26 febbraio 2011

Egitto: i movimenti sociali, la CIA e il Mossad

I limiti dei movimenti sociali.
I movimenti sociali di massa che hanno obbligato Mubarak a ritirarsi rivelano nello stesso tempo la forza e la debolezza dei sollevamenti spontanei.
Da una parte, i movimenti sociali hanno dimostrato la propria capacità di mobilitare centinaia di migliaia di persone, forse milioni, per una lotta vincente che è culminata con la caduta del dittatore che i partiti di opposizione e le personalità preesistenti non hanno voluto o potuto far cadere.
D'altra parte, a causa della leadership politica nazionale, i movimenti non sono stati capaci di prendere il potere politico e trasformare in realtà le loro richieste. Ciò ha permesso alle alte cariche militari di Mubarak di prendere il potere e definire il post mubarakismo, garantendo la continuità e la subordinazione dell'Egitto agli Stati Uniti, la protezione della ricchezza illecita del clan Mubarak (70 miliardi di dollari), il mantenimento delle numerose imprese di propretà dell'élite militare e la protezione dei ceti alti.

I milioni di persone mobilitate dai movimenti sociali per far cadere la dittatura sono state praticamente escluse dalla giunta militare, autoproclamatasi “rivoluzionaria”, al momento di definire le istituzioni e la politica, per non parlare delle riforme socioeconomiche necessarie ai bisogni basilari della popolazione (il 40% della popolazione vive con meno di due dollari al giorno e la disoccupazione giovanile supera il 30%). L'Egitto, come nel caso dei movimenti sociali e studenteschi popolari contro le dittature di Corea del Sud, Taiwan, Filippine e Indonesia, dimostra che la mancanza di un'organizzazione politica in ambito statale permette a personaggi neoliberali e conservatori “d'opposizione” di rimpiazzare il regime. Tali personaggi, stabiliscono un regime elettorale che continua a servire gli interessi imperialisti e difende l'apparato statale esistente. In alcuni casi, vengono sostituiti i vecchi complici capitalisti per altri di nuovo conio. Non è casuale che i media lodino la natura “spontanea” della lotta (e non la domanda socioeconomica) e presentino sotto una luce favorevole il ruolo dei militari (senza tenere conto dei 30 anni nei quali sono stati il baluardo della dittatura). La massa è lodata per il suo “eroismo” e i giovani per il loro “idealismo”, ma in nessun caso li si riconosce come attori politici centrali nel nuovo regime. Una volta caduta la dittatura, i militari e l'opposizione elettorale “hanno celebrato” il successo della rivoluzione e si sono mossi rapidamente per smobilitare e smantellare il movimento spontaneo, al fine di dare spazio alle negoziazioni fra politici liberali, Washington e l'élite militare al potere.

Mentre la Casa Bianca può tollerare o persino fomentare movimenti sociali che conducano alla caduta (“sacrificio”) delle dittature, essa ha tutto l'interesse a preservare lo Stato. Nel caso dell'Egitto, il principale alleato strategico dell'imperialismo degli Stati Uniti non è Mubarak, è l'esercito, con il quale Washington è stata in costante collaborazione prima, durante e dopo la caduta di Mubarak, assicurandosi che la “transizione” alla democrazia (sic) garantisca la permanente subordinazione dell'Egitto agli interessi e alla politica per il Medio Oriente degli Stati Uniti e di Israele.


La ribellione del popolo; le sconfitte della CIA e del Mossad

La rivolta araba dimostra, ancora una volta, le varie falle strategiche in istituzioni come i servizi segreti, le forze speciali e le intelligence degli Stati Uniti, così come nell'apparato israeliano, nessuno dei quali è stato capace di prevedere, non diciamo di intervenire, per evitare la vincente mobilitazione e influire nella politica dei governi e governanti che erano in pericolo.
L'immagine che proiettavano la maggior parte di scrittori, accademici e giornalisti dell'imbattibilità del Mossad israeliano e dell'onnipotente CIA è stata sottoposta a dura prova, con il suo fallimento nel riconoscere la portata, la profondità e l'intensità del movimento di milioni di persone che ha sconfitto la dittatura di Mubarak. Il Mossad, orgoglio e allegria dei produttori di Hollywood, presentato come un “modello di efficienza” dai suoi ben organizzati compagni sionisti, non è stato capace di intercettare il crescere di un movimento di massa in un paese vicino. Il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, si è mostrato sorpreso (e costernato) per la precaria situazione di Mubarak e il collasso dei suoi clienti arabi più vicini, proprio a causa di errori dell'intelligence del Mossad. Ugualmente, Washington, con i suoi 27 organismi di intelligence oltre al Pentagono, è stata colta di sopresa dalle massicce rivolte popolari e dai movimenti emergenti, malgrado le sue centinaia di migliaia di agenti pagati migliaia di milioni di dollari.

Varie osservazioni teoriche si impongono. S'è dimostrato che l'idea di alcuni governanti forzatamente repressivi, che ricevono migliaia di milioni di dollari di aiuti militari dagli Stati Uniti e possono contare con all'incirca un milione di poliziotti, militari e paramilitari per garantire l'egemonia imperiale, non è infallibile. La supposizione che mantenere vincoli a larga scala e per lungo tempo con tali governanti dittatoriali salvaguardi gli interessi USA è stata smentita.
L'arroganza di Israele e la sua presunzione di superiorità in materia di organizzazione strategia e politica rispetto agli “arabi”, è stata seriamente danneggiata. Lo Stato d'Israele, i suoi esperti, gli agenti segreti e gli accademici delle migliori università statunitensi, rimangono ciechi di fronte alle realtà emergenti, ignoranti circa la profondità dello scontento e impotenti ad evitare l'opposizione di massa ai propri clienti più importanti. I propagandisti di Israele negli Stati Uniti, che non resistono a qualsivoglia opportunità per mettere in luce la “brillantezza” delle forze di sicurezza d'Israele, sia che si tratti di assassinare un leader arabo in Libano o a Dubai o che si tratti di bombardare un'istallazione militare in Siria, sono rimasti temporaneamente senza parole.

