17 marzo 2011

La questione energetica fondamento di una economia sostenibile



https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEg_h8lnYfe4FpNLPS0tR4tti1t4JHIyZwswnFtqnmQhsDpy90pkt9-Bk-TjPRdMqsZTvTsL3dUI3cRxJ3r0QpjMLrq0SLLtusDGoZss78u2Au81cnnXOrPWDwO36jH1TIefr1k3Eg/s320/root-chakra-catherine-g-mcelroy.jpg

La catastrofe giapponese ripropone tramite la discussione sul nucleare il tema dell'energia. Le risorse energetiche infatti sono l’elemento sostanziale per ogni interpretazione del modello di sviluppo economico. Quest’ultimo se si ritiene illimitato nell’espansione dei mercati per mezzo dell’allargamento dei consumi, non è dato in fisica giacché le risorse naturali per definizione sono scarse e limitate. In effetti, le flebili voci ambientaliste sembrano spesso ispirate più all’utopismo irrealistico, che ad una consapevolezza politica, fondata sulla contraddizione ingenerata tra la cultura e la natura dall’utilitarismo economicista e il pragmatismo tecnologico. D’altra parte le patologie prodotte dal modello di sviluppo industriale sono oggi di tale portata, che è credibile, finanche popolare, proporre un mutamento di paradigma capace di superare la modernità sul piano della sostenibilità ecologica e la responsabilità sociale e politica. Nella fattispecie, il sistema energetico italiano si fonda essenzialmente sulle fonti fossili: gas naturale, petrolio e suoi derivati, carbone. Ben il 67% dei 318 TWh di energia complessivamente consumati proviene, infatti, da centrali termoelettriche, equamente insediate nel territorio nazionale. Le fonti rinnovabili contribuiscono per il 16-17%. Prevalente è l’idroelettrica, prodotta soprattutto in centrali dell’Italia del Nord, che occupa una quota del 15%. Il residuo 2% viene dalla geotermia, dalle biomasse e dai rifiuti e, in misura minore, dall’eolico che fornisce, insieme al fotovoltaico, 1.183 GWh d’energia e che appare in crescita. A completare l’offerta ci sono infine le importazioni dirette di energia dai paesi confinanti, che pesano per un 16%. Il rifornimento avviene soprattutto da Francia e Svizzera, seguite da Austria, Slovenia e, in misura ridotta, Grecia. Dall’esame di questi sommari dati, spiccano agli occhi tre evidenze: l’elevato utilizzo di combustibili fossili, il ridotto apporto delle fonti pulite e rinnovabili, la notevole dipendenza dall’estero del nostro sistema energetico. Partiamo da quest’ultimo aspetto. Poveri di risorse tradizionali, siamo costretti ad approvvigionarci largamente dall’estero, acquistando sia combustibili sia elettricità. In tal senso, la localizzazione delle esigenze energetiche contribuirebbe ad un processo di consapevolezza ecologica delle fonti e responsabilizzazione sociale e politica dal basso verso l’alto, attivando un modello sussidiario e comunitario di autonomia e indipendenza che avrebbe un impatto virtuoso in efficienza ed efficacia economica. Altra evidenza, si è detto, è l’eccessivo utilizzo di fonti fossili. Escluse le importazioni di elettricità, ricorriamo per l’81% della nostra produzione alle fonti non rinnovabili, con pesanti conseguenze ambientali: è noto che, a livello mondiale, oltre il 75% dell’emissione di anidride carbonica (il principale gas responsabile del cosiddetto effetto serra) è imputabile alla combustione di fonti fossili (essenzialmente carbone e petrolio). Sappiamo delle controversie tra i paesi industrializzati occidentali e i Paesi emergenti sulla reale volontà di adottare la riduzione delle emissioni di gas serra, che ha visto recentemente a Copenhagen l’ultimo - ma non ultimo - atto internazionale. La tendenza, in effetti, è ad un continuo aumento della domanda di energia, anche se, in linea con gli altri paesi più industrializzati, negli ultimi anni il tasso di crescita si è stabilizzato su una media del 2-3%: merito sia di un uso più efficiente dell’energia, sia dello spostamento della nostra economia verso un terziario avanzato, a più bassa intensità energetica. Da questo punto di vista sarebbe auspicabile un mutamento di paradigma socio-economico. In un contesto di tarda o post-modernità, con una economia sempre più smaterializzata, declinare la tecnologia e le priorità socio-culturali su priorità in controtendenza - oggi percepite nell’opinione pubblica - incentrate sulla qualità della vita, la sua sacralità e quindi armonia naturale, è praticabile anche in termini di consenso diffuso.
Le fonti energetiche rinnovabili sono quelle fonti il cui utilizzo non ne comporta l’estinzione: sono quindi tendenzialmente infinite ed, in genere, pulite (la valutazione sull’impatto ambientale e salutare va fatta in relazione all’intero ciclo di vita). Sono il sole, il vento, l’energia idraulica, le maree, la geotermia e le biomasse. In Italia la miopia politica e culturale, indotta dai forti interessi economici dominanti, si è concentrata quasi completamente sulle fonti rinnovabili “convenzionali”, vale a dire energia idraulica, geotermica e da biomasse. Minoritario resta invece l’apporto di sole e vento (che solo in questi ultimi anni sta diffondendosi), inesistente quello dell’energia marina, mentre l’idrogeno resta ad uno stato ancora di studio con aspetti molto contraddittori in merito alle implicazioni ecologiche di tale prodotto energetico. Le speranze concrete per il futuro sono essenzialmente due: sole e vento. Sono fonti veramente rinnovabili, eterne, pulite, gratuite e senza padrone. Sebbene da secoli l’uomo sfrutti la potenza del vento, è solo negli ultimi decenni che ne riesce a trarne anche elettricità. Il potenziale mondiale è enorme: secondo gli studi, da 20 a 50mila TWh, ben al di sopra, quindi, dell’attuale fabbisogno globale del Pianeta.
