29 gennaio 2011

L’ANP concede tutto, Israele vuole di più

pentagon-papers

Per oltre un decennio, fin dal fallimento dei colloqui negoziali di Camp David nel 2000, il mantra della politica di Israele è stato sempre lo stesso: «Non esiste alcun partner palestinese per la pace».

Questa settimana, la prima parte delle centinaia di documenti riservati palestinesi trapelati ha confermato i sospetti di un numero crescente di osservatori sul fatto che coloro che hanno un atteggiamento di rifiuto nel processo di pace sono da ricercarsi dal lato degli israeliani, non dei palestinesi.

Alcuni tra i documenti più rivelatori – pubblicati congiuntamente dalla televisione Al-Jazeera e dal quotidiano britannico Guardian – sono datati 2008, un periodo relativamente incoraggiante nei recenti negoziati tra Israele e i palestinesi.

A quel tempo, Ehud Olmert era primo ministro di Israele e si era pubblicamente impegnato a cercare di raggiungere un accordo per uno Stato palestinese. Era spalleggiato dall’amministrazione degli Stati Uniti di George W. Bush, che aveva ravvivato il processo di pace alla fine del 2007 ospitando la conferenza di Annapolis.

In tali circostanze favorevoli – come mostrano i documenti – Israele respingeva una serie di importanti concessioni che il team negoziale palestinese aveva offerto nel corso dei mesi successivi in merito alle questioni più delicate presenti nei colloqui.

Mahmoud Abbas, presidente dell’Autorità Palestinese, ha cercato in maniera non convincente di negare l’autenticità di questi documenti, ma non gli ha giovato il fatto che i funzionari israeliani hanno fallito nel tentativo di correre in suo aiuto.

Secondo i documenti, il compromesso palestinese più significativo – o «svendita totale», come lo stanno definendo molti palestinesi – era su Gerusalemme.

Durante una serie di incontri lungo l’estate del 2008, i negoziatori palestinesi avevano concesso l’annessione da parte di Israele di vaste aree di Gerusalemme Est, inclusi quasi tutti gli insediamenti ebraici della città e anche parti della Città Vecchia.

Risulta difficile immaginare in che modo il collage risultante di enclavi palestinesi presenti a Gerusalemme Est – circondati da insediamenti ebraici – avrebbe mai potuto funzionare come capitale del nuovo Stato palestinese.

Al momento dei precedenti colloqui di Camp David, in base ai documenti ufficiali israeliani fatti trapelare dal quotidiano Haaretz nel 2008, Israele aveva proposto qualcosa di molto simile per Gerusalemme: il controllo palestinese su quelle che venivano al tempo chiamate «bolle» territoriali.

Nei colloqui successivi, i palestinesi avevano altresì dimostrato la volontà di poter rinunciare alla loro rivendicazione di sovranità esclusiva su Haram al-Sharif, la polveriera della Città Vecchia, il complesso sacro che include la moschea di Al-Aqsa, fiancheggiato dal Muro del Pianto. Al suo posto fu invece proposto un comitato internazionale di supervisione dell’area.

Questa è probabilmente stata la più grande concessione tra tutte quelle elargite dai negoziatori palestinesi, laddove – secondo un funzionario israeliano che era presente – proprio il controllo di Haram aveva fatto “saltare” i colloqui di Camp David.

Saeb Erekat, il capo negoziatore dell’OLP durante i colloqui, si dice abbia promesso ad Israele «la più grande Yerushalayim della storia» – usando la parola ebraica per Gerusalemme – da che il suo team aveva in effetti ceduto i diritti dei palestinesi sanciti dal diritto internazionale.

Le concessioni non finirono lì, in ogni caso. I palestinesi accettarono uno scambio di terra per ospitare il 70% del mezzo milione di coloni ebrei presenti in Cisgiordania compresa Gerusalemme Est e rinunciarono ai diritti di tutti, eccetto poche migliaia di rifugiati palestinesi.

Lo Stato palestinese doveva inoltre essere smilitarizzato.

In uno dei documenti registrati durante i negoziati nel maggio 2008, Erekat domanda ai negoziatori israeliani: «Senza considerare i vostri caccia nel mio cielo e il vostro esercito sul mio territorio, posso scegliere dove mettere al sicuro la mia difesa esterna?». La risposta israeliana fu un enfatico: «No».

È interessante notare che si dice che i negoziatori palestinesi abbiano accettato di riconoscere Israele come «Stato ebraico» – una concessione che adesso Israele sostiene sia uno dei principali ostacoli ad un accordo.

Israele aveva anche insistito affinché i palestinesi accettassero uno scambio di territori che avrebbe previsto la cessione di una piccola area di Israele al nuovo Stato palestinese insieme a ben un quinto dei 1,4 milioni di cittadini palestinesi israeliani. Questa pretesa riecheggia un controverso «trasferimento di popolazione» a lungo proposto da Avigdor Lieberman, il ministro degli esteri israeliano di estrema destra.

