01 dicembre 2010

La prossima crisi: ecco come il business sfrenato ci ucciderà




Il 2008 è stato l’anno della convergenza delle crisi. Gli aumenti del prezzo del petrolio così come degli alimenti principali, entrambi prodotti dalla combinazione di problemi nella produzione e nel rifornimento, dalla domanda salita alle stelle con il conseguente incremento del commercio di merci nel mercato dei futures. Allora le banche hanno collassato, i governi le hanno salvate con interventi mirati a puntellare un sistema finanziario che crollava.

Come ho già sostenuto in un precedente articolo (trad italiana) su Ceasefire, questa convergenza di crisi energetica, alimentare ed economica non è stata un incidente, ma il risultato inevitabile del modello di business sfrenato adottato da un sistema politico-economico mondiale che ora ha raggiunto i propri limiti interni, oltre ad aver superato quelli dell’ambiente.

Nonostante le rassicurazioni ufficiali secondo le quali il peggio è passato e le economie si stanno riprendendo e sono tornate a crescere, la tendenza attuale ci indica che il peggio deve ancora venire, e che i politici non hanno idea di quali siano le cause strutturali della convergenza di queste crisi.

Il primo problema fondamentale è che gli ortodossi economisti neoliberisti non riescono a capire una ovvia verità cioè la compenetrazione dell’economia con l’ambiente naturale. La crescita dell’economia richiede un crescente apporto di energia, ottenuta dallo sfruttamento delle risorse naturali, in questo momento essenzialmente i combustibili fossili come petrolio, gas e carbone.

In teoria, gli economisti ortodossi sostengono che il capitalismo può risolvere il problema della dipendenza dall’energia massimizzando l’efficienza, più grande lo sviluppo economico, maggiore sarà l’uso ottimale delle risorse e quindi minore la quantità di energia necessaria. Questo tipo di ragionamento sottintende il sostegno del governo all’ossimoro delle società high growth, low carbon (crescita elevata, basso uso di carbone). Come capita spesso con la teoria economica neoliberista, i dati empirici generano alcuni seri interrogativi su questo argomento. Come mostrato in modo inequivocabile da Tim Jackson in Prosperity Without Growth (pp. 74-76), il trend globale delle emissioni di carbone e combustibili fossili così come l’estrazione di metalli grezzi e di minerali non metallici è aumentato vertiginosamente negli ultimi due decenni. In molti casi, sostiene Jackson: “L’intensità energetica globale (rapporto tra uso di risorse e PIL) è cresciuta significativamente per i minerali non combustibili. L’efficienza delle risorse ha preso una direzione sbagliata.” (p. 75)

Tra il 2005 e il 2008, la convenzionale produzione di petrolio ha combattuto con una stabilità ondulante senza precedenti nella storia della produzione mondiale di petrolio, ed è improbabile che aumenti considerevolmente oltre i livelli raggiunti nel 2008. Come ha notato il dottor James Schlesinger , passato Segretario dell’energia americano (1977-79) e direttore della CIA, date le progettate curve in flessione tra il 4 e il 6 percento, e l’aumento progettato della domanda durante il prossimo quarto di secolo, avremo bisogno dell’equivalente della capacità di cinque volte l’Arabia Saudita”. Aldilà delle incertezze sui fondali degli oceani e sulle riserve non convenzionali e altre, lui fa notare che “in generale dobbiamo aspettarci di andare avanti senza la nostra fonte di energia fondamentale nell’espansione dell’economia mondiale per più di mezzo secolo”.

Mentre i livelli di fornitura sembrano essere fluttuanti, l’aumento di domanda dovuto a una fragile ripresa indica la possibilità a breve di un altro picco del prezzo del petrolio dal momento che la crescente domanda incontra una capacità di produzione piuttosto bassa. Gran parte dell’aumento vertiginoso di domanda di petrolio non proviene dall’occidente ma dalle economie emergenti, come la Cina, e ha portato alcuni istituti finanziari come JP Morgan a prevedere un imminente aumento del prezzo del petrolio fino a 100 dollari al barile.

Allo stesso tempo, con il nuovo aumento dei prezzi del petrolio, stiamo assistendo all’aumento vertiginoso dei prezzi della carne, zucchero, riso, grano e mais. Come esperto finanziario, Addison Wiggin ha avvisato su Forbes, verso la fine di ottobre, che “potremmo essere a un passo dall’esplosione di una crisi alimentare che farebbe sembrare i picchi dei prezzi raggiunti nel 2008 come un felice ricordo”. Wiggin sostiene che la crisi alimentare del 2008 “non è mai finita”, visto che i prezzi delle merci chiave delle aziende agricole, sebbene non raggiungano i livelli del 2008, tuttavia hanno raggiunto livelli più elevati di quelli antecedenti al 2008:

- Frumento: su del 63%
- Grano: su dell’84%
- Soia: su del 24%
- Zucchero: su del 55%

Intanto, il dipartimento americano dell’agricoltura ha avvisato che ci sarà una caduta nella produzione di grano ... l’anno prossimo, dovuta essenzialmente alla siccità in Russia, e ha evidenziato il significativo crollo della produzione di frumento di quest’anno – apparentemente il più considerevole mai verificatosi finora.

