02 gennaio 2011

Palestina: riconoscimento di uno Stato

Un avvocato e autore internazionale analizza la qualità e la quantità di Stati che riconoscono la Palestina

Il 17 dicembre la Bolivia ha ufficialmente riconosciuto la Palestina con i confini che le spettavano nel 1967 (tutta la striscia di Gaza, la Cisgiordania e Gerusalemme Est).

Il riconoscimento da parte della Bolivia porta a 106 il numero degli Stati membri dell’ONU che riconoscono lo Stato della Palestina, la cui indipendenza è stata proclamata il 15 novembre 1988. Pur essendo tuttora sotto occupazione armata straniera, la Palestina possiede tutti i requisiti e criteri internazionali necessari per fregiarsi del titolo di Stato Sovrano. Nessuna porzione del territorio palestinese è considerato da alcun Paese (ad eccezione di Israele) come territorio sovrano di un altra Nazione, e persino Israele ha affermato la propria sovranità solo su una piccola porzione del territorio della Palestina, la parte est di Gerusalemme, lasciando la sovranità sul resto letteralmente e legalmente incontestata. In questo scenario può essere d’aiuto considerare la qualità e la quantità degli Stati che riconoscono la sovranità della Palestina.



Dei nove maggiori Paesi al mondo, otto (tutti eccetto gli Stati Uniti) riconoscono lo Stato della Palestina. Tra i 20 Paesi al mondo a maggior densità di popolazione, 15 (tutti eccetto Stati Uniti, Giappone, Messico, Germania e Tailandia), riconoscono la Palestina. Per contro, i 72 Paesi delle Nazioni Unite che attualmente riconoscono la Repubblica del Kossovo come Stato Indipendente, includono soltanto uno dei nove Stati maggiori (gli Stati Uniti) e solo quattro dei 20 Paesi più popolati (Stati Uniti, Giappone, Germania e Turchia).

A luglio, quando la Corte Internazionale di Giustizia stabilì che la dichiarazione unilaterale d’indipendenza del Kossovo non violava leggi internazionali perché tali leggi non si pronunciano sul tema della legalità delle dichiarazioni d’indipendenza (nel senso che nessuna dichiarazione d’indipendenza contravviene ad alcuna legge per cui sono tutte “legali” benché soggette all’accettazione politica della loro dichiarata indipendenza da parte degl altri stati sovrani), gli Stati Uniti esortarono i Paesi che non avevano ancora riconosciuto il Kossovo a farlo al più presto. Passati cinque mesi, solo altri tre Paesi ritennero opportuno farlo, Honduras, Kiribati e Tuvalu. Se la Lega degli Stati Arabi iniziasse ad esortare la minoranza degli Stati appartenenti alle Nazioni Unite che ancora non hanno riconosciuto la Palestina a farlo subito è certo che la risposta sarebbe di molto superiore (sia in qualità che in quantità) alla risposta avuta di recente dagli Stati Uniti riguardo al Kossovo. E lo dovrebbe proprio fare.

Malgrado il fatto che (secondo i miei calcoli approssimativi) i Paesi che comprendono l’80 e il 90 per cento della popolazione mondiale riconoscono lo Stato della Palestina e che soltanto tra il 10 e il 20 per cento della popolazione mondiale riconosce la Repubblica del Kossovo, per i media occidentali (in effetti anche per la maggior parte dei media non occidentali) l’indipendenza del Kossovo è cosa fatta, mentre l’indipendenza della Palestina è soltanto un’aspirazione che non potrà mai essere realizzata senza il consenso Israelo-Americano, e la gran parte dell’opinione pubblica mondiale (e, a quanto pare anche la leadership palestinese di Ramallah) è, almeno finora, stata soggetta ad un lavaggio di cervello che la fa pensare ed agire di conseguenza.

Come nella maggioranza dei casi che riguardano rapporti internazionali, non è la natura dell’atto (o del crimine) che conta, ma piuttosto chi lo fa a chi. La Palestina è stata invasa 43 anni fa, ed è ancora occupata oggi, dalle forze armate d’Israele. Quella che la maggior parte del mondo (incluse le Nazioni Unite e l’Unione Europea) ancora considerano parte della provincia serba del Kossovo è stata invasa, ed è ancora occupata adesso, 11 anni dopo, dalle forze della NATO, e la bandiera americana vi ci sventola in lungo e in largo quanto le bandiere del Kossovo, mentre la capitale, Pristina, ostenta un Bill Clinton Boulevard, con una sua enorme statua. La forza fa la legge, o perlomeno la pensano così i più forti, inclusa la maggior parte di chi decide e di chi influenza l’opinione pubblica in occidente.

Nel frattempo, mentre il perenne “processo di pace” sembra improvvisamente minacciato da pacifici ricorsi a leggi ed organizzazioni internazionali, la Camera dei Rappresentanti americana ha approvato con voto unanime una risoluzione stilata dalla American Israel Public Affairs Committee (AIPAC), che invita il presidente Barack Obama a non riconoscere lo Stato della Palestina e ad opporsi a qualsiasi tentativo da parte palestinese di diventare membro delle Nazioni Unite.

