“A forza di passare le sue notti a toccare il culo alle ragazze davanti a tutti, mi chiedo come faccia il giorno dopo a lavorare”, si domanda il quotidiano francese l’”Express”, riprendendo le parole di una delle signorine presenti alle feste di Berlusconi. La stampa internazionale, in queste settimane, si è scatenata contro il capo del governo italiano, alternando la derisione all’indignazione. Sul “Pais”, Almudena Grandes, che pure è una scrittrice nota per romanzi che, un millennio fa, si sarebbero definiti scabrosi, non riesce a trattenere il suo sdegno: “I capelli tinti ed il viso coperto di trucco, le sue disperate ostentazioni giovanili di seduttore senile battono ogni giorno i suoi record di indecenza, senza che molti suoi concittadini trovino motivi per smettere di celebrare le sue pagliacciate”.
Come è ovvio, il disprezzo per Berlusconi finisce per estendersi anche agli italiani che più volte l’hanno votato. Il “New York Times” ne fa una questione antropologica e culturale: “In questi anni Berlusconi ha confuso la linea tra immagine e realtà. O meglio, ha fondato una brillante carriera sulla fondamentale verità italiana che l’immagine è la realtà”. E qui siamo al giudizio definitivo sul nostro carattere nazionale: solo in Italia, Paese barocco dove le forme di una fantasia morbosa ottenebrano la percezione della squallida realtà, può esistere un capo di governo che è un personaggio da operetta. Le surreali vicende erotiche di Berlusconi, insomma, rilanciano alla grande la mai estinta immagine degli italiani come popolo inaffidabile, brillante in superficie ma corrotto moralmente, sul quale non si può fare conto per la sua innata doppiezza e per la sua avversione ad ogni disciplina.
Lo stereotipo dell’italiano mandolinaro e traditore –che, anche se arriva da lontano, fu inchiodato nell’immaginario collettivo a causa dell’Otto settembre, da molti nemici di Berlusconi identificato invece come il giorno della riscossa nazionale- è presente in tanti articoli dei giornali stranieri. Quanto può costare all’Italia, intesa come Stato nazionale che collabora e compete con gli altri Stati negli scenari politici ed economici globali, questa ulteriore caduta di immagine? Dopo il rifiuto di estradare nel nostro Paese Cesare Battisti, Ernesto Galli della Loggia ha scritto che Francia e Brasile ci hanno trattati alla stregua di una Macedonia o di una Colombia, impartendoci ex cathedra delle lezioni sugli anni di piombo. A giudizio dell’editorialista del “Corriere della Sera”, ciò dipende dal fatto che la rappresentazione dell’Italia all’estero è falsa: “pressoché sconosciuti sono il tono della nostra vita pubblica e politica, la variegata qualità delle nostre relazioni sociali, dei nostri costumi e comportamenti collettivi”.
Nonostante tutte le magagne, siamo comunque meglio di come pensa la maggioranza degli stranieri, ma ha ragione Galli della Loggia a dire che la colpa dell’ignoranza sul nostro Paese è soprattutto degli italiani e dei governi che, per esempio, fanno i micragnosi con i pochi istituti culturali italiani all’estero e si disinteressano degli studiosi che si occupano dell’Italia. Una mancanza, aggiungiamo noi, che il “Berlusconi imprenditore, alieno da fumisterie culturalistiche”, ha accentuato. Pensiamo solo che ci si divide persino sul fatto di proclamare giornata di festa l’anniversario dell’unita nazionale, come se astenersi, ogni 150 anni, dal lavoro, portasse in rovina l’economia. Se non si rispetta la propria storia è difficile che si venga rispettati.
Berlusconi è convinto che il rango dell’Italia sia cresciuto: “Oggi il Paese è ascoltato, grazie anche al fatto che ha un leader anziano, un tycoon, il che è molto, molto importante”. Grazie a lui le tensioni tra Russia e Stati Uniti sarebbero svanite e, sempre per merito della sua saggia mediazione, Obama avrebbe rinunciato a piazzare i missili in Cechia e Polonia, senza considerare l’apporto decisivo nel convincere l’amico Putin a non invadere la Georgia dopo l’attacco di Saakashvili all’Ossezia del Sud. Al netto della vanagloria, qualcosa di vero c’è nel ruolo di Berlusconi come intermediario tra Mosca e l’Occidente. Ci sembra abbia ragione Paolo Quercia che, sulla rivista “Limes”, descrive l’azione diplomatica del presidente del Consiglio con la metafora dei due piatti della bilancia: “Nel primo il premier isola Usa e Israele e la loro domanda di sicurezza globale; sull’altro piatto della bilancia Berlusconi mette Russia e Libia e la loro offerta di energia diretta verso l’Europa”.
Gli stretti rapporti con la Russia hanno suscitato ostilità nell’Amministrazione Usa, come hanno confermato le rivelazioni di Wikileaks, ma Washington si è vista offrire, nel contempo, la massima collaborazione sull’Afghanistan e su Israele. Tranquillizzando l’alleato su alcune questioni scottanti, Berlusconi si è concesso, in altri scacchieri, di giocare in proprio. E’ difficile dire quanto ciò sia il frutto di una strategia, mai peraltro dichiarata, oppure una semplice pesca delle occasioni, suggerita dal fiuto commerciale. In ogni caso, queste decisioni hanno lasciato un segno: alcuni Paesi sono stati scelti come interlocutori principali, altri sono stati lasciati in secondo piano. La volontà di appoggiare il progetto di gasdotto South Stream, finendo poi con il coinvolgere anche Francia e Germania, invece del Nabucco, sponsorizzato da Washington e Bruxelles, crea una divisione di campo, aprendo uno spazio importante alla Russia in Europa contro la volontà statunitense.
E’ significativo che Berlusconi abbia compiuto ben cinque visite ufficiali in Libia e quattro in Russia, mentre grandi realtà come Cina, Brasile e India non gli abbiano suscitato il medesimo interesse. Non si è mai recato, a differenza dei suoi colleghi occidentali, in Afghanistan per visitare le truppe. Come se l’impegno, pur considerevole per le nostre forze, in quel teatro di guerra rappresentasse solo un’assicurazione da pagare. Con Israele Berlusconi si è mostrato allineato fino all’assurdo di dichiarare di non avere visto il cosiddetto muro di separazione quando vi era passato accanto. E’ riuscito poi a promettere un piano Marshall per la Palestina, ma in realtà ha ridotto il contributo italiano ai fondi Onu per i rifugiati palestinesi. L’interscambio italiano con l’Iran, nonostante le solenne promesse di Berlusconi a Netanyauh, è addirittura aumentato, per il momento. In questi casi, il confine tra scaltrezza diplomatica e inaffidabilità si fa labile, non migliorando certo la nostra fama.