Il nesso tra le attuali insufficienze nei rifornimenti di cibo e il cambio climatico non può essere più ignorato a seguito del devastante impatto sull’agricoltura causato dell’ondata di caldo in Russia e delle inondazioni in Pakistan, in seguito anche al previsto problema di instabilità climatica e di disastri naturali sul lungo termine dovuto al riscaldamento globale. Le ultime proiezioni provenienti dal National Center for Atmospheric Research (NCAR) , basate sul modello di business sfrenato, suggeriscono che entro 30 anni il mondo potrebbe dover affrontare un’estrema siccità permanente in parti dell’Asia, degli USA, dell’Europa meridionale così come in ampie zone dell’Africa, America Latina e Medioriente, con un impatto devastante sull’agricoltura e sulle risorse acquifere.

La stabilità della produzione di petrolio non aiuta a risolvere i problemi. Più elevati prezzi del petrolio avranno un effetto inflazionario sull’economia, esacerbando l’impennata dei prezzi alimentari. Inoltre, poiché l’attuale sistema dell’industria alimentare è pesantemente dipendente dai combustibili fossili a vari livelli – macchinari in loco; sintesi e produzione di fertilizzanti; processione, imballaggio, conservazione e trasporto di alimenti – la stabilità della fornitura energetica rafforzerà i limiti fondamentali della produzione alimentare mondiale, con ripercussioni sull’aumento dei prezzi.

Sfortunatamente, l’azione economica ortodossa sembra accelerare la convergenza di queste crisi nei prossimi anni, invece di migliorare la situazione. Nonostante gli indicatori promettano una continua crescita del PIL, considerata da molti come la prova della continua benché fragile ripresa dell’economia, i fatti fondamentali ci raccontano una storia molto diversa. Il commercio totale dei derivati nel mondo attualmente rimane agli stessi livelli della fine 2008 – circa un quadrilione di dollari (mille trilioni) – cioè la cifra colossale pari a 23 volte il PIL mondiale. Come ha notato DK Matai, un analista di rischio strategico globale e consigliere governativo su minacce alla sicurezza, “ L’intera piramide finanziaria su cui sono strutturati i derivati può crollare se i prezzi dei beni cominceranno a scendere poiché alcune delle controparti non sono in grado di pagare le loro obbligazioni”, cioè quello che è successo nel crash del 2008.

Il problema è che il pericolo non è stato affatto rimosso, anzi, forse addirittura è aumentato. Anche se l’1% della piramide dei derivati perde le proprie controparti perché diventano insolventi, stiamo parlando di un buco di 10 trilioni di dollari. Se quel 1% diventa 5% allora sono più di 50 trilioni di dollari, cioè più del PIL del mondo intero”.

In questo momento, la strategia economica ortodossa del governo, ispirata a modelli neoliberisti, sta cercando di rilanciare la crescita economica attraverso l’inflazione dei prezzi dei beni e il commercio dei derivati, includendo le merci come petrolio e alimenti: cioè re-inflazionando l’insostenibile bolla di debito che è scoppiata due anni fa. I diffusi salvataggi delle banche - quantitative easing – sono serviti solo a dare supporto alle banche insolventi e agli istituti finanziari con soldi dei contribuenti. Questo ha ridotto la quantità di soldi in circolazione – col risultato di contrarre l’economia reale basata sulla produzione reale, nell’acquisto e vendita – e allo stesso tempo ha permesso ai finanzieri di ritornare alle loro solite attività. Ma sia le autorità americane che quelle britanniche hanno riconosciuto che c'è la possibilità di ulteriore quantitative easing per sostenere la ripresa dell’economia. Contemporaneamente, si preparano profonde misure di austerità in stile FMI per ridurre i consumi e le manifatture, tagliare i servizi pubblici, mentre aumenta la disoccupazione.

La pressione verso il rialzo dei picchi di prezzo di petrolio e alimenti, determinata per entrambi dalle fondamentali restrizioni alla produzione con conseguenti limiti alla fornitura, in combinazione con il mercato decrescente dei futures dei derivati, genererà negli anni a venire un effetto inflazionario che avrà un potente impatto sui consumatori, così come capitò prima del 2008. Si crea più quantitative easing, spostando i soldi dei contribuenti dall’economia reale e immettendoli nel virtuale mondo finanziario, e di fatto si re-inflaziona la bolla fittizia della ‘crescita’ mentre allo stesso tempo si riduce la dimensione del mondo reale nel quale si suppone che la bolla stia crescendo.

I consumatori e il mondo degli affari lotteranno per continuare a ripagare i debiti, anche se la bolla del debito dei derivati si re-inflaziona nel contesto di un crescente quantitative easing.
Contemporaneamente, mentre la ‘crescita’ determinata dal debito continua ad alimentare una sembianza di ripresa economica, la crescente attività economica raggiungerà inevitabilmente i limiti della stabilità e del declino graduale delle energie derivanti da idrocarburi.

Inevitabilmente, la bolla raggiungerà i limiti della sostenibilità, sia in termini di capacità di solvenza del debito che di produzione energetica derivante da idrocarburi. Il risultato sarà un’altra convergenza di crisi, un altro crash complessivo che include i settori alimentare, energetico ed economico e simultaneamente i picchi dei prezzi causeranno insolvenze nel pagamento dei debiti e quindi provocheranno la deflazione della bolla dei derivati – in definitiva, tutti prodotti di una crisi economica e politica globale la cui organizzazione strutturale richiede qualcosa di fisicamente impossibile: crescita infinita in un pianeta finito.

La prossima crisi, inoltre, difficilmente sarà l’ultima, poiché noi continuiamo a sollecitare le risorse di idrocarburi mentre continuiamo a devastare gli ecosistemi del pianeta e ad alterare il suo clima. Sarà piuttosto la seconda di varie tappe di convergenze di crisi, sintomatica di un protratto processo di crollo del sistema globale.