La forte domanda si accompagna ad un progressivo affinamento della tecnologia eolica: dai primi generatori a due o anche una sola pala, siamo ormai assestati su quelli a tre pale, le cui dimensioni sono progressivamente aumentate. Ciò ha consentito un aumento della potenza (in 20 anni aumentata di 60 volte) ma non parallelamente dei costi (aumentati solo di 10 volte), grazie alle economie di scala. Caso esemplare dei vantaggi offerti dalle nuove FER anche a livello economico e occupazionale è quello della Danimarca. I danesi, che soddisfano con l’eolico il 20% del loro fabbisogno nazionale, hanno oggi il primato mondiale nel settore, con tre grandi imprese tra le prime dieci del pianeta ed una quota di mercato pari al 50% delle richieste mondiali. Quella eolica rappresenta oggi la prima industria della Danimarca, con 25.000 nuovi occupati. Interessante è anche il sistema di gestione degli impianti, affidati, sulla base di un azionariato popolare, a migliaia di piccoli investitori privati. In Italia gli impianti sono quasi tutti concentrati sui rilievi dell’Appennino centro-meridionale (Abruzzo, Molise, Puglia, Campania. Tra i limiti che ostacolano una maggiore diffusione degli aerogeneratori, oltre alla basilare diversa esposizione ai venti, ci sono le resistenze locali (spesso animate da un risentito provincialismo), dovute all’innegabile impatto paesaggistico, all’inquinamento acustico e alle interferenze elettromagnetiche. Ancor più del vento, infatti, è il Sole, fonte di vita per eccellenza, che potrà risolvere i nostri problemi energetici. Il potenziale teorico è sconfinato: a seconda degli studi, 10-15.000 volte l’attuale fabbisogno mondiale. Tutto sta nel riuscire a “catturare” le radiazioni solari e a trasformarle in energia: una sfida tecnologica che negli ultimi anni sta registrando crescenti successi. L’energia solare può essere utilizzata per produrre calore o elettricità. Il primo uso è quello del cosiddetto “solare termico”, con i collettori per l’acqua calda per usi sanitari e per il riscaldamento degli edifici. Nelle realizzazioni più avanzate, si accompagna ad un termico passivo, che cattura il calore solare grazie ad una buona progettazione degli edifici. Paradossalmente, la loro diffusione è maggiore in paesi con insolazione minore: Germania ed Austria, mentre l’Italia, inondata dal sole per almeno otto mesi all’anno, è in un incomprensibile ritardo. C’è poi il solare fotovoltaico, per produrre elettricità. Si fonda sulle celle solari a base di silicio che, esposte alle radiazioni solari, originano cariche elettriche. L’efficienza di conversione delle celle è oggetto di un continuo affinamento tecnologico. Elettricità dal sole è poi prodotta anche grazie agli impianti a concentrazione, che moltiplicano la temperatura delle radiazioni solari grazie alla concentrazione dei raggi su un unico punto, utilizzando il sistema degli specchi di Archimede.
L’efficienza dei vari sistemi è ancora da perfezionare. I costi economici, in particolare, non sono ancora competitivi, e restano più alti di quelli dell’energia prodotta con fonti fossili, ma la valutazione sulla convenienza va presa su parametri non riduttivamente economicistici, ovviamente. Con l’attuale tendenza alla riduzione dei costi unitari, si conta, ad esempio, sull’assoluta competitività entro un arco di 10 anni. Il solare, resta, indubbiamente, la grande speranza. È una fonte pulita, veramente rinnovabile, eterna, gratuita e largamente diffusa. Non presenta, inoltre, problemi di impatto, se non, per le grandi centrali, per lo spazio richiesto. Ma la sua vera diffusione non sembra legata ai grandi impianti, quanto invece a piccoli impianti, in grado di soddisfare le esigenze dei singoli nuclei abitativi. Ma il discorso sulle fonti rinnovabili va reso completo con una “settima fonte”, forse la più “strategica”: il risparmio energetico conseguente ad un uso razionale della risorsa. A differenza del risparmio da “sobrietà”, che è centrale nella logica di una scelta di stile di vita critico verso i consumi superflui, il risparmio da uso razionale dell’energia consente di disegnare un quadro di operatività economica sostenibile con un minore dispendio di risorse, grazie alla sensibilità culturale, imprenditoriale e l’indipendenza del “politico” dai ricatti dei gruppi d’interesse consolidati.
Fonti rinnovabili e contenimento dei consumi tramite una diversa consapevolezza e un uso razionale dell’energia sono la realistica alternativa alle centrali a fonti fossili. Sono obiettivi possibili, che richiedono una lugimirante volontà politica e consapevolezza sociale. Il territorio è il luogo naturale di questa grande battaglia, che coinvolge lo stile di vita individuale in un contesto comunitario e partecipativo, solidale perché sussidiario. Le ricadute, sarebbero positive non solo per la devastata salute del nostro pianeta, ma anche per i risvolti strategici, economici e occupazionali. Una vera rivoluzione fattuale, per mutare l’attuale modello di sviluppo.
di Eduardo Zarelli