I Palestine Papers, come ora vengono chiamati, esigono una seria ri-valutazione di due persistenti – ed erronee – ipotesi teorizzate da molti osservatori occidentali circa il processo di pace.

La prima attiene al ruolo degli Stati Uniti auto-proclamatosi quale mediatore imparziale. Quel che in verità viene svelato dai documenti è la riluttanza dei funzionari USA ad esercitare pressioni eque sui negoziatori israeliani, sebbene fosse lo stesso team palestinese a proporre importanti concessioni su questioni centrali. Invece, le “richieste” di Israele erano sempre trattate come fondamentali.

Il secondo è la considerazione secondo cui i colloqui di pace sono falliti primariamente a causa della vittoria, alle elezioni di circa due anni fa, del governo della destra israeliana guidato da Binyamin Netanyahu. Questi ha provocato delle critiche da parte della comunità internazionale per aver rifiutato di impegnarsi, se non con dichiarazioni di circostanza, a sostenere la costituzione di uno Stato palestinese.

Lo scopo degli americani - almeno agli esordi dell'amministrazione Netanyahu - era quello di esercitare su di lui una forte pressione per far entrare nella sua coalizione Tzipi Livni, leader del partito centrista di opposizione Kadima. È grandemente stimata come la più credibile personalità israeliana votata per la pace.

Tuttavia, la Livni, che era stata precedentemente ministro degli Esteri di Olmert, nella documentazione riservata emerge come un'inflessibile negoziatrice, sprezzante delle enormi concessioni fatte dai palestinesi. Al punto cruciale della trattativa, rifiutò l'offerta palestinese dopo aver detto: «L'ho davvero apprezzata».

La questione decisiva per la la Livni fu il rifiuto dei negoziatori palestinesi di cedere a Israele una manciata di insediamenti nella Cisgiordania. I palestinesi si lamentarono a lungo del fatto che i due più significativi- l'insediamento fuori Gerusalemme, Maale Adumim, e quello di Ariel, vicino alla città palestinese di Nablus - avrebbero avuto l'effetto di scomporre la Cisgiordania in tre cantoni, togliendo speranza a qualsiasi chance di contiguità territoriale.

L'insistenza della Livni nel richiedere questi insediamenti - dopo tutti i compromessi prefigurati dai palestinesi - impone di pensare che non vi sia nessun leader israeliano preparato oppure in grado di portare a compimento un accordo di pace - a meno che, i palestinesi non cedano a qualsiasi richiesta israeliana e lascino da parte l'ambizione a uno Stato autonomo.

Uno dei "Palestine Papers" riferisce di un esasperato Erekat che un anno fa chiedeva ad un diplomatico USA: «Cosa posso dare di più?»

L'uomo con la risposta giusta potrebbe essere Lieberman, che, questa settimana, ha rivelato la sua mappa personale di un ipotetico Stato palestinese. In questa ipotesi veniva concesso uno statoprovvisorio che comprendesse meno della metà della Cisgiordania.

di Jonathan Cook - «The Electronic Intifada» - «The National».


28 gennaio 2011

La "sobrietà sostenibile" non è eresia


Destra/Sinistra: dalla Rivoluzione francese in poi, ma soprattutto nell'800 e '900, la schiera delle opzioni politiche si è incardinata attorno a questa polarizzazione. Negli ultimi anni, la cosiddetta fine delle ideologie è poi a sua volta divenuta un'ideologia del «pensiero unico con il prevalere delle logiche puramente amministrative ed economiciste sfumando e riarticolando questa distinzione politica che però continua a rappresentare, magari in forme più attenuate (centrodestra, centrosinistra) un riferimento mediaticamente consueto.» Vi è da chiedersi allora se la persistenza, se pur sbiadita, di questa nomenclatura sia dovuta solo ad abitudini giornalistiche o a residui di affezione dell'elettorato più anziano, oppure se si tratti comunque di categorie dotate di un irrinunciabile valore descrittivo. In quest'ultimo caso occorrerebbe chiedersi se vi siano e quali siano, allora, i principi costitutivi dell'una e dell'altra posizione. Tra i pensatori più anticonformisti in merito, esemplare è il caso del francese Alain de Benoist.

Le sue idee sono sempre state radicali, ma in direzioni cangianti. Un pensatore oltre la destra e la sinistra, allora? Più che altro un intellettuale che è - com'egli stesso preferisce dire - sia di destra che di sinistra; ovvero in grado di pensare la contraddizione. Lo abbiamo incontrato nella sua Parigi, confrontandoci sui temi attuali dell'ecologia e della sostenibilità, oggetto del suo recente Demain, la décroissance! Penser l'écologie jusqu'au bout, a partire dall'idea ereticale della post-crescita, che si basa sulla constatazione che lo sviluppo produttivo non può essere illimitato, date risorse naturali limitate.