La domanda che tutti ci dobbiamo porre è: quante crisi dobbiamo ancora vedere prima di svegliarci e capire che il business sfrenato ci ucciderà tutti?


di Nafeez Mosaddeq Ahmed -




Fonte: http://ceasefiremagazine.co.uk

30 novembre 2010

Rifiuti, gli interessi dietro la crisi fanno ostacolo alla soluzione




L'ultima trovata sui rifiuti campani è stato un accordo tra Governo e Regioni che prevede lo smaltimento di 600 tonnellate al giorno di rifiuti fuori dalla Campania per tre mesi. In altre parole le Regioni italiane si impegnano a trovare un modo per smaltire il surplus di rifiuti chiedendo in cambio lo stato di emergenza. Ma la crisi di Napoli è la crisi degli interessi di parte e del continuo rimpiattino sulle responsabilità, che stanno dilatando ancora i tempi di quella che appare come l'unica soluzione disponibile: l'avvio di serie politiche di organizzazione ed incentivo alla raccolta differenziata.


Crisi rifiuti Campania
L'unica soluzione sembra essere l'avvio di una seria ed efficiente raccolta differenziata. Ma sono ancora troppi gli interessi che fanno ostacolo

Prima erano 6000 le tonnellate di spazzatura non raccolta che sta marcendo lungo le strade di Napoli, poi sono diventate 8000 e infine 3000 a Napoli città e 8000 in Provincia. Niente a che vedere con le centinaia di migliaia di un paio di anni fa ma la situazione è chiara, il problema, checché ne dica il governo, non è mai stato risolto, altrimenti non ci troveremmo a questo punto.

Qualche giorno fa il governatore della Campania Stefano Caldoro diceva: "per uscire dalla crisi strutturale della questione rifiuti servono due o più realisticamente tre anni". La stessa cosa che dicevano 2 anni fa, ed eccoci di nuovo al punto di partenza, abbiamo fatto un bel giro di cerimonie di inaugurazione e di proclami di emergenza risolta, di problema affrontato e alla fine siamo tornati alla casella di partenza: la "munnezza" è ancora lì, nelle strade. Il problema della spazzatura in Campania è infatti un problema che ha una natura decisamente variegata, ma spiegabile con una singola parola: interessi.

Gli interessi della Camorra che ormai da anni sa che quello dei rifiuti è un business da milioni e milioni di euro - Gomorra di Garrone e Saviano ce l'ha spiegato chiaramente - e che usa questo business per influenzare la politica. Sulla spazzatura, infatti, è caduto Prodi ed è risuscitato Berlusconi che ora sta di nuovo per cadere, certo per le manovre di Fini ma anche per qualche cumulo di rifiuti. Gli interessi della politica stessa che sa quanto gestire la "munnezza" voglia dire in questo momento gestire soldi e quindi potere, oltre che ovviamente poter decidere di questo e di quell'appalto, di questo e di quell’inceneritore (vedi la recente querelle Carfagna-Cosentino). Gli interessi dei cittadini, che arrivano sempre per ultimi, che quando lottano per la propria salute come a Terzigno vengono chiamati teppisti, che da anni - non 2 ma quasi 20 - si trovano ciclicamente in questa situazione che potrebbe probabilmente essere risolta con la differenziata, non a caso mai partita o ostacolata, come nel caso di Camigliano - unico paese Campano a fare la differenziata con successo - dove è stata smantellata con la deposizione della Giunta comunale che era riuscita in tal impresa.

Ora, dopo un mese di nuova emergenza, gli interessi dei cittadini e in particolare la loro salute sono di nuovo a rischio. Nel centro città l'immondizia viene mangiata dai piccioni, ma è in periferia che la situazione peggiora di giorno in giorno con le prime segnalazioni - a Poggioreale e San Pietro a Patierno - di invasioni di topi. Paolo Giacomelli, assessore all'igiene di Napoli rassicura che "Il Comune è in stretto contatto con la Asl, a cui abbiamo chiesto di fornirci immediatamente qualunque informazione utile sugli aspetti sanitari del problema", ma è una rassicurazione da poco visto che la situazione non potrà che peggiorare nelle prossime settimane dal momento che le discariche e gli Stir (impianti di tritovagliatura dei rifiuti) di Napoli e dintorni sono al limite.

In questa crisi, che, negli amministratori e nel governo, scatena ormai il panico solo a nominarla, l'unica soluzione sembra essere ancora una volta la differenziata - non il decreto del governo firmato dal Presidente Napolitano - dice Daniele Fortini, amministratore delegato di Asìa, Azienda che fornisce servizi di igiene ambientale ai napoletani: "L'unica soluzione immediata e con un investimento inferiore al milione di euro è riarmare immediatamente a Giugliano e Tufino gli impianti di stabilizzazione della frazione umida, distrutti durante l'emergenza del 2008. Questi impianti servono a trasformare la frazione umida in frazione organica stabilizzata, trasformazione che ridurrebbe il peso dei rifiuti del 40 per cento con un beneficio ambientale ed economico".

di Andrea Boretti

28 novembre 2010

Rifiuti milanesi




La recente scoperta che alcune iniziative di edilizia residenziale e commerciale di Milano sono state previste su terreni che nascondevano nel sottosuolo discariche di rifiuti industriali, ripropone un grave problema ambientale sempre accantonato che, silenzioso e nocivo, riemerge continuamente.