Tornando alla questione del peso della caduta di immagine del presidente del Consiglio sull’intero Paese, premettiamo che non siamo fra quanti attribuiscono valore oracolare a ogni sospiro della stampa estera sull’Italia. Perfino sul mitizzato “Economist” ci è capitato di leggere una serie di inesattezze dettate dalla faciloneria. Il danno, comunque, c’è: la credibilità è una premessa fondamentale in politica come nell’economia. L’uscita di scena di Berlusconi, da questo punto di vista, potrebbe rappresentare un medicamento. Non però con le modalità con le quali sembra oggi avvenire. Ovvero per mezzo di una magistratura oggettivamente partigiana e incurante dei limiti delle sue prerogative e di una opposizione tenuta insieme solo da un antiberlusconismo moralistico e impolitico. Il rischio è che al “sultano” succeda un uomo più “temperante” che, in mancanza di un programma politico, abbandoni le poche intuizioni positive di politica estera di Berlusconi, per presentare un’Italia più virtuosa agli occhi di quei Paesi che ci fanno la morale, ma sono pronti ad approfittare di una nostra eventuale arrendevolezza.
di Roberto Zavaglia
13 febbraio 2011
10 febbraio 2011
Economia israeliana per principianti
![]() Veniamo a sapere dalla stampa e dagli esperti di analisi politica che contro ogni probabilità e a dispetto della la globale turbolenza finanziaria, l’economia israeliana è in pieno boom. Alcuni addirittura sostengono che quella israeliana sia una delle economie più forti al momento. “E come mai?”, qualcuno potrebbe chiedersi; oltre agli avocado, alle arance e ad alcuni prodotti cosmetici del Mar Morto, praticamente nessuno di noi ha mai visto un prodotto israeliano in commercio. In Israele non si realizzano automobili, né apparecchi elettronici, e a mala pena vengono prodotti beni di consumo. Israele dal canto suo rivendica il proprio avanzamento in dispositivi hi-tech, ma in un modo o nell’altro gli unici software israeliani avanzati che si possono trovare installati nei nostri computer sono i Sabra Trojan Horses (virus, Cavallo di Troia). Inoltre nella terra che hanno sottratto con la forza ad i nativi Palestinesi, gli Israeliani non hanno ancora trovato alcun minerale prezioso né ombra di petrolio. Dunque di cosa si tratta? Come mai Israele non è affatto scalfito dal disastro finanziario che ha investito il pianeta? Da dove viene la sua ricchezza? Stando a quanto riporta The Guardian , Israele potrebbe essere ricco perchè: “Dei sette oligarchi che controllavano il 50 % dell’economia russa negli anni 90, sei erano ebrei”. Durante gli ultimi vent’anni, molti oligarchi russi hanno acquisito la cittadinanza israeliana; essi hanno inoltre messo al sicuro il proprio denaro sporco investendolo nel paradiso finanziario del cibo kosher; ultimamente Wikileaks ha rivelato che “fonti nella polizia (israeliana) ritengono che la malavita organizzata russa (Mafia russa), abbia riciclato fino a 10 miliardi di dollari americani tramite le holding israeliane”. L’ economia israeliana è in fortissima espansione perché truffatori del calibro di Bernie Madoff riciclano il proprio denaro tramite di i Sionisti e le istituzioni israeliane da decenni. Israele “non se la passa male” perché è il principale venditore di diamanti insanguinati. Lungi dal coglierci di sorpresa, esso è anche il quarto maggiore venditore di armi del pianeta. Comprensibilmente, diamanti insanguinati e armi si rivelano essere un’accoppiata vincente. Come se non bastasse, Israele è così prospero perchè, di quando in quando, lo si scopre coinvolto nella raccolta e nel traffico di organi. Insomma, per farla breve, Israele sta meglio di altri stati perché gestisce una delle più sporche e immorali economie del mondo. Nonostante l’iniziale promessa sionista di costituire “una civiltà ebraica etica”, Israele è piuttosto riuscito a realizzare una sistematica violazione del diritto internazionale e dei valori universali che non ha precedenti. Esso svolge il ruolo di sicuro paradiso fiscale per denaro proveniente da spregevoli attività criminali condotte su scala internazionale e si serve di uno degli eserciti più forti al mondo per difendere la ricchezza di pochi tra gli ebrei più ricchi al mondo. Sempre di più, Israele assume le fattezze di un’enorme luogo di riciclaggio di denaro sporco da parte di oligarchi, truffatori, trafficanti d’armi e d’organi, criminalità organizzata e commercianti di diamanti insanguinati. Tale politica economica può certamente dar conto del perché questo stato sia completamente indifferente all’uguaglianza sociale all’interno dei propri confini. Poveri Israeliani Poiché Israele si definisce stato ebraico, ci si aspetterebbe che la sua gente sia la prima a godere della crescita economica della nazione. Tuttavia non è affatto così: nonostante la forza dell’economia, il resoconto sulla giustizia sociale in Israele è terrificante. Nello stato ebraico 18 famiglie controllano il 60% dell’equity value di tutte le compagnie del territorio. Lo stato ebraico è scandalosamente crudele verso le fasce più povere della propria popolazione. Per quel che riguarda il gap tra ricchi e poveri, Israele è certamente tra i primi della lista. Il significato di tutto questo è sconvolgente: nonostante si comporti come un’organizzazione tribale etnocentrica e razzialmente definita, Israele si rivela completamente noncurante verso i membri della sua stessa tribù – in effetti, nello stato ebraico, pochi milioni di ebrei sono al servizio dei più abietti interessi, il cui frutto sarà goduto da una manciata di ricchi criminali. Fumo negli occhi Ma c’è in tutto questo un significato implicito ancora più profondo e sconvolgente. Se la mia lettura dell’economia israeliana è corretta ed Israele è di fatti un luogo di riciclaggio del denaro proveniente dai traffici più loschi, allora il conflitto israelo-palestinese, dal punto di vista dell’elite israeliana, altro non è che fumo negli occhi. Spero che i miei lettori ed amici mi perdoneranno per ciò che sto per scrivere, anzi spero di perdonare me stesso; ma mi sembra che il conflitto israelo-palestinese e gli orrendi crimini di cui questo paese si sta macchiando contro il popolo palestinese, in realtà servano a distogliere l’attenzione dalla sua connivenza in colossali crimini commessi a danno di moltissime popolazioni del mondo. Invece di concentrarci sullo sfrenato ed avido tentativo israeliano di guadagnare ricchezza a spese del resto dell’umanità, ci stiamo concentrando su di un unico conflitto territoriale che in realtà è solo la punta dell’iceberg e nasconde la vera entità del progetto nazionale ebraico. È più che probabile che la vasta maggioranza degli Israeliani non riesca a capire la strategia fuorviante che sottende il conflitto israelo-palestinese. Gli Israeliani sono indottrinati a considerare ogni possibile questione dal punto di vista della sicurezza nazionale, essi non sono riusciti a capire che, di pari passo con l’intensa militarizzazione della loro società, il loro stato ebraico sia diventato un punto di riciclaggio del denaro sporco e un luogo di asilo per criminali di ogni angolo del mondo. Ma la brutta notizia per Israele e la sua elite corrotta è che è solo questione di tempo prima che i Russi, gli Americani, gli Africani, gli Europei, tutta l’umanità si renda conto di tutto questo – e qui saremmo tutti Palestinesi ed avremmo in comune un unico nemico. E potrei anche andare oltre, dicendo della possibilità che, a breve, ebrei ed Israeliani di classi sociali svantaggiate inizino a capire quanto ingannevoli e sinistri siano in realtà Israele ed il Sionismo. di Gilad Atzmon Fonte: www.gilad.co.uk/ |
09 febbraio 2011
Cosa succede dopo Mubarak?
