, stili di vita

La crescita del prodotto è lo strumento perseguito per il superamento della crisi. Una politica criticata dall' ambientalismo più qualificato. Tu che ne pensi?

Credo che come valore principale si dovrebbe pensare non tanto alla crescita, quanto a un diverso modello di sviluppo economico, rispettoso della natura. Tuttavia diffido della parola "decrescita", mi pare sia un errore dei sostenitori di questa tesi, peraltro preparati, agguerriti, intelligenti ... Non si tratta di decrescita, ma di adottare stili di vita diversi. Se ciò fosse tecnicamente concepibile, bisognerebbe però vedere se l'umanità è disposta ad aderire a un modello di questo genere: e questo è un problema politico.

Già, la gente ha assunto la crescita ormai come norma di vita.

Certo. Bisogna però ricordare che, per tutta la prima fase del capitalismo, la crescita è stata provvidenziale; e lo è ancora nei paesi poveri. Il superamento delle condizioni di miseria del primo capitalismo, durato in pratica tutto l'800, è stato un fatto straordinario. Quanto poi alla capacità di crescita attuale va detto che non tutto il mondo ne è capace. Alcuni paesi - Cina, India, Brasile - lo sono, e ovviamente aggravano le condizioni ambientali. Ma nel resto del mondo, il capitalismo non è nemmeno più capace di crescita.
Infatti. C'è questo doppio problema. La crescita - a parte la sua ricaduta negativa sull'ecosistema - sembra non funzionare più...
Una delle ragioni per le quali non funziona più è che negli ultimi trent'anni le modalità della crescita capitalistica hanno generato disoccupazione e disuguaglianze: i ricchi sono diventati più ricchi, i poveri più poveri ... E questo ha provocato la crisi attuale: se i redditi da lavoro sono bassi, è bassa la domanda effettiva, l'economia non cresce e i capitali si spostano sulla finanza, con i risultati che abbiamo visto.

Il capitalismo non tiene più ?

Credo proprio che lo si possa dire: lo si vede. E al fondo credo ci sia una questione su cui era stato molto chiaro Marx, quando scrive, nelle ultime pagine del III libro del Capitale, che il «processo lavorativo è soltanto un processo tra l'uomo e la natura». Se ci si riflette, qualsiasi processo produttivo, per quanto complesso, mediato da macchine, ecc., alla fine è un rapporto tra uomo e natura.

Da tempo mi domando come sia possibile che grandi economisti, imprenditori, politici (a Davos, Cernobbio, Capri...) discutano del futuro del mondo senza nemmeno nominare l'ambiente.

Come se le merci che producono non fossero fatte di natura...

Un fatto che qualsiasi persona di buon senso dovrebbe considerare ... Nelle forme primitive di economia il rapporto tra uomo e natura attraverso il lavoro era immediato ed evidente; ma anche il lavoro moderno, tecnicamente più complesso, alla fine risulta essere un rapporto, seppure mediato, tra uomo e natura. Allora si può dire che tendenzialmente si genera un conflitto tra lo sviluppo materiale della produzione e la sua forma sociale; e che così come ci sono dei limiti al saggio di sfruttamento del lavoro, oltre il quale si danno crisi economiche, così esiste un limite al saggio di sfruttamento della natura, oltre il quale si danno crisi della stessa natura.

D'altronde questa sproporzione tra disponibilità di natura e uso della medesima è un fatto recente, che appartiene al capitalismo, ma è enormemente aumentata nel dopoguerra, con la società dei consumi.

Certamente. E su questo credo si debba riflettere partendo dal pensiero di Georgescu-Roegen, un grande economista poco noto; il quale ci ricorda che anche il processo produttivo è regolato dalle leggi della termodinamica, e che per la legge dell'entropia la materia è soggetta a una dissipazione irreversibile. Ciò significa che nel lungo periodo, ma non tanto lungo, la decrescita non sarà una scelta, ma un fatto di natura: la legge della termodinamica funziona per tutti. Da ciò Georgescu non trae però conclusioni catastrofiche. Sì domanda invece: si potrebbe fare qualcosa? La sua risposta è sì: e si articola in un programma bioeconomico minimale, formulato in otto punti. Il primo afferma che dovrebbe essere proibita non solo la guerra, ma anche la produzione di ogni strumento bellico. E non solo per ragioni morali, ma perché le forze produttive così liberate potrebbero essere impiegate al fine di consentire ai paesi sottosviluppati di raggiungere rapidamente gli standard di una vita buona. Perché un progetto di diverso sviluppo deve essere condiviso a livello universale, altrimenti non può funzionare. Inoltre - afferma Georgescu - la popolazione mondiale dovrebbe ridursi fino a renderne possibile la nutrizione mediante la sola agricoltura organica. Ma oggi la questione demografica non viene nemmeno posta ...