La caduta di Mubarak e il possibile insediamento di un governo indipendente e democratico significherebbe che Israele potrebbe perdere il suo principale alleato poliziesco. Un'opinione pubblica democratica non coopererebbe con Israele per il mantenimento dell'embargo a Gaza, né condannerebbe i palestinesi a morire di fame per piegare la loro volontà di resistere. Israele non potrà contare su un governo democratico per spalleggiare le violente occupazioni di terre in Cisgiordania e il suo regime fantoccio palestinese. Se ci sarà un'Egitto democratico, gli Stati Uniti non potranno più contarci per spalleggiare i loro intrighi in Libano, le loro guerre in Irak e Afganistan o le sanzioni contro l'Iran. D'altra parte, il sollevamento dell'Egitto è servito d'esempio ad altri movimenti popolari contrari ad altre dittature clienti degli Usa. In Giordania, Yemen e Arabia Saudita. Per tutte queste ragioni, Washington ha appoggiato il golpe militare con il fine di dare forma ad una transizione politica in accordo con i propri gusti e interessi imperiali.

L'indebolimento del principale pilastro del potere imperiale degli USA e del potere coloniale di Israele in Nord Africa e in Medio Oriente pongono in evidenza il ruolo essenziale dei regimi collaboratori dell'Impero. Il carattere dittatoriale di questi regimi è il risultato diretto del ruolo che svolgono in difesa degli interessi imperiali. E i grandi pacchetti di aiuti militari che corrompono e arricchiscono le élite dominanti sono la ricompensa per la sua buona disposizione a collaborare con gli Stati imperialisti e coloniali. Data l'importanza strategica della dittatura egiziana, come spiegare il fallimento delle agenzie di intelligence degli USA e Israele nell'anticipare le rivolte?

Tanto la CIA quanto il Mossad, hanno collaborato strettamente con i servizi segreti dell'Egitto e da essi hanno tratto le loro informazioni, secondo le quali tutto sembrava sotto controllo. I partiti dell'opposizione sono deboli, decimati dalle infiltrazioni e dalla repressione, i suoi militanti languiscono nelle prigioni e soffrono di fatali “attacchi al cuore” a causa di severe “tecniche di interrogatorio”, affermavano. Le elezioni sono state manipolate per eleggere i clienti degli USA e Israele, in modo che non ci fossero sorprese democratiche nell'orizzonte immediato o a medio termine.
I servizi segreti egiziani sono istruiti e finanziati da agenti israeliani e statunitensi, ed hanno una naturale tendenza a compiacere la volontà dei loro padroni. Erano tanto obbedienti a produrre informazioni che compiacessero i loro mentori, che ignoravano qualsivoglia informazione di un crescente malessere popolare o la agitazione in Internet. La CIA e il Mossad erano tanto incrostati nel vasto apparato di sicurezza di Mubarak che sono stati incapaci di ottenere qualsiasi informazione sui movimenti indipendenti dell'opposizione elettorale tradizionale che controllavano.

Quando i movimenti di massa extraparlamentari sono scoppiati, il Mossad e la CIA hanno continuato a confidare nell'apparato statale di Mubarak per mantenere il controllo attraverso la tipica operazione della carota e il bastone: fare concessioni simboliche transitorie e riversare nelle strade l'esercito, la polizia e gli squadroni della morte. Mano a mano che il movimento cresceva da dozzine di migliaia a centinaia di migliaia a milioni di persone, il Mossad e i principali congressisti statunitensi sostenitori di Israele chiedevano a Mubarak di “sopportare”. La CIA si è limitata a presentare alla Casa Bianca il profilo politico di funzionari militari affidabili e di personaggi politici flessibili, “di transizione”, disposti a seguire i passi di Mubarak. Una volta ancora, la CIA e il Mossad hanno dimostrato la loro dipendenza dall'apparato statale egiziano per ottenere informazioni su ciò che poteva rappresentare un'alternativa possibile pro statunitense e israeliana, omettendo le più elementari esigenze del popolo. Il tentativo di cooptare la vecchia guardia elettoralista dei Fratelli Musulmani attraverso negoziazioni con il vicepresidente generale Omar Suleiman è fallita, in parte perché i Fratelli Musulmani non avevano il controllo del movimento e in parte perché Israele e i loro seguitori statunitensi si sono opposti. D'altra parte, l'ala giovanile dei Fratelli ha fatto pressioni affinché l'organizzazione si ritirasse dalle trattative.

Le lacune in materia di intelligence hanno complicato gli sforzi di Washington e Tel Aviv per sacrificare il regime dittatoriale e salvare lo Stato: né la CIA né il Mossad avevano vincoli con nessuno dei leader emergenti. Gli israeliani non sono riusciti a trovare nessun “volto nuovo” che avesse consenso popolare e fosse disposto a svolgere il poco decoroso ruolo di collaboratore dell'oppressione coloniale. La CIA era totalmente coinvolta nell'uso dei servizi segreti egiziani per torturare sospettati di terrorismo (…) e nella vigilanza dei paesi arabi vicini. Come risultato, sia Washington che Israele hanno cercato e promosso il golpe militare al fine di anticipare una maggiore radicalizzazione della situazione.

In ultima analisi, l'insuccesso della CIA e del Mossad di prevedere e prevenire il sorgere del movimento democratico popolare, mette in rilievo la precarietà della base del potere imperiale e coloniale. Alla lunga, non sono le armi, le migliaia di milioni di dollari, i servizi segreti, né le camere della tortura ciò che decide la storia. Le rivoluzioni democratiche avvengono quando la maggior parte di un popolo si solleva e dice “basta”, occupa le strade, paralizza l'economia, smantella lo Stato autoritario ed esige libertà e istituzioni democratiche senza tutela imperiale o sottomissione coloniale.

di James Petras


Traduzione di Marina Minicuci

25 febbraio 2011

Stregati da Berlusconi

http://www.buonmangiasito.it/public/adm/upload/p_Berlusconi_che_dorme.jpg

Può darsi che la stagione di Berlusconi sia al tramonto, e che lo sia inesorabilmente. Immagino che, mese più mese meno, si tornerà a votare ad aprile dell’anno prossimo. In quel momento la cosiddetta curva di Schmitt, che descrive il ciclo del consenso al governo entro la legislatura, non sarà più al suo minimo com’è oggi: in genere il terz’anno è l’anno peggiore per il governo in carica, e il migliore per l’opposizione, mentre nell’ultima parte della legislatura la popolarità del governo tende a risalire, e l’opposizione perde colpi (per questo Berlusconi sta cercando di non farci votare subito). E può benissimo essere che, a quel punto (nel 2012), la risalita della curva del consenso non basti a riportare Berlusconi al governo. In tal caso, a meno di un cambio di leadership nel centro-destra (Tremonti?), dovremmo prepararci a una vittoria elettorale del centro-sinistra.