Ultimamente le sue analisi hanno approfondito i temi della cosiddetta "decrescita", presentata spesso come un'utopia, o peggio come un ritorno al passato. Ma lo scrittore a questa critica risponde con un ragionamento, andando oltre le polemice. «La teoria della decrescita non solo non promuove un "ritorno al passato", ma neppure ambisce a fermare la storia», spiega. «La constatazione da cui si parte è che le risorse naturali si stanno esaurendo e che non può esservi una crescita materiale infinita in un mondo finito». In altri termini, de Benoist si pone contro la logica del "sempre di più!", contro la dismisura che i greci chiamavano hybris. «In un mondo sempre più impegnato a portare avanti questa deriva, tali proposte possono, ad alcuni, apparire utopiche. Sono tentato di rispondere che l'utopia sta piuttosto nel credere che la fuga in avanti in cui ci siamo imbarcati possa proseguire all'infinito. Gli alberi non possono crescere fino al cielo». De Benoist è anche molto critico le tesi dell'attuale "green economy" che riprendono l'idea ambientalista di "sviluppo sostenibile".

Viene allora da chiedere come la sua idea di ecologismo si colleghi alla decrescita. «L'idea di "sviluppo sostenibile" è sicuramente accattivante, ma corrisponde soprattutto a una posizione mediatica», risponde. «All'origine dei problemi con i quali ci confrontiamo c'è la crescita materiale, con il suo seguito di danni all'ambiente, di distruzione degli ecosistemi, di inquinamento. Conciliare la crescita materiale con il rispetto per l'ambiente equivale a voler credere che il cerchio possa essere quadrato. La teoria dello "sviluppo sostenibile", enunciata al Summit della Terra di Rio nel 1992, porta al "capitalismo verde", ovvero all'ecologia di mercato. L'applicazione del principio "chi inquina, paga", ad esempio, ha creato una specie di mercato dell'inquinamento: le grandi imprese multinazionali, che sono quelle che inquinano di più, possono pagare senza problemi i danni da loro causati. Alla fine la spesa ricade sul costo iniziale, e di conseguenza sul prezzo di vendita. È proprio in virtù dell'applicazione della "teoria dello sviluppo sostenibile" che si favorisce oggi la produzione di automobili che inquinano sempre meno. E questo fa dimenticare la realtà dell'"effetto di rimbalzo": dato che si costruiscono sempre più automobili - anche se il consumo di energia diminuisce per unità - il consumo globale continua ad aumentare, in modo che l'aumento delle quantità prodotte, annulla i vantaggi ecologici: un milione di automobili poco inquinanti lo sono molto di più nella totalità di cento auto molto inquinanti! Il filosofo Michel Serres - continua de Benoist -fornisce una immagine molto esemplificativa dello "sviluppo sostenibile" paragonandolo al capitano di una nave che accorgendosi che sta andando dritto contro uno scoglio, decide di ridurre la velocità invece di cambiare rotta. In questa logica dovrebbe cambiare l'idea di natura». È evidente che per favorire la decrescita occorre auspicare un possibile cambio di paradigma. «Gli antichi pensavano che l'uomo appartenesse alla natura, che si trovasse in un rapporto di co-appartenenza con essa. Al contrario, nella Genesi, l'uomo riceve l'ordine di "dominare la natura". Con Cartesio la natura diventa un semplice oggetto e l'uomo vi si erge a "padrone sovrano". Ed è proprio questo rapporto di dominanza che ci interessa rompere. Il mondo naturale non è una semplice tela di fondo su cui si muovono le nostre esistenze, una sorta di magazzino di risorse naturali, erroneamente considerate inesauribili e gratuite all'infinito: è invece una delle condizioni sistemiche della vita. Distruggere la natura non solo significa l'eliminazione del nostro luogo ma anche di noi stessi, come se fossimo a scadenza. Nella prospettiva di una decrescita sostenibile, è necessario riconoscere il valore intrinseco della natura, un valore autonomo rispetto all'uso che noi ne facciamo.»
Nel suo libro de Benoist si sofferma spesso sul concetto di "limite" da opporre alla hybris, la dismisura tipica della civilizzazione industriale. «Ogni cosa ha un limite. Qualsiasi tendenza spinta al suo estremo si trasforma bruscamente nel suo contrario. La logica del profitto, la cui attuazione è accelerata dalla globalizzazione, tende per la sua propria dinamica alla soppressione di tutti i limiti. Il capitalismo si caratterizza per il suo carattere illimitato e del suo tentativo di omogeneizzazione del mondo.»
«È quello che il filosofo tedesco esistenzialista Martin Heidegger definì il Gestell. Ora, tra le realtà che possono ostacolare l'espansione planetaria del capitale e la trasformazione della Terra in un immenso mercato omogeneo, ci sono le culture popolari e i modi di vita ben radicati nel territorio. L'unico modo per restituire al mondo la diversità, che costituisce la sua reale ricchezza, è quello di opporre all'espressione chiave vogliamo "sempre di più!" - che caratterizza un principio fondante della modernità - quella di saper dire, secondo una riflessione critica più audace, ma non meno razionale, ne abbiamo "a sufficienza".» Quali sono allora le misure che si possono adottare per fermare il treno in corsa e adottare uno stile di vita improntato alla sobrietà? Risponde de Benoist: «Si tratta di applicare tutto questo atteggiamento critico di cui ho appena parlato. Di non adottare un qualsiasi gadget, solo per il fatto che è nuovo. Di rompere con l'ossessione produttivistica, con la conseguente ossessione della merce o l'idea che "di più" è sinonimo di "meglio". Si tratta di riconoscere che l'uomo non vive di solo pane. La logica dell'essere non è quella dell'avere e, ancor meno, la qualità non può essere ridotta a quantità. In modo più ampio, si tratta di "decolonizzare l'immaginario simbolico", come sostiene Serge Latouche, ovvero di non dare più dimora alla convinzione che l'uomo è solo produttore-consumatore, o che l'economia è il fine di ogni cosa. Il valore non può essere sempre abbassato al valore di mercato, o di scambio. I prezzi si negoziano, i valori no. È ora di venir fuori da un mondo in cui niente ha più valore, ma tutto ha un prezzo.»
di Alain de Benoist