In genere la politica e i media occidentali chiamano “comunità internazionale” gli Stati Uniti e qualsiasi nazione sia disposta a sostenerli pubblicamente su qualsiasi fronte, e “stati canaglia” quei Paesi che attivamente contrastano il dominio globale Israelo-Americano.

Con la sua servile sottomissione ad Israele, come ribadito ancora una volta dal fatto che non una sola voce coraggiosa si sia opposta a quest’ultima risoluzione della Camera dei Rappresentanti e dallo smacco subito dall’amministrazione Obama che aveva offerto un’enorme tangente militare e diplomatica ad Israele (e da questi rifiutata) per la sospensione di 90 giorni del suo programma illegale di colonizzazione, gli Stati Uniti si sono effettivamente autoesclusi dalla vera comunità internazionale (la stragrande maggioranza dell’umanità) e sono diventati essi stessi uno “stato canaglia”, dal momento che agiscono in costante e flagrante dispregio sia delle leggi internazionali che dei diritti umani. C’è da sperare che gli Stati Uniti possano ancora strapparsi all’abisso e ritrovare la propria indipendenza, ma tutti i segnali vanno nella direzione opposta. È una triste fine per una nazione un tempo ammirevole.

John Whitbeck, avvocato internazionale e consulente del pool palestinese nelle trattative con Israele, è autore del libro “Il mondo secondo Whitbeck”.

di John Whitbeck

31 dicembre 2010

L'avvio della transizione verso una nuova economia

Il 2010 si conclude lasciando qualche barlume di speranza per la soluzione dei pesanti problemi sociali, ambientali ed economici che le nostre società hanno continuato a sottovalutare per decenni e che oggi si stanno palesando in tutta la loro gravità.
La drammatica crisi economica e finanziaria dal 2008 ci sta dimostrando che non è possibile proseguire su di una strada veramente insostenibile, sotto tutti i punti di vista, per il futuro dell'intera umanità. E' giusto quindi valutare quel poco che di positivo è scaturito nelle due Conferenze delle Parti di due importanti Convenzioni internazionali destinate ad ottenere risultati concreti nel governo dei nostri "beni comuni", quella sulla Biodiversità (tenutasi a Nagoya in Giappone lo scorso ottobre) e la Convenzione quadro sui Cambiamenti Climatici (tenutasi a Cancun agli inizi di dicembre).

Il 2010 è stato l'anno internazionale dedicato dalle Nazioni Unite alla Biodiversità e il piano di azione scaturito dalla 10° Conferenza delle Parti di Nagoya della Convenzione sulla Biodiversità, come abbiamo già analizzato nelle pagine di questa rubrica, va considerato una buona base di impegni per cercare di frenare la perdita della ricchezza della vita sulla Terra nell'arco dei prossimi dieci anni. Anche la Conferenza delle Parti sul clima di Cancun è riuscita nell'intento di rivitalizzare il negoziato internazionale che sembrava destinato all'estinzione dopo la conferenza dello scorso anno a Copenaghen e quindi vi sono buone speranze di chiudere un accordo internazionale entro il 2011.

Certamente tutte queste iniziative della diplomazia internazionale si scontrano duramente con il fattore più critico che dobbiamo affrontare, costituito dal tempo. Il fattore "tempo" non gioca certo a nostro favore e i ritardi, i rimandi, l'inazione, le deroghe tanto care al mondo della politica non fanno altro che peggiorare la situazione. Domani sarà sempre più difficile risolvere problemi che, con il passare del tempo e la mancanza di interventi concreti e decisivi, non potranno che aggravarsi.

Oggi una vera priorità sta diventando sempre di più quella di modificare l'impianto di base della nostra economia che promuove un meccanismo di crescita continua, materiale e quantitativa. E' francamente impossibile salvare la biodiversità del pianeta, ristabilire i complessi equilibri dinamici del sistema climatico, affrontare tutte le notevoli problematiche di insostenibilità della nostra pressione crescente sui sistemi naturali della Terra, sui suoli, sui cicli idrici, sui grandi cicli biogeochimici dell'azoto, del carbonio, del fosforo ecc., senza intervenire significativamente sui meccanismi fondanti dell'attuale sistema economico e finanziario.

Ecco perché sta diventando di grande importanza tutto il lavoro internazionale interdisciplinare di tantissimi esperti che lavorano alacremente per impostare una nuova economia ecologica, che consenta alle nostre società di imboccare strade più sostenibili dal punto di vista ambientale e sociale.

Proprio nel 2010 è stato reso noto un altro importantissimo tassello di questo nuovo mosaico, il rapporto finale della grande iniziativa internazionale TEEB, The Economics of Ecosystems and Biodiversity (vedasi www.teebweb.org).

Il TEEB, diretto dall'economista indiano Pavan Sukhdev e lanciato dalla Germania e dalla Commissione Europea nel 2007 è stato sostenuto dal Programma Ambiente delle Nazioni Unite (UNEP, vedasi il sito www.unep.org ) e da Regno Unito, Norvegia, Olanda e Svezia.
Il TEEB mira a comporre tutte le esperienze, le conoscenze, i know-how esistenti in tutte le regioni del pianeta per rendere sempre più la nostra economia, sia nella teoria che nella pratica, basata sui fondamenti biofisici dei sistemi naturali che la supportano. Il TEEB dimostra il fallimento dei mercati nel considerare adeguatamente il valore degli ecosistemi e dell'intera biodiversità del pianeta. Il TEEB dimostra proprio come le attività mirate alla conservazione, ripristino e razionale gestione delle risorse e dei sistemi naturali costituisce un autentico investimento economico.