Ma è realistico questo scenario?
Difficile dirlo, ma esiste anche uno scenario alternativo: il governo prova a fare qualcosina, ovvero modeste dosi di arrosto in mezzo a cospicui segnali di fumo; l’opinione pubblica si stufa di sentir parlare sempre e solo delle ragazze del premier; i processi vanno avanti a singhiozzo, senza lasciar emergere alcuna verità definitiva. Dopodiché si va a votare, il centro-destra ripropone Berlusconi, le opposizioni sono confuse e divise, e non riescono a trovare un leader accettato da tutti. Le urne, per un soffio, consegnano la Camera al centro-destra e il Senato alle opposizioni. Il polo di centro, o terzo polo, si divide, con una parte che sta con la sinistra e un’altra che appoggia il centro-destra. Si forma un nuovo governo di centro-destra, si ricomincia a parlare di giustizia, intercettazioni e Costituzione. L’opposizione di sinistra si indigna, il governo governicchia, e la commedia si ripete. Stesso film, stessi attori, solo un po’ più vecchi e prevedibili di prima.

Perché parlo dello scenario alternativo?
Perché, a mio parere, il ceto politico che guida le cinque opposizioni (Pd, Sel, Udc, Idv, Fli) lo sta preparando accuratamente. Può darsi che non ci riescano a riportare Berlusconi al governo, ma certo stanno facendo il massimo per ottenere il risultato. Non mi riferisco qui al fatto che mantenere in vita cinque (!) opposizioni distinte è già una follia. O al fatto che non darsi un capo è autolesionismo puro. Ciò che mi colpisce è quella che Mario Calabresi, qualche giorno fa su questo giornale, ha descritto come l’incapacità di «archiviare» Berlusconi. Una capacità che Barack Obama seppe mostrare nei confronti di Bush prima ancora di diventare presidente, e di cui i nostri leader - specialmente quelli di sinistra - appaiono del tutto sprovvisti.

I leader della sinistra, e segnatamente quelli del Pd, il maggior partito di opposizione, non solo appaiono ossessionati da Berlusconi, per cui raramente riescono a parlar di qualcosa senza tirarlo in ballo, ma appaiono afflitti da una vera e propria malattia politica, contratta fin da piccoli, ossia da quando militavano (la maggior parte di essi) nel partito comunista. Questa malattia si chiama «primato della cornice», e consiste in questo: di fronte a un provvedimento, a un’ipotesi, a una legge, non si è capaci di giudicarla in sé, valutandone (laicamente!) i pro e i contro, ma la si giudica in base alla cornice in cui si colloca, cioè - essenzialmente - in base a chi è al governo in quel momento. Succedeva negli Anni 60 e 70 per cose come la costruzione di autostrade, lo Statuto dei lavoratori, la tv a colori. Succedeva in anni più recenti per la guerra in Iraq e il ponte sullo stretto. E risuccede oggi tutti i giorni, su problemi che meriterebbero di essere discussi e affrontati con tutt’altra libertà mentale.

E’ così che può accadere che Pd e Italia dei valori, pur favorevoli al federalismo, decidano di bloccarlo perché è un’occasione per indebolire Berlusconi. Pronti a discutere di tutto, purché venga rimosso Berlusconi. E indisponibili a tutto finché rimane al suo posto. Perché quel che conta non è se una legge è buona o cattiva, ma a quale parte politica giova in quel momento.

Lo stesso era accaduto qualche mese fa per la riforma universitaria, sistematicamente usata per dimostrazioni di forza, senza alcun riguardo per i contenuti, fino al paradosso del voto contrario sull’articolo 18 del disegno di legge: un articolo voluto dal senatore del Pd Ignazio Marino, votato dal Pd stesso al Senato, ma bocciato dal medesimo Pd alla Camera, al solo scopo di mettere in difficoltà il governo. Un episodio che lo stesso senatore Marino, in un intervista, ebbe a commentare così: «Ciò che è accaduto (il voto contrario del Pd) lascia una macchia perché dimostra che in Parlamento si prescinde spesso dai contenuti di ciò che si vota. Sarebbe meglio che in Parlamento si votasse più spesso ciò che si ritiene giusto e non ciò che si pensa sia conveniente».

Lo stesso accade per i rapporti fra giustizia e politica: se qualcuno osa porre il problema dell’immunità parlamentare, di nuovo il «primato della cornice» scatta implacabile, come un riflesso pavloviano. Prima di qualsiasi valutazione di merito, conta il fatto che «sarebbe l’ultima risorsa cui il premier vorrebbe far ricorso per sottrarsi ai suoi giudici» (così Anna Finocchiaro nell’intervista rilasciata martedì a «La Stampa»). Certo, si ammette, se ne può anche parlare, ma non ora. Di certi temi «si potrebbe discutere» ma solo «in una situazione normale», e «s’intende, dopo aver parlato di molto altro».

Eccoli lì, i riflessi condizionati. Se una legge può giovare al nostro avversario (federalismo), noi diventiamo contrari a prescindere: è il primato della cornice. Se un tema ci imbarazza (immunità parlamentare), allora «sono ben altre le priorità»: è l’arma del benaltrismo. Ma così si conferma soltanto quanto la sinistra e il suo gruppo dirigente siano lontani dal modello Obama, che di fronte alla richiesta dei suoi stessi simpatizzanti di punire Bush per le sue malefatte, rispondeva: io non voglio punire Bush, io voglio archiviarlo.

Stregati da Berlusconi, incapaci di non rinnovare quotidianamente, e più di una volta al giorno, il rito dell’indignazione, incapaci di pensare i problemi dell’Italia senza l’ossessivo riferimento al destino del premier, i dirigenti della sinistra non si avvedono che così noi cittadini possiamo, al più, convincerci della loro dirittura morale, ma non riusciamo a persuaderci della cosa più importante sul piano politico: e cioè che un vasto schieramento di forze, guidato da un leader riconosciuto, ha una propria idea del futuro dell’Italia, un’idea chiara, un’idea positiva, e come tale un’idea che prescinde da Berlusconi, da Ruby e da tutte le altre. Un’idea che non guarda all’Egitto, o alla Libia, dove è la furia popolare, con il suo corredo di violenza e di sangue, a far cadere i dittatori. Ma guarda all’America, dove i cattivi governanti vengono rimossi e sostituiti in libere elezioni. E dove Obama non sognava di punire Bush, ma soltanto di voltare pagina: di iniziare una nuova era, di costruire un’altra America.

di Luca Ricolfi

24 febbraio 2011

Nel precipizio



Le notizie che arrivano sono di vera e propria guerra contro civili in rivolta, quindi di massacro. Quel che Gheddafi aveva sempre promesso, che mai avrebbe rivoltato le armi contro il suo popolo, anche questa è una promessa non mantenuta. È tempo che se ne vada, è tempo che si intravveda oltre il bagno di sangue una soluzione di mediazione che, come in Egitto e Tunisia, non può non cominciare che con l'uscita di scena di Muammar Gheddafi al potere assoluto da quarantuno anni.