![]() Il verso contenuto in HMS Pinafore di Gilbert e Sullivan spiega bene cosa sta succedendo ora in Egitto e forse anche in altri posti della regione; infatti recita: “Di rado le cose sono come appaiono. Il latte scremato si maschera da panna fresca”. La rabbia viscerale che si vede per le strade è vera. Piuttosto, ciò che desta sospetto è chi sta orchestrando il tutto e Washington sembra star realizzando il cambio di regime, a lungo pianificato, in modo da cambiare i volti per proseguire con le vecchie politiche, lasciando intatti i problemi di fondo. Un copione ben conosciuto. Nel suo libro “Freedom Next Time”, John Pilger ha discusso del tradimento di Nelson Mandela nel Sud Africa del dopo apartheid, nell’accogliere ciò che lui ha chiamato “thatcherismo”, dicendo a Pilger: “ Lo si può etichettare come si vuole, anche Thatcherite ma di fatto in questo paese le privatizzazioni sono la regola fondamentale” Nel 1990, due settimane prima della sua liberazione, disse: “La nazionalizzazione delle miniere, delle banche e dei monopoli industriali fanno parte della proposta politica dell’ ANC e (pensare di cambiare) la nostra idea.. è inconcepibile. La concessione di potere economico alla popolazione nera è un obiettivo che ci poniamo, ma in questa situazione è inevitabile il controllo statale di alcuni settori." Nel 1955, quell’idea diede origine alla Freedom Charter Policy dell’ANC. La sua battaglia per la liberazione non era solo politica ma anche economica. I minatori bianchi guadagnavano 10 volte più dei neri e i grandi gruppi industriali ricorrevano alle forze di sicurezza per far sparire i dissidenti, assicurando in questo modo l’ordine. Dopo l’apartheid un nuovo percorso si rendeva possibile; Mandela si prese la responsabilità di guidarlo rifiutando la logica del mercato ortodosso in cambio di giustizia economica. Nel 1994 i candidati dell’ANC vinsero con ampio margine le elezioni. Nonostante una transizione pacifica, non si è arrivati ad alcun cambio ma piuttosto al tradimento. I sudafricani neri diventarono ostaggi dei rapaci capitalisti. Lo sono ancora ed è molto peggio che durante l’apartheid. Anche il New York Times se n’è accorto con l’articolo, a firma di Celia Dugger, pubblicato il 26 settembre 2010 col titolo: “Le leggi del reddito stritolano i poveri del Sudafrica”. Scrive la Dugger: “Nei 16 anni dalla fine dell’apartheid il Sudafrica ha seguito le ricette dell’Occidente, aprendo la sua economia di mercato agli affari, controllando l’inflazione e il debito pubblico (secondo i diktat dell’FMI). Ha ricevuto i complimenti” ma ad un prezzo. “Per oltre un decennio il tasso di disoccupazione è stato tra i più alti al mondo”, peggiorato dalla crisi economica globale, “spazzando via oltre un milione di posti di lavoro”. Il prezzo pagato ha incluso anche: - Raddoppio del numero di popolazione impoverita col reddito di 1 dollaro al giorno, da 2 a 4 milioni; - Raddoppio del tasso di disoccupazione fino al 48% nel periodo 1991-2002, ora anche più alto; - Perdita della casa per due milioni di sudafricani mentre il governo ne ha costruite solo 1.8 milioni; - Nel primo decennio con l’ANC alla guida, circa un milione aziende sono sparite; di conseguenza, gli insediamenti in baraccopoli sono aumentati del 50%; - Nel 2006 il 25% dei sudafricani viveva in baracche senza acqua o corrente elettrica; - Il tasso di diffusione dell’HIV/AIDS è circa del 20% della popolazione; di conseguenza l’aspettativa di vita è inferiore a quella del 1990; - Il 40% delle scuole non ha corrente elettrica; - Il 25% della popolazione non usufruisce di acqua potabile e la maggior parte non può pagarla; - Il 60% ha servizi igienici inadeguati e il 40% non ha telefono. Il dopo apartheid ha avuto un costo elevato, con la concessione di potere politico in cambio del tradimento economico, senza alcuna forma di sostentamento per i milioni di sudafricani che soffrono, vittime di un capitalismo rapace. La Russia post comunista La caduta del muro di Berlino sarebbe dovuta essere una vittoria per milioni di persone. Invece è stata una tragedia per la Russia e per gli stati post sovietici come Ucraina, Georgia, Estonia, Lettonia, Lituania e altri. Nel marzo 1985, Mikhail Gorbaciov salì al potere con la promessa di cambiamenti politici e sociali, ma non è rimasto abbastanza per poterli guidare. Ha liberalizzato il paese, con l’introduzione delle elezioni, e ha favorito la (allora) democrazia sociale di tipo scandinavo, combinando il capitalismo di libero mercato con forti reti di protezione sociale. La sua visione era quella di “un faro socialista per l’umanità intera”, una società egualitaria, ma non ebbe la possibilità di realizzarla. Quando l’Unione Sovietica collassò, lui fu cacciato. Boris Yeltsin lo sostituì all’insegna della dura ortodossia della Chicago School, mascherata con il nome di “riforme”. Il capitalismo rapace ha devastato le vite dei russi, arricchendo una minoranza selezionata a spese dei poveri. Il dazio da pagare ha incluso: - L’80% di impresari hanno dichiarato la bancarotta; - Circa 70.000 aziende statali hanno chiuso, provocando un’epidemia di disoccupati; - 74 milioni di russi (metà della popolazione) si è impoverita; le condizioni di 37 milioni di questi sono disperate e il sottoproletariato del paese è rimasto tale in modo permantente; - È aumentato l’uso di droghe pesanti, alcol e antidolorifici - Dal 1995 il tasso di HIV/AIDS è aumentato di 20 volte; - Anche il tasso di suicidi è aumentato, quello del crimine violento è quadruplicato; - La popolazione russa è diminuita di 700.000 individui all’anno prima di stabilizzarsi; il capitalismo sfrenato ha ucciso il 10% della popolazione – un’impressionante motivo per condannare un capitalismo eccessivo che fa male anche agli altri stati post sovietici. La repressione ad Haiti in nome del Libero Mercato Esclusi un breve periodo nel 1804 dopo che la liberazione rivoluzionaria liberò gli schiavi rendendoli cittadini e durante il mandato presidenziale di Jean-Bertrand Aristide, gli haitiani hanno subìto la rapacità dello sfruttamento capitalista che ha reso il paese uno dei più poveri della regione e del mondo intero. Anche prima del devastante terremoto del gennaio 2010, seguito da un enorme degrado e dall’infuriare del colera, il paese era gravato da: - Controllo imperiale su modello coloniale operato dagli Stati Uniti - Un’élite al comando con totale controllo sociale ed economico; l’economia, i media, le università, il commercio e gli affari in mano a sei famiglie; - La distribuzione di ricchezza più iniqua dell’intera regione e del mondo intero; - Metà della ricchezza del paese in mano all’1% della popolazione; - In contrasto, l’80% della popolazione continua a vivere nell’estrema povertà; - Tre quarti della popolazione vive con meno di 2 dollari al giorno e oltre la metà (56%) con meno di 1 dollaro al giorno; - Il 5% della popolazione possiede il 75% delle terre coltivabili; - Disoccupazione e sottocupazione inarrestabili; due terzi o più dei lavoratori senza lavori sicuri e la maggior parte di loro con paghe sotto la soglia della sussistenza; - Le