La mancanza di un prezzo di mercato per i servizi offerti dagli ecosistemi e per la biodiversità dimostra che i fondamentali benefici derivanti da questi beni (in molti casi beni pubblici e collettivi) sono quasi sempre negletti o sottovalutati nelle decisioni politiche. Gli effetti di queste sottovalutazioni si riverberano non solo nel peggioramento continuo e progressivo dello stato di salute degli ecosistemi del mondo intero che oggi sono sottoposti ad una pressione umana senza precedenti, ma anche sullo stato di salute dell'umanità e del benessere umano nel suo complesso.

Il valore degli ecosistemi e della biodiversità è oggi paradossalmente invisibile all'economia che guida le scelte politiche nel mondo intero. Le conoscenze scientifiche acquisite ci dimostrano che il capitale naturale, gli ecosistemi, la biodiversità e le risorse naturali, sono la base del benessere delle economie, delle società e degli individui. Il valore della miriade di benefici che derivano dalla ricchezza della natura presente sul nostro pianeta è ignorata e non presa in considerazione dal mondo politico-economico che, quotidianamente, decide ciò che condiziona la nostra esistenza.

Stiamo drammaticamente distruggendo le basi del nostro stock di capitale naturale e lo facciamo prima ancora di riconoscere il valore che stiamo perdendo. Il persistente degrado dei suoli, dell'acqua, delle risorse biologiche impatta negativamente sulla nostra salute, sulla nostra sicurezza alimentare, sulle scelte dei consumatori e sulle opportunità delle attività imprenditoriali.

In questo ambito è fondamentale modificare i grandi indicatori della performance economica, come il PIL. Una interessante speranza anche per il nostro paese nasce dalla recentissima costituzione presso il Cnel, di un "Gruppo di indirizzo sulla misura del progresso della società italiana", composto da rappresentanze delle parti sociali e della società civilee fortemente voluto dall'ottimo presidente dell'ISTAT, Enrico Giovannini. L'obiettivo del Gruppo, come ricorda lo stesso ISTAT, è proprio quello di sviluppare un approccio multidimensionale del "benessere equo e sostenibile" (Bes), che integri l'indicatore dell'attività economica, il Pil, con altri indicatori, ivi compresi quelli relativi alle diseguaglianze (non solo di reddito) e alla sostenibilità (non solo ambientale).

La misurazione del progresso passa attraverso l'analisi di due componenti: la prima, prettamente politica, la seconda di carattere tecnico-statistico. Come ormai appare evidente dall'ampio ed articolato dibattito internazionale sull'argomento, non è possibile sostituire il Pil con un indicatore singolo del benessere di una società. Quindi, si tratta di selezionare un insieme di indicatori e fare ciò richiede il coinvolgimento di tutti i settori della società, nonché degli esperti di misurazione. Ecco perché il Cnel e l'Istat hanno deciso di avviare questa iniziativa, in analogia a quanto sta avvenendo in altri paesi.

Il Gruppo lavorerà quindi nel corso dei prossimi 18 mesi con l'obiettivo di:
- sviluppare una definizione condivisa del progresso della società italiana, definendo gli ambiti economici, sociali ed ambientali di maggior rilievo (salute, lavoro, benessere materiale, inquinamento, ecc.);
- selezionare un set di indicatori di elevata qualità statistica rappresentativi dei diversi domini. Tale insieme di indicatori dovrà essere limitato in termini numerici, così da favorire la sua comprensione anche ai non esperti;
- comunicare ai cittadini il risultato di questo processo, attraverso la diffusione il più capillare possibile dell'andamento degli indicatori selezionati.
Inoltre, l'Istat costituirà una Commissione Scientifica che avrà il compito di svolgere il lavoro preparatorio per lo sviluppo degli indicatori statistici più appropriati per misurare il progresso della società italiana, anche alla luce delle raccomandazioni internazionali.

In particolare, nella prima fase (prima metà del 2011), si procederà allo svolgimento di una consultazione pubblica online aperta agli esperti, alla società civile ed ai singoli cittadini per raccogliere i loro contributi sull'importanza delle singole dimensioni del benessere maggiormente rilevanti per la società italiana. Inoltre, l'Istat ha inserito nella propria indagine multiscopo alcuni quesiti sull'importanza che i cittadini danno alle singole "dimensioni" del benessere, utilizzando le categorie suggerite dell'Ocse e dalla Commissione Stiglitz, Sen, Fitoussi (voluta dal presidente francese Nicholas Sarkozy e che ha concluso i suoi lavori con la pubblicazione del rapporto finale nel settembre 2009), alla definizione, sulla base di tali risultati, delle macrodimensioni del benessere da porre sotto osservazione. La proposta del Gruppo verrà poi presentata alle diverse Commissioni ed all'Assemblea del Cnel per approvazione.

Nella seconda fase del progetto (seconda metà del 2011) l'Istat proporrà al Gruppo di Indirizzo i possibili indicatori da adottare per misurare i diversi aspetti del benessere equo e sostenibile, il quale cercherà di pervenire, previa consultazione dei portatori di interesse, ad una proposta condivisa da sottoporre, per approvazione finale, alle diverse Commissioni ed all'Assemblea del Cnel.