16 marzo 2011

Fukushima: "mi dite che cazzo sta succedendo"



Non è il banale gusto del turpiloquio a suggerire il titolo di questo aggiornamento sulla crisi nucleare giapponese, ma la traduzione, forse un po’ brutale ma realistica, della frase che, riportano Kyodo News e un quotidiano svedese, il primo ministro nipponico Naoto Kan ha rivolto ai dirigenti della TEPCO, la società elettrica che gestisce la centrale di Fukushima. Kan è frustrato che ancora la situazione non si risolva, anzi vada peggiorando di ora in ora. Ma anche perché cominciano le reticenze interne e incrociate. Pare infatti che la notizia dell’ultima esplosione al reattore n.2 di Fukushima e di un incendio al reattore n.4 sia stata data al primo ministro con un’ora di ritardo. Comincia a saltare la catena comunicativa, insomma, ed è una pessima notizia.


Circa 250 dei 300 operatori attivi nella centrale sono stati evacuati. A gestire sei reattori in crisi di raffreddamento attualmente sono solo in 50. Lavoratori con aspirazioni da kamikaze probabilmente, affiancati, a quanto pare, anche da esperti americani. Nel frattempo si annuncia che l’incidente di Fukushima è stato promosso al livello 6, su una scala di 7 (record stabilito solo da Cernobyl). L’area di evacuazione è passata da 20 a 30 chilometri, e il sindaco di Tokio ha ufficializzato la presenza di radiazioni sulla città, però a un livello non dannoso alla salute. Ovviamente… Un’osservazione che contrasta con l’invito di tutte le ambasciate diretto ai propri dipendenti a lasciare quanto prima la capitale.

Ma tutto il quadro contrasta aspramente con il mantra che dal Giappone arriva insistentemente, rilanciato con forza da tutti i gruppi d’interesse legati al nucleare, con media asserviti al seguito: “Fukushima non è come Cernobyl”. Non ancora, risponde qualcuno. È peggio, osservano altri. Quello che appare chiaro già oggi è che l’evento di Fukushima avrà in comune con Cernobyl il ritardo con cui verranno finalmente scoperte le carte. Per chi non ha memoria: l’allora URSS tenne nascoste le reali proporzioni dell’incidente per giorni e giorni, ammettendo tutto solo davanti all’evidenza, quando ormai la nube si era diffusa in modo tale da renderne molto difficoltoso il monitoraggio.

