24 febbraio 2011

Nel precipizio



Le notizie che arrivano sono di vera e propria guerra contro civili in rivolta, quindi di massacro. Quel che Gheddafi aveva sempre promesso, che mai avrebbe rivoltato le armi contro il suo popolo, anche questa è una promessa non mantenuta. È tempo che se ne vada, è tempo che si intravveda oltre il bagno di sangue una soluzione di mediazione che, come in Egitto e Tunisia, non può non cominciare che con l'uscita di scena di Muammar Gheddafi al potere assoluto da quarantuno anni.

È tempo che l'Occidente scopra nel nuovo processo di democratizzazione avviato con le rivolte di massa in Medio Oriente non il pericolo dell'integralismo islamico, ma una risorsa per pensare diversamente quel mondo e insieme le nostre società blindate. Ora che finalmente anche le Nazioni unite alzano la voce, chi ha amato quel popolo e quel paese non può tacere.

Come fa il governo italiano che si nasconde dietro le dichiarazioni, dell'ultimo momento, di un'Unione europea più preoccupata dei suoi affari che delle società e di quei popoli. Dunque, dobbiamo dire la verità per fermare il sangue che scorre a Tripoli, a Bengasi e in tutto la Libia. Innanzitutto dobbiamo fare quello che non abbiamo fatto con il Trattato Italia-Libia del 2008.

Lo sapevamo benissimo che Gheddafi era un dittatore, che in Libia non c'è rispetto per i diritti umani. E quindi quando abbiamo firmato come Italia quel trattato, abbiamo voluto ratificare solo un accordo di carattere economico, commerciale, capace di fermare la disperazione dell'immigrazione africana in nuovi campi di concentramento. Ma non politico. Abbiamo fatto un errore gravissimo. Un errore che ci stiamo trascinando ancora oggi perché i nostri responsabili al governo non hanno il coraggio di affrontare la situazione e dire adesso basta a chiedere a chiare lettere: «Hai guidato per 41 anni questo paese, hai fatto del tuo meglio, adesso lascia il posto ad altri». Questa dovrebbe essere la richiesta precisa. Ma i fatti che si affollano mentre scriviamo, ci dicono che il precipizio purtroppo c'è già. Perché in un certo senso Gheddafi sta pagando due errori fondamentali della sua politica. Ha dimenticato che una parte decisiva della Libia, la Cirenaica, è ancora pervasa del mito della Senussia e di Omar el Mukhtar - quello impiccato dagli italiani. E i dimostranti inneggiano a el Mukhtar. Fatto ancora più grave, Gheddafi ha invece sempre minimizzato l'importanza delle tribù del Gebel, della «montagna», che sono a 50 km da Tripoli. Gli Orfella, gli Zintan, i Roseban, queste grandi tribù della montagna che sono le stesse che hanno messo nei pasticci gli italiani nel 1911.

Gheddafi ha sempre minimizzato l'importanza di queste componenti numerose - gli Orfella sono 90mila persone - nella lotta di liberazione e nella ricostruzione della nuova Libia. Così è covato per decenni un sordo risentimento che ora li vede associati, se non alla guida dei rivoltosi con i quali, in queste ore, stanno marciando verso Tripoli. Insomma è l'intera storia della Libia che si «riavvolge» e contraddice il regime del Colonnello. Se solo pensiamo a pochi mesi fa, quando Berlusconi e Gheddafi presenziavano in una caserna romana dei carabinieri ad un caravanserraglio, con giostre di cavalieri. Viene la domanda oggettiva: ma come ha fatto a non accorgersi che tutto il mondo che aveva costruito era in crisi drammatica? Lui che aspirava a presentarsi come il leader dell'intero continente africano, non aveva nemmeno la sensazione dei limiti del suo governo e della tragedia che si consumava nella sua patria. Eppure Gheddafi non è stato solo un fantoccio, come Ben Ali e Hosni Mubarak.

Quando fu protagonista del colpo di stato nel '69 aveva davanti a sé un paese pieno di piccole organizzazioni, clanico, e lui ha contribuito a farne una nazione. In un anno ha cacciato le basi militari americane e inglesi, ha espulso i 20mila italiani che costituivano ancora un retaggio del colonialismo. Insomma ha cercato di fare della Libia una nazione. E per molti anni la Libia è stata considerata una nazione. Era solo una presunzione, ora lo sappiamo. Era una presunzione ridurre ad un solo uomo quel progetto che doveva appartenere davvero a tutto il popolo - non solo ai «comitati del popolo» voluti dal regime. Qui ha fallito.

Quando si è autorappresentato come l'unico responsabile dell'abbattimento del colonialismo e del fronteggiamento dell'imperialismo. Riducendo ad una persona le istituzioni libiche, la storia di quel paese, le aspirazioni diffuse. Quando è venuto in Italia aveva sulla divisa la foto dell'eroe anti-italiano Omar el Mukhtar. Ma era solo una provocazione soggettiva, come a dire «Io non dimentico». Ma il fatto di avere sottovalutato l'importanza di tutte le tribù della montagna, cioè della società politica che ha prodotto la nascita della Libia, è stato l'errore più grave. Perché sono le componenti fondamentali che avevano fatto la resistenza, la liberazione e poi avevano fatto crescere il paese.

La situazione adesso, purtroppo, è oltre. Io penso con dolore che ormai tutti gli appelli sono troppo in ritardo. Il fatto stesso che le tribù della montagna scendano a Tripoli per liberarla, mi dà la misura della svolta nel precipizio.
Il gruppo degli anziani, dei saggi, ha detto che bisogna abbattere Gheddafi. Esattamente con queste parole: «Invitiamo alla lotta contro chi non sa governare», hanno dichiarato gli anziani degli Orfella; mentre i vicini capi degli Zentan chiedevano «ai giovani di combattere e ai militari di disertare e di portare l'inferno a Gheddafi». È questa la novità della crisi libica. La rivolta storica della generazione degli anziani della generazione, dei veterani. Una conferma che viene anche dal Cairo, dove il rappresentate libico nella Lega araba Abdel Moneim al-Honi si è dimesso per unirsi ai rivoltosi. È una notizia importantissima, perché è uno dei famosi «11 ufficiali» che hanno fatto la rivolta nel '69 con Gheddafi. E insieme, della generazione dei giovani e giovanissimi. Quei giovanissimi che hanno fatto la rivolta per motivi di disperazione sociale, con una altissima disoccupazione al 30%. Un dato che svela la favola della buona redistribuzione delle ricchezze energetiche libiche. E le chiacchiere di un «socialismo popolarista» rimasto sulla carta del «Libro Verde» del Colonnello.