27 gennaio 2011

Blindato a Davos il governo-ombra del mondo

Cinquemila soldati armati di fucili di precisione, sci e motoslitte in pattuglia tra i boschi innevati, radar militari che spuntano tra le cime imbiancate degli abeti, lunghi rotoli di filo spinato distesi nella neve, elicotteri che sorvegliano dall’alto con telecamere e rivelatori termici. Cartelli con sagome di soldati con su scritto “Stop. State entrando in una zona sorvegliata militarmente. Fermarsi all’alt e seguire gli ordini della truppa, che dispone di poteri di polizia e in caso estremo aprirà il fuoco”. In questi giorni la località sciistica di Davos, in Svizzera, sembra una zona di guerra. O il set cinematografico di uno di quei film di 007 in cui James Bond affronta tra i boschi alpini l’agguerrito esercito privato dispiegato dalla malvagia Spectre a protezione del suo bunker segreto.

In questo caso invece l’esercito è quello della Confederazione Svizzera, mobilitato in forze per tenere lontani curiosi, contestatori ed eventuali Davos cartelloterroristi dall’annuale meeting dell’associazione privata World Economic Forum: la più ‘pubblica’ – e per questo la meno importante, ma anche la più esposta e quindi sorvegliata – tra le periodiche riunioni dell’élite globale. Un insolito articolo anonimo pubblicato proprio in questi giorni sull’Economist, dal titolo traducibile come “Le pause-caffè mondiali – Dove la gente che conta si incontra e parla”, descrive il forum svizzero di Davos, il suo equivalente asiatico di Boao in Cina, le riunioni del Council on Foreign Relations, della Commissione Trilaterale e del Bilderberg Group come importanti occasioni, tutte private ma più o meno riservate, nelle quali i “globocrati” della “élite cosmopolita” possono incontrarsi e dibattere in libertà i grandi temi mondiali e prendere decisioni che poi si traducono pratica, dalle guerre alle crisi finanziare.

L’autore senza nome dell’Economist ironizza sulle teorie della cospirazione globale con il visconte belga Etienne Davignon, presidente del Bilderberg ed ex vicepresidente della Commissione europea, ma poi cita senza commenti l’ex consigliere di Bill Clinton, David Rothkopf, che nel suo libro “Superclasse – L’élite del poteremondiale e il mondo che stanno costruendo” ha scritto che queste riunioni «costituiscono il meccanismo informale del potere globale, perché sono occasione di incontro tra i più elusivi leader del mondo». Incontri che avvengono a porte chiuse, come al Davos forumBilderberg, o in privato a margine delle conferenze pubbliche, come succede invece al forum di Davos.

Lo scopo dell’anonimo articolo del prestigioso settimanale britannico, una delle testate giornalistiche più legate all’élite globale (nello stesso articolo si ricorda la partecipazione del direttore dell’Economist alle riunioni del Bilderberg), è evidentemente quello di sdoganare come normale, ragionevole e accettabile una realtà che finora era stata sempre negata e nascosta. «Tutti i ritrovi globocratici si stanno aprendo – si legge nel pezzo dell’Economist – perfino il Bilderberg ha recentemente iniziato a pubblicare le liste dei partecipanti sul suo sito». Il governo-ombra mondiale, finora denunciato da ‘no-global’ e ‘complottisti’, sembra voler uscire alla luce del sole e rivendicare la propria ragion d’essere e i propri progetti per un nuovo ordine mondiale. Se qualcuno ha qualcosa da ridire, basta dispiegare l’esercito.


di Giacomo Cattaneo

29 gennaio 2011

L’ANP concede tutto, Israele vuole di più

pentagon-papers

Per oltre un decennio, fin dal fallimento dei colloqui negoziali di Camp David nel 2000, il mantra della politica di Israele è stato sempre lo stesso: «Non esiste alcun partner palestinese per la pace».