È tempo che l'Occidente scopra nel nuovo processo di democratizzazione avviato con le rivolte di massa in Medio Oriente non il pericolo dell'integralismo islamico, ma una risorsa per pensare diversamente quel mondo e insieme le nostre società blindate. Ora che finalmente anche le Nazioni unite alzano la voce, chi ha amato quel popolo e quel paese non può tacere.

Come fa il governo italiano che si nasconde dietro le dichiarazioni, dell'ultimo momento, di un'Unione europea più preoccupata dei suoi affari che delle società e di quei popoli. Dunque, dobbiamo dire la verità per fermare il sangue che scorre a Tripoli, a Bengasi e in tutto la Libia. Innanzitutto dobbiamo fare quello che non abbiamo fatto con il Trattato Italia-Libia del 2008.

Lo sapevamo benissimo che Gheddafi era un dittatore, che in Libia non c'è rispetto per i diritti umani. E quindi quando abbiamo firmato come Italia quel trattato, abbiamo voluto ratificare solo un accordo di carattere economico, commerciale, capace di fermare la disperazione dell'immigrazione africana in nuovi campi di concentramento. Ma non politico. Abbiamo fatto un errore gravissimo. Un errore che ci stiamo trascinando ancora oggi perché i nostri responsabili al governo non hanno il coraggio di affrontare la situazione e dire adesso basta a chiedere a chiare lettere: «Hai guidato per 41 anni questo paese, hai fatto del tuo meglio, adesso lascia il posto ad altri». Questa dovrebbe essere la richiesta precisa. Ma i fatti che si affollano mentre scriviamo, ci dicono che il precipizio purtroppo c'è già. Perché in un certo senso Gheddafi sta pagando due errori fondamentali della sua politica. Ha dimenticato che una parte decisiva della Libia, la Cirenaica, è ancora pervasa del mito della Senussia e di Omar el Mukhtar - quello impiccato dagli italiani. E i dimostranti inneggiano a el Mukhtar. Fatto ancora più grave, Gheddafi ha invece sempre minimizzato l'importanza delle tribù del Gebel, della «montagna», che sono a 50 km da Tripoli. Gli Orfella, gli Zintan, i Roseban, queste grandi tribù della montagna che sono le stesse che hanno messo nei pasticci gli italiani nel 1911.

Gheddafi ha sempre minimizzato l'importanza di queste componenti numerose - gli Orfella sono 90mila persone - nella lotta di liberazione e nella ricostruzione della nuova Libia. Così è covato per decenni un sordo risentimento che ora li vede associati, se non alla guida dei rivoltosi con i quali, in queste ore, stanno marciando verso Tripoli. Insomma è l'intera storia della Libia che si «riavvolge» e contraddice il regime del Colonnello. Se solo pensiamo a pochi mesi fa, quando Berlusconi e Gheddafi presenziavano in una caserna romana dei carabinieri ad un caravanserraglio, con giostre di cavalieri. Viene la domanda oggettiva: ma come ha fatto a non accorgersi che tutto il mondo che aveva costruito era in crisi drammatica? Lui che aspirava a presentarsi come il leader dell'intero continente africano, non aveva nemmeno la sensazione dei limiti del suo governo e della tragedia che si consumava nella sua patria. Eppure Gheddafi non è stato solo un fantoccio, come Ben Ali e Hosni Mubarak.

Quando fu protagonista del colpo di stato nel '69 aveva davanti a sé un paese pieno di piccole organizzazioni, clanico, e lui ha contribuito a farne una nazione. In un anno ha cacciato le basi militari americane e inglesi, ha espulso i 20mila italiani che costituivano ancora un retaggio del colonialismo. Insomma ha cercato di fare della Libia una nazione. E per molti anni la Libia è stata considerata una nazione. Era solo una presunzione, ora lo sappiamo. Era una presunzione ridurre ad un solo uomo quel progetto che doveva appartenere davvero a tutto il popolo - non solo ai «comitati del popolo» voluti dal regime. Qui ha fallito.

Quando si è autorappresentato come l'unico responsabile dell'abbattimento del colonialismo e del fronteggiamento dell'imperialismo. Riducendo ad una persona le istituzioni libiche, la storia di quel paese, le aspirazioni diffuse. Quando è venuto in Italia aveva sulla divisa la foto dell'eroe anti-italiano Omar el Mukhtar. Ma era solo una provocazione soggettiva, come a dire «Io non dimentico». Ma il fatto di avere sottovalutato l'importanza di tutte le tribù della montagna, cioè della società politica che ha prodotto la nascita della Libia, è stato l'errore più grave. Perché sono le componenti fondamentali che avevano fatto la resistenza, la liberazione e poi avevano fatto crescere il paese.

La situazione adesso, purtroppo, è oltre. Io penso con dolore che ormai tutti gli appelli sono troppo in ritardo. Il fatto stesso che le tribù della montagna scendano a Tripoli per liberarla, mi dà la misura della svolta nel precipizio.
Il gruppo degli anziani, dei saggi, ha detto che bisogna abbattere Gheddafi. Esattamente con queste parole: «Invitiamo alla lotta contro chi non sa governare», hanno dichiarato gli anziani degli Orfella; mentre i vicini capi degli Zentan chiedevano «ai giovani di combattere e ai militari di disertare e di portare l'inferno a Gheddafi». È questa la novità della crisi libica. La rivolta storica della generazione degli anziani della generazione, dei veterani. Una conferma che viene anche dal Cairo, dove il rappresentate libico nella Lega araba Abdel Moneim al-Honi si è dimesso per unirsi ai rivoltosi. È una notizia importantissima, perché è uno dei famosi «11 ufficiali» che hanno fatto la rivolta nel '69 con Gheddafi. E insieme, della generazione dei giovani e giovanissimi. Quei giovanissimi che hanno fatto la rivolta per motivi di disperazione sociale, con una altissima disoccupazione al 30%. Un dato che svela la favola della buona redistribuzione delle ricchezze energetiche libiche. E le chiacchiere di un «socialismo popolarista» rimasto sulla carta del «Libro Verde» del Colonnello.