La summa del suo pensiero che gli è servito per minimizzare l'apporto politico degli altri protagonisti della rivoluzione. Incontrandolo in una intervista del 1986, lui ammise che il «Libro Verde» era fallito e che la Libia era ancora «nera» non verde. Ora è anche rossa del sangue del suo popolo che lui ha versato. Per l'ultima volta.
di Angelo Del Boca

23 febbraio 2011

L’informazione pubblica sta scivolando nella deriva della democrazia totalitaria

L’informazione pubblica in Italia, specialmente quella radiotelevisiva, sta scivolando ormai da tempo lungo una deriva che la vede ridotta al ruolo di mero strumento propagandistico di una democrazia totalitaria.
In un sistema liberale, basato sul consenso dei cittadini-elettori, essenziale, per il potere, è il modo in cui essi vengono informati degli eventi: chi controlla l’informazione è in grado di esercitare un fortissimo condizionamento anche sulla formazione delle loro opinioni e, di conseguenza, sulle loro scelte politiche.
L’Italia rappresenta un caso fortemente anomalo di sistema liberale, perché in esso il capo del governo e del maggiore partito politico è anche il proprietario di una larga fetta del sistema dell’informazione e al tempo stesso, nell’esercizio del suo ruolo istituzionale, è in condizioni di esercitare una forte pressione anche sul sistema della televisione di Stato.
Da diversi anni, ormai, assistiamo con tristezza allo spegnersi dell’autentico spirito della libera informazione, basato sul rispetto delle voci critiche e sulla pluralità dei commenti, nonché sulla correttezza e sulla imparzialità della divulgazione dei fatti e su una ragionevole valutazione della loro rispettiva importanza: per cui, ad esempio, la notizia di quanto sta accadendo in Egitto in questi giorni dovrebbe venire prima di qualche fatto, pur drammatico, della cronaca nera di casa nostra, o, a maggior ragione, della pubblicità, camuffata da notizia del telegiornale, della fabbricazione dell’ultimo modello di automobile.
In un Paese ove la stampa è sempre stata condizionata da interessi finanziari e industriali, per non parlare delle televisioni commerciali, la doverosa distinzione tra i fatti e le opinioni è sempre stata pericolosamente ambigua e sfumata; ma, da alcuni anni a questa parte, anche le ultime apparenze di rispetto della verità sono state abbandonate e il sistema della informazione pubblica è caduto in basso, come non era mai accaduto prima.
Il risultato è che, per sapere cosa stia succedendo veramente in Italia, come pure nel resto del mondo, bisogna ormai affidarsi ai mezzi d’informazione stranieri; come avviene nelle dittature “classiche”, infatti, i nostri mass-media sono diventati largamente inattendibili, ammaestrati dalla prepotenza del potere politico e asserviti sempre più agli interessi finanziari e industriali, la cui pressione si è fatta ormai insostenibile per ogni voce libera e fuori dal coro.
I migliori, ormai, se ne vanno o stanno seriamente pensando di andarsene; sembra impossibile rimanere nella pubblica informazione e, al tempo stesso, conservare un minimo di dignità e di stima per se stessi, non parliamo poi di tutelare gli interessi del pubblico.
Restano i servi, gli adulatori, gli uomini e le donne per tutte le stagioni; restano, con profitto, gli avidi, gli ambiziosi e gli amorali; restano, ma con difficoltà sempre più grandi, addirittura con un senso di intima ripugnanza, quanti vogliono rimanere fedeli a un’idea alta di ciò che dovrebbe essere la pubblica informazione in un Paese realmente libero.
Verrebbe quasi da dire, parafrasando Robespierre davanti al colpo di Stato del 9 Termidoro: «I briganti trionfano; la Repubblica è perduta.»
Una lezione di dignità e di fermezza è venuta, il 21 maggio del 2010, dalla giornalista Maria Luisa Busi, conduttrice del TG1 - ossia della maggiore testata televisiva della Rai - che, con una lettera aperta al direttore Augusto Minzolini, spiegava le ragioni delle proprie dimissioni.
Vale la pena di riportarne i passi salienti:

« Amo questo giornale, dove lavoro da 21 anni. Perché è un grande giornale. E' stato il giornale di Vespa, Frajese, Longhi, Morrione, Fava, Giuntella. Il giornale delle culture diverse, delle idee diverse. Le conteneva tutte, era questa la sua ricchezza. Era il loro giornale, il nostro giornale. Anche dei colleghi che hai rimosso dai loro incarichi e di molti altri qui dentro che sono stati emarginati. Questo è il giornale che ha sempre parlato a tutto il Paese. Il giornale degli italiani. Il giornale che ha dato voce a tutte le voci. Non è mai stato il giornale di una voce sola. Oggi l'informazione del Tg1 è un'informazione parziale e di parte. Dov'è il Paese reale? Dove sono le donne della vita reale? Quelle che devono aspettare mesi per una mammografia, se non possono pagarla? Quelle coi salari peggiori d'Europa, quelle che fanno fatica ogni giorno ad andare avanti perché negli asili nido non c'è posto per tutti i nostri figli? Devono farsi levare il sangue e morire per avere l'onore di un nostro titolo. E dove sono le donne e gli uomini che hanno perso il lavoro? Un milione di persone, dietro alle quali ci sono le loro famiglie. Dove sono i giovani, per la prima volta con un futuro peggiore dei padri? E i quarantenni ancora precari, a 800 euro al mese, che non possono comprare neanche un divano, figuriamoci mettere al mondo un figlio? E dove sono i cassintegrati dell'Alitalia? Che fine hanno fatto? E le centinaia di aziende che chiudono e gli imprenditori del nord est che si tolgono la vita perché falliti? Dov'è questa Italia che abbiamo il dovere di raccontare? Quell'Italia esiste. Ma il tg1 l'ha eliminata. Anche io compro la carta igienica per mia figlia che frequenta la prima elementare in una scuola pubblica. Ma la sera, nel Tg1 delle 20, diamo spazio solo ai ministri Gelmini e Brunetta che presentano il nuovo grande progetto per la digitalizzazione della scuola, compreso di lavagna interattiva multimediale".
"L'Italia che vive una drammatica crisi sociale è finita nel binario morto della nostra indifferenza. Schiacciata tra un'informazione di parte - un editoriale sulla giustizia, uno contro i pentiti di mafia, un altro sull'inchiesta di Trani nel quale hai affermato di non essere indagato, smentito dai fatti il giorno dopo - e l'infotainment quotidiano: da quante volte occorre lavarsi le mani ogni giorno, alla caccia al coccodrillo nel lago, alle mutande antiscippo. Una scelta editoriale con la quale stiamo arricchendo le sceneggiature dei programmi di satira e impoverendo la nostra reputazione di primo giornale del servizio pubblico della più importante azienda culturale del Paese. Oltre che i cittadini, ne fanno le spese tanti bravi colleghi che potrebbero dedicarsi con maggiore soddisfazione a ben altre inchieste di più alto profilo e interesse generale".»