Questa settimana, la prima parte delle centinaia di documenti riservati palestinesi trapelati ha confermato i sospetti di un numero crescente di osservatori sul fatto che coloro che hanno un atteggiamento di rifiuto nel processo di pace sono da ricercarsi dal lato degli israeliani, non dei palestinesi.

Alcuni tra i documenti più rivelatori – pubblicati congiuntamente dalla televisione Al-Jazeera e dal quotidiano britannico Guardian – sono datati 2008, un periodo relativamente incoraggiante nei recenti negoziati tra Israele e i palestinesi.

A quel tempo, Ehud Olmert era primo ministro di Israele e si era pubblicamente impegnato a cercare di raggiungere un accordo per uno Stato palestinese. Era spalleggiato dall’amministrazione degli Stati Uniti di George W. Bush, che aveva ravvivato il processo di pace alla fine del 2007 ospitando la conferenza di Annapolis.

In tali circostanze favorevoli – come mostrano i documenti – Israele respingeva una serie di importanti concessioni che il team negoziale palestinese aveva offerto nel corso dei mesi successivi in merito alle questioni più delicate presenti nei colloqui.

Mahmoud Abbas, presidente dell’Autorità Palestinese, ha cercato in maniera non convincente di negare l’autenticità di questi documenti, ma non gli ha giovato il fatto che i funzionari israeliani hanno fallito nel tentativo di correre in suo aiuto.

Secondo i documenti, il compromesso palestinese più significativo – o «svendita totale», come lo stanno definendo molti palestinesi – era su Gerusalemme.

Durante una serie di incontri lungo l’estate del 2008, i negoziatori palestinesi avevano concesso l’annessione da parte di Israele di vaste aree di Gerusalemme Est, inclusi quasi tutti gli insediamenti ebraici della città e anche parti della Città Vecchia.

Risulta difficile immaginare in che modo il collage risultante di enclavi palestinesi presenti a Gerusalemme Est – circondati da insediamenti ebraici – avrebbe mai potuto funzionare come capitale del nuovo Stato palestinese.

Al momento dei precedenti colloqui di Camp David, in base ai documenti ufficiali israeliani fatti trapelare dal quotidiano Haaretz nel 2008, Israele aveva proposto qualcosa di molto simile per Gerusalemme: il controllo palestinese su quelle che venivano al tempo chiamate «bolle» territoriali.

Nei colloqui successivi, i palestinesi avevano altresì dimostrato la volontà di poter rinunciare alla loro rivendicazione di sovranità esclusiva su Haram al-Sharif, la polveriera della Città Vecchia, il complesso sacro che include la moschea di Al-Aqsa, fiancheggiato dal Muro del Pianto. Al suo posto fu invece proposto un comitato internazionale di supervisione dell’area.

Questa è probabilmente stata la più grande concessione tra tutte quelle elargite dai negoziatori palestinesi, laddove – secondo un funzionario israeliano che era presente – proprio il controllo di Haram aveva fatto “saltare” i colloqui di Camp David.

Saeb Erekat, il capo negoziatore dell’OLP durante i colloqui, si dice abbia promesso ad Israele «la più grande Yerushalayim della storia» – usando la parola ebraica per Gerusalemme – da che il suo team aveva in effetti ceduto i diritti dei palestinesi sanciti dal diritto internazionale.

Le concessioni non finirono lì, in ogni caso. I palestinesi accettarono uno scambio di terra per ospitare il 70% del mezzo milione di coloni ebrei presenti in Cisgiordania compresa Gerusalemme Est e rinunciarono ai diritti di tutti, eccetto poche migliaia di rifugiati palestinesi.

Lo Stato palestinese doveva inoltre essere smilitarizzato.

In uno dei documenti registrati durante i negoziati nel maggio 2008, Erekat domanda ai negoziatori israeliani: «Senza considerare i vostri caccia nel mio cielo e il vostro esercito sul mio territorio, posso scegliere dove mettere al sicuro la mia difesa esterna?». La risposta israeliana fu un enfatico: «No».

È interessante notare che si dice che i negoziatori palestinesi abbiano accettato di riconoscere Israele come «Stato ebraico» – una concessione che adesso Israele sostiene sia uno dei principali ostacoli ad un accordo.

Israele aveva anche insistito affinché i palestinesi accettassero uno scambio di territori che avrebbe previsto la cessione di una piccola area di Israele al nuovo Stato palestinese insieme a ben un quinto dei 1,4 milioni di cittadini palestinesi israeliani. Questa pretesa riecheggia un controverso «trasferimento di popolazione» a lungo proposto da Avigdor Lieberman, il ministro degli esteri israeliano di estrema destra.