misure strutturali decimano l’economia rurale, costringendo i contadini a dislocare verso le città per cercare lavoro che non esiste; - Percentuale di pubblico impiego al minimo della regione, meno del 7%; - L’aspettativa di vita è di appena 53 anni; il tasso di mortalità più alto nell’emisfero e mortalità infantile doppia rispetto alla media regionale di 76 bambini ogni mille; - La banca mondiale colloca Haiti tra gli ultimi posti in quanto a servizi igienici, alimentazione scarsa, malnutrizione e servizi sanitari inadeguati; - Oltre metà della popolazione a rischio per mancanza di cibo e metà dei bambini sottosviluppati per malnutrizione; - Oltre metà della popolazione non ha accesso all’acqua potabile; - Il tasso più alto di HIV/AIDS, esclusa l’Africa sub-sahariana - Livello più basso di retribuzione della regione nelle maquiladoras per gli haitiani così fortunati da avere un lavoro; - Chiamata la “Repubblica delle ONG”, molte di queste sfruttano gli haitiani in modo brutale per profitto; - Il duraturo sistema dei “restavec”, che intrappola centinaia di migliaia di bambini alla schiavitù. In generale gli Stati Uniti mantengono un dominio di stampo imperiale, controllano le risorse di Haiti, l’economia e la politica. Sfruttano gli abitanti in modo spietato, sfruttano le loro miniere e ne traggono profitti enormi e piazzano regimi nuovi senza alcuna differenza con quelli precedenti. È una storia che si ripete a livello globale, inclusi Iraq e Afghanistan, piegati da guerre, occupazioni, torture, oppressione, povertà spaventosa e disoccupazione, assenza di sicurezza, di acqua pulita, di cibo sufficiente, di protezione, di servizi sanitari e di altri servizi essenziali. La ‘liberazione” americana ha provocato milioni di morti, malattie, fame, degrado, e terribili sofferenze umane mai affrontate. Inoltre, i livelli di privazione continuano a salire anche a livello domestico perché Washington rifiuta di occuparsene. Commento finale La decolonizzazione post seconda guerra mondiale ha prodotto regimi neocoloniali, politiche da Guerra Fredda, il Movimento dei paesi non allineati, crescita dei nazionalismi, conflitti etnici e dominio imperiale americano i cui tratti distintivi sono: - Avversione per la democrazia; - Sostegno agli uomini forti delle neocolonie, in modo particolare alle dittature che fanno gli interessi occidentali - Uso diretto o indiretto della belligeranza per rafforzare il capitalismo mondiale e rendere il mondo un posto sicuro per i grandi affari. I vecchi ordini sono passati. Ne sono emersi nuovi. Tutto è cambiato ma è rimasto lo stesso, mai come ora dominato dal capitale finanziario e le corporazioni monopolistiche, che controllano governi per i propri interessi a spesa di lavoratori sfruttati pesantemente a livello globale. Di conseguenza, il mondo oggi è caratterizzato dall’instabilità, standard di vita in declino, repressione violenta da arte della polizia di stato e da un’enorme sofferenza umana, in particolar modo in aree come il medioriente. In tutta la regione la gente vuole la fine di questi regimi, un populismo rivoluzionario contrapposto all’oppressione che offre false pretese di cambiamento. Ne consegue che c'è da aspettarsi l’arrivo di nuovi volti pronti a perpetuare le stesse politiche, che non concedono niente se non quando la rabbia delle masse si fa sentire. Questa è la realtà oggi, sulla soluzione ancora ci sono dubbi ma i pronostici favoriscono sempre i forti. di Stephen Lendman Fonte: www.uruknet.info |
Iscriviti a:
Post (Atom)
13 febbraio 2011
Strapazzati dalle straniere
“A forza di passare le sue notti a toccare il culo alle ragazze davanti a tutti, mi chiedo come faccia il giorno dopo a lavorare”, si domanda il quotidiano francese l’”Express”, riprendendo le parole di una delle signorine presenti alle feste di Berlusconi. La stampa internazionale, in queste settimane, si è scatenata contro il capo del governo italiano, alternando la derisione all’indignazione. Sul “Pais”, Almudena Grandes, che pure è una scrittrice nota per romanzi che, un millennio fa, si sarebbero definiti scabrosi, non riesce a trattenere il suo sdegno: “I capelli tinti ed il viso coperto di trucco, le sue disperate ostentazioni giovanili di seduttore senile battono ogni giorno i suoi record di indecenza, senza che molti suoi concittadini trovino motivi per smettere di celebrare le sue pagliacciate”.
Come è ovvio, il disprezzo per Berlusconi finisce per estendersi anche agli italiani che più volte l’hanno votato. Il “New York Times” ne fa una questione antropologica e culturale: “In questi anni Berlusconi ha confuso la linea tra immagine e realtà. O meglio, ha fondato una brillante carriera sulla fondamentale verità italiana che l’immagine è la realtà”. E qui siamo al giudizio definitivo sul nostro carattere nazionale: solo in Italia, Paese barocco dove le forme di una fantasia morbosa ottenebrano la percezione della squallida realtà, può esistere un capo di governo che è un personaggio da operetta. Le surreali vicende erotiche di Berlusconi, insomma, rilanciano alla grande la mai estinta immagine degli italiani come popolo inaffidabile, brillante in superficie ma corrotto moralmente, sul quale non si può fare conto per la sua innata doppiezza e per la sua avversione ad ogni disciplina.
Lo stereotipo dell’italiano mandolinaro e traditore –che, anche se arriva da lontano, fu inchiodato nell’immaginario collettivo a causa dell’Otto settembre, da molti nemici di Berlusconi identificato invece come il giorno della riscossa nazionale- è presente in tanti articoli dei giornali stranieri. Quanto può costare all’Italia, intesa come Stato nazionale che collabora e compete con gli altri Stati negli scenari politici ed economici globali, questa ulteriore caduta di immagine? Dopo il rifiuto di estradare nel nostro Paese Cesare Battisti, Ernesto Galli della Loggia ha scritto che Francia e Brasile ci hanno trattati alla stregua di una Macedonia o di una Colombia, impartendoci ex cathedra delle lezioni sugli anni di piombo. A giudizio dell’editorialista del “Corriere della Sera”, ciò dipende dal fatto che la rappresentazione dell’Italia all’estero è falsa: “pressoché sconosciuti sono il tono della nostra vita pubblica e politica, la variegata qualità delle nostre relazioni sociali, dei nostri costumi e comportamenti collettivi”.
Nonostante tutte le magagne, siamo comunque meglio di come pensa la maggioranza degli stranieri, ma ha ragione Galli della Loggia a dire che la colpa dell’ignoranza sul nostro Paese è soprattutto degli italiani e dei governi che, per esempio, fanno i micragnosi con i pochi istituti culturali italiani all’estero e si disinteressano degli studiosi che si occupano dell’Italia. Una mancanza, aggiungiamo noi, che il “Berlusconi imprenditore, alieno da fumisterie culturalistiche”, ha accentuato. Pensiamo solo che ci si divide persino sul fatto di proclamare giornata di festa l’anniversario dell’unita nazionale, come se astenersi, ogni 150 anni, dal lavoro, portasse in rovina l’economia. Se non si rispetta la propria storia è difficile che si venga rispettati.