Vale la pena, inoltre, di ricordare che un fatto di altro genere, ma non meno grave, si è verificato il 28 settembre 2010, a Napoli, quando la giornalista di Sky tg24, Alessandra Del Mondo, mentre si avvicinava con il microfono al ministro del’Interno, Maroni, in visita a quella città, per rivolgergli una domanda, è stata sollevata di peso e brutalmente stretta da una guardia della scorta, subendo uno schiacciamento toracico e un principio di asfissia, che l’hanno costretta a presentarsi al pronto soccorso.
Il fatto, che sarebbe stato inconcepibile in Paesi come la Germania, la Francia o la Gran Bretagna, anche se non ha avuto, fortunatamente, conseguenze serie per l’interessata, la dice lunga sulla barriera, anche fisica, che ormai separa i signori del Palazzo dalla gente comune e sulla loro sempre più manifesta antipatia per il mondo del giornalismo e della pubblica informazione, a meno che esso si presenti nelle vesti di supino trasmettitore di notizie edulcorate, manipolate, imbellettate e, soprattutto, debitamente censurate.
Chi non ricorda come l’attuale capo del governo, proprietario di una buona metà dei mezzi d’informazione di questo Paese, e in grado di influenzare attivamente l’altra metà, si sia continuamente lamentato delle “bugie” che, a suo dire, stampa e televisione raccontano su di lui, solo perché, di tanto in tanto, osano parlare anche in termini critici delle sue azioni pubbliche e private; e di come egli abbia spinto la propria impudenza fino ad invitare gli Italiani a non comperare più i giornali?
Qualcuno riesce ad immaginarsi Obama, Sarkozy o la signora Merkel che rivolgono senza arrossire un tale, stupefacente appello ai propri concittadini?
La casta si è asserragliata nella propria cittadella e, pur se sbandiera ad ogni pie’ sospinto l’esito favorevole degli ultimi sondaggi e la legittimazione popolare ricevuta nell’ultima tornata elettorale, di fatto si chiude a riccio nella difesa dei propri privilegi e si adopera affinché l’immagine che della realtà forniscono i mezzi d’informazione sia conforme al proprio disegno egemonico e supinamente acquiescente alla propria feroce volontà di autoconservazione.
Questa non è più democrazia, ma una parodia della democrazia; peggio ancora: l’estrema e più sfacciata prostituzione demagogica della democrazia; una democrazia che, ormai, in poco o nulla si differenzia dalla più ottusa da quelle dittature che esercitano un controllo esplicito e diretto sui mezzi d’informazione, censurandoli a man salva e piegandoli ai propri obiettivi propagandistici, senza ombra di esitazione o d’imbarazzo.
Appunto, una democrazia totalitaria, che considera alla stregua di un attentato ogni voce di dissenso; ogni critica, anche la più legittima e fondata, come un tentativo di eversione dell’ordine costituito, cioè dell’ordine “democratico”.
Ora, la domanda che sorge spontanea è la seguente: come è potuto accadere che tutto ciò si verificasse, nel nostro Paese, sotto i nostri occhi, senza che noi reagissimo per tempo, perfino senza che ci rendessimo conto di quanto si stava preparando?
Vi erano delle debolezze strutturali, non solo nel nostro sistema politico e sociale, ma anche nella nostra cultura e nel nostro stesso carattere nazionale; delle debolezze che puntualmente vengono al pettine, nella storia italiana, ogni volta che il distacco fra la casta ed il popolo oltrepassa ogni limite tollerabile.
Caporetto, per esempio, il grande “sciopero militare”, è il frutto del modo in cui il Paese fu trascinato in guerra, per calcoli tutto sommato meschini, da una classe dirigente irresponsabile, contro i sentimenti di gran parte della nazione; mentre l’8 settembre 1943, la data forse più vergognosa di tutta la nostra storia recente, è stata il risultato di un antico vizio del carattere nazionale: quello di voler saltare sempre, magari all’ultimo momento, sul carro del vincitore di turno, rifiutando l’assunzione di una seria responsabilità collettiva.
Anche la situazione odierna dell’informazione pubblica ricorda per metà una Caporetto e per metà un otto settembre: come la prima, esprime lo scollamento indecente fra il potere e la gente comune; come il secondo, tradisce la mediocre furberia del tirare a campare, del barcamenarsi fra mille espedienti, nonché la mancanza di dignità davanti alla resa dei conti.
Come potremo uscire da tanto avvilimento, come potremo tornare ad essere un Paese serio e fiero di se stesso? Un Paese dove l’informazione sia al servizio dei cittadini e non dei poteri forti, tutta impegnata a spegnere l’ultimo barlume di spirito critico e a scatenare, a comando, l’ennesima offensiva a base di calunnie contro questo o quel personaggio scomodo, prona agli ordini che vengono dall’alto, mentre le autentiche infamie dei signori del Palazzo vengono scusate e giustificate in infiniti modi?
Una cosa è certa: non basterà un cambio del premier, non basterà un cambio del governo; e nemmeno, se pure vi sarà, un cambio della maggioranza politica.
Non è vero che la sinistra è il Bene e che la destra è il Male: la cialtroneria è un vizio diffuso in tutta la nostra classe politica.
È vero, semmai, che la destra, negli ultimi vent’anni, è stata incantata e sedotta da un avventuriero senza scrupoli, che ha imposto al Paese, nei più alti livelli istituzionali, una accolita di personaggi semplicemente indecorosi, di una arroganza pari soltanto alla loro smaccata mancanza di senso dello Stato e di sollecitudine per il bene comune.
No: per avere una informazione pubblica degna di questo nome, sarà necessaria una profonda riforma morale e, al tempo stesso, una legislazione severa, che interdica la concentrazione dei mezzi d’informazione nelle mani di un singolo individuo o di un singolo gruppo finanziario e che tracci una linea chiara, rigorosa, invalicabile, fra il potere economico, il potere politico e quello dell’informazione stessa.
Ma nessuna legislazione potrà metterci al riparo dai nostri vizi, dalle nostre vigliaccherie, dalle nostre piccole furberie, se noi, come popolo, non decideremo di ritrovare la stima di noi stessi.