L'industria, soprattutto chimica e metallurgica, è basata sulla trasformazione di materie prime naturali --- petrolio, carbone, minerali, rocce, eccetera --- nelle merci volute: plastica, acciaio, carbonato sodico, alluminio, gomma, eccetera. Inevitabilmente tale trasformazione è accompagnata dalla formazione di scorie e residui; quelli gassosi finiscono nell'atmosfera e lì si disperdono, ma quelli liquidi e quelli solidi finiscono nel terreno e spesso lì rimangono per tempi lunghi e lunghissimi. L'industria, nata nella metà dell'Ottocento, all'inizio si è insediata addirittura nel centro delle città: a Milano le prime fabbriche chimiche erano in pieno centro, lungo i canali che attraversavano la città; poi a poco a poco, soprattutto dall'inizio del Novecento, le fabbriche si sono spostate alle periferie, fuori dal centro storico.

Nella loro rapida diffusione alcune industrie sono sorte, poi fallite, poi sostituite da altre; sono cambiati i processi produttivi, le materie prime, le merci prodotte e sono cambiate e si sono stratificate nel sottosuolo le scorie.

Le scorie non sono corpi morti e inerti; alcune subiscono, a contatto con le acque sotterranee, trasformazioni e reazioni che ne modificano la pericolosità e ne aumentano la mobilità al punto che talvolta riemergono in superficie col loro carico di veleni.

Il caso più famoso e drammatico è quello della cittadina di Love Canal, vicino alle cascate del Niagara: un canale abbandonato fu utilizzato, negli anni cinquanta del secolo scorso, come discarica di rifiuti tossici di una vicina industria chimica. Il tutto fu ricoperto di terra e dimenticato; poi il terreno fu venduto al comune di Niagara Falls che vi costruì sopra un quartiere residenziale e una scuola. Nel 1976 le piogge intense hanno allagato la discarica e hanno portato in superficie molte sostanze velenose che hanno provocato malori e malattie negli abitanti e nei bambini. L'evento scandalizzò l'America; gli abitanti furono fatti sloggiare, le case e la scuola furono abbattute, e il governo si decise ad emanare leggi per la bonifica delle zone contaminate, con forti investimenti e costi pubblici. Poco dopo un caso simile di terreno contaminato da sostanze tossiche, portate in superficie da un'alluvione, colpì la cittadina americana di Times Beach.

Di fronte a questi e simili eventi i paesi europei si decisero ad emanare norme per la bonifica delle zone contaminate da rifiuti e scorie industriali pericolosi. In Italia si intervenne con tutta calma, dopo il 1998, e soltanto nel 2001 fu pubblicato un elenco delle zone contaminate di importanza nazionale, con l'indicazione delle sostanze nocive presenti; vi sono poi altre zone da bonificare indicate dalle Regioni e altre ancora; in tutto sono state stimate in 4400 le aree industriali contenenti nel sottosuolo rifiuti tossici e di queste soltanto il 10 percento risulta bonificata.

Un rapporto della Legambiente intitolato: "La chimera delle bonifiche", ha denunciato la lentezza delle operazioni di messa in sicurezza delle zone inquinate; le stesse operazioni di bonifica, tecnicamente complicate e costose, vengono rallentate da infiniti contenziosi con i proprietari dei suoli che sono poi spesso le imprese che vi hanno scaricato i propri rifiuti nocivi. Spesso i suoli abbandonati dalle industrie sono attraenti per le speculazioni edilizie e vengono venduti senza sapere, o facendo finta di non sapere, che cosa c'è sotto.

Eventi come quello ricordato, alla periferia di Milano, non sono rari; qualche tempo fa è stata denunciata la costruzione di edifici pubblici e privati sulla discarica di scorie industriali tossiche a Crotone in Calabria. Per evitare i danni e i relativi costi occorrono varie cose.

Prima di tutto occorre conoscere dove le industrie, che si sono succedute sul territorio italiano nel secolo e mezzo dell'industrializzazione italiana, hanno scaricato le proprie scorie e che cosa queste contengono; un compito difficile che richiederebbe una indagine sulla localizzazione delle vecchie fabbriche, sulla conoscenza delle materie prime utilizzate, delle merci prodotte e dei residui che ciascun ciclo produttivo ha generato. Di molte attività industriali si sono persi i documenti, perfino spesso si sono perse le tracce, e nessuno saprà mai quali materie prime sono state usate, senza contare che, nel corso della sua vita, una fabbrica, per lo stesso ciclo produttivo, usa materie prime differenti, provenienti da differenti paesi.

Spesso i caratteri delle materie prime e delle merci prodotte e delle relative scorie non era nota non solo alle pubbliche amministrazioni, che pure avrebbero dovuto vigilare su quello che avveniva nel loro territorio, ma alle stesse imprese e ai tecnici e ai lavoratori. Le cose si aggravano continuamente da quando si stanno diffondendo le industrie che "trattano" i rifiuti di altre industrie, residui e scorie di cui non sanno niente per cui finiscono nel sottosuolo i rifiuti tossici del trattamento di altri rifiuti tossici.

La più utile celebrazione dei 150 anni dell'Italia unitaria, che sono anche quelli dell'Italia industriale, consisterebbe nella mobilitazione di storici, chimici, ingegneri, merceologi, geografi per ricostruire la storia e la geografia delle fabbriche, dei processi produttivi e della localizzazione e natura dei loro rifiuti. Solo con una simile indagine si possono avviare delle serie operazioni di bonifica che richiederebbero il lavoro di specialisti di discipline che non si sono mai insegnate in nessuna università: la scienza e la tecnica dei rifiuti industriali e del loro trattamento. Solo così si evitano futuri costi e dolori.
di Giorgio Nebbia

01 dicembre 2010

La prossima crisi: ecco come il business sfrenato ci ucciderà




Il 2008 è stato l’anno della convergenza delle crisi. Gli aumenti del prezzo del petrolio così come degli alimenti principali, entrambi prodotti dalla combinazione di problemi nella produzione e nel rifornimento, dalla domanda salita alle stelle con il conseguente incremento del commercio di merci nel mercato dei futures. Allora le banche hanno collassato, i governi le hanno salvate con interventi mirati a puntellare un sistema finanziario che crollava.