Infine, a metà del 2012 si procederà alla predisposizione di un Rapporto Cnel-Istat sulla misura del progresso della società italiana, il quale verrà reso disponibile in diverse forme e promosso attraverso i mezzi di comunicazione, così da assicurarne una conoscenza il più diffusa possibile tra la popolazione.

L'iniziativa Cnel-Istat pone l'Italia nel gruppo dei paesi (Francia, Germania, Regno Unito, Stati Uniti, Australia, Irlanda, Messico, Svizzera, Olanda) che hanno recentemente deciso di misurare il benessere della società attraverso un insieme selezionato di indicatori statistici di qualità, alla cui selezione partecipano rappresentanti delle parti sociali e della società civile. Tale approccio, suggerito dall'Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (Ocse) e dalla già citata"Commissione Stiglitz" , alla quale abbiamo dedicato diverse pagine di questa rubrica, fornirà al paese una quadro condiviso dell'evoluzione dei principali fenomeni
economici, sociali ed ambientali.

Il miglior augurio per il nuovo anno è proprio quello di sperare che si avvii finalmente una transizione concreta verso una nuova economia. E' la migliore prospettiva che abbiamo per tutta l'umanità.
di Gianfranco Bologna

30 dicembre 2010

E se il club delle nove banche globali colpisse l 'Italia?

La tempesta perfetta è sostanzialmente un fenomeno che riguarda l’indebitamento in senso lato, indebitamento dei privati per il credito al consumo o per i mutui, delle imprese, degli Stati e delle banche per la montagna di titoli più o meno tossici della finanza strutturata con i quali hanno ricoperto il pianeta.

Molti di questi debiti sono in default, molti non sono ancora giunti a questa situazione ma vi sono vicini, altri titoli tossici vengono ritenuti buoni soltanto a causa di una modifica alle regole di rappresentazione di bilancio, ma buoni non sono.

La crisi del debito sovrano in Europa aggiunge un altro tassello a questo quadro, ma il problema non riguarda solo Grecia e Irlanda, riguarda un buon numero dei paesi del Vecchio Continente, Italia inclusa, riguarda l’euro, ma, dall’altra parte dell’Oceano Atlantico, riguarda i titoli di stato statunitensi e il dollaro, nonché lo stato delle banche che hanno l’etichetta del too big to fail (troppo grandi per fallire).

Come si esce da una crisi del debito? Le strade sono diverse, ma la più semplice la ha indicata la cancelliera Angela Merkel, la quale ha sostenuto che anche i creditori, i possessori cioè dei titoli, devono fare la loro parte, accettando di incassare quanto il Mercato valuta quei pezzi di carta da loro sottoscritti quando ben altra era la solidità degli emittenti.

Quello che propone oggi la Merkel è stato già vissuto sulla loro pelle dagli obbligazionisti della Chrysler e della General Motora, mentre poco si sa di quanto è accaduto ai possessori di obbligazioni emesse da entità minori e i cui default non hanno guadagnato le prime pagine dei giornali finanziari, ma non è azzardato ritenere che in molti casi non sia rimasto in mano a questi creditori molto più del classico pugno di mosche.

Per quanto riguarda l’area dell’euro, finora i creditori non sono stati toccati dal crollo dei titoli sul mercato secondario se hanno deciso di portare a scadenza i loro titoli, ma dopo Grecia e Irlanda, e forse nei prossimi giorni il Portogallo, la speculazione guidata dal club delle nove banche globali potrebbe toccare Spagna e Italia, non in questo ordine necessariamente, e allora ci sarebbe il rischio concreto di una ristrutturazione del debito che potrebbe anche colpire pesantemente i detentori dei titoli di Stato.

Ma cos’è questo club delle nove banche globali di cui ha parlato per primo il New York Times? Si tratta di sei banche statunitensi, le più grandi, tra cui Goldman Sachs, Citigroup, J.P. Morgan-Chase, Bank of America, ma anche svizzere, inglesi e tedesche che da tempo usano riunirsi in un giorno fisso della settimana per discutere di materie prime, azioni e titoli di Stato e per decidere linee guida di azione, riuscendo a influenzare l’andamento dei mercati grazie al volume di fuoco che possono scatenare.

Si tratta di volumi che possono mandare alle stelle o agli inferi il valore della moneta di un paese di medie dimensioni, o i titoli rappresentativi del debito dello stesso malcapitato paese, ma grande influenza hanno anche sui mercati delle materie prime, in particolare di quelle energetiche.

Le difese contro queste banche sono molto scarse, anche perché gli altri operatori tendono ad accodarsi ai loro movimenti, restando spesso bruciati quando i grandi decidono repentinamente di cambiare strategia.

Le stesse banche centrali e i governi dei paesi maggiormente industrializzati poco possono contro una coalizione di entità così potenti, vere e proprie multinazionali del credito che hanno in gestione quantità di denaro pari a multipli del prodotto interno lordo di questi paesi, possono al massimo esercitare una morali suasion affinché non eccedano nell’influenzare i mercati valutari e quello dei titoli di Stato e, anche in questo caso, non sempre con successo.
di Marco Sarli

02 gennaio 2011

Palestina: riconoscimento di uno Stato

Un avvocato e autore internazionale analizza la qualità e la quantità di Stati che riconoscono la Palestina

Il 17 dicembre la Bolivia ha ufficialmente riconosciuto la Palestina con i confini che le spettavano nel 1967 (tutta la striscia di Gaza, la Cisgiordania e Gerusalemme Est).