La summa del suo pensiero che gli è servito per minimizzare l'apporto politico degli altri protagonisti della rivoluzione. Incontrandolo in una intervista del 1986, lui ammise che il «Libro Verde» era fallito e che la Libia era ancora «nera» non verde. Ora è anche rossa del sangue del suo popolo che lui ha versato. Per l'ultima volta.
di Angelo Del Boca

26 febbraio 2011

Egitto: i movimenti sociali, la CIA e il Mossad

I limiti dei movimenti sociali.
I movimenti sociali di massa che hanno obbligato Mubarak a ritirarsi rivelano nello stesso tempo la forza e la debolezza dei sollevamenti spontanei.
Da una parte, i movimenti sociali hanno dimostrato la propria capacità di mobilitare centinaia di migliaia di persone, forse milioni, per una lotta vincente che è culminata con la caduta del dittatore che i partiti di opposizione e le personalità preesistenti non hanno voluto o potuto far cadere.
D'altra parte, a causa della leadership politica nazionale, i movimenti non sono stati capaci di prendere il potere politico e trasformare in realtà le loro richieste. Ciò ha permesso alle alte cariche militari di Mubarak di prendere il potere e definire il post mubarakismo, garantendo la continuità e la subordinazione dell'Egitto agli Stati Uniti, la protezione della ricchezza illecita del clan Mubarak (70 miliardi di dollari), il mantenimento delle numerose imprese di propretà dell'élite militare e la protezione dei ceti alti.

I milioni di persone mobilitate dai movimenti sociali per far cadere la dittatura sono state praticamente escluse dalla giunta militare, autoproclamatasi “rivoluzionaria”, al momento di definire le istituzioni e la politica, per non parlare delle riforme socioeconomiche necessarie ai bisogni basilari della popolazione (il 40% della popolazione vive con meno di due dollari al giorno e la disoccupazione giovanile supera il 30%). L'Egitto, come nel caso dei movimenti sociali e studenteschi popolari contro le dittature di Corea del Sud, Taiwan, Filippine e Indonesia, dimostra che la mancanza di un'organizzazione politica in ambito statale permette a personaggi neoliberali e conservatori “d'opposizione” di rimpiazzare il regime. Tali personaggi, stabiliscono un regime elettorale che continua a servire gli interessi imperialisti e difende l'apparato statale esistente. In alcuni casi, vengono sostituiti i vecchi complici capitalisti per altri di nuovo conio. Non è casuale che i media lodino la natura “spontanea” della lotta (e non la domanda socioeconomica) e presentino sotto una luce favorevole il ruolo dei militari (senza tenere conto dei 30 anni nei quali sono stati il baluardo della dittatura). La massa è lodata per il suo “eroismo” e i giovani per il loro “idealismo”, ma in nessun caso li si riconosce come attori politici centrali nel nuovo regime. Una volta caduta la dittatura, i militari e l'opposizione elettorale “hanno celebrato” il successo della rivoluzione e si sono mossi rapidamente per smobilitare e smantellare il movimento spontaneo, al fine di dare spazio alle negoziazioni fra politici liberali, Washington e l'élite militare al potere.

Mentre la Casa Bianca può tollerare o persino fomentare movimenti sociali che conducano alla caduta (“sacrificio”) delle dittature, essa ha tutto l'interesse a preservare lo Stato. Nel caso dell'Egitto, il principale alleato strategico dell'imperialismo degli Stati Uniti non è Mubarak, è l'esercito, con il quale Washington è stata in costante collaborazione prima, durante e dopo la caduta di Mubarak, assicurandosi che la “transizione” alla democrazia (sic) garantisca la permanente subordinazione dell'Egitto agli interessi e alla politica per il Medio Oriente degli Stati Uniti e di Israele.


La ribellione del popolo; le sconfitte della CIA e del Mossad

La rivolta araba dimostra, ancora una volta, le varie falle strategiche in istituzioni come i servizi segreti, le forze speciali e le intelligence degli Stati Uniti, così come nell'apparato israeliano, nessuno dei quali è stato capace di prevedere, non diciamo di intervenire, per evitare la vincente mobilitazione e influire nella politica dei governi e governanti che erano in pericolo.
L'immagine che proiettavano la maggior parte di scrittori, accademici e giornalisti dell'imbattibilità del Mossad israeliano e dell'onnipotente CIA è stata sottoposta a dura prova, con il suo fallimento nel riconoscere la portata, la profondità e l'intensità del movimento di milioni di persone che ha sconfitto la dittatura di Mubarak. Il Mossad, orgoglio e allegria dei produttori di Hollywood, presentato come un “modello di efficienza” dai suoi ben organizzati compagni sionisti, non è stato capace di intercettare il crescere di un movimento di massa in un paese vicino. Il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, si è mostrato sorpreso (e costernato) per la precaria situazione di Mubarak e il collasso dei suoi clienti arabi più vicini, proprio a causa di errori dell'intelligence del Mossad. Ugualmente, Washington, con i suoi 27 organismi di intelligence oltre al Pentagono, è stata colta di sopresa dalle massicce rivolte popolari e dai movimenti emergenti, malgrado le sue centinaia di migliaia di agenti pagati migliaia di milioni di dollari.

Varie osservazioni teoriche si impongono. S'è dimostrato che l'idea di alcuni governanti forzatamente repressivi, che ricevono migliaia di milioni di dollari di aiuti militari dagli Stati Uniti e possono contare con all'incirca un milione di poliziotti, militari e paramilitari per garantire l'egemonia imperiale, non è infallibile. La supposizione che mantenere vincoli a larga scala e per lungo tempo con tali governanti dittatoriali salvaguardi gli interessi USA è stata smentita.
L'arroganza di Israele e la sua presunzione di superiorità in materia di organizzazione strategia e politica rispetto agli “arabi”, è stata seriamente danneggiata. Lo Stato d'Israele, i suoi esperti, gli agenti segreti e gli accademici delle migliori università statunitensi, rimangono ciechi di fronte alle realtà emergenti, ignoranti circa la profondità dello scontento e impotenti ad evitare l'opposizione di massa ai propri clienti più importanti. I propagandisti di Israele negli Stati Uniti, che non resistono a qualsivoglia opportunità per mettere in luce la “brillantezza” delle forze di sicurezza d'Israele, sia che si tratti di assassinare un leader arabo in Libano o a Dubai o che si tratti di bombardare un'istallazione militare in Siria, sono rimasti temporaneamente senza parole.