Anzi, si lamenta la denatalità, e quindi la caduta di consumi come carrozzelle, pannolini , ecc.

Ormai dell'umanità, di tutti noi, si parla non più come di lavoratori, ma solo come di consumatori. E anche a questo proposito bisogna tenere presente che anche quando (se mai giorno verrà) le energie rinnovabili saranno davvero convenienti e sicure, i risparmi che ne avremo saranno molto minori di quanto ci si promette. Ogni spreco di energia deve dunque essere evitato: mentre normalmente noi viviamo troppo al caldo d'inverno, troppo al freddo d'estate, spingiamo l'automobile a troppa velocità, usiamo troppe lampadine ... Il programma di Georgescu dice poi molto altro: dovremmo rinunciare ai troppi prodotti inutili; liberarci dalla moda di sostituire abiti, mobili, elettrodomestici, e quanto è ancora utile; i beni durevoli devono essere ancor più durevoli e perciò riparabili. L'ultimo punto è che dobbiamo liberarci dalla frenesia del fare, e capire che requisito importante per una buona vita è l'ozio. Ozio - aggiungo io - inteso come tempo libero liberato dall'ansia e impiegato in maniera intelligente. E su questo credo non si possa non convenire, per rinviare il momento del disordine e nel frattempo vivere una vita migliore. Però, domanda politica: siamo pronti, noi per primi, ma soprattutto i potenti della terra, a fare nostro il programma di Georgescu?

Questa era la domanda che ti volevo porre. Anche perché Georgescu-Roegen scriveva negli anni '70, quando ancora il consumo non si era ancora imposto come fattore primo di definizione della vita ..

Infatti. E la cosa interessante è che il programma di Georgescu richiama un famoso scritto di Keynes (del 1930): Le prospettive economiche per i nostri nipoti. Molti di questi punti lì c'erano già: guerra, problema demografico, stili di vita, tempo libero ... Due autori di grande statura che avevano precocemente colto il punto, insistendo sulla desiderabilità di altri stili di vita... Anche se Georgescu ragiona in maniera più direttamente funzionale alla difesa della natura. Rimane comunque la domanda: siamo pronti?

Nessuno è pronto, temo. Ma, passando a un altro argomento: le sinistre sono sempre state assenti riguardo al tema ambiente, e talora su posizioni nettamente ostili. In ciò contraddicendo la loro stessa funzione, perché per lo più sono i poveri a pagare inquinamento, alluvioni, desertificazioni, tossicità diffusa ... Eppoi perché, insomma, le sinistre sono nate contro il capitalismo: non toccherebbe a loro per prime occuparsi di un problema che proprio dal capitalismo deriva?

Questa tradizione non ambientalista delle sinistre è dipesa anche da uno scarso approfondimento di questi temi. Mentre curiosamente l' hanno fatto un paio di capitalisti illuminati. Io di solito diffido della definizione di "capitalisti illuminati", tuttavia due debbo ricordarli. Uno, il senatore Giovanni Agnelli, che nei primi anni trenta sosteneva la necessità di una riduzione dell'orario di lavoro, in dura polemica con un preoccupatissimo Luigi Einaudi. L'altro, Henry Ford con la sua politica di alti salari (che molto interessò Antonio Gramsci): i lavoratori devono essere ben pagati, affinché possano comperare le merci che essi stessi producono.

Un'iniziativa che in sintesi già prefigurava la società dei consumi...