I Palestine Papers, come ora vengono chiamati, esigono una seria ri-valutazione di due persistenti – ed erronee – ipotesi teorizzate da molti osservatori occidentali circa il processo di pace.

La prima attiene al ruolo degli Stati Uniti auto-proclamatosi quale mediatore imparziale. Quel che in verità viene svelato dai documenti è la riluttanza dei funzionari USA ad esercitare pressioni eque sui negoziatori israeliani, sebbene fosse lo stesso team palestinese a proporre importanti concessioni su questioni centrali. Invece, le “richieste” di Israele erano sempre trattate come fondamentali.

Il secondo è la considerazione secondo cui i colloqui di pace sono falliti primariamente a causa della vittoria, alle elezioni di circa due anni fa, del governo della destra israeliana guidato da Binyamin Netanyahu. Questi ha provocato delle critiche da parte della comunità internazionale per aver rifiutato di impegnarsi, se non con dichiarazioni di circostanza, a sostenere la costituzione di uno Stato palestinese.

Lo scopo degli americani - almeno agli esordi dell'amministrazione Netanyahu - era quello di esercitare su di lui una forte pressione per far entrare nella sua coalizione Tzipi Livni, leader del partito centrista di opposizione Kadima. È grandemente stimata come la più credibile personalità israeliana votata per la pace.

Tuttavia, la Livni, che era stata precedentemente ministro degli Esteri di Olmert, nella documentazione riservata emerge come un'inflessibile negoziatrice, sprezzante delle enormi concessioni fatte dai palestinesi. Al punto cruciale della trattativa, rifiutò l'offerta palestinese dopo aver detto: «L'ho davvero apprezzata».

La questione decisiva per la la Livni fu il rifiuto dei negoziatori palestinesi di cedere a Israele una manciata di insediamenti nella Cisgiordania. I palestinesi si lamentarono a lungo del fatto che i due più significativi- l'insediamento fuori Gerusalemme, Maale Adumim, e quello di Ariel, vicino alla città palestinese di Nablus - avrebbero avuto l'effetto di scomporre la Cisgiordania in tre cantoni, togliendo speranza a qualsiasi chance di contiguità territoriale.

L'insistenza della Livni nel richiedere questi insediamenti - dopo tutti i compromessi prefigurati dai palestinesi - impone di pensare che non vi sia nessun leader israeliano preparato oppure in grado di portare a compimento un accordo di pace - a meno che, i palestinesi non cedano a qualsiasi richiesta israeliana e lascino da parte l'ambizione a uno Stato autonomo.

Uno dei "Palestine Papers" riferisce di un esasperato Erekat che un anno fa chiedeva ad un diplomatico USA: «Cosa posso dare di più?»

L'uomo con la risposta giusta potrebbe essere Lieberman, che, questa settimana, ha rivelato la sua mappa personale di un ipotetico Stato palestinese. In questa ipotesi veniva concesso uno statoprovvisorio che comprendesse meno della metà della Cisgiordania.

di Jonathan Cook - «The Electronic Intifada» - «The National».


28 gennaio 2011

La "sobrietà sostenibile" non è eresia


Destra/Sinistra: dalla Rivoluzione francese in poi, ma soprattutto nell'800 e '900, la schiera delle opzioni politiche si è incardinata attorno a questa polarizzazione. Negli ultimi anni, la cosiddetta fine delle ideologie è poi a sua volta divenuta un'ideologia del «pensiero unico con il prevalere delle logiche puramente amministrative ed economiciste sfumando e riarticolando questa distinzione politica che però continua a rappresentare, magari in forme più attenuate (centrodestra, centrosinistra) un riferimento mediaticamente consueto.» Vi è da chiedersi allora se la persistenza, se pur sbiadita, di questa nomenclatura sia dovuta solo ad abitudini giornalistiche o a residui di affezione dell'elettorato più anziano, oppure se si tratti comunque di categorie dotate di un irrinunciabile valore descrittivo. In quest'ultimo caso occorrerebbe chiedersi se vi siano e quali siano, allora, i principi costitutivi dell'una e dell'altra posizione. Tra i pensatori più anticonformisti in merito, esemplare è il caso del francese Alain de Benoist.

Le sue idee sono sempre state radicali, ma in direzioni cangianti. Un pensatore oltre la destra e la sinistra, allora? Più che altro un intellettuale che è - com'egli stesso preferisce dire - sia di destra che di sinistra; ovvero in grado di pensare la contraddizione. Lo abbiamo incontrato nella sua Parigi, confrontandoci sui temi attuali dell'ecologia e della sostenibilità, oggetto del suo recente Demain, la décroissance! Penser l'écologie jusqu'au bout, a partire dall'idea ereticale della post-crescita, che si basa sulla constatazione che lo sviluppo produttivo non può essere illimitato, date risorse naturali limitate.