Berlusconi è convinto che il rango dell’Italia sia cresciuto: “Oggi il Paese è ascoltato, grazie anche al fatto che ha un leader anziano, un tycoon, il che è molto, molto importante”. Grazie a lui le tensioni tra Russia e Stati Uniti sarebbero svanite e, sempre per merito della sua saggia mediazione, Obama avrebbe rinunciato a piazzare i missili in Cechia e Polonia, senza considerare l’apporto decisivo nel convincere l’amico Putin a non invadere la Georgia dopo l’attacco di Saakashvili all’Ossezia del Sud. Al netto della vanagloria, qualcosa di vero c’è nel ruolo di Berlusconi come intermediario tra Mosca e l’Occidente. Ci sembra abbia ragione Paolo Quercia che, sulla rivista “Limes”, descrive l’azione diplomatica del presidente del Consiglio con la metafora dei due piatti della bilancia: “Nel primo il premier isola Usa e Israele e la loro domanda di sicurezza globale; sull’altro piatto della bilancia Berlusconi mette Russia e Libia e la loro offerta di energia diretta verso l’Europa”.
Gli stretti rapporti con la Russia hanno suscitato ostilità nell’Amministrazione Usa, come hanno confermato le rivelazioni di Wikileaks, ma Washington si è vista offrire, nel contempo, la massima collaborazione sull’Afghanistan e su Israele. Tranquillizzando l’alleato su alcune questioni scottanti, Berlusconi si è concesso, in altri scacchieri, di giocare in proprio. E’ difficile dire quanto ciò sia il frutto di una strategia, mai peraltro dichiarata, oppure una semplice pesca delle occasioni, suggerita dal fiuto commerciale. In ogni caso, queste decisioni hanno lasciato un segno: alcuni Paesi sono stati scelti come interlocutori principali, altri sono stati lasciati in secondo piano. La volontà di appoggiare il progetto di gasdotto South Stream, finendo poi con il coinvolgere anche Francia e Germania, invece del Nabucco, sponsorizzato da Washington e Bruxelles, crea una divisione di campo, aprendo uno spazio importante alla Russia in Europa contro la volontà statunitense.
E’ significativo che Berlusconi abbia compiuto ben cinque visite ufficiali in Libia e quattro in Russia, mentre grandi realtà come Cina, Brasile e India non gli abbiano suscitato il medesimo interesse. Non si è mai recato, a differenza dei suoi colleghi occidentali, in Afghanistan per visitare le truppe. Come se l’impegno, pur considerevole per le nostre forze, in quel teatro di guerra rappresentasse solo un’assicurazione da pagare. Con Israele Berlusconi si è mostrato allineato fino all’assurdo di dichiarare di non avere visto il cosiddetto muro di separazione quando vi era passato accanto. E’ riuscito poi a promettere un piano Marshall per la Palestina, ma in realtà ha ridotto il contributo italiano ai fondi Onu per i rifugiati palestinesi. L’interscambio italiano con l’Iran, nonostante le solenne promesse di Berlusconi a Netanyauh, è addirittura aumentato, per il momento. In questi casi, il confine tra scaltrezza diplomatica e inaffidabilità si fa labile, non migliorando certo la nostra fama.
Tornando alla questione del peso della caduta di immagine del presidente del Consiglio sull’intero Paese, premettiamo che non siamo fra quanti attribuiscono valore oracolare a ogni sospiro della stampa estera sull’Italia. Perfino sul mitizzato “Economist” ci è capitato di leggere una serie di inesattezze dettate dalla faciloneria. Il danno, comunque, c’è: la credibilità è una premessa fondamentale in politica come nell’economia. L’uscita di scena di Berlusconi, da questo punto di vista, potrebbe rappresentare un medicamento. Non però con le modalità con le quali sembra oggi avvenire. Ovvero per mezzo di una magistratura oggettivamente partigiana e incurante dei limiti delle sue prerogative e di una opposizione tenuta insieme solo da un antiberlusconismo moralistico e impolitico. Il rischio è che al “sultano” succeda un uomo più “temperante” che, in mancanza di un programma politico, abbandoni le poche intuizioni positive di politica estera di Berlusconi, per presentare un’Italia più virtuosa agli occhi di quei Paesi che ci fanno la morale, ma sono pronti ad approfittare di una nostra eventuale arrendevolezza.
di Roberto Zavaglia
Come è ovvio, il disprezzo per Berlusconi finisce per estendersi anche agli italiani che più volte l’hanno votato. Il “New York Times” ne fa una questione antropologica e culturale: “In questi anni Berlusconi ha confuso la linea tra immagine e realtà. O meglio, ha fondato una brillante carriera sulla fondamentale verità italiana che l’immagine è la realtà”. E qui siamo al giudizio definitivo sul nostro carattere nazionale: solo in Italia, Paese barocco dove le forme di una fantasia morbosa ottenebrano la percezione della squallida realtà, può esistere un capo di governo che è un personaggio da operetta. Le surreali vicende erotiche di Berlusconi, insomma, rilanciano alla grande la mai estinta immagine degli italiani come popolo inaffidabile, brillante in superficie ma corrotto moralmente, sul quale non si può fare conto per la sua innata doppiezza e per la sua avversione ad ogni disciplina.
Lo stereotipo dell’italiano mandolinaro e traditore –che, anche se arriva da lontano, fu inchiodato nell’immaginario collettivo a causa dell’Otto settembre, da molti nemici di Berlusconi identificato invece come il giorno della riscossa nazionale- è presente in tanti articoli dei giornali stranieri. Quanto può costare all’Italia, intesa come Stato nazionale che collabora e compete con gli altri Stati negli scenari politici ed economici globali, questa ulteriore caduta di immagine? Dopo il rifiuto di estradare nel nostro Paese Cesare Battisti, Ernesto Galli della Loggia ha scritto che Francia e Brasile ci hanno trattati alla stregua di una Macedonia o di una Colombia, impartendoci ex cathedra delle lezioni sugli anni di piombo. A giudizio dell’editorialista del “Corriere della Sera”, ciò dipende dal fatto che la rappresentazione dell’Italia all’estero è falsa: “pressoché sconosciuti sono il tono della nostra vita pubblica e politica, la variegata qualità delle nostre relazioni sociali, dei nostri costumi e comportamenti collettivi”.
Nonostante tutte le magagne, siamo comunque meglio di come pensa la maggioranza degli stranieri, ma ha ragione Galli della Loggia a dire che la colpa dell’ignoranza sul nostro Paese è soprattutto degli italiani e dei governi che, per esempio, fanno i micragnosi con i pochi istituti culturali italiani all’estero e si disinteressano degli studiosi che si occupano dell’Italia. Una mancanza, aggiungiamo noi, che il “Berlusconi imprenditore, alieno da fumisterie culturalistiche”, ha accentuato. Pensiamo solo che ci si divide persino sul fatto di proclamare giornata di festa l’anniversario dell’unita nazionale, come se astenersi, ogni 150 anni, dal lavoro, portasse in rovina l’economia. Se non si rispetta la propria storia è difficile che si venga rispettati.
