04 novembre 2010

La Guerra delle valute





La guerra valutaria mondiale in corso è la dimostrazione di tre realtà dell’economia globalizzata.

La prima è che la crisi è tutt’altro che finita.
La seconda è che gli equilibri del potere economico mondiale sono mutati e che con essi viene meno l’egemonia Usa.
La terza è che questo cambiamento, insieme alla crisi, sta acuendo la conflittualità tra le aree economiche principali, Usa, Ue, Bric.
Questo terzo elemento è accentuato dalla volontà degli Usa di scaricare la crisi, di cui sono epicentro, sugli altri paesi e dalla scelta di risolverla nella stessa maniera in cui hanno cercato di risolvere ogni crisi negli ultimi decenni: con l’immissione di dosi massicce di liquidità nel sistema finanziario da parte del governo e con il conseguente aumento del debito pubblico. Due metodi che, sebbene abbiano consentito di risolvere temporaneamente le crisi, hanno però creato una serie di bolle speculative, che, una volta scoppiate, facevano ripiombare il sistema in una crisi più profonda.
Questa volta la massiccia immissione di liquidità – 800 miliardi di investimenti pubblici nel 2009 – non ha neanche prodotto benefici reali, visto che negli Usa il tasso di disoccupazione è ancora alto (chi ha lavoro è oggi il 4,6% in meno del 2007) e il deficit commerciale con l’estero, il più grande del mondo, è aumentato ancora, arrivando a 604 miliardi di dollari. L’immissione di liquidità ha prodotto invece la consueta serie di impennate speculative, prima verso i titoli di stato e le materie prime e ora verso i junk bonds, i titoli spazzatura. In compenso, il debito pubblico Usa è esploso. Questo ufficialmente è al 90% del Pil, ma, se si considerano le nazionalizzazioni di fatto di Freddie Mac e Fannie Mae, si arriva al 140%, e, se si dà per buona la valutazione dell’Ufficio del Bilancio del Congresso Usa, con le pensioni ai reduci di guerra e le spese sanitarie si arriverebbe almeno al 400%.

Intanto, le banche hanno potuto investire negli Usa e in Europa la liquidità ricevuta dallo Stato a tassi prossimi allo zero, in titoli del debito pubblico a più alto rendimento, realizzando lauti profitti. Ma soprattutto l’aumento della liquidità ha condotto alla svalutazione del dollaro nei confronti delle altre valute. La notizia recente che la Fed si appresta ad una nuova massiccia immissione di liquidità ha provocato una ulteriore discesa del dollaro ai minimi da 8 mesi sull’euro, degli ultimi 15 anni sullo yen e degli ultimi 11 anni sul real brasiliano. A questo punto, si è scatenata la reazione delle altre potenze economiche, dal Giappone al Brasile, che con l’apprezzamento delle loro valute rischiano il collasso delle loro esportazioni e del loro apparato industriale.

Eppure, alcuni economisti e soprattutto gli Usa continuano a dare la colpa degli squilibri commerciali e finanziari mondiali alla Cina, che manterrebbe lo yuan al di sotto del suo valore reale, realizzando così un enorme surplus commerciale ai danni degli Usa. La realtà è un’altra. In primo luogo, la Cina nel passato ha già rivalutato lo yuan senza che si determinassero risultati apprezzabili per il debito commerciale Usa. Le ragioni risaltano dalle parole dell’amministratore delegato di General Electric: “Noi statunitensi siamo esportatori patetici, dobbiamo diventare nuovamente una potenza industriale.” La massiccia delocalizzazione ha portato alla deindustrializzazione degli Usa, diventati paese importatore di quasi tutto ciò che consumano. Di fatto, gli Usa finanziano i loro enormi debiti commerciale e pubblico grazie alla capacità di attirare il surplus mondiale, collocando i propri titoli di Stato presso il Giappone e i paesi emergenti, soprattutto la Cina, che li impiegano come riserve valutarie. Il nocciolo della svalutazione del dollaro sta qui. Infatti, più che essere tesa a facilitare l’export di una industria manifatturiera Usa ridotta a poca cosa, la svalutazione del dollaro tende a svalutare l’ammontare del debito pubblico statunitense detenuto dall’estero. È un modo surrettizio per fare bancarotta, non pagando una parte del debito e scaricando i costi della propria crisi sugli altri paesi. Inoltre, è un sistema e per esercitare pressioni verso chi, come la Cina, non sembra più intenzionato a concedere finanziamenti agli Usa a fondo perduto, acquistando sempre e comunque i Treasury bond.

Non si tratta di una novità, gli Usa lo hanno già fatto negli anni ’80 con il Giappone, che finanziò la vittoria Usa nella corsa al riarmo contro l’Urss. Grazie alla caduta del dollaro nel 1985, gli Usa restituirono al Giappone in dollari svalutati il prestito fatto in dollari sopravvalutati.
di Domenico Moro

03 novembre 2010

La potenza dei poveri




Majid Rahnema, autore del libro "La potenza dei poveri" (Jaca Book 2010)

Majid Rahnema, autore del libro "La potenza dei poveri" (Jaca Book 2010)

Incontrare personaggi come Majid Rahnema è un’esperienza che capita poche volte nella vita. Esistono incontri illuminanti e luoghi che li rendono disponibili, come il Salone dell’Editoria Sociale.

Raccontare la biografia del co-autore – insieme a Jean Robert – de La potenza dei poveri (Jaca Book, 2010), sarebbe di per sè istruttivo: così densa di episodi significativi che l’assoluta originalità e l’alto valore intellettuale del pensiero dello scrittore iraniano, sembrano una naturale conseguenza di una vita passata tra ministeri, ruoli di primo piano nell’Onu e nell’Unesco.