Il riconoscimento da parte della Bolivia porta a 106 il numero degli Stati membri dell’ONU che riconoscono lo Stato della Palestina, la cui indipendenza è stata proclamata il 15 novembre 1988. Pur essendo tuttora sotto occupazione armata straniera, la Palestina possiede tutti i requisiti e criteri internazionali necessari per fregiarsi del titolo di Stato Sovrano. Nessuna porzione del territorio palestinese è considerato da alcun Paese (ad eccezione di Israele) come territorio sovrano di un altra Nazione, e persino Israele ha affermato la propria sovranità solo su una piccola porzione del territorio della Palestina, la parte est di Gerusalemme, lasciando la sovranità sul resto letteralmente e legalmente incontestata. In questo scenario può essere d’aiuto considerare la qualità e la quantità degli Stati che riconoscono la sovranità della Palestina.



Dei nove maggiori Paesi al mondo, otto (tutti eccetto gli Stati Uniti) riconoscono lo Stato della Palestina. Tra i 20 Paesi al mondo a maggior densità di popolazione, 15 (tutti eccetto Stati Uniti, Giappone, Messico, Germania e Tailandia), riconoscono la Palestina. Per contro, i 72 Paesi delle Nazioni Unite che attualmente riconoscono la Repubblica del Kossovo come Stato Indipendente, includono soltanto uno dei nove Stati maggiori (gli Stati Uniti) e solo quattro dei 20 Paesi più popolati (Stati Uniti, Giappone, Germania e Turchia).

A luglio, quando la Corte Internazionale di Giustizia stabilì che la dichiarazione unilaterale d’indipendenza del Kossovo non violava leggi internazionali perché tali leggi non si pronunciano sul tema della legalità delle dichiarazioni d’indipendenza (nel senso che nessuna dichiarazione d’indipendenza contravviene ad alcuna legge per cui sono tutte “legali” benché soggette all’accettazione politica della loro dichiarata indipendenza da parte degl altri stati sovrani), gli Stati Uniti esortarono i Paesi che non avevano ancora riconosciuto il Kossovo a farlo al più presto. Passati cinque mesi, solo altri tre Paesi ritennero opportuno farlo, Honduras, Kiribati e Tuvalu. Se la Lega degli Stati Arabi iniziasse ad esortare la minoranza degli Stati appartenenti alle Nazioni Unite che ancora non hanno riconosciuto la Palestina a farlo subito è certo che la risposta sarebbe di molto superiore (sia in qualità che in quantità) alla risposta avuta di recente dagli Stati Uniti riguardo al Kossovo. E lo dovrebbe proprio fare.

Malgrado il fatto che (secondo i miei calcoli approssimativi) i Paesi che comprendono l’80 e il 90 per cento della popolazione mondiale riconoscono lo Stato della Palestina e che soltanto tra il 10 e il 20 per cento della popolazione mondiale riconosce la Repubblica del Kossovo, per i media occidentali (in effetti anche per la maggior parte dei media non occidentali) l’indipendenza del Kossovo è cosa fatta, mentre l’indipendenza della Palestina è soltanto un’aspirazione che non potrà mai essere realizzata senza il consenso Israelo-Americano, e la gran parte dell’opinione pubblica mondiale (e, a quanto pare anche la leadership palestinese di Ramallah) è, almeno finora, stata soggetta ad un lavaggio di cervello che la fa pensare ed agire di conseguenza.

Come nella maggioranza dei casi che riguardano rapporti internazionali, non è la natura dell’atto (o del crimine) che conta, ma piuttosto chi lo fa a chi. La Palestina è stata invasa 43 anni fa, ed è ancora occupata oggi, dalle forze armate d’Israele. Quella che la maggior parte del mondo (incluse le Nazioni Unite e l’Unione Europea) ancora considerano parte della provincia serba del Kossovo è stata invasa, ed è ancora occupata adesso, 11 anni dopo, dalle forze della NATO, e la bandiera americana vi ci sventola in lungo e in largo quanto le bandiere del Kossovo, mentre la capitale, Pristina, ostenta un Bill Clinton Boulevard, con una sua enorme statua. La forza fa la legge, o perlomeno la pensano così i più forti, inclusa la maggior parte di chi decide e di chi influenza l’opinione pubblica in occidente.

Nel frattempo, mentre il perenne “processo di pace” sembra improvvisamente minacciato da pacifici ricorsi a leggi ed organizzazioni internazionali, la Camera dei Rappresentanti americana ha approvato con voto unanime una risoluzione stilata dalla American Israel Public Affairs Committee (AIPAC), che invita il presidente Barack Obama a non riconoscere lo Stato della Palestina e ad opporsi a qualsiasi tentativo da parte palestinese di diventare membro delle Nazioni Unite.