Come ho già sostenuto in un precedente articolo (trad italiana) su Ceasefire, questa convergenza di crisi energetica, alimentare ed economica non è stata un incidente, ma il risultato inevitabile del modello di business sfrenato adottato da un sistema politico-economico mondiale che ora ha raggiunto i propri limiti interni, oltre ad aver superato quelli dell’ambiente.

Nonostante le rassicurazioni ufficiali secondo le quali il peggio è passato e le economie si stanno riprendendo e sono tornate a crescere, la tendenza attuale ci indica che il peggio deve ancora venire, e che i politici non hanno idea di quali siano le cause strutturali della convergenza di queste crisi.

Il primo problema fondamentale è che gli ortodossi economisti neoliberisti non riescono a capire una ovvia verità cioè la compenetrazione dell’economia con l’ambiente naturale. La crescita dell’economia richiede un crescente apporto di energia, ottenuta dallo sfruttamento delle risorse naturali, in questo momento essenzialmente i combustibili fossili come petrolio, gas e carbone.

In teoria, gli economisti ortodossi sostengono che il capitalismo può risolvere il problema della dipendenza dall’energia massimizzando l’efficienza, più grande lo sviluppo economico, maggiore sarà l’uso ottimale delle risorse e quindi minore la quantità di energia necessaria. Questo tipo di ragionamento sottintende il sostegno del governo all’ossimoro delle società high growth, low carbon (crescita elevata, basso uso di carbone). Come capita spesso con la teoria economica neoliberista, i dati empirici generano alcuni seri interrogativi su questo argomento. Come mostrato in modo inequivocabile da Tim Jackson in Prosperity Without Growth (pp. 74-76), il trend globale delle emissioni di carbone e combustibili fossili così come l’estrazione di metalli grezzi e di minerali non metallici è aumentato vertiginosamente negli ultimi due decenni. In molti casi, sostiene Jackson: “L’intensità energetica globale (rapporto tra uso di risorse e PIL) è cresciuta significativamente per i minerali non combustibili. L’efficienza delle risorse ha preso una direzione sbagliata.” (p. 75)

Tra il 2005 e il 2008, la convenzionale produzione di petrolio ha combattuto con una stabilità ondulante senza precedenti nella storia della produzione mondiale di petrolio, ed è improbabile che aumenti considerevolmente oltre i livelli raggiunti nel 2008. Come ha notato il dottor James Schlesinger , passato Segretario dell’energia americano (1977-79) e direttore della CIA, date le progettate curve in flessione tra il 4 e il 6 percento, e l’aumento progettato della domanda durante il prossimo quarto di secolo, avremo bisogno dell’equivalente della capacità di cinque volte l’Arabia Saudita”. Aldilà delle incertezze sui fondali degli oceani e sulle riserve non convenzionali e altre, lui fa notare che “in generale dobbiamo aspettarci di andare avanti senza la nostra fonte di energia fondamentale nell’espansione dell’economia mondiale per più di mezzo secolo”.

Mentre i livelli di fornitura sembrano essere fluttuanti, l’aumento di domanda dovuto a una fragile ripresa indica la possibilità a breve di un altro picco del prezzo del petrolio dal momento che la crescente domanda incontra una capacità di produzione piuttosto bassa. Gran parte dell’aumento vertiginoso di domanda di petrolio non proviene dall’occidente ma dalle economie emergenti, come la Cina, e ha portato alcuni istituti finanziari come JP Morgan a prevedere un imminente aumento del prezzo del petrolio fino a 100 dollari al barile.

Allo stesso tempo, con il nuovo aumento dei prezzi del petrolio, stiamo assistendo all’aumento vertiginoso dei prezzi della carne, zucchero, riso, grano e mais. Come esperto finanziario, Addison Wiggin ha avvisato su Forbes, verso la fine di ottobre, che “potremmo essere a un passo dall’esplosione di una crisi alimentare che farebbe sembrare i picchi dei prezzi raggiunti nel 2008 come un felice ricordo”. Wiggin sostiene che la crisi alimentare del 2008 “non è mai finita”, visto che i prezzi delle merci chiave delle aziende agricole, sebbene non raggiungano i livelli del 2008, tuttavia hanno raggiunto livelli più elevati di quelli antecedenti al 2008:

- Frumento: su del 63%
- Grano: su dell’84%
- Soia: su del 24%
- Zucchero: su del 55%

Intanto, il dipartimento americano dell’agricoltura ha avvisato che ci sarà una caduta nella produzione di grano ... l’anno prossimo, dovuta essenzialmente alla siccità in Russia, e ha evidenziato il significativo crollo della produzione di frumento di quest’anno – apparentemente il più considerevole mai verificatosi finora.