Ultimamente le sue analisi hanno approfondito i temi della cosiddetta "decrescita", presentata spesso come un'utopia, o peggio come un ritorno al passato. Ma lo scrittore a questa critica risponde con un ragionamento, andando oltre le polemice. «La teoria della decrescita non solo non promuove un "ritorno al passato", ma neppure ambisce a fermare la storia», spiega. «La constatazione da cui si parte è che le risorse naturali si stanno esaurendo e che non può esservi una crescita materiale infinita in un mondo finito». In altri termini, de Benoist si pone contro la logica del "sempre di più!", contro la dismisura che i greci chiamavano hybris. «In un mondo sempre più impegnato a portare avanti questa deriva, tali proposte possono, ad alcuni, apparire utopiche. Sono tentato di rispondere che l'utopia sta piuttosto nel credere che la fuga in avanti in cui ci siamo imbarcati possa proseguire all'infinito. Gli alberi non possono crescere fino al cielo». De Benoist è anche molto critico le tesi dell'attuale "green economy" che riprendono l'idea ambientalista di "sviluppo sostenibile".

Viene allora da chiedere come la sua idea di ecologismo si colleghi alla decrescita. «L'idea di "sviluppo sostenibile" è sicuramente accattivante, ma corrisponde soprattutto a una posizione mediatica», risponde. «All'origine dei problemi con i quali ci confrontiamo c'è la crescita materiale, con il suo seguito di danni all'ambiente, di distruzione degli ecosistemi, di inquinamento. Conciliare la crescita materiale con il rispetto per l'ambiente equivale a voler credere che il cerchio possa essere quadrato. La teoria dello "sviluppo sostenibile", enunciata al Summit della Terra di Rio nel 1992, porta al "capitalismo verde", ovvero all'ecologia di mercato. L'applicazione del principio "chi inquina, paga", ad esempio, ha creato una specie di mercato dell'inquinamento: le grandi imprese multinazionali, che sono quelle che inquinano di più, possono pagare senza problemi i danni da loro causati. Alla fine la spesa ricade sul costo iniziale, e di conseguenza sul prezzo di vendita. È proprio in virtù dell'applicazione della "teoria dello sviluppo sostenibile" che si favorisce oggi la produzione di automobili che inquinano sempre meno. E questo fa dimenticare la realtà dell'"effetto di rimbalzo": dato che si costruiscono sempre più automobili - anche se il consumo di energia diminuisce per unità - il consumo globale continua ad aumentare, in modo che l'aumento delle quantità prodotte, annulla i vantaggi ecologici: un milione di automobili poco inquinanti lo sono molto di più nella totalità di cento auto molto inquinanti! Il filosofo Michel Serres - continua de Benoist -fornisce una immagine molto esemplificativa dello "sviluppo sostenibile" paragonandolo al capitano di una nave che accorgendosi che sta andando dritto contro uno scoglio, decide di ridurre la velocità invece di cambiare rotta. In questa logica dovrebbe cambiare l'idea di natura». È evidente che per favorire la decrescita occorre auspicare un possibile cambio di paradigma. «Gli antichi pensavano che l'uomo appartenesse alla natura, che si trovasse in un rapporto di co-appartenenza con essa. Al contrario, nella Genesi, l'uomo riceve l'ordine di "dominare la natura". Con Cartesio la natura diventa un semplice oggetto e l'uomo vi si erge a "padrone sovrano". Ed è proprio questo rapporto di dominanza che ci interessa rompere. Il mondo naturale non è una semplice tela di fondo su cui si muovono le nostre esistenze, una sorta di magazzino di risorse naturali, erroneamente considerate inesauribili e gratuite all'infinito: è invece una delle condizioni sistemiche della vita. Distruggere la natura non solo significa l'eliminazione del nostro luogo ma anche di noi stessi, come se fossimo a scadenza. Nella prospettiva di una decrescita sostenibile, è necessario riconoscere il valore intrinseco della natura, un valore autonomo rispetto all'uso che noi ne facciamo.»
Nel suo libro de Benoist si sofferma spesso sul concetto di "limite" da opporre alla hybris, la dismisura tipica della civilizzazione industriale. «Ogni cosa ha un limite. Qualsiasi tendenza spinta al suo estremo si trasforma bruscamente nel suo contrario. La logica del profitto, la cui attuazione è accelerata dalla globalizzazione, tende per la sua propria dinamica alla soppressione di tutti i limiti. Il capitalismo si caratterizza per il suo carattere illimitato e del suo tentativo di omogeneizzazione del mondo.»
«È quello che il filosofo tedesco esistenzialista Martin Heidegger definì il Gestell. Ora, tra le realtà che possono ostacolare l'espansione planetaria del capitale e la trasformazione della Terra in un immenso mercato omogeneo, ci sono le culture popolari e i modi di vita ben radicati nel territorio. L'unico modo per restituire al mondo la diversità, che costituisce la sua reale ricchezza, è quello di opporre all'espressione chiave vogliamo "sempre di più!" - che caratterizza un principio fondante della modernità - quella di saper dire, secondo una riflessione critica più audace, ma non meno razionale, ne abbiamo "a sufficienza".» Quali sono allora le misure che si possono adottare per fermare il treno in corsa e adottare uno stile di vita improntato alla sobrietà? Risponde de Benoist: «Si tratta di applicare tutto questo atteggiamento critico di cui ho appena parlato. Di non adottare un qualsiasi gadget, solo per il fatto che è nuovo. Di rompere con l'ossessione produttivistica, con la conseguente ossessione della merce o l'idea che "di più" è sinonimo di "meglio". Si tratta di riconoscere che l'uomo non vive di solo pane. La logica dell'essere non è quella dell'avere e, ancor meno, la qualità non può essere ridotta a quantità. In modo più ampio, si tratta di "decolonizzare l'immaginario simbolico", come sostiene Serge Latouche, ovvero di non dare più dimora alla convinzione che l'uomo è solo produttore-consumatore, o che l'economia è il fine di ogni cosa. Il valore non può essere sempre abbassato al valore di mercato, o di scambio. I prezzi si negoziano, i valori no. È ora di venir fuori da un mondo in cui niente ha più valore, ma tutto ha un prezzo.»
di Alain de Benoist