In genere la politica e i media occidentali chiamano “comunità internazionale” gli Stati Uniti e qualsiasi nazione sia disposta a sostenerli pubblicamente su qualsiasi fronte, e “stati canaglia” quei Paesi che attivamente contrastano il dominio globale Israelo-Americano.

Con la sua servile sottomissione ad Israele, come ribadito ancora una volta dal fatto che non una sola voce coraggiosa si sia opposta a quest’ultima risoluzione della Camera dei Rappresentanti e dallo smacco subito dall’amministrazione Obama che aveva offerto un’enorme tangente militare e diplomatica ad Israele (e da questi rifiutata) per la sospensione di 90 giorni del suo programma illegale di colonizzazione, gli Stati Uniti si sono effettivamente autoesclusi dalla vera comunità internazionale (la stragrande maggioranza dell’umanità) e sono diventati essi stessi uno “stato canaglia”, dal momento che agiscono in costante e flagrante dispregio sia delle leggi internazionali che dei diritti umani. C’è da sperare che gli Stati Uniti possano ancora strapparsi all’abisso e ritrovare la propria indipendenza, ma tutti i segnali vanno nella direzione opposta. È una triste fine per una nazione un tempo ammirevole.

John Whitbeck, avvocato internazionale e consulente del pool palestinese nelle trattative con Israele, è autore del libro “Il mondo secondo Whitbeck”.

di John Whitbeck

31 dicembre 2010

L'avvio della transizione verso una nuova economia

Il 2010 si conclude lasciando qualche barlume di speranza per la soluzione dei pesanti problemi sociali, ambientali ed economici che le nostre società hanno continuato a sottovalutare per decenni e che oggi si stanno palesando in tutta la loro gravità.
La drammatica crisi economica e finanziaria dal 2008 ci sta dimostrando che non è possibile proseguire su di una strada veramente insostenibile, sotto tutti i punti di vista, per il futuro dell'intera umanità. E' giusto quindi valutare quel poco che di positivo è scaturito nelle due Conferenze delle Parti di due importanti Convenzioni internazionali destinate ad ottenere risultati concreti nel governo dei nostri "beni comuni", quella sulla Biodiversità (tenutasi a Nagoya in Giappone lo scorso ottobre) e la Convenzione quadro sui Cambiamenti Climatici (tenutasi a Cancun agli inizi di dicembre).

Il 2010 è stato l'anno internazionale dedicato dalle Nazioni Unite alla Biodiversità e il piano di azione scaturito dalla 10° Conferenza delle Parti di Nagoya della Convenzione sulla Biodiversità, come abbiamo già analizzato nelle pagine di questa rubrica, va considerato una buona base di impegni per cercare di frenare la perdita della ricchezza della vita sulla Terra nell'arco dei prossimi dieci anni. Anche la Conferenza delle Parti sul clima di Cancun è riuscita nell'intento di rivitalizzare il negoziato internazionale che sembrava destinato all'estinzione dopo la conferenza dello scorso anno a Copenaghen e quindi vi sono buone speranze di chiudere un accordo internazionale entro il 2011.

Certamente tutte queste iniziative della diplomazia internazionale si scontrano duramente con il fattore più critico che dobbiamo affrontare, costituito dal tempo. Il fattore "tempo" non gioca certo a nostro favore e i ritardi, i rimandi, l'inazione, le deroghe tanto care al mondo della politica non fanno altro che peggiorare la situazione. Domani sarà sempre più difficile risolvere problemi che, con il passare del tempo e la mancanza di interventi concreti e decisivi, non potranno che aggravarsi.

Oggi una vera priorità sta diventando sempre di più quella di modificare l'impianto di base della nostra economia che promuove un meccanismo di crescita continua, materiale e quantitativa. E' francamente impossibile salvare la biodiversità del pianeta, ristabilire i complessi equilibri dinamici del sistema climatico, affrontare tutte le notevoli problematiche di insostenibilità della nostra pressione crescente sui sistemi naturali della Terra, sui suoli, sui cicli idrici, sui grandi cicli biogeochimici dell'azoto, del carbonio, del fosforo ecc., senza intervenire significativamente sui meccanismi fondanti dell'attuale sistema economico e finanziario.

Ecco perché sta diventando di grande importanza tutto il lavoro internazionale interdisciplinare di tantissimi esperti che lavorano alacremente per impostare una nuova economia ecologica, che consenta alle nostre società di imboccare strade più sostenibili dal punto di vista ambientale e sociale.

Proprio nel 2010 è stato reso noto un altro importantissimo tassello di questo nuovo mosaico, il rapporto finale della grande iniziativa internazionale TEEB, The Economics of Ecosystems and Biodiversity (vedasi www.teebweb.org).

Il TEEB, diretto dall'economista indiano Pavan Sukhdev e lanciato dalla Germania e dalla Commissione Europea nel 2007 è stato sostenuto dal Programma Ambiente delle Nazioni Unite (UNEP, vedasi il sito www.unep.org ) e da Regno Unito, Norvegia, Olanda e Svezia.
Il TEEB mira a comporre tutte le esperienze, le conoscenze, i know-how esistenti in tutte le regioni del pianeta per rendere sempre più la nostra economia, sia nella teoria che nella pratica, basata sui fondamenti biofisici dei sistemi naturali che la supportano. Il TEEB dimostra il fallimento dei mercati nel considerare adeguatamente il valore degli ecosistemi e dell'intera biodiversità del pianeta. Il TEEB dimostra proprio come le attività mirate alla conservazione, ripristino e razionale gestione delle risorse e dei sistemi naturali costituisce un autentico investimento economico.