Il nesso tra le attuali insufficienze nei rifornimenti di cibo e il cambio climatico non può essere più ignorato a seguito del devastante impatto sull’agricoltura causato dell’ondata di caldo in Russia e delle inondazioni in Pakistan, in seguito anche al previsto problema di instabilità climatica e di disastri naturali sul lungo termine dovuto al riscaldamento globale. Le ultime proiezioni provenienti dal National Center for Atmospheric Research (NCAR) , basate sul modello di business sfrenato, suggeriscono che entro 30 anni il mondo potrebbe dover affrontare un’estrema siccità permanente in parti dell’Asia, degli USA, dell’Europa meridionale così come in ampie zone dell’Africa, America Latina e Medioriente, con un impatto devastante sull’agricoltura e sulle risorse acquifere.

La stabilità della produzione di petrolio non aiuta a risolvere i problemi. Più elevati prezzi del petrolio avranno un effetto inflazionario sull’economia, esacerbando l’impennata dei prezzi alimentari. Inoltre, poiché l’attuale sistema dell’industria alimentare è pesantemente dipendente dai combustibili fossili a vari livelli – macchinari in loco; sintesi e produzione di fertilizzanti; processione, imballaggio, conservazione e trasporto di alimenti – la stabilità della fornitura energetica rafforzerà i limiti fondamentali della produzione alimentare mondiale, con ripercussioni sull’aumento dei prezzi.

Sfortunatamente, l’azione economica ortodossa sembra accelerare la convergenza di queste crisi nei prossimi anni, invece di migliorare la situazione. Nonostante gli indicatori promettano una continua crescita del PIL, considerata da molti come la prova della continua benché fragile ripresa dell’economia, i fatti fondamentali ci raccontano una storia molto diversa. Il commercio totale dei derivati nel mondo attualmente rimane agli stessi livelli della fine 2008 – circa un quadrilione di dollari (mille trilioni) – cioè la cifra colossale pari a 23 volte il PIL mondiale. Come ha notato DK Matai, un analista di rischio strategico globale e consigliere governativo su minacce alla sicurezza, “ L’intera piramide finanziaria su cui sono strutturati i derivati può crollare se i prezzi dei beni cominceranno a scendere poiché alcune delle controparti non sono in grado di pagare le loro obbligazioni”, cioè quello che è successo nel crash del 2008.

Il problema è che il pericolo non è stato affatto rimosso, anzi, forse addirittura è aumentato. Anche se l’1% della piramide dei derivati perde le proprie controparti perché diventano insolventi, stiamo parlando di un buco di 10 trilioni di dollari. Se quel 1% diventa 5% allora sono più di 50 trilioni di dollari, cioè più del PIL del mondo intero”.

In questo momento, la strategia economica ortodossa del governo, ispirata a modelli neoliberisti, sta cercando di rilanciare la crescita economica attraverso l’inflazione dei prezzi dei beni e il commercio dei derivati, includendo le merci come petrolio e alimenti: cioè re-inflazionando l’insostenibile bolla di debito che è scoppiata due anni fa. I diffusi salvataggi delle banche - quantitative easing – sono serviti solo a dare supporto alle banche insolventi e agli istituti finanziari con soldi dei contribuenti. Questo ha ridotto la quantità di soldi in circolazione – col risultato di contrarre l’economia reale basata sulla produzione reale, nell’acquisto e vendita – e allo stesso tempo ha permesso ai finanzieri di ritornare alle loro solite attività. Ma sia le autorità americane che quelle britanniche hanno riconosciuto che c'è la possibilità di ulteriore quantitative easing per sostenere la ripresa dell’economia. Contemporaneamente, si preparano profonde misure di austerità in stile FMI per ridurre i consumi e le manifatture, tagliare i servizi pubblici, mentre aumenta la disoccupazione.

La pressione verso il rialzo dei picchi di prezzo di petrolio e alimenti, determinata per entrambi dalle fondamentali restrizioni alla produzione con conseguenti limiti alla fornitura, in combinazione con il mercato decrescente dei futures dei derivati, genererà negli anni a venire un effetto inflazionario che avrà un potente impatto sui consumatori, così come capitò prima del 2008. Si crea più quantitative easing, spostando i soldi dei contribuenti dall’economia reale e immettendoli nel virtuale mondo finanziario, e di fatto si re-inflaziona la bolla fittizia della ‘crescita’ mentre allo stesso tempo si riduce la dimensione del mondo reale nel quale si suppone che la bolla stia crescendo.

I consumatori e il mondo degli affari lotteranno per continuare a ripagare i debiti, anche se la bolla del debito dei derivati si re-inflaziona nel contesto di un crescente quantitative easing.
Contemporaneamente, mentre la ‘crescita’ determinata dal debito continua ad alimentare una sembianza di ripresa economica, la crescente attività economica raggiungerà inevitabilmente i limiti della stabilità e del declino graduale delle energie derivanti da idrocarburi.

Inevitabilmente, la bolla raggiungerà i limiti della sostenibilità, sia in termini di capacità di solvenza del debito che di produzione energetica derivante da idrocarburi. Il risultato sarà un’altra convergenza di crisi, un altro crash complessivo che include i settori alimentare, energetico ed economico e simultaneamente i picchi dei prezzi causeranno insolvenze nel pagamento dei debiti e quindi provocheranno la deflazione della bolla dei derivati – in definitiva, tutti prodotti di una crisi economica e politica globale la cui organizzazione strutturale richiede qualcosa di fisicamente impossibile: crescita infinita in un pianeta finito.

La prossima crisi, inoltre, difficilmente sarà l’ultima, poiché noi continuiamo a sollecitare le risorse di idrocarburi mentre continuiamo a devastare gli ecosistemi del pianeta e ad alterare il suo clima. Sarà piuttosto la seconda di varie tappe di convergenze di crisi, sintomatica di un protratto processo di crollo del sistema globale.

