L’informazione pubblica in Italia, specialmente quella radiotelevisiva, sta scivolando ormai da tempo lungo una deriva che la vede ridotta al ruolo di mero strumento propagandistico di una democrazia totalitaria.
In un sistema liberale, basato sul consenso dei cittadini-elettori, essenziale, per il potere, è il modo in cui essi vengono informati degli eventi: chi controlla l’informazione è in grado di esercitare un fortissimo condizionamento anche sulla formazione delle loro opinioni e, di conseguenza, sulle loro scelte politiche.
L’Italia rappresenta un caso fortemente anomalo di sistema liberale, perché in esso il capo del governo e del maggiore partito politico è anche il proprietario di una larga fetta del sistema dell’informazione e al tempo stesso, nell’esercizio del suo ruolo istituzionale, è in condizioni di esercitare una forte pressione anche sul sistema della televisione di Stato.
Da diversi anni, ormai, assistiamo con tristezza allo spegnersi dell’autentico spirito della libera informazione, basato sul rispetto delle voci critiche e sulla pluralità dei commenti, nonché sulla correttezza e sulla imparzialità della divulgazione dei fatti e su una ragionevole valutazione della loro rispettiva importanza: per cui, ad esempio, la notizia di quanto sta accadendo in Egitto in questi giorni dovrebbe venire prima di qualche fatto, pur drammatico, della cronaca nera di casa nostra, o, a maggior ragione, della pubblicità, camuffata da notizia del telegiornale, della fabbricazione dell’ultimo modello di automobile.
In un Paese ove la stampa è sempre stata condizionata da interessi finanziari e industriali, per non parlare delle televisioni commerciali, la doverosa distinzione tra i fatti e le opinioni è sempre stata pericolosamente ambigua e sfumata; ma, da alcuni anni a questa parte, anche le ultime apparenze di rispetto della verità sono state abbandonate e il sistema della informazione pubblica è caduto in basso, come non era mai accaduto prima.
Il risultato è che, per sapere cosa stia succedendo veramente in Italia, come pure nel resto del mondo, bisogna ormai affidarsi ai mezzi d’informazione stranieri; come avviene nelle dittature “classiche”, infatti, i nostri mass-media sono diventati largamente inattendibili, ammaestrati dalla prepotenza del potere politico e asserviti sempre più agli interessi finanziari e industriali, la cui pressione si è fatta ormai insostenibile per ogni voce libera e fuori dal coro.
I migliori, ormai, se ne vanno o stanno seriamente pensando di andarsene; sembra impossibile rimanere nella pubblica informazione e, al tempo stesso, conservare un minimo di dignità e di stima per se stessi, non parliamo poi di tutelare gli interessi del pubblico.
Restano i servi, gli adulatori, gli uomini e le donne per tutte le stagioni; restano, con profitto, gli avidi, gli ambiziosi e gli amorali; restano, ma con difficoltà sempre più grandi, addirittura con un senso di intima ripugnanza, quanti vogliono rimanere fedeli a un’idea alta di ciò che dovrebbe essere la pubblica informazione in un Paese realmente libero.
Verrebbe quasi da dire, parafrasando Robespierre davanti al colpo di Stato del 9 Termidoro: «I briganti trionfano; la Repubblica è perduta.»
Una lezione di dignità e di fermezza è venuta, il 21 maggio del 2010, dalla giornalista Maria Luisa Busi, conduttrice del TG1 - ossia della maggiore testata televisiva della Rai - che, con una lettera aperta al direttore Augusto Minzolini, spiegava le ragioni delle proprie dimissioni.