La caduta di Mubarak e il possibile insediamento di un governo indipendente e democratico significherebbe che Israele potrebbe perdere il suo principale alleato poliziesco. Un'opinione pubblica democratica non coopererebbe con Israele per il mantenimento dell'embargo a Gaza, né condannerebbe i palestinesi a morire di fame per piegare la loro volontà di resistere. Israele non potrà contare su un governo democratico per spalleggiare le violente occupazioni di terre in Cisgiordania e il suo regime fantoccio palestinese. Se ci sarà un'Egitto democratico, gli Stati Uniti non potranno più contarci per spalleggiare i loro intrighi in Libano, le loro guerre in Irak e Afganistan o le sanzioni contro l'Iran. D'altra parte, il sollevamento dell'Egitto è servito d'esempio ad altri movimenti popolari contrari ad altre dittature clienti degli Usa. In Giordania, Yemen e Arabia Saudita. Per tutte queste ragioni, Washington ha appoggiato il golpe militare con il fine di dare forma ad una transizione politica in accordo con i propri gusti e interessi imperiali.

L'indebolimento del principale pilastro del potere imperiale degli USA e del potere coloniale di Israele in Nord Africa e in Medio Oriente pongono in evidenza il ruolo essenziale dei regimi collaboratori dell'Impero. Il carattere dittatoriale di questi regimi è il risultato diretto del ruolo che svolgono in difesa degli interessi imperiali. E i grandi pacchetti di aiuti militari che corrompono e arricchiscono le élite dominanti sono la ricompensa per la sua buona disposizione a collaborare con gli Stati imperialisti e coloniali. Data l'importanza strategica della dittatura egiziana, come spiegare il fallimento delle agenzie di intelligence degli USA e Israele nell'anticipare le rivolte?

Tanto la CIA quanto il Mossad, hanno collaborato strettamente con i servizi segreti dell'Egitto e da essi hanno tratto le loro informazioni, secondo le quali tutto sembrava sotto controllo. I partiti dell'opposizione sono deboli, decimati dalle infiltrazioni e dalla repressione, i suoi militanti languiscono nelle prigioni e soffrono di fatali “attacchi al cuore” a causa di severe “tecniche di interrogatorio”, affermavano. Le elezioni sono state manipolate per eleggere i clienti degli USA e Israele, in modo che non ci fossero sorprese democratiche nell'orizzonte immediato o a medio termine.
I servizi segreti egiziani sono istruiti e finanziati da agenti israeliani e statunitensi, ed hanno una naturale tendenza a compiacere la volontà dei loro padroni. Erano tanto obbedienti a produrre informazioni che compiacessero i loro mentori, che ignoravano qualsivoglia informazione di un crescente malessere popolare o la agitazione in Internet. La CIA e il Mossad erano tanto incrostati nel vasto apparato di sicurezza di Mubarak che sono stati incapaci di ottenere qualsiasi informazione sui movimenti indipendenti dell'opposizione elettorale tradizionale che controllavano.

Quando i movimenti di massa extraparlamentari sono scoppiati, il Mossad e la CIA hanno continuato a confidare nell'apparato statale di Mubarak per mantenere il controllo attraverso la tipica operazione della carota e il bastone: fare concessioni simboliche transitorie e riversare nelle strade l'esercito, la polizia e gli squadroni della morte. Mano a mano che il movimento cresceva da dozzine di migliaia a centinaia di migliaia a milioni di persone, il Mossad e i principali congressisti statunitensi sostenitori di Israele chiedevano a Mubarak di “sopportare”. La CIA si è limitata a presentare alla Casa Bianca il profilo politico di funzionari militari affidabili e di personaggi politici flessibili, “di transizione”, disposti a seguire i passi di Mubarak. Una volta ancora, la CIA e il Mossad hanno dimostrato la loro dipendenza dall'apparato statale egiziano per ottenere informazioni su ciò che poteva rappresentare un'alternativa possibile pro statunitense e israeliana, omettendo le più elementari esigenze del popolo. Il tentativo di cooptare la vecchia guardia elettoralista dei Fratelli Musulmani attraverso negoziazioni con il vicepresidente generale Omar Suleiman è fallita, in parte perché i Fratelli Musulmani non avevano il controllo del movimento e in parte perché Israele e i loro seguitori statunitensi si sono opposti. D'altra parte, l'ala giovanile dei Fratelli ha fatto pressioni affinché l'organizzazione si ritirasse dalle trattative.

Le lacune in materia di intelligence hanno complicato gli sforzi di Washington e Tel Aviv per sacrificare il regime dittatoriale e salvare lo Stato: né la CIA né il Mossad avevano vincoli con nessuno dei leader emergenti. Gli israeliani non sono riusciti a trovare nessun “volto nuovo” che avesse consenso popolare e fosse disposto a svolgere il poco decoroso ruolo di collaboratore dell'oppressione coloniale. La CIA era totalmente coinvolta nell'uso dei servizi segreti egiziani per torturare sospettati di terrorismo (…) e nella vigilanza dei paesi arabi vicini. Come risultato, sia Washington che Israele hanno cercato e promosso il golpe militare al fine di anticipare una maggiore radicalizzazione della situazione.

In ultima analisi, l'insuccesso della CIA e del Mossad di prevedere e prevenire il sorgere del movimento democratico popolare, mette in rilievo la precarietà della base del potere imperiale e coloniale. Alla lunga, non sono le armi, le migliaia di milioni di dollari, i servizi segreti, né le camere della tortura ciò che decide la storia. Le rivoluzioni democratiche avvengono quando la maggior parte di un popolo si solleva e dice “basta”, occupa le strade, paralizza l'economia, smantella lo Stato autoritario ed esige libertà e istituzioni democratiche senza tutela imperiale o sottomissione coloniale.

di James Petras


Traduzione di Marina Minicuci

25 febbraio 2011

Stregati da Berlusconi

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Può darsi che la stagione di Berlusconi sia al tramonto, e che lo sia inesorabilmente. Immagino che, mese più mese meno, si tornerà a votare ad aprile dell’anno prossimo. In quel momento la cosiddetta curva di Schmitt, che descrive il ciclo del consenso al governo entro la legislatura, non sarà più al suo minimo com’è oggi: in genere il terz’anno è l’anno peggiore per il governo in carica, e il migliore per l’opposizione, mentre nell’ultima parte della legislatura la popolarità del governo tende a risalire, e l’opposizione perde colpi (per questo Berlusconi sta cercando di non farci votare subito). E può benissimo essere che, a quel punto (nel 2012), la risalita della curva del consenso non basti a riportare Berlusconi al governo. In tal caso, a meno di un cambio di leadership nel centro-destra (Tremonti?), dovremmo prepararci a una vittoria elettorale del centro-sinistra.