Nella lezione organizzata dalla Scuola del Sociale della Provincia di Roma Rahnema conversa con il pubblico partendo sempre da episodi della sua biografia. Così ricorda, come quando gli fu affidato dall’Onu il compito di redigere un dossier sulla povertà, dopo 6 mesi di studio fervente su ciò che gli altri avevano detto in merito all’argomento, si accorse di non sapere ancora nulla. Come uno scettico antico sospese il giudizio, continuò a riflettere e a distanza di 25 anni capì che finalmente aveva qualcosa di diverso da dire sull’argomento. Anzitutto si tratta di rilevare come il concetto economico di sviluppo non rappresenti altro che l’ennesimo inganno che l’economia capitalista cerca di propugnare al resto del mondo. Tramite le parole l’Occidente cerca di colonizzare culture diversa dalla nostra, presupponendo che la loro qualità di vita debba essere misurata con gli standard – e il linguaggio – della Vecchia Europa. Partendo da questa riflessione Rahnema, riesce oggi, a distanza di un quarto di secolo dall’affidamento del dossier, a distinguere 3 tipi di povertà:

1 . La povertà conviviale. Si tratta del modo di vivere dignitoso con ciò che si ha. Fino all’anno mille, secondo le ricerche dell’intellettuale iraniano, non esisteva il sostantivo povertà. Esistevano semplicemente dei singoli poveri, che non erano neanche così definiti per mere questioni monetarie. Nella lingua persiana antica povero è colui che è solo e una simile condizione, si poteva riparare con l’ambiente circostante. In miseria – concetto diverso da quello di povertà – ci cadeva solo chi restava irrimediabilmente isolato.

2. La povertà volontaria. In questo caso si parla di chi rinuncia per scelta alla propria ricchezza. L’esempio lampante è quello di San Francesco d’Assisi, che Rahnema dice che potremo considerare il Rockfeller dell’epoca. Invece decide di abbandonare i suoi possidimenti. Significa che la povertà non è poi così male, o no?

3. La povertà modernizzata (definizione presa in prestito da Ivan Illich). Qui invece abbiamo a che fare con persoe che avrebbero di che vivere, ma i cui bisogni aumentano smisuratamente, perchè indotti dalla società. Questa è la nostra povertà, quella delle società occidentali.

La domanda che sorge spontanea è questa: se i 2/3 della popolazione si dicono poveri perchè guadagnano meno di un dollaro al giorno, perchè in Francia è povero chi ne guadagna meno di trenta? Qui qualcosa non quadra. Il fatto sconvolgente, è che i veri poveri in termini edonistici, vivono meglio di quelli delle società occidentali, che sono poveri per modo di dire, perchè hanno dei bisogni indotti, che chi riesce a vivere con pochi centesimi al giorno non conosce nemmeno. Come, a dire non sanno cosa si perdono e proprio per questo vivono meglio di noi.

Si tratta di una questione che secondo Rahnema andrebbe tratta dal punto di vista scientifico: la scienza – episteme – anzitutto non è una cosa innocente. Può essere definita in due modi: da una parte risponde al desiderio di vivere e qui si caratterizza come insieme di conoscenze. Per il potere però diventa ciò che è utile al dominio, rispondendo quindi a un desiderio di conquista. Purtroppo, secondo l’autore iraniano, quello che viene insegnata nelle grandi università è il secondo tipo di scienza. Così noi europei, vittime della seconda tipologia di episteme, non sappiamo mantenere la dignità che gli altri mantengono guadagnando molto di meno.

In conclusione si può dire che i veri miserabili siamo noi, perchè abbiamo costretto la maggior parte della popolazione a vivere con dei bisogni indotti, abbiamo escluso i 2/3 della popolazione dai nostri piani, ma tutto ciò va a nostro discapito. Loro, la maggioranza, ci potrebbero aiutare. Ci potrebbero insegnare a vivere dignitosamente con poco. In realtà noi siamo drogati dall’economia e dal concetto di sviluppo e tutte le teorie sulla decrescita, che presuppongono un radicale cambiamento dei nostri costumi, probabilmente arrivano troppo tardi. Saremo davvero capaci di cambiare così profondamente i nostri stili di vita? Oppure riusciremo a corrompere, con la nostra miseria, il patrimonio di dignità che quei ricconi degli africani hanno da insegnarci?

di Andrea Scutellà

02 novembre 2010

Crescita impossibile e fine del progresso

guidorossi

Ripresa, rilancio della produzione, aumento del Pil, crescita... Questi sono gli strumenti insistentemente indicati da economisti, governanti, industriali, politici, per il superamento della crisi. Che ne pensa?

Il mio parere è molto preciso. Ritengo che ci sia veramente un errore di fondo nello scopo finale di tutte le politiche, che è quello del progresso economico. Come ha appena detto lei, gli economisti non pensano ad altro: aumentare produzione e produttività, a tutti i costi.

Così quella che era la molla fondamentale del capitalismo, il progresso economico, è diventata molla fondamentale di tutti i sistemi; e al capitalismo di mercato si è aggiunto il capitalismo di stato. Vedi la Cina: dove accadono esattamente le stesse cose di sempre, a detrimento dei più deboli. Mentre dovunque quelli che Bobbio chiamava «diritti di seconda e terza generazione », con questa accelerazione del progresso economico a tutti i costi, vengono selvaggiamente conculcati. Come dice Robert Reich nel suo Supercapitalismo, «è stata sostituita la tutela dei diritti dei cittadini con la tutela dei consumatori».

Ormai lo scopo è quello di creare sempre più benefici per i consumatori a scapito dei tradizionali diritti al posto di lavoro, alla sicurezza sul lavoro, alla pensione. Noti che lo sviluppo economico come fondamento dell’attività umana è presente anche nell’ultima enciclica di Ratzinger; in cui si sostiene che la globalizzazione serve a un progresso economico che poi si diffonde tra tutti i popoli. Che non è vero.