Berlusconi è convinto che il rango dell’Italia sia cresciuto: “Oggi il Paese è ascoltato, grazie anche al fatto che ha un leader anziano, un tycoon, il che è molto, molto importante”. Grazie a lui le tensioni tra Russia e Stati Uniti sarebbero svanite e, sempre per merito della sua saggia mediazione, Obama avrebbe rinunciato a piazzare i missili in Cechia e Polonia, senza considerare l’apporto decisivo nel convincere l’amico Putin a non invadere la Georgia dopo l’attacco di Saakashvili all’Ossezia del Sud. Al netto della vanagloria, qualcosa di vero c’è nel ruolo di Berlusconi come intermediario tra Mosca e l’Occidente. Ci sembra abbia ragione Paolo Quercia che, sulla rivista “Limes”, descrive l’azione diplomatica del presidente del Consiglio con la metafora dei due piatti della bilancia: “Nel primo il premier isola Usa e Israele e la loro domanda di sicurezza globale; sull’altro piatto della bilancia Berlusconi mette Russia e Libia e la loro offerta di energia diretta verso l’Europa”.
Gli stretti rapporti con la Russia hanno suscitato ostilità nell’Amministrazione Usa, come hanno confermato le rivelazioni di Wikileaks, ma Washington si è vista offrire, nel contempo, la massima collaborazione sull’Afghanistan e su Israele. Tranquillizzando l’alleato su alcune questioni scottanti, Berlusconi si è concesso, in altri scacchieri, di giocare in proprio. E’ difficile dire quanto ciò sia il frutto di una strategia, mai peraltro dichiarata, oppure una semplice pesca delle occasioni, suggerita dal fiuto commerciale. In ogni caso, queste decisioni hanno lasciato un segno: alcuni Paesi sono stati scelti come interlocutori principali, altri sono stati lasciati in secondo piano. La volontà di appoggiare il progetto di gasdotto South Stream, finendo poi con il coinvolgere anche Francia e Germania, invece del Nabucco, sponsorizzato da Washington e Bruxelles, crea una divisione di campo, aprendo uno spazio importante alla Russia in Europa contro la volontà statunitense.
E’ significativo che Berlusconi abbia compiuto ben cinque visite ufficiali in Libia e quattro in Russia, mentre grandi realtà come Cina, Brasile e India non gli abbiano suscitato il medesimo interesse. Non si è mai recato, a differenza dei suoi colleghi occidentali, in Afghanistan per visitare le truppe. Come se l’impegno, pur considerevole per le nostre forze, in quel teatro di guerra rappresentasse solo un’assicurazione da pagare. Con Israele Berlusconi si è mostrato allineato fino all’assurdo di dichiarare di non avere visto il cosiddetto muro di separazione quando vi era passato accanto. E’ riuscito poi a promettere un piano Marshall per la Palestina, ma in realtà ha ridotto il contributo italiano ai fondi Onu per i rifugiati palestinesi. L’interscambio italiano con l’Iran, nonostante le solenne promesse di Berlusconi a Netanyauh, è addirittura aumentato, per il momento. In questi casi, il confine tra scaltrezza diplomatica e inaffidabilità si fa labile, non migliorando certo la nostra fama.
Tornando alla questione del peso della caduta di immagine del presidente del Consiglio sull’intero Paese, premettiamo che non siamo fra quanti attribuiscono valore oracolare a ogni sospiro della stampa estera sull’Italia. Perfino sul mitizzato “Economist” ci è capitato di leggere una serie di inesattezze dettate dalla faciloneria. Il danno, comunque, c’è: la credibilità è una premessa fondamentale in politica come nell’economia. L’uscita di scena di Berlusconi, da questo punto di vista, potrebbe rappresentare un medicamento. Non però con le modalità con le quali sembra oggi avvenire. Ovvero per mezzo di una magistratura oggettivamente partigiana e incurante dei limiti delle sue prerogative e di una opposizione tenuta insieme solo da un antiberlusconismo moralistico e impolitico. Il rischio è che al “sultano” succeda un uomo più “temperante” che, in mancanza di un programma politico, abbandoni le poche intuizioni positive di politica estera di Berlusconi, per presentare un’Italia più virtuosa agli occhi di quei Paesi che ci fanno la morale, ma sono pronti ad approfittare di una nostra eventuale arrendevolezza.
di Roberto Zavaglia
10 febbraio 2011
Economia israeliana per principianti
![]() Veniamo a sapere dalla stampa e dagli esperti di analisi politica che contro ogni probabilità e a dispetto della la globale turbolenza finanziaria, l’economia israeliana è in pieno boom. Alcuni addirittura sostengono che quella israeliana sia una delle economie più forti al momento. “E come mai?”, qualcuno potrebbe chiedersi; oltre agli avocado, alle arance e ad alcuni prodotti cosmetici del Mar Morto, praticamente nessuno di noi ha mai visto un prodotto israeliano in commercio. In Israele non si realizzano automobili, né apparecchi elettronici, e a mala pena vengono prodotti beni di consumo. Israele dal canto suo rivendica il proprio avanzamento in dispositivi hi-tech, ma in un modo o nell’altro gli unici software israeliani avanzati che si possono trovare installati nei nostri computer sono i Sabra Trojan Horses (virus, Cavallo di Troia). Inoltre nella terra che hanno sottratto con la forza ad i nativi Palestinesi, gli Israeliani non hanno ancora trovato alcun minerale prezioso né ombra di petrolio. Dunque di cosa si tratta? Come mai Israele non è affatto scalfito dal disastro finanziario che ha investito il pianeta? Da dove viene la sua ricchezza? Stando a quanto riporta The Guardian , Israele potrebbe essere ricco perchè: “Dei sette oligarchi che controllavano il 50 % dell’economia russa negli anni 90, sei erano ebrei”. Durante gli ultimi vent’anni, molti oligarchi russi hanno acquisito la cittadinanza israeliana; essi hanno inoltre messo al sicuro il proprio denaro sporco investendolo nel paradiso finanziario del cibo kosher; ultimamente Wikileaks ha rivelato che “fonti nella polizia (israeliana) ritengono che la malavita organizzata russa (Mafia russa), abbia riciclato fino a 10 miliardi di dollari americani tramite le holding israeliane”. L’ economia israeliana è in fortissima espansione perché truffatori del calibro di Bernie Madoff riciclano il proprio denaro tramite di i Sionisti e le istituzioni israeliane da decenni. Israele “non se la passa male” perché è il principale venditore di diamanti insanguinati. Lungi dal coglierci di sorpresa, esso è anche il quarto maggiore venditore di armi del pianeta. Comprensibilmente, diamanti insanguinati e armi si rivelano essere un’accoppiata vincente. Come se non bastasse, Israele è così prospero perchè, di quando in quando, lo si scopre coinvolto nella raccolta e nel traffico di organi. Insomma, per farla breve, Israele sta meglio di altri stati perché gestisce una delle più sporche e immorali economie del mondo. Nonostante l’iniziale promessa sionista di costituire “una civiltà ebraica etica”, Israele è piuttosto riuscito a realizzare una sistematica violazione del diritto internazionale e dei valori universali che non ha precedenti. Esso svolge il ruolo di sicuro paradiso fiscale per denaro proveniente da spregevoli attività criminali condotte su scala internazionale e si serve di uno degli