La mancanza di un prezzo di mercato per i servizi offerti dagli ecosistemi e per la biodiversità dimostra che i fondamentali benefici derivanti da questi beni (in molti casi beni pubblici e collettivi) sono quasi sempre negletti o sottovalutati nelle decisioni politiche. Gli effetti di queste sottovalutazioni si riverberano non solo nel peggioramento continuo e progressivo dello stato di salute degli ecosistemi del mondo intero che oggi sono sottoposti ad una pressione umana senza precedenti, ma anche sullo stato di salute dell'umanità e del benessere umano nel suo complesso.

Il valore degli ecosistemi e della biodiversità è oggi paradossalmente invisibile all'economia che guida le scelte politiche nel mondo intero. Le conoscenze scientifiche acquisite ci dimostrano che il capitale naturale, gli ecosistemi, la biodiversità e le risorse naturali, sono la base del benessere delle economie, delle società e degli individui. Il valore della miriade di benefici che derivano dalla ricchezza della natura presente sul nostro pianeta è ignorata e non presa in considerazione dal mondo politico-economico che, quotidianamente, decide ciò che condiziona la nostra esistenza.

Stiamo drammaticamente distruggendo le basi del nostro stock di capitale naturale e lo facciamo prima ancora di riconoscere il valore che stiamo perdendo. Il persistente degrado dei suoli, dell'acqua, delle risorse biologiche impatta negativamente sulla nostra salute, sulla nostra sicurezza alimentare, sulle scelte dei consumatori e sulle opportunità delle attività imprenditoriali.

In questo ambito è fondamentale modificare i grandi indicatori della performance economica, come il PIL. Una interessante speranza anche per il nostro paese nasce dalla recentissima costituzione presso il Cnel, di un "Gruppo di indirizzo sulla misura del progresso della società italiana", composto da rappresentanze delle parti sociali e della società civilee fortemente voluto dall'ottimo presidente dell'ISTAT, Enrico Giovannini. L'obiettivo del Gruppo, come ricorda lo stesso ISTAT, è proprio quello di sviluppare un approccio multidimensionale del "benessere equo e sostenibile" (Bes), che integri l'indicatore dell'attività economica, il Pil, con altri indicatori, ivi compresi quelli relativi alle diseguaglianze (non solo di reddito) e alla sostenibilità (non solo ambientale).

La misurazione del progresso passa attraverso l'analisi di due componenti: la prima, prettamente politica, la seconda di carattere tecnico-statistico. Come ormai appare evidente dall'ampio ed articolato dibattito internazionale sull'argomento, non è possibile sostituire il Pil con un indicatore singolo del benessere di una società. Quindi, si tratta di selezionare un insieme di indicatori e fare ciò richiede il coinvolgimento di tutti i settori della società, nonché degli esperti di misurazione. Ecco perché il Cnel e l'Istat hanno deciso di avviare questa iniziativa, in analogia a quanto sta avvenendo in altri paesi.

Il Gruppo lavorerà quindi nel corso dei prossimi 18 mesi con l'obiettivo di:
- sviluppare una definizione condivisa del progresso della società italiana, definendo gli ambiti economici, sociali ed ambientali di maggior rilievo (salute, lavoro, benessere materiale, inquinamento, ecc.);
- selezionare un set di indicatori di elevata qualità statistica rappresentativi dei diversi domini. Tale insieme di indicatori dovrà essere limitato in termini numerici, così da favorire la sua comprensione anche ai non esperti;
- comunicare ai cittadini il risultato di questo processo, attraverso la diffusione il più capillare possibile dell'andamento degli indicatori selezionati.
Inoltre, l'Istat costituirà una Commissione Scientifica che avrà il compito di svolgere il lavoro preparatorio per lo sviluppo degli indicatori statistici più appropriati per misurare il progresso della società italiana, anche alla luce delle raccomandazioni internazionali.

In particolare, nella prima fase (prima metà del 2011), si procederà allo svolgimento di una consultazione pubblica online aperta agli esperti, alla società civile ed ai singoli cittadini per raccogliere i loro contributi sull'importanza delle singole dimensioni del benessere maggiormente rilevanti per la società italiana. Inoltre, l'Istat ha inserito nella propria indagine multiscopo alcuni quesiti sull'importanza che i cittadini danno alle singole "dimensioni" del benessere, utilizzando le categorie suggerite dell'Ocse e dalla Commissione Stiglitz, Sen, Fitoussi (voluta dal presidente francese Nicholas Sarkozy e che ha concluso i suoi lavori con la pubblicazione del rapporto finale nel settembre 2009), alla definizione, sulla base di tali risultati, delle macrodimensioni del benessere da porre sotto osservazione. La proposta del Gruppo verrà poi presentata alle diverse Commissioni ed all'Assemblea del Cnel per approvazione.

Nella seconda fase del progetto (seconda metà del 2011) l'Istat proporrà al Gruppo di Indirizzo i possibili indicatori da adottare per misurare i diversi aspetti del benessere equo e sostenibile, il quale cercherà di pervenire, previa consultazione dei portatori di interesse, ad una proposta condivisa da sottoporre, per approvazione finale, alle diverse Commissioni ed all'Assemblea del Cnel.