E non è vero che - come si dice - sono scomparse le ideologie. Di fatto se n’è creata una nuova, che ha ucciso tutte le altre.

E questo inseguimento forsennato della crescita continua mentre la crisi ecologica (conseguenza proprio di un produttivismo insostenibile, per quantità e qualità) sta toccato livelli di rischio difficilmente reversibili, come afferma l’intera comunità scientifica. Possibile che personaggi di tutto rispetto - potentissimi manager, grandi industriali, economisti di fama mondiale, ignorino tutto ciò?

Il fatto è che appunto il problema prioritario rimane sempre quello della crescita e dello sviluppo economico, a cui tutto il resto viene sacrificato. E, attenzione, vengono sacrificate non solo le questioni di cui parlava lei, ma anche problemi come la fame nel mondo. Che dal 2007 si fa sempre più grave: ora si parla di un miliardo di persone sottoalimentate; e nessuno se ne occupa.

Veramente l’ideologia dello sviluppo economico cancella qualunque problema che riguardi qualità della vita e diritti umani, mentre crea guerre senza senso... Si crea una società di cui l’unico scopo è il dovere di crescere economicamente: d’altronde in base a parametri del tutto sballati, come il Pil,

che non considerano affatto la qualità della vita.

Ma, anche dando per scontato che questi signori siano del tutto disinteressati al sociale, di che cosa credono siano fatti automobili, computer, cellulari, grattacieli, armi…

Non gli passa par la testa che sono «fatti» di natura e che se la natura va in malora la stessa cosa capita alla loro produzione?

No, non gli viene in mente. E le spiego perché. Perché è un problema che riguarda il futuro, mentre il presente è quello della crescita, del profitto immediato...

E però anche questo viene messo a rischio dagli eventi più recenti. Quella del Golfo del Messico è una catastrofe economica quanto ambientale.

Non c’è dubbio. Anche su questo sono d’accordo. Quando arriva la catastrofe poi se ne accorgono. E allora che fanno? Insistono sugli stessi schemi che hanno provocato la catastrofe: non hanno altro in testa. La letteratura apocalittica descrive tutto questo. Alcuni libri del genere mi hanno spaventato. Come Portando Clausewitx all’estremo di René Girard, il quale dice: «il riscaldamento climatico del pianeta e l’aumento della violenza sono due fenomeni assolutamente legati». E questa confusione di naturale e artificiale è forse il messaggio più forte contenuto in questi testi apocalittici. Martin Rees, grande astronomo di Cambridge, con Our final Century (Il nostro secolo finale), dubita che la razza umana riesca a sopravvivere al secolo in corso, proprio perché sta distruggendo il pianeta. E cose simili le dice anche Posner nel suo libro Catastrofe: con una popolazione mondiale che, secondo i calcoli, nel 2050 ammonterà a più di 9 miliardi di individui, ci saranno tremendi rischi di carestia: la terra non può dare più di quello che ha.

E queste cose si sanno. Ci sono anche economisti che criticano in qualche misura il capitalismo, ad esempio le grandi disuguaglianze sociali, la distanza tra lo stipendio di un manager e il salario di un operaio... Però nessuno pensa di rimettere in discussione il sistema, sperano di poterlo emendare...

Perché l’ideologia non lo permette. È una fede. Questi sono dei talebani, non può farli cambiare...

Ma il guaio è che questa sorta di riconoscimento del capitalismo come un dato di fatto immodificabile, sembrano ormai condividerlo anche a sinistra…

Certo, perché hanno scelto il riformismo, ormai quella è l’ideologia che ha vinto. Ed è un’ideologia che sta prendendo piede anche nelle religioni: non a caso ho citato l’ultima enciclica di Ratzinger.

Perché poi pensano che la crescita possa dare benessere a tutti quanti. Ma ormai è dimostrato che questo non accade. Se l’1% della popolazione del mondo detiene il 50% del prodotto...

Certo. Ma lei dimentica un’altra cosa. Che il 51%, e oramai anche più, della ricchezza mondiale è nelle mani delle grandi corporations, e a condurre l’economia non sono più gli stati: gli stati non contano più niente. Quindi chi comanda? Le grandi imprese. Hanno in mano la maggiore ricchezza del pianeta: devono sopravvivere e comandare. E allora... Guardi cosa succede

alla delocalizzazione delle industrie che, pur di sopravvivere fanno di tutto, sconquassano le economie e i diritti e non gliene importa niente... L’arretramento della politica è dovuto proprio a questo fatto: che l’economia ha conquistato un predominio assoluto.

A questo punto le sinistre, che seppure faticosamente continuano a esistere, non dovrebbero considerare questa realtà, rifletterci su? Magari ricordando errori del passato; come il fatto che, per paura della disoccupazione tecnologica, il progresso l’hanno regalato al capitalismo: mentre la minaccia della crescita senza lavoro avrebbe potuto essere usata per ripensare l’intero rapporto tra produzione e vita... Ma hanno lasciato tutto in mano al capitale.

Dopotutto il progresso l’ha inventato lui… e se l’è tenuto ben stretto…

Be’ per la verità l’ha inventato la scienza....

La quale è comandata dalla stessa ideologia…

Anche perché hanno bisogno di finanziamenti... Però all’origine delle grandi trasformazioni tecnologiche c’è il pensiero di uno scienziato...

Non si può dimenticare comunque che non mancano intellettuali che discutono di queste cose... Amartya Sen ad esempio dice che non si può ridurre la democrazia al voto… che occorre una democrazia di larga discussione. E arriva a sostenere che con la discussione si eviterebbero le catastrofi naturali.