di di Francesco Lamendola

22 febbraio 2011

I guasti del denaro, ultimo totem

http://m2.paperblog.com/i/18/181453/lavidita-come-comportamento-anti-prosociale-L-RoedIW.jpeg



Il libro di Vittorino Andreoli, Il denaro in testa (Rizzoli), fa ripensare al peso di questo fattore, nefasto ma sempre mutevole. Tutta la storia dell’uomo narra le violenze fatte e le angherie subite, nel nome dei suoi grandi totem: il denaro e le religioni. Dio e Mammona hanno sempre trovato nel potere i loro modi di sontuosa convivenza; nel reciproco interesse. Alla fine, Andreoli elenca i bisogni veri dell’uomo: la sicurezza, l’amore, la continuità della vita attraverso i figli, la serenità e la gioia (più necessarie della libertà, scrive, e viene in mente l’arringa a Gesù del Grande Inquisitore) e così via.«Per nessuno di questi bisogni serve il denaro, semmai aiuta a soddisfarli meglio».

È questo, però, il problema. Certo, le società moderne sono tanto disossate da far dire a Margaret Thatcher (che ci ha messo del suo): «La società non esiste». Non credo però che, neanche in quell’era dorata che ci pare il nostro Rinascimento, si vivesse come in un’orchestra nella quale, «se tutti sono adeguatamente coordinati e danno il loro contributo all’insieme, la vita può diventare l’esecuzione della Nona sinfonia di Beethoven».

Da tempo, certo, il denaro deborda ben oltre i limiti propri di una convivenza ordinata. Da quando la società anonima ha circoscritto le responsabilità degli investitori, sono partite innovazioni che hanno rivoluzionato la vita; la ricchezza mobiliare fa a meno della terra, onde l’aristocrazia traeva potere e ricchezza. Ciò aumenta il numero dei ricchi, quindi la paura di diventare poveri; è chi sta male a sperare di stare meglio. I guadagni sono celati, le perdite lamentate in pubblico.

La finanza ha messo il turbo ai guadagni privati e alle perdite che le crisi finanziarie addossano al contribuente; se si può anticipare l’incasso anche di anni lontani, la tentazione di vendersi il vitello in pancia alla vacca mina il futuro. Ma il passato, aureo o no, non tornerà. Fra il 1950 e la metà degli anni Settanta gli eccessi del denaro non erano così visibili e dannosi. Le disuguaglianze erano minori.

Le paghe dei megamanager avevano un rapporto con il loro lavoro, erano cinquanta volte quelle dei loro dipendenti, non cinquecento o mille; la deontologia professionale reggeva. Ciò costava nell’immediato, ma la reputazione era fonte di guadagni futuri; gli auditor non certificavano bilanci falsi per tenersi il cliente, le banche - settore sonnolento - non concedevano mutui farlocchi da rifilare a sprovveduti, vogliosi di strappare un lacerto di carne. La fine dello spauracchio comunista allentò le difese del capitalismo, mostrandone il volto peggiore; gli incassi immediati contarono più della reputazione.

I giudizi di Andreoli su finanzieri e imprenditori paiono a volte troppo tranchant; se (quasi tutti) sono mossi dalla maledetta fame di denaro, accostarli ai criminali è un po’ forte. E magari non è il mondo a essere mutato, ma la maggior esperienza di vita a mettere a nudo la realtà. Poco praticabili sono poi alcune sue ricette: sarebbe sì desiderabile che la psicologia dettasse all’economia la «giusta distribuzione dei compiti e dei mezzi... tenendo conto delle differenze, degli impegni e delle necessità di ognuno».

I tanti tentativi in tal senso della politica, tuttavia, pur ispirati alle migliori intenzioni, dicono che l’economia di mercato è il peggior allocatore delle risorse, a parte gli altri sistemi: come quella democrazia che con lei si è sviluppata, ma che dai suoi eccessi è messa a rischio. Ignoriamo gli esiti di una grave crisi che di quelle disuguaglianze s’è nutrita e deve ancora dispiegare le sue conseguenze economiche, sociali e politiche; la difesa, coltello fra i denti, della ricchezza impaurita ci darà forse brutte sorprese.

La direzione presa dal sistema negli ultimi trent’anni - più economia di business che di mercato - può farci tornare al punto di partenza; con la democrazia che conserva le forme ma trasmuta in aristocrazia, non della terra ma del denaro. Se per essere eletti servono troppi soldi, vince il più ricco o chi meglio si vende ai vested interest; con l’aiuto, troppo ignorato, di una tv che ha prima unito l’Italia, poi sfibrato gli italiani.

Le parole di Andreoli evocano nel lettore la sapienza laica - per cui è sventurato l’uomo che non dona e muore ricco - e religiosa: dalla «preghiera semplice» di Francesco - «È dando che si riceve» - al Vangelo: «Eppure vi dico che nemmeno Salomone in tutto il suo splendore fu mai vestito come i gigli del campo». Se hai bisogno di aiuto, si dice, chiedilo a un povero, lui ti aiuterà.

La ricchezza ci chiude, invece di aprirci al dono; fortunato chi per la cruna dell’ago sfugge a questa morsa. La povertà oggi diviene peccato, dice l’autore; peggio, il governo la considera spesso reato. Chi nasce povero ha più probabilità di restarlo oggi che nello scorso secolo breve.La meta dell’uguaglianza dei punti di partenza, topos della democrazia liberale, che è morta con la tassa di successione, va risuscitata; deve però cessare l’atomizzazione dei saperi, deprecata dall’autore, per cui gli intellettuali più non leggono i libri di economia. Le colpe sono equamente ripartite, ma ricordiamolo: Adam Smith insegnava filosofia morale, non econometrica.
di Salvatore Bragantini

24 febbraio 2011

Nel precipizio



Le notizie che arrivano sono di vera e propria guerra contro civili in rivolta, quindi di massacro. Quel che Gheddafi aveva sempre promesso, che mai avrebbe rivoltato le armi contro il suo popolo, anche questa è una promessa non mantenuta. È tempo che se ne vada, è tempo che si intravveda oltre il bagno di sangue una soluzione di mediazione che, come in Egitto e Tunisia, non può non cominciare che con l'uscita di scena di Muammar Gheddafi al potere assoluto da quarantuno anni.