Ma è realistico questo scenario?
Difficile dirlo, ma esiste anche uno scenario alternativo: il governo prova a fare qualcosina, ovvero modeste dosi di arrosto in mezzo a cospicui segnali di fumo; l’opinione pubblica si stufa di sentir parlare sempre e solo delle ragazze del premier; i processi vanno avanti a singhiozzo, senza lasciar emergere alcuna verità definitiva. Dopodiché si va a votare, il centro-destra ripropone Berlusconi, le opposizioni sono confuse e divise, e non riescono a trovare un leader accettato da tutti. Le urne, per un soffio, consegnano la Camera al centro-destra e il Senato alle opposizioni. Il polo di centro, o terzo polo, si divide, con una parte che sta con la sinistra e un’altra che appoggia il centro-destra. Si forma un nuovo governo di centro-destra, si ricomincia a parlare di giustizia, intercettazioni e Costituzione. L’opposizione di sinistra si indigna, il governo governicchia, e la commedia si ripete. Stesso film, stessi attori, solo un po’ più vecchi e prevedibili di prima.

Perché parlo dello scenario alternativo?
Perché, a mio parere, il ceto politico che guida le cinque opposizioni (Pd, Sel, Udc, Idv, Fli) lo sta preparando accuratamente. Può darsi che non ci riescano a riportare Berlusconi al governo, ma certo stanno facendo il massimo per ottenere il risultato. Non mi riferisco qui al fatto che mantenere in vita cinque (!) opposizioni distinte è già una follia. O al fatto che non darsi un capo è autolesionismo puro. Ciò che mi colpisce è quella che Mario Calabresi, qualche giorno fa su questo giornale, ha descritto come l’incapacità di «archiviare» Berlusconi. Una capacità che Barack Obama seppe mostrare nei confronti di Bush prima ancora di diventare presidente, e di cui i nostri leader - specialmente quelli di sinistra - appaiono del tutto sprovvisti.

I leader della sinistra, e segnatamente quelli del Pd, il maggior partito di opposizione, non solo appaiono ossessionati da Berlusconi, per cui raramente riescono a parlar di qualcosa senza tirarlo in ballo, ma appaiono afflitti da una vera e propria malattia politica, contratta fin da piccoli, ossia da quando militavano (la maggior parte di essi) nel partito comunista. Questa malattia si chiama «primato della cornice», e consiste in questo: di fronte a un provvedimento, a un’ipotesi, a una legge, non si è capaci di giudicarla in sé, valutandone (laicamente!) i pro e i contro, ma la si giudica in base alla cornice in cui si colloca, cioè - essenzialmente - in base a chi è al governo in quel momento. Succedeva negli Anni 60 e 70 per cose come la costruzione di autostrade, lo Statuto dei lavoratori, la tv a colori. Succedeva in anni più recenti per la guerra in Iraq e il ponte sullo stretto. E risuccede oggi tutti i giorni, su problemi che meriterebbero di essere discussi e affrontati con tutt’altra libertà mentale.

E’ così che può accadere che Pd e Italia dei valori, pur favorevoli al federalismo, decidano di bloccarlo perché è un’occasione per indebolire Berlusconi. Pronti a discutere di tutto, purché venga rimosso Berlusconi. E indisponibili a tutto finché rimane al suo posto. Perché quel che conta non è se una legge è buona o cattiva, ma a quale parte politica giova in quel momento.

Lo stesso era accaduto qualche mese fa per la riforma universitaria, sistematicamente usata per dimostrazioni di forza, senza alcun riguardo per i contenuti, fino al paradosso del voto contrario sull’articolo 18 del disegno di legge: un articolo voluto dal senatore del Pd Ignazio Marino, votato dal Pd stesso al Senato, ma bocciato dal medesimo Pd alla Camera, al solo scopo di mettere in difficoltà il governo. Un episodio che lo stesso senatore Marino, in un intervista, ebbe a commentare così: «Ciò che è accaduto (il voto contrario del Pd) lascia una macchia perché dimostra che in Parlamento si prescinde spesso dai contenuti di ciò che si vota. Sarebbe meglio che in Parlamento si votasse più spesso ciò che si ritiene giusto e non ciò che si pensa sia conveniente».

Lo stesso accade per i rapporti fra giustizia e politica: se qualcuno osa porre il problema dell’immunità parlamentare, di nuovo il «primato della cornice» scatta implacabile, come un riflesso pavloviano. Prima di qualsiasi valutazione di merito, conta il fatto che «sarebbe l’ultima risorsa cui il premier vorrebbe far ricorso per sottrarsi ai suoi giudici» (così Anna Finocchiaro nell’intervista rilasciata martedì a «La Stampa»). Certo, si ammette, se ne può anche parlare, ma non ora. Di certi temi «si potrebbe discutere» ma solo «in una situazione normale», e «s’intende, dopo aver parlato di molto altro».

Eccoli lì, i riflessi condizionati. Se una legge può giovare al nostro avversario (federalismo), noi diventiamo contrari a prescindere: è il primato della cornice. Se un tema ci imbarazza (immunità parlamentare), allora «sono ben altre le priorità»: è l’arma del benaltrismo. Ma così si conferma soltanto quanto la sinistra e il suo gruppo dirigente siano lontani dal modello Obama, che di fronte alla richiesta dei suoi stessi simpatizzanti di punire Bush per le sue malefatte, rispondeva: io non voglio punire Bush, io voglio archiviarlo.

Stregati da Berlusconi, incapaci di non rinnovare quotidianamente, e più di una volta al giorno, il rito dell’indignazione, incapaci di pensare i problemi dell’Italia senza l’ossessivo riferimento al destino del premier, i dirigenti della sinistra non si avvedono che così noi cittadini possiamo, al più, convincerci della loro dirittura morale, ma non riusciamo a persuaderci della cosa più importante sul piano politico: e cioè che un vasto schieramento di forze, guidato da un leader riconosciuto, ha una propria idea del futuro dell’Italia, un’idea chiara, un’idea positiva, e come tale un’idea che prescinde da Berlusconi, da Ruby e da tutte le altre. Un’idea che non guarda all’Egitto, o alla Libia, dove è la furia popolare, con il suo corredo di violenza e di sangue, a far cadere i dittatori. Ma guarda all’America, dove i cattivi governanti vengono rimossi e sostituiti in libere elezioni. E dove Obama non sognava di punire Bush, ma soltanto di voltare pagina: di iniziare una nuova era, di costruire un’altra America.

di Luca Ricolfi

24 febbraio 2011

Nel precipizio



Le notizie che arrivano sono di vera e propria guerra contro civili in rivolta, quindi di massacro. Quel che Gheddafi aveva sempre promesso, che mai avrebbe rivoltato le armi contro il suo popolo, anche questa è una promessa non mantenuta. È tempo che se ne vada, è tempo che si intravveda oltre il bagno di sangue una soluzione di mediazione che, come in Egitto e Tunisia, non può non cominciare che con l'uscita di scena di Muammar Gheddafi al potere assoluto da quarantuno anni.