Le catastrofi naturali - come Lei ha detto con tutta chiarezza - non si evitano finché il prodotto continua a crescere. Perciò mi stupisco che neanche i pochi consapevoli della gravità della situazione ecologica, non trovino il coraggio di dire: basta crescere. Cioè basta capitalismo.

Basta capitalismo. Ma con che cosa lo si sostituisce?

Nessuno ha un’idea in testa. Questa è la verità.

Eppure forse oggi non sarebbe impossibile farsela venire. La globalizzazione è un fatto che nessuno più nega. E certo esiste una globalizzazione economica ... e una globalizzazione culturale operata dai mezzi di comunicazione di massa... Ma non esiste una globalizzazione politica.

E non esiste una globalizzazione giuridica tra l’altro. Questa è a grande differenza con la globalizzazione di tipo medioevale, regolata dalla famosa Lex mercatoria, una legge elaborata dai mercanti, non da un singolo stato: e per suomezzo il commercio funzionava. Adesso le grandi imprese lavorano tra di loro. Non c’è più una norma giuridica che ne disciplini i comportamenti: nei confronti della fame nel mondo, dello sfruttamento delle classi più povere, del lavorominorile, della sicurezza sul lavoro che secondo Tremonti è un lusso. E ovviamente nemmeno nei confronti del pianeta.

E questo non si deve anche al fatto che una volta le sinistre facevano opposizione, e ora non la fanno più? O quanto meno la fanno solo riguardo ad alcune situazioni; le quali d’altronde non possono essere risolte a prescindere dal contesto generale. Come si diceva, la globalizzazione è una realtà governata dal grande capitale. Ma nessuno tenta di regolarla, e nemmeno di capirla. Sinistre comprese.

Ma la ragione c’è. Le sinistre hanno continuato a ragionare fino a quando esisteva il comunismo, che costituiva un’ideologia contrapposta a quella del capitalismo, e in qualche modo proponeva delle soluzioni alternative. Dopo la caduta del muro di Berlino cambia tutto. Questa è la verità. La politica sparisce, l’economia ha il sopravvento e s’impone come politica. Le sinistre accantonano il marxismo.

Dunque una sinistra organizzata di qualche peso non esiste. Però (pongo anche a Lei una domanda rivolta ai precedenti intervistati) esiste una massa di movimenti, di piccole e grosse aggregazioni di base, che in complesso, sebbene separatamente, vanno denunciando le peggio iniquità e assurdità del nostro mondo, tutte in pratica riconducibili alla logica del capitale. Pacifismo, femminismo, ambientalismo, colti magari in un solo aspetto dei singoli problemi (acqua, nucleare, Afghanistan, donne violentate, precariato giovanile, ecc. ecc.): non crede rappresentino in complesso quella che potrebbe essere la base per un grande rilancio di un’opposizione valida? Ma le sinistre non ci provano nemmeno…

Non ci provano perché manca l’ideologia unificatrice. Il marxismo è nato quando il capitalismo da mercantile è diventato industriale, e Carlo Marx ha elaborato un’ideologia completamente nuova. In questi anni, analogamente, si è verificata una nuova rivoluzione, la rivoluzione finanziaria. Contro la quale occorrerebbe una nuova ideologia. Il brasiliano Unger, filosofo del diritto di Harvard, in un libro molto bello, Democrazia ad alta energia, dice che, invece di garantire quella finta libertà contrattuale che sta alla base della rivoluzione finanziaria, occorrerebbe un’autorità mondiale capace di imporre nuove regole, e creare così le basi di una struttura diversa, a dimensione globale.

Ecco, non le pare che le sinistre dovrebbero pensare qualcosa del genere, magari sollecitando un incontro tra i non pochi intellettuali di valore che hanno trattato la materia …Io da tempo penso a una Bretton Woods del XXI secolo...

Ma non basta più. Vuole la mia opinione? Rischiando l’accusa di leninismo? Bisogna fare la rivoluzione. La rivoluzione russa è quella che ha cambiato l’ideologia del capitalismo industriale. Qui se non c’è una rivoluzione vera cosa si fa?

Se lei parla di rivoluzione, tutti pensano subito ai cannoni… secondo il modello storico…

Che non è più possibile, ovviamente...

Appunto. Per questo parlavo di BrettonWoods, nel senso che occorrerebbe una iniziativa a livello mondiale, con l’autorità di imporre questi problemi, che sono noti ma non vengono affrontati.

Sì, la cosa dovrebbe partire dalle Nazioni Unite, l’ho scritto più volte…

Perché l’Onu dopotutto alcuni tentativi seri li ha fatti. A proposito di ambiente, sulla fine del secolo scorso ha promosso un paio di grossi convegni, molto più efficaci dei tanti che sono seguiti... E più volte, nei suoi Rapporti sullo sviluppo umano, ha preso posizione contro il consumismo, contro il Pil come misura di benessere, contro la guerra come soluzione dei problemi… E Ban Ki Moon si è spinto fino ad auspicare un contenimento del Pil…

Be’ sì. In fondo, dopo la dichiarazione dei diritti dell’Assemblea generale dell’Onu del ’48, qualcosa è accaduto: come dopo la dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789. Solo qualcosa di simile potrebbe cambiare la situazione: una rivoluzione di tipo mondiale, organizzata dalle Nazioni Unite, in cui si ridefiniscano i veri diritti, i principi per una vita diversa da quella voluta dal potere economico, e quindi una vita orientata dalla politica e non dall’economia. Poi mi accuseranno di essere un utopista… Però io credo che l’utopia sia decisamente meglio dell’apocalisse: che è l’alternativa che ci aspetta.

di Guido Rossi - Carla Ravaioli

04 novembre 2010

La Guerra delle valute





La guerra valutaria mondiale in corso è la dimostrazione di tre realtà dell’economia globalizzata.