È tempo che l'Occidente scopra nel nuovo processo di democratizzazione avviato con le rivolte di massa in Medio Oriente non il pericolo dell'integralismo islamico, ma una risorsa per pensare diversamente quel mondo e insieme le nostre società blindate. Ora che finalmente anche le Nazioni unite alzano la voce, chi ha amato quel popolo e quel paese non può tacere.

Come fa il governo italiano che si nasconde dietro le dichiarazioni, dell'ultimo momento, di un'Unione europea più preoccupata dei suoi affari che delle società e di quei popoli. Dunque, dobbiamo dire la verità per fermare il sangue che scorre a Tripoli, a Bengasi e in tutto la Libia. Innanzitutto dobbiamo fare quello che non abbiamo fatto con il Trattato Italia-Libia del 2008.

Lo sapevamo benissimo che Gheddafi era un dittatore, che in Libia non c'è rispetto per i diritti umani. E quindi quando abbiamo firmato come Italia quel trattato, abbiamo voluto ratificare solo un accordo di carattere economico, commerciale, capace di fermare la disperazione dell'immigrazione africana in nuovi campi di concentramento. Ma non politico. Abbiamo fatto un errore gravissimo. Un errore che ci stiamo trascinando ancora oggi perché i nostri responsabili al governo non hanno il coraggio di affrontare la situazione e dire adesso basta a chiedere a chiare lettere: «Hai guidato per 41 anni questo paese, hai fatto del tuo meglio, adesso lascia il posto ad altri». Questa dovrebbe essere la richiesta precisa. Ma i fatti che si affollano mentre scriviamo, ci dicono che il precipizio purtroppo c'è già. Perché in un certo senso Gheddafi sta pagando due errori fondamentali della sua politica. Ha dimenticato che una parte decisiva della Libia, la Cirenaica, è ancora pervasa del mito della Senussia e di Omar el Mukhtar - quello impiccato dagli italiani. E i dimostranti inneggiano a el Mukhtar. Fatto ancora più grave, Gheddafi ha invece sempre minimizzato l'importanza delle tribù del Gebel, della «montagna», che sono a 50 km da Tripoli. Gli Orfella, gli Zintan, i Roseban, queste grandi tribù della montagna che sono le stesse che hanno messo nei pasticci gli italiani nel 1911.

Gheddafi ha sempre minimizzato l'importanza di queste componenti numerose - gli Orfella sono 90mila persone - nella lotta di liberazione e nella ricostruzione della nuova Libia. Così è covato per decenni un sordo risentimento che ora li vede associati, se non alla guida dei rivoltosi con i quali, in queste ore, stanno marciando verso Tripoli. Insomma è l'intera storia della Libia che si «riavvolge» e contraddice il regime del Colonnello. Se solo pensiamo a pochi mesi fa, quando Berlusconi e Gheddafi presenziavano in una caserna romana dei carabinieri ad un caravanserraglio, con giostre di cavalieri. Viene la domanda oggettiva: ma come ha fatto a non accorgersi che tutto il mondo che aveva costruito era in crisi drammatica? Lui che aspirava a presentarsi come il leader dell'intero continente africano, non aveva nemmeno la sensazione dei limiti del suo governo e della tragedia che si consumava nella sua patria. Eppure Gheddafi non è stato solo un fantoccio, come Ben Ali e Hosni Mubarak.

Quando fu protagonista del colpo di stato nel '69 aveva davanti a sé un paese pieno di piccole organizzazioni, clanico, e lui ha contribuito a farne una nazione. In un anno ha cacciato le basi militari americane e inglesi, ha espulso i 20mila italiani che costituivano ancora un retaggio del colonialismo. Insomma ha cercato di fare della Libia una nazione. E per molti anni la Libia è stata considerata una nazione. Era solo una presunzione, ora lo sappiamo. Era una presunzione ridurre ad un solo uomo quel progetto che doveva appartenere davvero a tutto il popolo - non solo ai «comitati del popolo» voluti dal regime. Qui ha fallito.

Quando si è autorappresentato come l'unico responsabile dell'abbattimento del colonialismo e del fronteggiamento dell'imperialismo. Riducendo ad una persona le istituzioni libiche, la storia di quel paese, le aspirazioni diffuse. Quando è venuto in Italia aveva sulla divisa la foto dell'eroe anti-italiano Omar el Mukhtar. Ma era solo una provocazione soggettiva, come a dire «Io non dimentico». Ma il fatto di avere sottovalutato l'importanza di tutte le tribù della montagna, cioè della società politica che ha prodotto la nascita della Libia, è stato l'errore più grave. Perché sono le componenti fondamentali che avevano fatto la resistenza, la liberazione e poi avevano fatto crescere il paese.

La situazione adesso, purtroppo, è oltre. Io penso con dolore che ormai tutti gli appelli sono troppo in ritardo. Il fatto stesso che le tribù della montagna scendano a Tripoli per liberarla, mi dà la misura della svolta nel precipizio.
Il gruppo degli anziani, dei saggi, ha detto che bisogna abbattere Gheddafi. Esattamente con queste parole: «Invitiamo alla lotta contro chi non sa governare», hanno dichiarato gli anziani degli Orfella; mentre i vicini capi degli Zentan chiedevano «ai giovani di combattere e ai militari di disertare e di portare l'inferno a Gheddafi». È questa la novità della crisi libica. La rivolta storica della generazione degli anziani della generazione, dei veterani. Una conferma che viene anche dal Cairo, dove il rappresentate libico nella Lega araba Abdel Moneim al-Honi si è dimesso per unirsi ai rivoltosi. È una notizia importantissima, perché è uno dei famosi «11 ufficiali» che hanno fatto la rivolta nel '69 con Gheddafi. E insieme, della generazione dei giovani e giovanissimi. Quei giovanissimi che hanno fatto la rivolta per motivi di disperazione sociale, con una altissima disoccupazione al 30%. Un dato che svela la favola della buona redistribuzione delle ricchezze energetiche libiche. E le chiacchiere di un «socialismo popolarista» rimasto sulla carta del «Libro Verde» del Colonnello.