Allora era l’orgoglio sovietico, sancito da un regime dittatoriale, a trattenere le informazioni. Oggi è un’altra forma di dittatura a tenere a freno a fatica il flusso informativo: la dittatura dell’industria e degli interessi legati al nucleare. Anche in questo caso, attendiamocelo, la reale proporzione sarà chiara solo quando l’evidenza sarà tale da non poter essere più negata. C’è chi ha fatto tesoro dell’esperienza sovietica, come i tedeschi, i cui boschi orientali sono ancora soggetti a divieti di raccolta di frutti o funghi per la presenza di radionuclidi persistenti nel terreno. Non a caso ieri ben 400 manifestazioni antinucleari si sono tenute in tutta la Germania. Altrove, come in Italia, si lascia ufficialmente il tema a una Prestigiacomo qualunque, terrea in volto nel parlare di cose che non sa.

Per il resto l’opposizione, da noi, viaggia ancora e sempre in Rete, dove si organizzano gruppi e si propongono manifestazioni, probabilmente destinate ad abortire a causa delle solite varie divisioni all’italiana, in questo caso fra i diversi gruppi antinuclearisti, ognuno convinto di avere l’unzione esclusiva per organizzare mobilitazioni popolari e indisponibile ad accodarsi a quelle di altri, pur di fronte a un interesse comune. Resta la difficoltà giornalistica a scrivere pezzi riguardanti situazioni così capaci di mutare da un momento all’altro. Mentre scrivo, la Reuters notifica che le radiazioni nella sala controllo del reattore n.4 di Fukushima sono troppo alte per permettere il lavoro degli operatori, e quindi verrà presto abbandonata. Ma in questo contesto non sono le notizie date ad angosciare, bensì quelle non date. In particolare, parafrasando Naoto Kan, qualcuno vuole dirci che cazzo sta succedendo alle barre irradiate presenti nelle vasche di raffreddamento e al combustibile di plutonio del reattore n.3?
di Davide Stasi

15 marzo 2011

Manning, la verità é torturata


La fonte dei 250 mila documenti diplomatici statunitensi che Wikileaks ha recentemente iniziato a pubblicare è con ogni probabilità il soldato americano Bradley Manning. 23 anni, ex analista dell’intelligence in Iraq, ha fornito un contributo di grandissimo valore alla conoscenza degli eccessi e dei crimini commessi da Washington in mezzo mondo nell’ultimo decennio. Per il governo americano, tuttavia, Bradley Manning rappresenta una grave minaccia, come dimostrano le condizioni disumane in cui è stato costretto in dieci mesi di carcere e le recenti pesantissime accuse sollevate nei suoi confronti che potrebbero addirittura sfociare in una condanna alla pena capitale.

I guai con la giustizia militare per il “Private First Class” (Pfc.) Bradley Manning erano iniziati nel maggio del 2010. L’arresto per lui era scattato in Iraq in seguito alle rivelazioni dell’ex hacker Adrian Lamo, il quale in una chat aveva raccolto alcune frasi dello stesso giovane soldato americano che indicavano la sua responsabilità nella pubblicazione di un video scottante. Il filmato in questione, scaricato senza autorizzazione dai terminali del Pentagono e pubblicato da Wikileaks nel mese di aprile con il titolo di “Collateral Murder”, riprendeva elicotteri americani che facevano fuoco su civili inermi a Baghdad nel 2007. In quella circostanza, furono assassinati anche due giornalisti della Reuters.

A Bradley Manning vennero contestati dodici capi d’accusa e per lui fu l’inizio di una detenzione in stato di isolamento che dura tutt’ora, nonostante nessuna condanna sia stata emessa né esista alcun precedente penale a suo carico. Presso una base dei Marines a Quantico, in Virginia, Manning è tenuto segregato per 23 ore al giorno, con una sola ora concessagli per qualche esercizio in una stanza vuota. I contatti con il mondo esterno sono severamente ristretti, così come l’accesso a qualsiasi materiale di lettura, mentre non gli è nemmeno consentito dormire durante il giorno.

Anche se nessun medico ha certificato tendenze suicide, Manning è poi imprigionato secondo procedure che dovrebbero impedirgli gesti autolesionisti. A partire dalla scorsa settimana, ad esempio, gli viene imposto di dormire completamente nudo. Una misura presa, secondo quanto scritto in un blog dal suo legale, avvocato David Coombs, in seguito ad un commento sarcastico fatto dallo stesso Manning sulla possibilità di tentare il suicidio utilizzando i propri indumenti intimi.