La prima è che la crisi è tutt’altro che finita.
La seconda è che gli equilibri del potere economico mondiale sono mutati e che con essi viene meno l’egemonia Usa.
La terza è che questo cambiamento, insieme alla crisi, sta acuendo la conflittualità tra le aree economiche principali, Usa, Ue, Bric.
Questo terzo elemento è accentuato dalla volontà degli Usa di scaricare la crisi, di cui sono epicentro, sugli altri paesi e dalla scelta di risolverla nella stessa maniera in cui hanno cercato di risolvere ogni crisi negli ultimi decenni: con l’immissione di dosi massicce di liquidità nel sistema finanziario da parte del governo e con il conseguente aumento del debito pubblico. Due metodi che, sebbene abbiano consentito di risolvere temporaneamente le crisi, hanno però creato una serie di bolle speculative, che, una volta scoppiate, facevano ripiombare il sistema in una crisi più profonda.
Questa volta la massiccia immissione di liquidità – 800 miliardi di investimenti pubblici nel 2009 – non ha neanche prodotto benefici reali, visto che negli Usa il tasso di disoccupazione è ancora alto (chi ha lavoro è oggi il 4,6% in meno del 2007) e il deficit commerciale con l’estero, il più grande del mondo, è aumentato ancora, arrivando a 604 miliardi di dollari. L’immissione di liquidità ha prodotto invece la consueta serie di impennate speculative, prima verso i titoli di stato e le materie prime e ora verso i junk bonds, i titoli spazzatura. In compenso, il debito pubblico Usa è esploso. Questo ufficialmente è al 90% del Pil, ma, se si considerano le nazionalizzazioni di fatto di Freddie Mac e Fannie Mae, si arriva al 140%, e, se si dà per buona la valutazione dell’Ufficio del Bilancio del Congresso Usa, con le pensioni ai reduci di guerra e le spese sanitarie si arriverebbe almeno al 400%.

Intanto, le banche hanno potuto investire negli Usa e in Europa la liquidità ricevuta dallo Stato a tassi prossimi allo zero, in titoli del debito pubblico a più alto rendimento, realizzando lauti profitti. Ma soprattutto l’aumento della liquidità ha condotto alla svalutazione del dollaro nei confronti delle altre valute. La notizia recente che la Fed si appresta ad una nuova massiccia immissione di liquidità ha provocato una ulteriore discesa del dollaro ai minimi da 8 mesi sull’euro, degli ultimi 15 anni sullo yen e degli ultimi 11 anni sul real brasiliano. A questo punto, si è scatenata la reazione delle altre potenze economiche, dal Giappone al Brasile, che con l’apprezzamento delle loro valute rischiano il collasso delle loro esportazioni e del loro apparato industriale.

Eppure, alcuni economisti e soprattutto gli Usa continuano a dare la colpa degli squilibri commerciali e finanziari mondiali alla Cina, che manterrebbe lo yuan al di sotto del suo valore reale, realizzando così un enorme surplus commerciale ai danni degli Usa. La realtà è un’altra. In primo luogo, la Cina nel passato ha già rivalutato lo yuan senza che si determinassero risultati apprezzabili per il debito commerciale Usa. Le ragioni risaltano dalle parole dell’amministratore delegato di General Electric: “Noi statunitensi siamo esportatori patetici, dobbiamo diventare nuovamente una potenza industriale.” La massiccia delocalizzazione ha portato alla deindustrializzazione degli Usa, diventati paese importatore di quasi tutto ciò che consumano. Di fatto, gli Usa finanziano i loro enormi debiti commerciale e pubblico grazie alla capacità di attirare il surplus mondiale, collocando i propri titoli di Stato presso il Giappone e i paesi emergenti, soprattutto la Cina, che li impiegano come riserve valutarie. Il nocciolo della svalutazione del dollaro sta qui. Infatti, più che essere tesa a facilitare l’export di una industria manifatturiera Usa ridotta a poca cosa, la svalutazione del dollaro tende a svalutare l’ammontare del debito pubblico statunitense detenuto dall’estero. È un modo surrettizio per fare bancarotta, non pagando una parte del debito e scaricando i costi della propria crisi sugli altri paesi. Inoltre, è un sistema e per esercitare pressioni verso chi, come la Cina, non sembra più intenzionato a concedere finanziamenti agli Usa a fondo perduto, acquistando sempre e comunque i Treasury bond.

Non si tratta di una novità, gli Usa lo hanno già fatto negli anni ’80 con il Giappone, che finanziò la vittoria Usa nella corsa al riarmo contro l’Urss. Grazie alla caduta del dollaro nel 1985, gli Usa restituirono al Giappone in dollari svalutati il prestito fatto in dollari sopravvalutati.
di Domenico Moro

03 novembre 2010

La potenza dei poveri




Majid Rahnema, autore del libro "La potenza dei poveri" (Jaca Book 2010)

Majid Rahnema, autore del libro "La potenza dei poveri" (Jaca Book 2010)

Incontrare personaggi come Majid Rahnema è un’esperienza che capita poche volte nella vita. Esistono incontri illuminanti e luoghi che li rendono disponibili, come il Salone dell’Editoria Sociale.

Raccontare la biografia del co-autore – insieme a Jean Robert – de La potenza dei poveri (Jaca Book, 2010), sarebbe di per sè istruttivo: così densa di episodi significativi che l’assoluta originalità e l’alto valore intellettuale del pensiero dello scrittore iraniano, sembrano una naturale conseguenza di una vita passata tra ministeri, ruoli di primo piano nell’Onu e nell’Unesco.