La summa del suo pensiero che gli è servito per minimizzare l'apporto politico degli altri protagonisti della rivoluzione. Incontrandolo in una intervista del 1986, lui ammise che il «Libro Verde» era fallito e che la Libia era ancora «nera» non verde. Ora è anche rossa del sangue del suo popolo che lui ha versato. Per l'ultima volta.
di Angelo Del Boca

23 febbraio 2011

L’informazione pubblica sta scivolando nella deriva della democrazia totalitaria

L’informazione pubblica in Italia, specialmente quella radiotelevisiva, sta scivolando ormai da tempo lungo una deriva che la vede ridotta al ruolo di mero strumento propagandistico di una democrazia totalitaria.
In un sistema liberale, basato sul consenso dei cittadini-elettori, essenziale, per il potere, è il modo in cui essi vengono informati degli eventi: chi controlla l’informazione è in grado di esercitare un fortissimo condizionamento anche sulla formazione delle loro opinioni e, di conseguenza, sulle loro scelte politiche.
L’Italia rappresenta un caso fortemente anomalo di sistema liberale, perché in esso il capo del governo e del maggiore partito politico è anche il proprietario di una larga fetta del sistema dell’informazione e al tempo stesso, nell’esercizio del suo ruolo istituzionale, è in condizioni di esercitare una forte pressione anche sul sistema della televisione di Stato.
Da diversi anni, ormai, assistiamo con tristezza allo spegnersi dell’autentico spirito della libera informazione, basato sul rispetto delle voci critiche e sulla pluralità dei commenti, nonché sulla correttezza e sulla imparzialità della divulgazione dei fatti e su una ragionevole valutazione della loro rispettiva importanza: per cui, ad esempio, la notizia di quanto sta accadendo in Egitto in questi giorni dovrebbe venire prima di qualche fatto, pur drammatico, della cronaca nera di casa nostra, o, a maggior ragione, della pubblicità, camuffata da notizia del telegiornale, della fabbricazione dell’ultimo modello di automobile.
In un Paese ove la stampa è sempre stata condizionata da interessi finanziari e industriali, per non parlare delle televisioni commerciali, la doverosa distinzione tra i fatti e le opinioni è sempre stata pericolosamente ambigua e sfumata; ma, da alcuni anni a questa parte, anche le ultime apparenze di rispetto della verità sono state abbandonate e il sistema della informazione pubblica è caduto in basso, come non era mai accaduto prima.
Il risultato è che, per sapere cosa stia succedendo veramente in Italia, come pure nel resto del mondo, bisogna ormai affidarsi ai mezzi d’informazione stranieri; come avviene nelle dittature “classiche”, infatti, i nostri mass-media sono diventati largamente inattendibili, ammaestrati dalla prepotenza del potere politico e asserviti sempre più agli interessi finanziari e industriali, la cui pressione si è fatta ormai insostenibile per ogni voce libera e fuori dal coro.
I migliori, ormai, se ne vanno o stanno seriamente pensando di andarsene; sembra impossibile rimanere nella pubblica informazione e, al tempo stesso, conservare un minimo di dignità e di stima per se stessi, non parliamo poi di tutelare gli interessi del pubblico.
Restano i servi, gli adulatori, gli uomini e le donne per tutte le stagioni; restano, con profitto, gli avidi, gli ambiziosi e gli amorali; restano, ma con difficoltà sempre più grandi, addirittura con un senso di intima ripugnanza, quanti vogliono rimanere fedeli a un’idea alta di ciò che dovrebbe essere la pubblica informazione in un Paese realmente libero.
Verrebbe quasi da dire, parafrasando Robespierre davanti al colpo di Stato del 9 Termidoro: «I briganti trionfano; la Repubblica è perduta.»
Una lezione di dignità e di fermezza è venuta, il 21 maggio del 2010, dalla giornalista Maria Luisa Busi, conduttrice del TG1 - ossia della maggiore testata televisiva della Rai - che, con una lettera aperta al direttore Augusto Minzolini, spiegava le ragioni delle proprie dimissioni.
Vale la pena di riportarne i passi salienti:

« Amo questo giornale, dove lavoro da 21 anni. Perché è un grande giornale. E' stato il giornale di Vespa, Frajese, Longhi, Morrione, Fava, Giuntella. Il giornale delle culture diverse, delle idee diverse. Le conteneva tutte, era questa la sua ricchezza. Era il loro giornale, il nostro giornale. Anche dei colleghi che hai rimosso dai loro incarichi e di molti altri qui dentro che sono stati emarginati. Questo è il giornale che ha sempre parlato a tutto il Paese. Il giornale degli italiani. Il giornale che ha dato voce a tutte le voci. Non è mai stato il giornale di una voce sola. Oggi l'informazione del Tg1 è un'informazione parziale e di parte. Dov'è il Paese reale? Dove sono le donne della vita reale? Quelle che devono aspettare mesi per una mammografia, se non possono pagarla? Quelle coi salari peggiori d'Europa, quelle che fanno fatica ogni giorno ad andare avanti perché negli asili nido non c'è posto per tutti i nostri figli? Devono farsi levare il sangue e morire per avere l'onore di un nostro titolo. E dove sono le donne e gli uomini che hanno perso il lavoro? Un milione di persone, dietro alle quali ci sono le loro famiglie. Dove sono i giovani, per la prima volta con un futuro peggiore dei padri? E i quarantenni ancora precari, a 800 euro al mese, che non possono comprare neanche un divano, figuriamoci mettere al mondo un figlio? E dove sono i cassintegrati dell'Alitalia? Che fine hanno fatto? E le centinaia di aziende che chiudono e gli imprenditori del nord est che si tolgono la vita perché falliti? Dov'è questa Italia che abbiamo il dovere di raccontare? Quell'Italia esiste. Ma il tg1 l'ha eliminata. Anche io compro la carta igienica per mia figlia che frequenta la prima elementare in una scuola pubblica. Ma la sera, nel Tg1 delle 20, diamo spazio solo ai ministri Gelmini e Brunetta che presentano il nuovo grande progetto per la digitalizzazione della scuola, compreso di lavagna interattiva multimediale".
"L'Italia che vive una drammatica crisi sociale è finita nel binario morto della nostra indifferenza. Schiacciata tra un'informazione di parte - un editoriale sulla giustizia, uno contro i pentiti di mafia, un altro sull'inchiesta di Trani nel quale hai affermato di non essere indagato, smentito dai fatti il giorno dopo - e l'infotainment quotidiano: da quante volte occorre lavarsi le mani ogni giorno, alla caccia al coccodrillo nel lago, alle mutande antiscippo. Una scelta editoriale con la quale stiamo arricchendo le sceneggiature dei programmi di satira e impoverendo la nostra reputazione di primo giornale del servizio pubblico della più importante azienda culturale del Paese. Oltre che i cittadini, ne fanno le spese tanti bravi colleghi che potrebbero dedicarsi con maggiore soddisfazione a ben altre inchieste di più alto profilo e interesse generale".»