Infine, a metà del 2012 si procederà alla predisposizione di un Rapporto Cnel-Istat sulla misura del progresso della società italiana, il quale verrà reso disponibile in diverse forme e promosso attraverso i mezzi di comunicazione, così da assicurarne una conoscenza il più diffusa possibile tra la popolazione.

L'iniziativa Cnel-Istat pone l'Italia nel gruppo dei paesi (Francia, Germania, Regno Unito, Stati Uniti, Australia, Irlanda, Messico, Svizzera, Olanda) che hanno recentemente deciso di misurare il benessere della società attraverso un insieme selezionato di indicatori statistici di qualità, alla cui selezione partecipano rappresentanti delle parti sociali e della società civile. Tale approccio, suggerito dall'Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (Ocse) e dalla già citata"Commissione Stiglitz" , alla quale abbiamo dedicato diverse pagine di questa rubrica, fornirà al paese una quadro condiviso dell'evoluzione dei principali fenomeni
economici, sociali ed ambientali.

Il miglior augurio per il nuovo anno è proprio quello di sperare che si avvii finalmente una transizione concreta verso una nuova economia. E' la migliore prospettiva che abbiamo per tutta l'umanità.
di Gianfranco Bologna

30 dicembre 2010

E se il club delle nove banche globali colpisse l 'Italia?

La tempesta perfetta è sostanzialmente un fenomeno che riguarda l’indebitamento in senso lato, indebitamento dei privati per il credito al consumo o per i mutui, delle imprese, degli Stati e delle banche per la montagna di titoli più o meno tossici della finanza strutturata con i quali hanno ricoperto il pianeta.

Molti di questi debiti sono in default, molti non sono ancora giunti a questa situazione ma vi sono vicini, altri titoli tossici vengono ritenuti buoni soltanto a causa di una modifica alle regole di rappresentazione di bilancio, ma buoni non sono.

La crisi del debito sovrano in Europa aggiunge un altro tassello a questo quadro, ma il problema non riguarda solo Grecia e Irlanda, riguarda un buon numero dei paesi del Vecchio Continente, Italia inclusa, riguarda l’euro, ma, dall’altra parte dell’Oceano Atlantico, riguarda i titoli di stato statunitensi e il dollaro, nonché lo stato delle banche che hanno l’etichetta del too big to fail (troppo grandi per fallire).

Come si esce da una crisi del debito? Le strade sono diverse, ma la più semplice la ha indicata la cancelliera Angela Merkel, la quale ha sostenuto che anche i creditori, i possessori cioè dei titoli, devono fare la loro parte, accettando di incassare quanto il Mercato valuta quei pezzi di carta da loro sottoscritti quando ben altra era la solidità degli emittenti.

Quello che propone oggi la Merkel è stato già vissuto sulla loro pelle dagli obbligazionisti della Chrysler e della General Motora, mentre poco si sa di quanto è accaduto ai possessori di obbligazioni emesse da entità minori e i cui default non hanno guadagnato le prime pagine dei giornali finanziari, ma non è azzardato ritenere che in molti casi non sia rimasto in mano a questi creditori molto più del classico pugno di mosche.

Per quanto riguarda l’area dell’euro, finora i creditori non sono stati toccati dal crollo dei titoli sul mercato secondario se hanno deciso di portare a scadenza i loro titoli, ma dopo Grecia e Irlanda, e forse nei prossimi giorni il Portogallo, la speculazione guidata dal club delle nove banche globali potrebbe toccare Spagna e Italia, non in questo ordine necessariamente, e allora ci sarebbe il rischio concreto di una ristrutturazione del debito che potrebbe anche colpire pesantemente i detentori dei titoli di Stato.

Ma cos’è questo club delle nove banche globali di cui ha parlato per primo il New York Times? Si tratta di sei banche statunitensi, le più grandi, tra cui Goldman Sachs, Citigroup, J.P. Morgan-Chase, Bank of America, ma anche svizzere, inglesi e tedesche che da tempo usano riunirsi in un giorno fisso della settimana per discutere di materie prime, azioni e titoli di Stato e per decidere linee guida di azione, riuscendo a influenzare l’andamento dei mercati grazie al volume di fuoco che possono scatenare.

Si tratta di volumi che possono mandare alle stelle o agli inferi il valore della moneta di un paese di medie dimensioni, o i titoli rappresentativi del debito dello stesso malcapitato paese, ma grande influenza hanno anche sui mercati delle materie prime, in particolare di quelle energetiche.

Le difese contro queste banche sono molto scarse, anche perché gli altri operatori tendono ad accodarsi ai loro movimenti, restando spesso bruciati quando i grandi decidono repentinamente di cambiare strategia.

Le stesse banche centrali e i governi dei paesi maggiormente industrializzati poco possono contro una coalizione di entità così potenti, vere e proprie multinazionali del credito che hanno in gestione quantità di denaro pari a multipli del prodotto interno lordo di questi paesi, possono al massimo esercitare una morali suasion affinché non eccedano nell’influenzare i mercati valutari e quello dei titoli di Stato e, anche in questo caso, non sempre con successo.
di Marco Sarli