Vale la pena di riportarne i passi salienti:
« Amo questo giornale, dove lavoro da 21 anni. Perché è un grande giornale. E' stato il giornale di Vespa, Frajese, Longhi, Morrione, Fava, Giuntella. Il giornale delle culture diverse, delle idee diverse. Le conteneva tutte, era questa la sua ricchezza. Era il loro giornale, il nostro giornale. Anche dei colleghi che hai rimosso dai loro incarichi e di molti altri qui dentro che sono stati emarginati. Questo è il giornale che ha sempre parlato a tutto il Paese. Il giornale degli italiani. Il giornale che ha dato voce a tutte le voci. Non è mai stato il giornale di una voce sola. Oggi l'informazione del Tg1 è un'informazione parziale e di parte. Dov'è il Paese reale? Dove sono le donne della vita reale? Quelle che devono aspettare mesi per una mammografia, se non possono pagarla? Quelle coi salari peggiori d'Europa, quelle che fanno fatica ogni giorno ad andare avanti perché negli asili nido non c'è posto per tutti i nostri figli? Devono farsi levare il sangue e morire per avere l'onore di un nostro titolo. E dove sono le donne e gli uomini che hanno perso il lavoro? Un milione di persone, dietro alle quali ci sono le loro famiglie. Dove sono i giovani, per la prima volta con un futuro peggiore dei padri? E i quarantenni ancora precari, a 800 euro al mese, che non possono comprare neanche un divano, figuriamoci mettere al mondo un figlio? E dove sono i cassintegrati dell'Alitalia? Che fine hanno fatto? E le centinaia di aziende che chiudono e gli imprenditori del nord est che si tolgono la vita perché falliti? Dov'è questa Italia che abbiamo il dovere di raccontare? Quell'Italia esiste. Ma il tg1 l'ha eliminata. Anche io compro la carta igienica per mia figlia che frequenta la prima elementare in una scuola pubblica. Ma la sera, nel Tg1 delle 20, diamo spazio solo ai ministri Gelmini e Brunetta che presentano il nuovo grande progetto per la digitalizzazione della scuola, compreso di lavagna interattiva multimediale".
"L'Italia che vive una drammatica crisi sociale è finita nel binario morto della nostra indifferenza. Schiacciata tra un'informazione di parte - un editoriale sulla giustizia, uno contro i pentiti di mafia, un altro sull'inchiesta di Trani nel quale hai affermato di non essere indagato, smentito dai fatti il giorno dopo - e l'infotainment quotidiano: da quante volte occorre lavarsi le mani ogni giorno, alla caccia al coccodrillo nel lago, alle mutande antiscippo. Una scelta editoriale con la quale stiamo arricchendo le sceneggiature dei programmi di satira e impoverendo la nostra reputazione di primo giornale del servizio pubblico della più importante azienda culturale del Paese. Oltre che i cittadini, ne fanno le spese tanti bravi colleghi che potrebbero dedicarsi con maggiore soddisfazione a ben altre inchieste di più alto profilo e interesse generale".»
Vale la pena, inoltre, di ricordare che un fatto di altro genere, ma non meno grave, si è verificato il 28 settembre 2010, a Napoli, quando la giornalista di Sky tg24, Alessandra Del Mondo, mentre si avvicinava con il microfono al ministro del’Interno, Maroni, in visita a quella città, per rivolgergli una domanda, è stata sollevata di peso e brutalmente stretta da una guardia della scorta, subendo uno schiacciamento toracico e un principio di asfissia, che l’hanno costretta a presentarsi al pronto soccorso.
Il fatto, che sarebbe stato inconcepibile in Paesi come la Germania, la Francia o la Gran Bretagna, anche se non ha avuto, fortunatamente, conseguenze serie per l’interessata, la dice lunga sulla barriera, anche fisica, che ormai separa i signori del Palazzo dalla gente comune e sulla loro sempre più manifesta antipatia per il mondo del giornalismo e della pubblica informazione, a meno che esso si presenti nelle vesti di supino trasmettitore di notizie edulcorate, manipolate, imbellettate e, soprattutto, debitamente censurate.
Chi non ricorda come l’attuale capo del governo, proprietario di una buona metà dei mezzi d’informazione di questo Paese, e in grado di influenzare attivamente l’altra metà, si sia continuamente lamentato delle “bugie” che, a suo dire, stampa e televisione raccontano su di lui, solo perché, di tanto in tanto, osano parlare anche in termini critici delle sue azioni pubbliche e private; e di come egli abbia spinto la propria impudenza fino ad invitare gli Italiani a non comperare più i giornali?
Qualcuno riesce ad immaginarsi Obama, Sarkozy o la signora Merkel che rivolgono senza arrossire un tale, stupefacente appello ai propri concittadini?