Vale la pena, inoltre, di ricordare che un fatto di altro genere, ma non meno grave, si è verificato il 28 settembre 2010, a Napoli, quando la giornalista di Sky tg24, Alessandra Del Mondo, mentre si avvicinava con il microfono al ministro del’Interno, Maroni, in visita a quella città, per rivolgergli una domanda, è stata sollevata di peso e brutalmente stretta da una guardia della scorta, subendo uno schiacciamento toracico e un principio di asfissia, che l’hanno costretta a presentarsi al pronto soccorso.
Il fatto, che sarebbe stato inconcepibile in Paesi come la Germania, la Francia o la Gran Bretagna, anche se non ha avuto, fortunatamente, conseguenze serie per l’interessata, la dice lunga sulla barriera, anche fisica, che ormai separa i signori del Palazzo dalla gente comune e sulla loro sempre più manifesta antipatia per il mondo del giornalismo e della pubblica informazione, a meno che esso si presenti nelle vesti di supino trasmettitore di notizie edulcorate, manipolate, imbellettate e, soprattutto, debitamente censurate.
Chi non ricorda come l’attuale capo del governo, proprietario di una buona metà dei mezzi d’informazione di questo Paese, e in grado di influenzare attivamente l’altra metà, si sia continuamente lamentato delle “bugie” che, a suo dire, stampa e televisione raccontano su di lui, solo perché, di tanto in tanto, osano parlare anche in termini critici delle sue azioni pubbliche e private; e di come egli abbia spinto la propria impudenza fino ad invitare gli Italiani a non comperare più i giornali?
Qualcuno riesce ad immaginarsi Obama, Sarkozy o la signora Merkel che rivolgono senza arrossire un tale, stupefacente appello ai propri concittadini?
La casta si è asserragliata nella propria cittadella e, pur se sbandiera ad ogni pie’ sospinto l’esito favorevole degli ultimi sondaggi e la legittimazione popolare ricevuta nell’ultima tornata elettorale, di fatto si chiude a riccio nella difesa dei propri privilegi e si adopera affinché l’immagine che della realtà forniscono i mezzi d’informazione sia conforme al proprio disegno egemonico e supinamente acquiescente alla propria feroce volontà di autoconservazione.
Questa non è più democrazia, ma una parodia della democrazia; peggio ancora: l’estrema e più sfacciata prostituzione demagogica della democrazia; una democrazia che, ormai, in poco o nulla si differenzia dalla più ottusa da quelle dittature che esercitano un controllo esplicito e diretto sui mezzi d’informazione, censurandoli a man salva e piegandoli ai propri obiettivi propagandistici, senza ombra di esitazione o d’imbarazzo.
Appunto, una democrazia totalitaria, che considera alla stregua di un attentato ogni voce di dissenso; ogni critica, anche la più legittima e fondata, come un tentativo di eversione dell’ordine costituito, cioè dell’ordine “democratico”.
Ora, la domanda che sorge spontanea è la seguente: come è potuto accadere che tutto ciò si verificasse, nel nostro Paese, sotto i nostri occhi, senza che noi reagissimo per tempo, perfino senza che ci rendessimo conto di quanto si stava preparando?
Vi erano delle debolezze strutturali, non solo nel nostro sistema politico e sociale, ma anche nella nostra cultura e nel nostro stesso carattere nazionale; delle debolezze che puntualmente vengono al pettine, nella storia italiana, ogni volta che il distacco fra la casta ed il popolo oltrepassa ogni limite tollerabile.
Caporetto, per esempio, il grande “sciopero militare”, è il frutto del modo in cui il Paese fu trascinato in guerra, per calcoli tutto sommato meschini, da una classe dirigente irresponsabile, contro i sentimenti di gran parte della nazione; mentre l’8 settembre 1943, la data forse più vergognosa di tutta la nostra storia recente, è stata il risultato di un antico vizio del carattere nazionale: quello di voler saltare sempre, magari all’ultimo momento, sul carro del vincitore di turno, rifiutando l’assunzione di una seria responsabilità collettiva.
Anche la situazione odierna dell’informazione pubblica ricorda per metà una Caporetto e per metà un otto settembre: come la prima, esprime lo scollamento indecente fra il potere e la gente comune; come il secondo, tradisce la mediocre furberia del tirare a campare, del barcamenarsi fra mille espedienti, nonché la mancanza di dignità davanti alla resa dei conti.
Come potremo uscire da tanto avvilimento, come potremo tornare ad essere un Paese serio e fiero di se stesso? Un Paese dove l’informazione sia al servizio dei cittadini e non dei poteri forti, tutta impegnata a spegnere l’ultimo barlume di spirito critico e a scatenare, a comando, l’ennesima offensiva a base di calunnie contro questo o quel personaggio scomodo, prona agli ordini che vengono dall’alto, mentre le autentiche infamie dei signori del Palazzo vengono scusate e giustificate in infiniti modi?
Una cosa è certa: non basterà un cambio del premier, non basterà un cambio del governo; e nemmeno, se pure vi sarà, un cambio della maggioranza politica.
Non è vero che la sinistra è il Bene e che la destra è il Male: la cialtroneria è un vizio diffuso in tutta la nostra classe politica.
È vero, semmai, che la destra, negli ultimi vent’anni, è stata incantata e sedotta da un avventuriero senza scrupoli, che ha imposto al Paese, nei più alti livelli istituzionali, una accolita di personaggi semplicemente indecorosi, di una arroganza pari soltanto alla loro smaccata mancanza di senso dello Stato e di sollecitudine per il bene comune.
No: per avere una informazione pubblica degna di questo nome, sarà necessaria una profonda riforma morale e, al tempo stesso, una legislazione severa, che interdica la concentrazione dei mezzi d’informazione nelle mani di un singolo individuo o di un singolo gruppo finanziario e che tracci una linea chiara, rigorosa, invalicabile, fra il potere economico, il potere politico e quello dell’informazione stessa.
Ma nessuna legislazione potrà metterci al riparo dai nostri vizi, dalle nostre vigliaccherie, dalle nostre piccole furberie, se noi, come popolo, non decideremo di ritrovare la stima di noi stessi.