La domanda che tutti ci dobbiamo porre è: quante crisi dobbiamo ancora vedere prima di svegliarci e capire che il business sfrenato ci ucciderà tutti?


di Nafeez Mosaddeq Ahmed -




Fonte: http://ceasefiremagazine.co.uk

30 novembre 2010

Rifiuti, gli interessi dietro la crisi fanno ostacolo alla soluzione




L'ultima trovata sui rifiuti campani è stato un accordo tra Governo e Regioni che prevede lo smaltimento di 600 tonnellate al giorno di rifiuti fuori dalla Campania per tre mesi. In altre parole le Regioni italiane si impegnano a trovare un modo per smaltire il surplus di rifiuti chiedendo in cambio lo stato di emergenza. Ma la crisi di Napoli è la crisi degli interessi di parte e del continuo rimpiattino sulle responsabilità, che stanno dilatando ancora i tempi di quella che appare come l'unica soluzione disponibile: l'avvio di serie politiche di organizzazione ed incentivo alla raccolta differenziata.


Crisi rifiuti Campania
L'unica soluzione sembra essere l'avvio di una seria ed efficiente raccolta differenziata. Ma sono ancora troppi gli interessi che fanno ostacolo

Prima erano 6000 le tonnellate di spazzatura non raccolta che sta marcendo lungo le strade di Napoli, poi sono diventate 8000 e infine 3000 a Napoli città e 8000 in Provincia. Niente a che vedere con le centinaia di migliaia di un paio di anni fa ma la situazione è chiara, il problema, checché ne dica il governo, non è mai stato risolto, altrimenti non ci troveremmo a questo punto.

Qualche giorno fa il governatore della Campania Stefano Caldoro diceva: "per uscire dalla crisi strutturale della questione rifiuti servono due o più realisticamente tre anni". La stessa cosa che dicevano 2 anni fa, ed eccoci di nuovo al punto di partenza, abbiamo fatto un bel giro di cerimonie di inaugurazione e di proclami di emergenza risolta, di problema affrontato e alla fine siamo tornati alla casella di partenza: la "munnezza" è ancora lì, nelle strade. Il problema della spazzatura in Campania è infatti un problema che ha una natura decisamente variegata, ma spiegabile con una singola parola: interessi.

Gli interessi della Camorra che ormai da anni sa che quello dei rifiuti è un business da milioni e milioni di euro - Gomorra di Garrone e Saviano ce l'ha spiegato chiaramente - e che usa questo business per influenzare la politica. Sulla spazzatura, infatti, è caduto Prodi ed è risuscitato Berlusconi che ora sta di nuovo per cadere, certo per le manovre di Fini ma anche per qualche cumulo di rifiuti. Gli interessi della politica stessa che sa quanto gestire la "munnezza" voglia dire in questo momento gestire soldi e quindi potere, oltre che ovviamente poter decidere di questo e di quell'appalto, di questo e di quell’inceneritore (vedi la recente querelle Carfagna-Cosentino). Gli interessi dei cittadini, che arrivano sempre per ultimi, che quando lottano per la propria salute come a Terzigno vengono chiamati teppisti, che da anni - non 2 ma quasi 20 - si trovano ciclicamente in questa situazione che potrebbe probabilmente essere risolta con la differenziata, non a caso mai partita o ostacolata, come nel caso di Camigliano - unico paese Campano a fare la differenziata con successo - dove è stata smantellata con la deposizione della Giunta comunale che era riuscita in tal impresa.

Ora, dopo un mese di nuova emergenza, gli interessi dei cittadini e in particolare la loro salute sono di nuovo a rischio. Nel centro città l'immondizia viene mangiata dai piccioni, ma è in periferia che la situazione peggiora di giorno in giorno con le prime segnalazioni - a Poggioreale e San Pietro a Patierno - di invasioni di topi. Paolo Giacomelli, assessore all'igiene di Napoli rassicura che "Il Comune è in stretto contatto con la Asl, a cui abbiamo chiesto di fornirci immediatamente qualunque informazione utile sugli aspetti sanitari del problema", ma è una rassicurazione da poco visto che la situazione non potrà che peggiorare nelle prossime settimane dal momento che le discariche e gli Stir (impianti di tritovagliatura dei rifiuti) di Napoli e dintorni sono al limite.

In questa crisi, che, negli amministratori e nel governo, scatena ormai il panico solo a nominarla, l'unica soluzione sembra essere ancora una volta la differenziata - non il decreto del governo firmato dal Presidente Napolitano - dice Daniele Fortini, amministratore delegato di Asìa, Azienda che fornisce servizi di igiene ambientale ai napoletani: "L'unica soluzione immediata e con un investimento inferiore al milione di euro è riarmare immediatamente a Giugliano e Tufino gli impianti di stabilizzazione della frazione umida, distrutti durante l'emergenza del 2008. Questi impianti servono a trasformare la frazione umida in frazione organica stabilizzata, trasformazione che ridurrebbe il peso dei rifiuti del 40 per cento con un beneficio ambientale ed economico".

di Andrea Boretti

28 novembre 2010

Rifiuti milanesi




La recente scoperta che alcune iniziative di edilizia residenziale e commerciale di Milano sono state previste su terreni che nascondevano nel sottosuolo discariche di rifiuti industriali, ripropone un grave problema ambientale sempre accantonato che, silenzioso e nocivo, riemerge continuamente.