27 gennaio 2011

Blindato a Davos il governo-ombra del mondo

Cinquemila soldati armati di fucili di precisione, sci e motoslitte in pattuglia tra i boschi innevati, radar militari che spuntano tra le cime imbiancate degli abeti, lunghi rotoli di filo spinato distesi nella neve, elicotteri che sorvegliano dall’alto con telecamere e rivelatori termici. Cartelli con sagome di soldati con su scritto “Stop. State entrando in una zona sorvegliata militarmente. Fermarsi all’alt e seguire gli ordini della truppa, che dispone di poteri di polizia e in caso estremo aprirà il fuoco”. In questi giorni la località sciistica di Davos, in Svizzera, sembra una zona di guerra. O il set cinematografico di uno di quei film di 007 in cui James Bond affronta tra i boschi alpini l’agguerrito esercito privato dispiegato dalla malvagia Spectre a protezione del suo bunker segreto.

In questo caso invece l’esercito è quello della Confederazione Svizzera, mobilitato in forze per tenere lontani curiosi, contestatori ed eventuali Davos cartelloterroristi dall’annuale meeting dell’associazione privata World Economic Forum: la più ‘pubblica’ – e per questo la meno importante, ma anche la più esposta e quindi sorvegliata – tra le periodiche riunioni dell’élite globale. Un insolito articolo anonimo pubblicato proprio in questi giorni sull’Economist, dal titolo traducibile come “Le pause-caffè mondiali – Dove la gente che conta si incontra e parla”, descrive il forum svizzero di Davos, il suo equivalente asiatico di Boao in Cina, le riunioni del Council on Foreign Relations, della Commissione Trilaterale e del Bilderberg Group come importanti occasioni, tutte private ma più o meno riservate, nelle quali i “globocrati” della “élite cosmopolita” possono incontrarsi e dibattere in libertà i grandi temi mondiali e prendere decisioni che poi si traducono pratica, dalle guerre alle crisi finanziare.

L’autore senza nome dell’Economist ironizza sulle teorie della cospirazione globale con il visconte belga Etienne Davignon, presidente del Bilderberg ed ex vicepresidente della Commissione europea, ma poi cita senza commenti l’ex consigliere di Bill Clinton, David Rothkopf, che nel suo libro “Superclasse – L’élite del poteremondiale e il mondo che stanno costruendo” ha scritto che queste riunioni «costituiscono il meccanismo informale del potere globale, perché sono occasione di incontro tra i più elusivi leader del mondo». Incontri che avvengono a porte chiuse, come al Davos forumBilderberg, o in privato a margine delle conferenze pubbliche, come succede invece al forum di Davos.

Lo scopo dell’anonimo articolo del prestigioso settimanale britannico, una delle testate giornalistiche più legate all’élite globale (nello stesso articolo si ricorda la partecipazione del direttore dell’Economist alle riunioni del Bilderberg), è evidentemente quello di sdoganare come normale, ragionevole e accettabile una realtà che finora era stata sempre negata e nascosta. «Tutti i ritrovi globocratici si stanno aprendo – si legge nel pezzo dell’Economist – perfino il Bilderberg ha recentemente iniziato a pubblicare le liste dei partecipanti sul suo sito». Il governo-ombra mondiale, finora denunciato da ‘no-global’ e ‘complottisti’, sembra voler uscire alla luce del sole e rivendicare la propria ragion d’essere e i propri progetti per un nuovo ordine mondiale. Se qualcuno ha qualcosa da ridire, basta dispiegare l’esercito.


di Giacomo Cattaneo