La casta si è asserragliata nella propria cittadella e, pur se sbandiera ad ogni pie’ sospinto l’esito favorevole degli ultimi sondaggi e la legittimazione popolare ricevuta nell’ultima tornata elettorale, di fatto si chiude a riccio nella difesa dei propri privilegi e si adopera affinché l’immagine che della realtà forniscono i mezzi d’informazione sia conforme al proprio disegno egemonico e supinamente acquiescente alla propria feroce volontà di autoconservazione.
Questa non è più democrazia, ma una parodia della democrazia; peggio ancora: l’estrema e più sfacciata prostituzione demagogica della democrazia; una democrazia che, ormai, in poco o nulla si differenzia dalla più ottusa da quelle dittature che esercitano un controllo esplicito e diretto sui mezzi d’informazione, censurandoli a man salva e piegandoli ai propri obiettivi propagandistici, senza ombra di esitazione o d’imbarazzo.
Appunto, una democrazia totalitaria, che considera alla stregua di un attentato ogni voce di dissenso; ogni critica, anche la più legittima e fondata, come un tentativo di eversione dell’ordine costituito, cioè dell’ordine “democratico”.
Ora, la domanda che sorge spontanea è la seguente: come è potuto accadere che tutto ciò si verificasse, nel nostro Paese, sotto i nostri occhi, senza che noi reagissimo per tempo, perfino senza che ci rendessimo conto di quanto si stava preparando?
Vi erano delle debolezze strutturali, non solo nel nostro sistema politico e sociale, ma anche nella nostra cultura e nel nostro stesso carattere nazionale; delle debolezze che puntualmente vengono al pettine, nella storia italiana, ogni volta che il distacco fra la casta ed il popolo oltrepassa ogni limite tollerabile.
Caporetto, per esempio, il grande “sciopero militare”, è il frutto del modo in cui il Paese fu trascinato in guerra, per calcoli tutto sommato meschini, da una classe dirigente irresponsabile, contro i sentimenti di gran parte della nazione; mentre l’8 settembre 1943, la data forse più vergognosa di tutta la nostra storia recente, è stata il risultato di un antico vizio del carattere nazionale: quello di voler saltare sempre, magari all’ultimo momento, sul carro del vincitore di turno, rifiutando l’assunzione di una seria responsabilità collettiva.
Anche la situazione odierna dell’informazione pubblica ricorda per metà una Caporetto e per metà un otto settembre: come la prima, esprime lo scollamento indecente fra il potere e la gente comune; come il secondo, tradisce la mediocre furberia del tirare a campare, del barcamenarsi fra mille espedienti, nonché la mancanza di dignità davanti alla resa dei conti.
Come potremo uscire da tanto avvilimento, come potremo tornare ad essere un Paese serio e fiero di se stesso? Un Paese dove l’informazione sia al servizio dei cittadini e non dei poteri forti, tutta impegnata a spegnere l’ultimo barlume di spirito critico e a scatenare, a comando, l’ennesima offensiva a base di calunnie contro questo o quel personaggio scomodo, prona agli ordini che vengono dall’alto, mentre le autentiche infamie dei signori del Palazzo vengono scusate e giustificate in infiniti modi?
Una cosa è certa: non basterà un cambio del premier, non basterà un cambio del governo; e nemmeno, se pure vi sarà, un cambio della maggioranza politica.
Non è vero che la sinistra è il Bene e che la destra è il Male: la cialtroneria è un vizio diffuso in tutta la nostra classe politica.
È vero, semmai, che la destra, negli ultimi vent’anni, è stata incantata e sedotta da un avventuriero senza scrupoli, che ha imposto al Paese, nei più alti livelli istituzionali, una accolita di personaggi semplicemente indecorosi, di una arroganza pari soltanto alla loro smaccata mancanza di senso dello Stato e di sollecitudine per il bene comune.
No: per avere una informazione pubblica degna di questo nome, sarà necessaria una profonda riforma morale e, al tempo stesso, una legislazione severa, che interdica la concentrazione dei mezzi d’informazione nelle mani di un singolo individuo o di un singolo gruppo finanziario e che tracci una linea chiara, rigorosa, invalicabile, fra il potere economico, il potere politico e quello dell’informazione stessa.
Ma nessuna legislazione potrà metterci al riparo dai nostri vizi, dalle nostre vigliaccherie, dalle nostre piccole furberie, se noi, come popolo, non decideremo di ritrovare la stima di noi stessi.
di di Francesco Lamendola