L'industria, soprattutto chimica e metallurgica, è basata sulla trasformazione di materie prime naturali --- petrolio, carbone, minerali, rocce, eccetera --- nelle merci volute: plastica, acciaio, carbonato sodico, alluminio, gomma, eccetera. Inevitabilmente tale trasformazione è accompagnata dalla formazione di scorie e residui; quelli gassosi finiscono nell'atmosfera e lì si disperdono, ma quelli liquidi e quelli solidi finiscono nel terreno e spesso lì rimangono per tempi lunghi e lunghissimi. L'industria, nata nella metà dell'Ottocento, all'inizio si è insediata addirittura nel centro delle città: a Milano le prime fabbriche chimiche erano in pieno centro, lungo i canali che attraversavano la città; poi a poco a poco, soprattutto dall'inizio del Novecento, le fabbriche si sono spostate alle periferie, fuori dal centro storico.

Nella loro rapida diffusione alcune industrie sono sorte, poi fallite, poi sostituite da altre; sono cambiati i processi produttivi, le materie prime, le merci prodotte e sono cambiate e si sono stratificate nel sottosuolo le scorie.

Le scorie non sono corpi morti e inerti; alcune subiscono, a contatto con le acque sotterranee, trasformazioni e reazioni che ne modificano la pericolosità e ne aumentano la mobilità al punto che talvolta riemergono in superficie col loro carico di veleni.

Il caso più famoso e drammatico è quello della cittadina di Love Canal, vicino alle cascate del Niagara: un canale abbandonato fu utilizzato, negli anni cinquanta del secolo scorso, come discarica di rifiuti tossici di una vicina industria chimica. Il tutto fu ricoperto di terra e dimenticato; poi il terreno fu venduto al comune di Niagara Falls che vi costruì sopra un quartiere residenziale e una scuola. Nel 1976 le piogge intense hanno allagato la discarica e hanno portato in superficie molte sostanze velenose che hanno provocato malori e malattie negli abitanti e nei bambini. L'evento scandalizzò l'America; gli abitanti furono fatti sloggiare, le case e la scuola furono abbattute, e il governo si decise ad emanare leggi per la bonifica delle zone contaminate, con forti investimenti e costi pubblici. Poco dopo un caso simile di terreno contaminato da sostanze tossiche, portate in superficie da un'alluvione, colpì la cittadina americana di Times Beach.

Di fronte a questi e simili eventi i paesi europei si decisero ad emanare norme per la bonifica delle zone contaminate da rifiuti e scorie industriali pericolosi. In Italia si intervenne con tutta calma, dopo il 1998, e soltanto nel 2001 fu pubblicato un elenco delle zone contaminate di importanza nazionale, con l'indicazione delle sostanze nocive presenti; vi sono poi altre zone da bonificare indicate dalle Regioni e altre ancora; in tutto sono state stimate in 4400 le aree industriali contenenti nel sottosuolo rifiuti tossici e di queste soltanto il 10 percento risulta bonificata.

Un rapporto della Legambiente intitolato: "La chimera delle bonifiche", ha denunciato la lentezza delle operazioni di messa in sicurezza delle zone inquinate; le stesse operazioni di bonifica, tecnicamente complicate e costose, vengono rallentate da infiniti contenziosi con i proprietari dei suoli che sono poi spesso le imprese che vi hanno scaricato i propri rifiuti nocivi. Spesso i suoli abbandonati dalle industrie sono attraenti per le speculazioni edilizie e vengono venduti senza sapere, o facendo finta di non sapere, che cosa c'è sotto.

Eventi come quello ricordato, alla periferia di Milano, non sono rari; qualche tempo fa è stata denunciata la costruzione di edifici pubblici e privati sulla discarica di scorie industriali tossiche a Crotone in Calabria. Per evitare i danni e i relativi costi occorrono varie cose.

Prima di tutto occorre conoscere dove le industrie, che si sono succedute sul territorio italiano nel secolo e mezzo dell'industrializzazione italiana, hanno scaricato le proprie scorie e che cosa queste contengono; un compito difficile che richiederebbe una indagine sulla localizzazione delle vecchie fabbriche, sulla conoscenza delle materie prime utilizzate, delle merci prodotte e dei residui che ciascun ciclo produttivo ha generato. Di molte attività industriali si sono persi i documenti, perfino spesso si sono perse le tracce, e nessuno saprà mai quali materie prime sono state usate, senza contare che, nel corso della sua vita, una fabbrica, per lo stesso ciclo produttivo, usa materie prime differenti, provenienti da differenti paesi.

Spesso i caratteri delle materie prime e delle merci prodotte e delle relative scorie non era nota non solo alle pubbliche amministrazioni, che pure avrebbero dovuto vigilare su quello che avveniva nel loro territorio, ma alle stesse imprese e ai tecnici e ai lavoratori. Le cose si aggravano continuamente da quando si stanno diffondendo le industrie che "trattano" i rifiuti di altre industrie, residui e scorie di cui non sanno niente per cui finiscono nel sottosuolo i rifiuti tossici del trattamento di altri rifiuti tossici.

La più utile celebrazione dei 150 anni dell'Italia unitaria, che sono anche quelli dell'Italia industriale, consisterebbe nella mobilitazione di storici, chimici, ingegneri, merceologi, geografi per ricostruire la storia e la geografia delle fabbriche, dei processi produttivi e della localizzazione e natura dei loro rifiuti. Solo con una simile indagine si possono avviare delle serie operazioni di bonifica che richiederebbero il lavoro di specialisti di discipline che non si sono mai insegnate in nessuna università: la scienza e la tecnica dei rifiuti industriali e del loro trattamento. Solo così si evitano futuri costi e dolori.
di Giorgio Nebbia