Certamente. Ma la cosa interessante è che Kojève, il grande intellettuale studioso di Hegel, russo d'origine poi approdato in Francia, diceva che Ford era il Marx del XX secolo: per aver colto la contraddizione e il rischio di lavoratori che non potevano comperare ciò che essi stessi producevano. Un tema caro anche a Claudio Napoleoni, quando diceva che il lavoratore si trova davanti, come nemico, ciò che egli stesso ha prodotto. Ford non era mica un sant'uomo, era durissimo coi sindacati, ma da un punto di vista strettamente economico aveva colto il problema. D'altronde nemmeno Keynes voleva abbattere il capitalismo: voleva farlo funzionare meglio, anzi salvarlo, come dichiarava esplicitamente. Mentre molti parlavano di lui come di un bolscevico, a cominciare proprio da Einaudi. Ma per tornare alla tua domanda circa le sinistre di oggi, la mia risposta è in interrogativo: dove sono oggi le sinistre?

Queste tante piazze piene di gente, di giovani soprattutto, queste manifestazioni sempre più frequenti, molto spesso centrate proprio su problemi ecologici: acqua, nucleare, rifiuti, distruzione di parchi, cementificazione di litorali .... Non significa nulla tutto questo? Se ci pensi, questi tanti conflitti "minori", diciamo, sono tutti riconducibili alla radice capitalista. Un'analisi in qualche misura approfondita scopre che la radice è sempre l'impianto capitalistico. Queste sinistre, possibile che non se ne accorgano? Che non vedano che questa potrebbe essere una base da cui partire?

Tutto questo è però molto frammentato, manca la sintesi, quindi manca quella che potrebbe essere la base concettuale e ideale di un progetto di sinistra ... Certo, questo dovrebbe essere il compito della sinistra: portare a sintesi tutte le istanze nobili e progressiste ... Ma questa è una sensibilità che mi pare manchi alle sinistre ... L'unico che aveva provato a ragionare di queste cose, era stato Berlinguer con il suo discorso sull'austerità. Era un discorso molto alto, che toccava proprio i temi di cui abbiamo parlato; tanto alto che non era stato capito, e letto addirittura come un invito ai compagni a tirare la cinghia.


GIORGIO LUNGHINI
Carla Ravaioli

29 ottobre 2010

Così ci ingannano sui farmaci




Uno studio rivela come le aziende farmaceutiche riscrivano gli articoli scientifici per gonfiare le virtù di una medicina o nasconderne i danni collaterali. Ed è sulla base di questi "falsi" che spesso vengono fatte le ricette

Gli articoli scientifici che riportano studi clinici controllati riguardanti nuovi farmaci rappresentano la base per redigere articoli più divulgativi che influenzano le prescrizioni da parte dei medici che raramente leggono gli articoli originali. Le industrie colgono questa opportunità per rendere gli articoli il più possibile favorevoli al nuovo farmaco, facendoli revisionare - o addirittura scrivere completamente - da esperti che rimangono anonimi, sono i cosiddetti "scrittori fantasma". Molto spesso non si tratta di modificare i risultati, ma di presentarli in modo attraente, enfatizzando piccoli risultati e minimizzando l'eventuale presenza di effetti tossici.

Particolare attenzione viene riservata al riassunto del lavoro, perché in generale questo non è oggetto di molto interesse da parte dei valutatori, mentre rappresenta la parte dell'articolo che più frequentemente è letta e determina l'impressione finale da parte del lettore.

Questo modo di operare è evidentemente non-etico e non riguarda solo le industrie interessate, ma anche i ricercatori clinici che accettano di firmare lavori scientifici scritti da altri. Uno studio pubblicato su "Plos Medicine" analizza i documenti messi a disposizione da parte della Giustizia Federale degli Stati Uniti che riguardano in particolare parecchi articoli scritti per commentare gli effetti favorevoli della terapia ormonale in menopausa da parte di una ditta specializzata nella stesura di articoli scientifici a pagamento. I ghost writer cercavano di mitigare il rischio di tumore della mammella dovuto all'uso della terapia ormonale magnificando benefici cardiovascolari e prevenzione della demenza, della malattia di Parkinson (e persino delle rughe, senza ovviamente alcuna base scientifica).

Tutto ciò non può che nuocere all'appropriatezza delle terapie, ma serve invece a gonfiare le prescrizioni e i profitti. È importante che i medici siano critici nella lettura della documentazione che ricevono, controllando i dati se possibile sui lavori originali. Occorre anche che il Servizio Sanitario Nazionale dissemini informazioni oggettive per ridurre la sproporzione oggi esistente fra messaggi dell'industria farmaceutica e informazione indipendente.

Silvio Garattini, direttore Istituto Mario Negri di Milano