di di Francesco Lamendola

22 febbraio 2011

I guasti del denaro, ultimo totem

http://m2.paperblog.com/i/18/181453/lavidita-come-comportamento-anti-prosociale-L-RoedIW.jpeg



Il libro di Vittorino Andreoli, Il denaro in testa (Rizzoli), fa ripensare al peso di questo fattore, nefasto ma sempre mutevole. Tutta la storia dell’uomo narra le violenze fatte e le angherie subite, nel nome dei suoi grandi totem: il denaro e le religioni. Dio e Mammona hanno sempre trovato nel potere i loro modi di sontuosa convivenza; nel reciproco interesse. Alla fine, Andreoli elenca i bisogni veri dell’uomo: la sicurezza, l’amore, la continuità della vita attraverso i figli, la serenità e la gioia (più necessarie della libertà, scrive, e viene in mente l’arringa a Gesù del Grande Inquisitore) e così via.«Per nessuno di questi bisogni serve il denaro, semmai aiuta a soddisfarli meglio».

È questo, però, il problema. Certo, le società moderne sono tanto disossate da far dire a Margaret Thatcher (che ci ha messo del suo): «La società non esiste». Non credo però che, neanche in quell’era dorata che ci pare il nostro Rinascimento, si vivesse come in un’orchestra nella quale, «se tutti sono adeguatamente coordinati e danno il loro contributo all’insieme, la vita può diventare l’esecuzione della Nona sinfonia di Beethoven».

Da tempo, certo, il denaro deborda ben oltre i limiti propri di una convivenza ordinata. Da quando la società anonima ha circoscritto le responsabilità degli investitori, sono partite innovazioni che hanno rivoluzionato la vita; la ricchezza mobiliare fa a meno della terra, onde l’aristocrazia traeva potere e ricchezza. Ciò aumenta il numero dei ricchi, quindi la paura di diventare poveri; è chi sta male a sperare di stare meglio. I guadagni sono celati, le perdite lamentate in pubblico.

La finanza ha messo il turbo ai guadagni privati e alle perdite che le crisi finanziarie addossano al contribuente; se si può anticipare l’incasso anche di anni lontani, la tentazione di vendersi il vitello in pancia alla vacca mina il futuro. Ma il passato, aureo o no, non tornerà. Fra il 1950 e la metà degli anni Settanta gli eccessi del denaro non erano così visibili e dannosi. Le disuguaglianze erano minori.

Le paghe dei megamanager avevano un rapporto con il loro lavoro, erano cinquanta volte quelle dei loro dipendenti, non cinquecento o mille; la deontologia professionale reggeva. Ciò costava nell’immediato, ma la reputazione era fonte di guadagni futuri; gli auditor non certificavano bilanci falsi per tenersi il cliente, le banche - settore sonnolento - non concedevano mutui farlocchi da rifilare a sprovveduti, vogliosi di strappare un lacerto di carne. La fine dello spauracchio comunista allentò le difese del capitalismo, mostrandone il volto peggiore; gli incassi immediati contarono più della reputazione.

I giudizi di Andreoli su finanzieri e imprenditori paiono a volte troppo tranchant; se (quasi tutti) sono mossi dalla maledetta fame di denaro, accostarli ai criminali è un po’ forte. E magari non è il mondo a essere mutato, ma la maggior esperienza di vita a mettere a nudo la realtà. Poco praticabili sono poi alcune sue ricette: sarebbe sì desiderabile che la psicologia dettasse all’economia la «giusta distribuzione dei compiti e dei mezzi... tenendo conto delle differenze, degli impegni e delle necessità di ognuno».

I tanti tentativi in tal senso della politica, tuttavia, pur ispirati alle migliori intenzioni, dicono che l’economia di mercato è il peggior allocatore delle risorse, a parte gli altri sistemi: come quella democrazia che con lei si è sviluppata, ma che dai suoi eccessi è messa a rischio. Ignoriamo gli esiti di una grave crisi che di quelle disuguaglianze s’è nutrita e deve ancora dispiegare le sue conseguenze economiche, sociali e politiche; la difesa, coltello fra i denti, della ricchezza impaurita ci darà forse brutte sorprese.

La direzione presa dal sistema negli ultimi trent’anni - più economia di business che di mercato - può farci tornare al punto di partenza; con la democrazia che conserva le forme ma trasmuta in aristocrazia, non della terra ma del denaro. Se per essere eletti servono troppi soldi, vince il più ricco o chi meglio si vende ai vested interest; con l’aiuto, troppo ignorato, di una tv che ha prima unito l’Italia, poi sfibrato gli italiani.

Le parole di Andreoli evocano nel lettore la sapienza laica - per cui è sventurato l’uomo che non dona e muore ricco - e religiosa: dalla «preghiera semplice» di Francesco - «È dando che si riceve» - al Vangelo: «Eppure vi dico che nemmeno Salomone in tutto il suo splendore fu mai vestito come i gigli del campo». Se hai bisogno di aiuto, si dice, chiedilo a un povero, lui ti aiuterà.

La ricchezza ci chiude, invece di aprirci al dono; fortunato chi per la cruna dell’ago sfugge a questa morsa. La povertà oggi diviene peccato, dice l’autore; peggio, il governo la considera spesso reato. Chi nasce povero ha più probabilità di restarlo oggi che nello scorso secolo breve.La meta dell’uguaglianza dei punti di partenza, topos della democrazia liberale, che è morta con la tassa di successione, va risuscitata; deve però cessare l’atomizzazione dei saperi, deprecata dall’autore, per cui gli intellettuali più non leggono i libri di economia. Le colpe sono equamente ripartite, ma ricordiamolo: Adam Smith insegnava filosofia morale, non econometrica.
di Salvatore Bragantini