Nella lezione organizzata dalla Scuola del Sociale della Provincia di Roma Rahnema conversa con il pubblico partendo sempre da episodi della sua biografia. Così ricorda, come quando gli fu affidato dall’Onu il compito di redigere un dossier sulla povertà, dopo 6 mesi di studio fervente su ciò che gli altri avevano detto in merito all’argomento, si accorse di non sapere ancora nulla. Come uno scettico antico sospese il giudizio, continuò a riflettere e a distanza di 25 anni capì che finalmente aveva qualcosa di diverso da dire sull’argomento. Anzitutto si tratta di rilevare come il concetto economico di sviluppo non rappresenti altro che l’ennesimo inganno che l’economia capitalista cerca di propugnare al resto del mondo. Tramite le parole l’Occidente cerca di colonizzare culture diversa dalla nostra, presupponendo che la loro qualità di vita debba essere misurata con gli standard – e il linguaggio – della Vecchia Europa. Partendo da questa riflessione Rahnema, riesce oggi, a distanza di un quarto di secolo dall’affidamento del dossier, a distinguere 3 tipi di povertà:

1 . La povertà conviviale. Si tratta del modo di vivere dignitoso con ciò che si ha. Fino all’anno mille, secondo le ricerche dell’intellettuale iraniano, non esisteva il sostantivo povertà. Esistevano semplicemente dei singoli poveri, che non erano neanche così definiti per mere questioni monetarie. Nella lingua persiana antica povero è colui che è solo e una simile condizione, si poteva riparare con l’ambiente circostante. In miseria – concetto diverso da quello di povertà – ci cadeva solo chi restava irrimediabilmente isolato.

2. La povertà volontaria. In questo caso si parla di chi rinuncia per scelta alla propria ricchezza. L’esempio lampante è quello di San Francesco d’Assisi, che Rahnema dice che potremo considerare il Rockfeller dell’epoca. Invece decide di abbandonare i suoi possidimenti. Significa che la povertà non è poi così male, o no?

3. La povertà modernizzata (definizione presa in prestito da Ivan Illich). Qui invece abbiamo a che fare con persoe che avrebbero di che vivere, ma i cui bisogni aumentano smisuratamente, perchè indotti dalla società. Questa è la nostra povertà, quella delle società occidentali.

La domanda che sorge spontanea è questa: se i 2/3 della popolazione si dicono poveri perchè guadagnano meno di un dollaro al giorno, perchè in Francia è povero chi ne guadagna meno di trenta? Qui qualcosa non quadra. Il fatto sconvolgente, è che i veri poveri in termini edonistici, vivono meglio di quelli delle società occidentali, che sono poveri per modo di dire, perchè hanno dei bisogni indotti, che chi riesce a vivere con pochi centesimi al giorno non conosce nemmeno. Come, a dire non sanno cosa si perdono e proprio per questo vivono meglio di noi.

Si tratta di una questione che secondo Rahnema andrebbe tratta dal punto di vista scientifico: la scienza – episteme – anzitutto non è una cosa innocente. Può essere definita in due modi: da una parte risponde al desiderio di vivere e qui si caratterizza come insieme di conoscenze. Per il potere però diventa ciò che è utile al dominio, rispondendo quindi a un desiderio di conquista. Purtroppo, secondo l’autore iraniano, quello che viene insegnata nelle grandi università è il secondo tipo di scienza. Così noi europei, vittime della seconda tipologia di episteme, non sappiamo mantenere la dignità che gli altri mantengono guadagnando molto di meno.

In conclusione si può dire che i veri miserabili siamo noi, perchè abbiamo costretto la maggior parte della popolazione a vivere con dei bisogni indotti, abbiamo escluso i 2/3 della popolazione dai nostri piani, ma tutto ciò va a nostro discapito. Loro, la maggioranza, ci potrebbero aiutare. Ci potrebbero insegnare a vivere dignitosamente con poco. In realtà noi siamo drogati dall’economia e dal concetto di sviluppo e tutte le teorie sulla decrescita, che presuppongono un radicale cambiamento dei nostri costumi, probabilmente arrivano troppo tardi. Saremo davvero capaci di cambiare così profondamente i nostri stili di vita? Oppure riusciremo a corrompere, con la nostra miseria, il patrimonio di dignità che quei ricconi degli africani hanno da insegnarci?

di Andrea Scutellà

02 novembre 2010

Crescita impossibile e fine del progresso

guidorossi

Ripresa, rilancio della produzione, aumento del Pil, crescita... Questi sono gli strumenti insistentemente indicati da economisti, governanti, industriali, politici, per il superamento della crisi. Che ne pensa?

Il mio parere è molto preciso. Ritengo che ci sia veramente un errore di fondo nello scopo finale di tutte le politiche, che è quello del progresso economico. Come ha appena detto lei, gli economisti non pensano ad altro: aumentare produzione e produttività, a tutti i costi.

Così quella che era la molla fondamentale del capitalismo, il progresso economico, è diventata molla fondamentale di tutti i sistemi; e al capitalismo di mercato si è aggiunto il capitalismo di stato. Vedi la Cina: dove accadono esattamente le stesse cose di sempre, a detrimento dei più deboli. Mentre dovunque quelli che Bobbio chiamava «diritti di seconda e terza generazione », con questa accelerazione del progresso economico a tutti i costi, vengono selvaggiamente conculcati. Come dice Robert Reich nel suo Supercapitalismo, «è stata sostituita la tutela dei diritti dei cittadini con la tutela dei consumatori».

Ormai lo scopo è quello di creare sempre più benefici per i consumatori a scapito dei tradizionali diritti al posto di lavoro, alla sicurezza sul lavoro, alla pensione. Noti che lo sviluppo economico come fondamento dell’attività umana è presente anche nell’ultima enciclica di Ratzinger; in cui si sostiene che la globalizzazione serve a un progresso economico che poi si diffonde tra tutti i popoli. Che non è vero.