eserciti più forti al mondo per difendere la ricchezza di pochi tra gli ebrei più ricchi al mondo. Sempre di più, Israele assume le fattezze di un’enorme luogo di riciclaggio di denaro sporco da parte di oligarchi, truffatori, trafficanti d’armi e d’organi, criminalità organizzata e commercianti di diamanti insanguinati. Tale politica economica può certamente dar conto del perché questo stato sia completamente indifferente all’uguaglianza sociale all’interno dei propri confini. Poveri Israeliani Poiché Israele si definisce stato ebraico, ci si aspetterebbe che la sua gente sia la prima a godere della crescita economica della nazione. Tuttavia non è affatto così: nonostante la forza dell’economia, il resoconto sulla giustizia sociale in Israele è terrificante. Nello stato ebraico 18 famiglie controllano il 60% dell’equity value di tutte le compagnie del territorio. Lo stato ebraico è scandalosamente crudele verso le fasce più povere della propria popolazione. Per quel che riguarda il gap tra ricchi e poveri, Israele è certamente tra i primi della lista. Il significato di tutto questo è sconvolgente: nonostante si comporti come un’organizzazione tribale etnocentrica e razzialmente definita, Israele si rivela completamente noncurante verso i membri della sua stessa tribù – in effetti, nello stato ebraico, pochi milioni di ebrei sono al servizio dei più abietti interessi, il cui frutto sarà goduto da una manciata di ricchi criminali. Fumo negli occhi Ma c’è in tutto questo un significato implicito ancora più profondo e sconvolgente. Se la mia lettura dell’economia israeliana è corretta ed Israele è di fatti un luogo di riciclaggio del denaro proveniente dai traffici più loschi, allora il conflitto israelo-palestinese, dal punto di vista dell’elite israeliana, altro non è che fumo negli occhi. Spero che i miei lettori ed amici mi perdoneranno per ciò che sto per scrivere, anzi spero di perdonare me stesso; ma mi sembra che il conflitto israelo-palestinese e gli orrendi crimini di cui questo paese si sta macchiando contro il popolo palestinese, in realtà servano a distogliere l’attenzione dalla sua connivenza in colossali crimini commessi a danno di moltissime popolazioni del mondo. Invece di concentrarci sullo sfrenato ed avido tentativo israeliano di guadagnare ricchezza a spese del resto dell’umanità, ci stiamo concentrando su di un unico conflitto territoriale che in realtà è solo la punta dell’iceberg e nasconde la vera entità del progetto nazionale ebraico. È più che probabile che la vasta maggioranza degli Israeliani non riesca a capire la strategia fuorviante che sottende il conflitto israelo-palestinese. Gli Israeliani sono indottrinati a considerare ogni possibile questione dal punto di vista della sicurezza nazionale, essi non sono riusciti a capire che, di pari passo con l’intensa militarizzazione della loro società, il loro stato ebraico sia diventato un punto di riciclaggio del denaro sporco e un luogo di asilo per criminali di ogni angolo del mondo. Ma la brutta notizia per Israele e la sua elite corrotta è che è solo questione di tempo prima che i Russi, gli Americani, gli Africani, gli Europei, tutta l’umanità si renda conto di tutto questo – e qui saremmo tutti Palestinesi ed avremmo in comune un unico nemico. E potrei anche andare oltre, dicendo della possibilità che, a breve, ebrei ed Israeliani di classi sociali svantaggiate inizino a capire quanto ingannevoli e sinistri siano in realtà Israele ed il Sionismo. di Gilad Atzmon Fonte: www.gilad.co.uk/ |
09 febbraio 2011
Cosa succede dopo Mubarak?
![]() Il verso contenuto in HMS Pinafore di Gilbert e Sullivan spiega bene cosa sta succedendo ora in Egitto e forse anche in altri posti della regione; infatti recita: “Di rado le cose sono come appaiono. Il latte scremato si maschera da panna fresca”. La rabbia viscerale che si vede per le strade è vera. Piuttosto, ciò che desta sospetto è chi sta orchestrando il tutto e Washington sembra star realizzando il cambio di regime, a lungo pianificato, in modo da cambiare i volti per proseguire con le vecchie politiche, lasciando intatti i problemi di fondo. Un copione ben conosciuto. Nel suo libro “Freedom Next Time”, John Pilger ha discusso del tradimento di Nelson Mandela nel Sud Africa del dopo apartheid, nell’accogliere ciò che lui ha chiamato “thatcherismo”, dicendo a Pilger: “ Lo si può etichettare come si vuole, anche Thatcherite ma di fatto in questo paese le privatizzazioni sono la regola fondamentale” Nel 1990, due settimane prima della sua liberazione, disse: “La nazionalizzazione delle miniere, delle banche e dei monopoli industriali fanno parte della proposta politica dell’ ANC e (pensare di cambiare) la nostra idea.. è inconcepibile. La concessione di potere economico alla popolazione nera è un obiettivo che ci poniamo, ma in questa situazione è inevitabile il controllo statale di alcuni settori." Nel 1955, quell’idea diede origine alla Freedom Charter Policy dell’ANC. La sua battaglia per la liberazione non era solo politica ma anche economica. I minatori bianchi guadagnavano 10 volte più dei neri e i grandi gruppi industriali ricorrevano alle forze di sicurezza per far sparire i dissidenti, assicurando in questo modo l’ordine. Dopo l’apartheid un nuovo percorso si rendeva possibile; Mandela si prese la responsabilità di guidarlo rifiutando la logica del mercato ortodosso in cambio di giustizia economica. Nel 1994 i candidati dell’ANC vinsero con ampio margine le elezioni. Nonostante una transizione pacifica, non si è arrivati ad alcun cambio ma piuttosto al tradimento. I sudafricani neri diventarono ostaggi dei rapaci capitalisti. Lo sono ancora ed è molto peggio che durante l’apartheid. Anche il New York Times se n’è accorto con l’articolo, a firma di Celia Dugger, pubblicato il 26 settembre 2010 col titolo: “Le leggi del reddito stritolano i poveri del Sudafrica”. Scrive la Dugger: “Nei 16 anni dalla fine dell’apartheid il Sudafrica ha seguito le ricette dell’Occidente, aprendo la sua economia di mercato agli affari, controllando l’inflazione e il debito pubblico (secondo i diktat dell’FMI). Ha ricevuto i complimenti” ma ad un prezzo. “Per oltre un decennio il tasso di disoccupazione è stato tra i più alti al mondo”, peggiorato dalla crisi economica globale, “spazzando via oltre un milione di posti di lavoro”. Il prezzo pagato ha incluso anche: - Raddoppio del numero di popolazione impoverita col reddito di 1 dollaro al giorno, da 2 a 4 milioni; - Raddoppio del tasso di disoccupazione fino al 48% nel periodo 1991-2002, ora anche più alto; - Perdita della casa per due milioni di sudafricani mentre il governo ne ha costruite solo 1.8 milioni; - Nel primo decennio con l’ANC alla guida, circa un milione aziende sono sparite; di conseguenza, gli insediamenti in baraccopoli sono aumentati del 50%; - Nel 2006 il 25% dei sudafricani viveva in baracche senza acqua o corrente elettrica; - Il tasso di diffusione dell’HIV/AIDS è circa del 20% della popolazione; di conseguenza l’aspettativa di vita è inferiore a quella del 1990; - Il 40% delle scuole non ha corrente