È tempo che l'Occidente scopra nel nuovo processo di democratizzazione avviato con le rivolte di massa in Medio Oriente non il pericolo dell'integralismo islamico, ma una risorsa per pensare diversamente quel mondo e insieme le nostre società blindate. Ora che finalmente anche le Nazioni unite alzano la voce, chi ha amato quel popolo e quel paese non può tacere.

Come fa il governo italiano che si nasconde dietro le dichiarazioni, dell'ultimo momento, di un'Unione europea più preoccupata dei suoi affari che delle società e di quei popoli. Dunque, dobbiamo dire la verità per fermare il sangue che scorre a Tripoli, a Bengasi e in tutto la Libia. Innanzitutto dobbiamo fare quello che non abbiamo fatto con il Trattato Italia-Libia del 2008.

Lo sapevamo benissimo che Gheddafi era un dittatore, che in Libia non c'è rispetto per i diritti umani. E quindi quando abbiamo firmato come Italia quel trattato, abbiamo voluto ratificare solo un accordo di carattere economico, commerciale, capace di fermare la disperazione dell'immigrazione africana in nuovi campi di concentramento. Ma non politico. Abbiamo fatto un errore gravissimo. Un errore che ci stiamo trascinando ancora oggi perché i nostri responsabili al governo non hanno il coraggio di affrontare la situazione e dire adesso basta a chiedere a chiare lettere: «Hai guidato per 41 anni questo paese, hai fatto del tuo meglio, adesso lascia il posto ad altri». Questa dovrebbe essere la richiesta precisa. Ma i fatti che si affollano mentre scriviamo, ci dicono che il precipizio purtroppo c'è già. Perché in un certo senso Gheddafi sta pagando due errori fondamentali della sua politica. Ha dimenticato che una parte decisiva della Libia, la Cirenaica, è ancora pervasa del mito della Senussia e di Omar el Mukhtar - quello impiccato dagli italiani. E i dimostranti inneggiano a el Mukhtar. Fatto ancora più grave, Gheddafi ha invece sempre minimizzato l'importanza delle tribù del Gebel, della «montagna», che sono a 50 km da Tripoli. Gli Orfella, gli Zintan, i Roseban, queste grandi tribù della montagna che sono le stesse che hanno messo nei pasticci gli italiani nel 1911.

Gheddafi ha sempre minimizzato l'importanza di queste componenti numerose - gli Orfella sono 90mila persone - nella lotta di liberazione e nella ricostruzione della nuova Libia. Così è covato per decenni un sordo risentimento che ora li vede associati, se non alla guida dei rivoltosi con i quali, in queste ore, stanno marciando verso Tripoli. Insomma è l'intera storia della Libia che si «riavvolge» e contraddice il regime del Colonnello. Se solo pensiamo a pochi mesi fa, quando Berlusconi e Gheddafi presenziavano in una caserna romana dei carabinieri ad un caravanserraglio, con giostre di cavalieri. Viene la domanda oggettiva: ma come ha fatto a non accorgersi che tutto il mondo che aveva costruito era in crisi drammatica? Lui che aspirava a presentarsi come il leader dell'intero continente africano, non aveva nemmeno la sensazione dei limiti del suo governo e della tragedia che si consumava nella sua patria. Eppure Gheddafi non è stato solo un fantoccio, come Ben Ali e Hosni Mubarak.

Quando fu protagonista del colpo di stato nel '69 aveva davanti a sé un paese pieno di piccole organizzazioni, clanico, e lui ha contribuito a farne una nazione. In un anno ha cacciato le basi militari americane e inglesi, ha espulso i 20mila italiani che costituivano ancora un retaggio del colonialismo. Insomma ha cercato di fare della Libia una nazione. E per molti anni la Libia è stata considerata una nazione. Era solo una presunzione, ora lo sappiamo. Era una presunzione ridurre ad un solo uomo quel progetto che doveva appartenere davvero a tutto il popolo - non solo ai «comitati del popolo» voluti dal regime. Qui ha fallito.

Quando si è autorappresentato come l'unico responsabile dell'abbattimento del colonialismo e del fronteggiamento dell'imperialismo. Riducendo ad una persona le istituzioni libiche, la storia di quel paese, le aspirazioni diffuse. Quando è venuto in Italia aveva sulla divisa la foto dell'eroe anti-italiano Omar el Mukhtar. Ma era solo una provocazione soggettiva, come a dire «Io non dimentico». Ma il fatto di avere sottovalutato l'importanza di tutte le tribù della montagna, cioè della società politica che ha prodotto la nascita della Libia, è stato l'errore più grave. Perché sono le componenti fondamentali che avevano fatto la resistenza, la liberazione e poi avevano fatto crescere il paese.

La situazione adesso, purtroppo, è oltre. Io penso con dolore che ormai tutti gli appelli sono troppo in ritardo. Il fatto stesso che le tribù della montagna scendano a Tripoli per liberarla, mi dà la misura della svolta nel precipizio.
Il gruppo degli anziani, dei saggi, ha detto che bisogna abbattere Gheddafi. Esattamente con queste parole: «Invitiamo alla lotta contro chi non sa governare», hanno dichiarato gli anziani degli Orfella; mentre i vicini capi degli Zentan chiedevano «ai giovani di combattere e ai militari di disertare e di portare l'inferno a Gheddafi». È questa la novità della crisi libica. La rivolta storica della generazione degli anziani della generazione, dei veterani. Una conferma che viene anche dal Cairo, dove il rappresentate libico nella Lega araba Abdel Moneim al-Honi si è dimesso per unirsi ai rivoltosi. È una notizia importantissima, perché è uno dei famosi «11 ufficiali» che hanno fatto la rivolta nel '69 con Gheddafi. E insieme, della generazione dei giovani e giovanissimi. Quei giovanissimi che hanno fatto la rivolta per motivi di disperazione sociale, con una altissima disoccupazione al 30%. Un dato che svela la favola della buona redistribuzione delle ricchezze energetiche libiche. E le chiacchiere di un «socialismo popolarista» rimasto sulla carta del «Libro Verde» del Colonnello.

La summa del suo pensiero che gli è servito per minimizzare l'apporto politico degli altri protagonisti della rivoluzione. Incontrandolo in una intervista del 1986, lui ammise che il «Libro Verde» era fallito e che la Libia era ancora «nera» non verde. Ora è anche rossa del sangue del suo popolo che lui ha versato. Per l'ultima volta.
di Angelo Del Boca