E non è vero che - come si dice - sono scomparse le ideologie. Di fatto se n’è creata una nuova, che ha ucciso tutte le altre.

E questo inseguimento forsennato della crescita continua mentre la crisi ecologica (conseguenza proprio di un produttivismo insostenibile, per quantità e qualità) sta toccato livelli di rischio difficilmente reversibili, come afferma l’intera comunità scientifica. Possibile che personaggi di tutto rispetto - potentissimi manager, grandi industriali, economisti di fama mondiale, ignorino tutto ciò?

Il fatto è che appunto il problema prioritario rimane sempre quello della crescita e dello sviluppo economico, a cui tutto il resto viene sacrificato. E, attenzione, vengono sacrificate non solo le questioni di cui parlava lei, ma anche problemi come la fame nel mondo. Che dal 2007 si fa sempre più grave: ora si parla di un miliardo di persone sottoalimentate; e nessuno se ne occupa.

Veramente l’ideologia dello sviluppo economico cancella qualunque problema che riguardi qualità della vita e diritti umani, mentre crea guerre senza senso... Si crea una società di cui l’unico scopo è il dovere di crescere economicamente: d’altronde in base a parametri del tutto sballati, come il Pil,

che non considerano affatto la qualità della vita.

Ma, anche dando per scontato che questi signori siano del tutto disinteressati al sociale, di che cosa credono siano fatti automobili, computer, cellulari, grattacieli, armi…

Non gli passa par la testa che sono «fatti» di natura e che se la natura va in malora la stessa cosa capita alla loro produzione?

No, non gli viene in mente. E le spiego perché. Perché è un problema che riguarda il futuro, mentre il presente è quello della crescita, del profitto immediato...

E però anche questo viene messo a rischio dagli eventi più recenti. Quella del Golfo del Messico è una catastrofe economica quanto ambientale.

Non c’è dubbio. Anche su questo sono d’accordo. Quando arriva la catastrofe poi se ne accorgono. E allora che fanno? Insistono sugli stessi schemi che hanno provocato la catastrofe: non hanno altro in testa. La letteratura apocalittica descrive tutto questo. Alcuni libri del genere mi hanno spaventato. Come Portando Clausewitx all’estremo di René Girard, il quale dice: «il riscaldamento climatico del pianeta e l’aumento della violenza sono due fenomeni assolutamente legati». E questa confusione di naturale e artificiale è forse il messaggio più forte contenuto in questi testi apocalittici. Martin Rees, grande astronomo di Cambridge, con Our final Century (Il nostro secolo finale), dubita che la razza umana riesca a sopravvivere al secolo in corso, proprio perché sta distruggendo il pianeta. E cose simili le dice anche Posner nel suo libro Catastrofe: con una popolazione mondiale che, secondo i calcoli, nel 2050 ammonterà a più di 9 miliardi di individui, ci saranno tremendi rischi di carestia: la terra non può dare più di quello che ha.

E queste cose si sanno. Ci sono anche economisti che criticano in qualche misura il capitalismo, ad esempio le grandi disuguaglianze sociali, la distanza tra lo stipendio di un manager e il salario di un operaio... Però nessuno pensa di rimettere in discussione il sistema, sperano di poterlo emendare...

Perché l’ideologia non lo permette. È una fede. Questi sono dei talebani, non può farli cambiare...

Ma il guaio è che questa sorta di riconoscimento del capitalismo come un dato di fatto immodificabile, sembrano ormai condividerlo anche a sinistra…

Certo, perché hanno scelto il riformismo, ormai quella è l’ideologia che ha vinto. Ed è un’ideologia che sta prendendo piede anche nelle religioni: non a caso ho citato l’ultima enciclica di Ratzinger.

Perché poi pensano che la crescita possa dare benessere a tutti quanti. Ma ormai è dimostrato che questo non accade. Se l’1% della popolazione del mondo detiene il 50% del prodotto...

Certo. Ma lei dimentica un’altra cosa. Che il 51%, e oramai anche più, della ricchezza mondiale è nelle mani delle grandi corporations, e a condurre l’economia non sono più gli stati: gli stati non contano più niente. Quindi chi comanda? Le grandi imprese. Hanno in mano la maggiore ricchezza del pianeta: devono sopravvivere e comandare. E allora... Guardi cosa succede

alla delocalizzazione delle industrie che, pur di sopravvivere fanno di tutto, sconquassano le economie e i diritti e non gliene importa niente... L’arretramento della politica è dovuto proprio a questo fatto: che l’economia ha conquistato un predominio assoluto.

A questo punto le sinistre, che seppure faticosamente continuano a esistere, non dovrebbero considerare questa realtà, rifletterci su? Magari ricordando errori del passato; come il fatto che, per paura della disoccupazione tecnologica, il progresso l’hanno regalato al capitalismo: mentre la minaccia della crescita senza lavoro avrebbe potuto essere usata per ripensare l’intero rapporto tra produzione e vita... Ma hanno lasciato tutto in mano al capitale.

Dopotutto il progresso l’ha inventato lui… e se l’è tenuto ben stretto…

Be’ per la verità l’ha inventato la scienza....

La quale è comandata dalla stessa ideologia…

Anche perché hanno bisogno di finanziamenti... Però all’origine delle grandi trasformazioni tecnologiche c’è il pensiero di uno scienziato...

Non si può dimenticare comunque che non mancano intellettuali che discutono di queste cose... Amartya Sen ad esempio dice che non si può ridurre la democrazia al voto… che occorre una democrazia di larga discussione. E arriva a sostenere che con la discussione si eviterebbero le catastrofi naturali.