elettrica; - Il 25% della popolazione non usufruisce di acqua potabile e la maggior parte non può pagarla; - Il 60% ha servizi igienici inadeguati e il 40% non ha telefono. Il dopo apartheid ha avuto un costo elevato, con la concessione di potere politico in cambio del tradimento economico, senza alcuna forma di sostentamento per i milioni di sudafricani che soffrono, vittime di un capitalismo rapace. La Russia post comunista La caduta del muro di Berlino sarebbe dovuta essere una vittoria per milioni di persone. Invece è stata una tragedia per la Russia e per gli stati post sovietici come Ucraina, Georgia, Estonia, Lettonia, Lituania e altri. Nel marzo 1985, Mikhail Gorbaciov salì al potere con la promessa di cambiamenti politici e sociali, ma non è rimasto abbastanza per poterli guidare. Ha liberalizzato il paese, con l’introduzione delle elezioni, e ha favorito la (allora) democrazia sociale di tipo scandinavo, combinando il capitalismo di libero mercato con forti reti di protezione sociale. La sua visione era quella di “un faro socialista per l’umanità intera”, una società egualitaria, ma non ebbe la possibilità di realizzarla. Quando l’Unione Sovietica collassò, lui fu cacciato. Boris Yeltsin lo sostituì all’insegna della dura ortodossia della Chicago School, mascherata con il nome di “riforme”. Il capitalismo rapace ha devastato le vite dei russi, arricchendo una minoranza selezionata a spese dei poveri. Il dazio da pagare ha incluso: - L’80% di impresari hanno dichiarato la bancarotta; - Circa 70.000 aziende statali hanno chiuso, provocando un’epidemia di disoccupati; - 74 milioni di russi (metà della popolazione) si è impoverita; le condizioni di 37 milioni di questi sono disperate e il sottoproletariato del paese è rimasto tale in modo permantente; - È aumentato l’uso di droghe pesanti, alcol e antidolorifici - Dal 1995 il tasso di HIV/AIDS è aumentato di 20 volte; - Anche il tasso di suicidi è aumentato, quello del crimine violento è quadruplicato; - La popolazione russa è diminuita di 700.000 individui all’anno prima di stabilizzarsi; il capitalismo sfrenato ha ucciso il 10% della popolazione – un’impressionante motivo per condannare un capitalismo eccessivo che fa male anche agli altri stati post sovietici. La repressione ad Haiti in nome del Libero Mercato Esclusi un breve periodo nel 1804 dopo che la liberazione rivoluzionaria liberò gli schiavi rendendoli cittadini e durante il mandato presidenziale di Jean-Bertrand Aristide, gli haitiani hanno subìto la rapacità dello sfruttamento capitalista che ha reso il paese uno dei più poveri della regione e del mondo intero. Anche prima del devastante terremoto del gennaio 2010, seguito da un enorme degrado e dall’infuriare del colera, il paese era gravato da: - Controllo imperiale su modello coloniale operato dagli Stati Uniti - Un’élite al comando con totale controllo sociale ed economico; l’economia, i media, le università, il commercio e gli affari in mano a sei famiglie; - La distribuzione di ricchezza più iniqua dell’intera regione e del mondo intero; - Metà della ricchezza del paese in mano all’1% della popolazione; - In contrasto, l’80% della popolazione continua a vivere nell’estrema povertà; - Tre quarti della popolazione vive con meno di 2 dollari al giorno e oltre la metà (56%) con meno di 1 dollaro al giorno; - Il 5% della popolazione possiede il 75% delle terre coltivabili; - Disoccupazione e sottocupazione inarrestabili; due terzi o più dei lavoratori senza lavori sicuri e la maggior parte di loro con paghe sotto la soglia della sussistenza; - Le misure strutturali decimano l’economia rurale, costringendo i contadini a dislocare verso le città per cercare lavoro che non esiste; - Percentuale di pubblico impiego al minimo della regione, meno del 7%; - L’aspettativa di vita è di appena 53 anni; il tasso di mortalità più alto nell’emisfero e mortalità infantile doppia rispetto alla media regionale di 76 bambini ogni mille; - La banca mondiale colloca Haiti tra gli ultimi posti in quanto a servizi igienici, alimentazione scarsa, malnutrizione e servizi sanitari inadeguati; - Oltre metà della popolazione a rischio per mancanza di cibo e metà dei bambini sottosviluppati per malnutrizione; - Oltre metà della popolazione non ha accesso all’acqua potabile; - Il tasso più alto di HIV/AIDS, esclusa l’Africa sub-sahariana - Livello più basso di retribuzione della regione nelle maquiladoras per gli haitiani così fortunati da avere un lavoro; - Chiamata la “Repubblica delle ONG”, molte di queste sfruttano gli haitiani in modo brutale per profitto; - Il duraturo sistema dei “restavec”, che intrappola centinaia di migliaia di bambini alla schiavitù. In generale gli Stati Uniti mantengono un dominio di stampo imperiale, controllano le risorse di Haiti, l’economia e la politica. Sfruttano gli abitanti in modo spietato, sfruttano le loro miniere e ne traggono profitti enormi e piazzano regimi nuovi senza alcuna differenza con quelli precedenti. È una storia che si ripete a livello globale, inclusi Iraq e Afghanistan, piegati da guerre, occupazioni, torture, oppressione, povertà spaventosa e disoccupazione, assenza di sicurezza, di acqua pulita, di cibo sufficiente, di protezione, di servizi sanitari e di altri servizi essenziali. La ‘liberazione” americana ha provocato milioni di morti, malattie, fame, degrado, e terribili sofferenze umane mai affrontate. Inoltre, i livelli di privazione continuano a salire anche a livello domestico perché Washington rifiuta di occuparsene. Commento finale La decolonizzazione post seconda guerra mondiale ha prodotto regimi neocoloniali, politiche da Guerra Fredda, il Movimento dei paesi non allineati, crescita dei nazionalismi, conflitti etnici e dominio imperiale americano i cui tratti distintivi sono: - Avversione per la democrazia; - Sostegno agli uomini forti delle neocolonie, in modo particolare alle dittature che fanno gli interessi occidentali - Uso diretto o indiretto della belligeranza per rafforzare il capitalismo mondiale e rendere il mondo un posto sicuro per i grandi affari. I vecchi ordini sono passati. Ne sono emersi nuovi. Tutto è cambiato ma è rimasto lo stesso, mai come ora dominato dal capitale finanziario e le corporazioni monopolistiche, che controllano governi per i propri interessi a spesa di lavoratori sfruttati pesantemente a livello globale. Di conseguenza, il mondo oggi è caratterizzato dall’instabilità, standard di vita in declino, repressione violenta da arte della polizia di stato e da un’enorme sofferenza umana, in particolar modo in aree come il medioriente. In tutta la regione la gente vuole la fine di questi regimi, un populismo rivoluzionario contrapposto all’oppressione che offre false pretese di cambiamento. Ne consegue che c'è da aspettarsi l’arrivo di nuovi volti pronti a perpetuare le stesse politiche, che non concedono niente se non quando la rabbia delle masse si fa sentire. Questa è la realtà oggi, sulla soluzione ancora ci sono dubbi ma i pronostici favoriscono sempre i forti. di Stephen Lendman Fonte: www.uruknet.info |
Iscriviti a:
Post (Atom)