Le catastrofi naturali - come Lei ha detto con tutta chiarezza - non si evitano finché il prodotto continua a crescere. Perciò mi stupisco che neanche i pochi consapevoli della gravità della situazione ecologica, non trovino il coraggio di dire: basta crescere. Cioè basta capitalismo.

Basta capitalismo. Ma con che cosa lo si sostituisce?

Nessuno ha un’idea in testa. Questa è la verità.

Eppure forse oggi non sarebbe impossibile farsela venire. La globalizzazione è un fatto che nessuno più nega. E certo esiste una globalizzazione economica ... e una globalizzazione culturale operata dai mezzi di comunicazione di massa... Ma non esiste una globalizzazione politica.

E non esiste una globalizzazione giuridica tra l’altro. Questa è a grande differenza con la globalizzazione di tipo medioevale, regolata dalla famosa Lex mercatoria, una legge elaborata dai mercanti, non da un singolo stato: e per suomezzo il commercio funzionava. Adesso le grandi imprese lavorano tra di loro. Non c’è più una norma giuridica che ne disciplini i comportamenti: nei confronti della fame nel mondo, dello sfruttamento delle classi più povere, del lavorominorile, della sicurezza sul lavoro che secondo Tremonti è un lusso. E ovviamente nemmeno nei confronti del pianeta.

E questo non si deve anche al fatto che una volta le sinistre facevano opposizione, e ora non la fanno più? O quanto meno la fanno solo riguardo ad alcune situazioni; le quali d’altronde non possono essere risolte a prescindere dal contesto generale. Come si diceva, la globalizzazione è una realtà governata dal grande capitale. Ma nessuno tenta di regolarla, e nemmeno di capirla. Sinistre comprese.

Ma la ragione c’è. Le sinistre hanno continuato a ragionare fino a quando esisteva il comunismo, che costituiva un’ideologia contrapposta a quella del capitalismo, e in qualche modo proponeva delle soluzioni alternative. Dopo la caduta del muro di Berlino cambia tutto. Questa è la verità. La politica sparisce, l’economia ha il sopravvento e s’impone come politica. Le sinistre accantonano il marxismo.

Dunque una sinistra organizzata di qualche peso non esiste. Però (pongo anche a Lei una domanda rivolta ai precedenti intervistati) esiste una massa di movimenti, di piccole e grosse aggregazioni di base, che in complesso, sebbene separatamente, vanno denunciando le peggio iniquità e assurdità del nostro mondo, tutte in pratica riconducibili alla logica del capitale. Pacifismo, femminismo, ambientalismo, colti magari in un solo aspetto dei singoli problemi (acqua, nucleare, Afghanistan, donne violentate, precariato giovanile, ecc. ecc.): non crede rappresentino in complesso quella che potrebbe essere la base per un grande rilancio di un’opposizione valida? Ma le sinistre non ci provano nemmeno…

Non ci provano perché manca l’ideologia unificatrice. Il marxismo è nato quando il capitalismo da mercantile è diventato industriale, e Carlo Marx ha elaborato un’ideologia completamente nuova. In questi anni, analogamente, si è verificata una nuova rivoluzione, la rivoluzione finanziaria. Contro la quale occorrerebbe una nuova ideologia. Il brasiliano Unger, filosofo del diritto di Harvard, in un libro molto bello, Democrazia ad alta energia, dice che, invece di garantire quella finta libertà contrattuale che sta alla base della rivoluzione finanziaria, occorrerebbe un’autorità mondiale capace di imporre nuove regole, e creare così le basi di una struttura diversa, a dimensione globale.

Ecco, non le pare che le sinistre dovrebbero pensare qualcosa del genere, magari sollecitando un incontro tra i non pochi intellettuali di valore che hanno trattato la materia …Io da tempo penso a una Bretton Woods del XXI secolo...

Ma non basta più. Vuole la mia opinione? Rischiando l’accusa di leninismo? Bisogna fare la rivoluzione. La rivoluzione russa è quella che ha cambiato l’ideologia del capitalismo industriale. Qui se non c’è una rivoluzione vera cosa si fa?

Se lei parla di rivoluzione, tutti pensano subito ai cannoni… secondo il modello storico…

Che non è più possibile, ovviamente...

Appunto. Per questo parlavo di BrettonWoods, nel senso che occorrerebbe una iniziativa a livello mondiale, con l’autorità di imporre questi problemi, che sono noti ma non vengono affrontati.

Sì, la cosa dovrebbe partire dalle Nazioni Unite, l’ho scritto più volte…

Perché l’Onu dopotutto alcuni tentativi seri li ha fatti. A proposito di ambiente, sulla fine del secolo scorso ha promosso un paio di grossi convegni, molto più efficaci dei tanti che sono seguiti... E più volte, nei suoi Rapporti sullo sviluppo umano, ha preso posizione contro il consumismo, contro il Pil come misura di benessere, contro la guerra come soluzione dei problemi… E Ban Ki Moon si è spinto fino ad auspicare un contenimento del Pil…

Be’ sì. In fondo, dopo la dichiarazione dei diritti dell’Assemblea generale dell’Onu del ’48, qualcosa è accaduto: come dopo la dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789. Solo qualcosa di simile potrebbe cambiare la situazione: una rivoluzione di tipo mondiale, organizzata dalle Nazioni Unite, in cui si ridefiniscano i veri diritti, i principi per una vita diversa da quella voluta dal potere economico, e quindi una vita orientata dalla politica e non dall’economia. Poi mi accuseranno di essere un utopista… Però io credo che l’utopia sia decisamente meglio dell’apocalisse: che è l’alternativa che ci aspetta.

di Guido Rossi - Carla Ravaioli