Quest’ultimo episodio rappresenta solo il più recente in una serie di trattamenti che sconfinano spesso nella tortura e appare mirato a debilitare la resistenza fisica e mentale di un giovane contro il quale il governo e i militari americani intendono vendicarsi in maniera esemplare.

Secondo alcuni, questi metodi servirebbero a convincere Manning ad accusare Julian Assange di complicità nell’impossessarsi dei documenti segreti pubblicati da Wikileaks, così da poter formulare una qualche accusa nei confronti di quest’ultimo e chiederne l’estradizione verso gli Stati Uniti. A dicembre dello scorso anno, infatti, il quotidiano britanno The Independent scrisse che il Dipartimento di Giustizia americano aveva proposto a Manning un accordo che prevedeva il suo trasferimento alla giustizia civile in cambio di un’accusa esplicita per coinvolgere il fondatore di Wikileaks.

Il caso di Bradley Manning ha suscitato le proteste di numerose organizzazioni a difesa dei diritti umani, mentre l’ONU sta conducendo un’indagine per stabilire se la giustizia militare statunitense abbia adottato metodi di tortura nei suoi confronti. Per il Pentagono, secondo le parole di una portavoce,” le condizioni di detenzione di Manning sono determinate dalla serietà delle accuse mossegli contro, dalla pena potenzialmente molto lunga che lo attende, dalle implicazioni per la sicurezza nazionale del suo caso e dal danno che potrebbe arrecare a se stesso o ad altri”.

In questi lunghi mesi di carcere, intanto, le sue energie sono state fiaccate e la sua lucidità appare seriamente compromessa. Uno dei pochi autorizzati a vistare Bradley Manning a Quantico è l’amico David House, ricercatore del MIT, il quale dopo un recente incontro ha detto alla stampa di avere l’impressione di assistere alla sua trasformazione “da giovane vivace e intelligente ad una persona a volte apatica e con serie difficoltà a sostenere una banale conversazione”.

Come se non bastasse, settimana scorsa la giustizia militare ha formulato 22 nuovi capi d’accusa contro Bradley Manning. L’accusa più grave è quella di “collaborazione con il nemico”, secondo quanto contemplato dall’articolo 104 del codice militare, un crimine che può prevedere anche la pena di morte. Quale sia il nemico che Manning avrebbe favorito non è però specificato dai militari, tanto che potrebbe essere addirittura Wikileaks. Una designazione questa che esporrebbe lo stesso Julian Assange a possibili azioni, anche militari, da parte americana.

Se i nemici in questione fossero invece i Talebani oppure i membri di Al-Qaeda o altri gruppi estremisti, l’accusa sollevata contro Manning potrebbe essere facilmente estesa, non solo nuovamente a Wikileaks, ma anche agli stessi giornali (New York Times, Guardian, ecc.) che hanno pubblicato i cablo riservati delle ambasciate USA negli ultimi mesi.

I militari, da parte loro, hanno affermato di non riferirsi a Wikileaks ma continuano a non voler rivelare l’identità del “nemico” che avrebbe beneficiato del comportamento di Manning, poiché il caso in questione ha a che fare con la “sicurezza nazionale e, in tempo di guerra, rivelare questa informazione potrebbe compromettere le operazioni sul campo attualmente in corso”.

Molte delle altre recenti accuse, peraltro, si ripetono e sono soltanto formulate in maniera diversa, così da poter presentare un numero maggiore di imputazioni ed accentuare il presunto comportamento criminale di Bradley Manning. Tra di esse vi è anche l’accusa di aver utilizzato un software non autorizzato sui computer della Difesa per accedere a informazioni segrete.

Se è vero che l’accusa ha anticipato che non intende chiedere la pena di morte, la decisione finale su questo punto spetterà in ogni caso all’ufficiale incaricato di supervisionare il caso di Manning, generale Karl Horst. La corte marziale per Manning terrà l’udienza preliminare tra maggio e giugno e solo in quella sede sarà possibile conoscere con certezza tutti i capi d’accusa e la pena richiesta ufficialmente.

Gli abusi nei confronti di Bradley Manning rappresentano una chiara intimidazione verso chiunque intenda portare alla luce le atrocità commesse dal governo americano. La colpa del giovane militare statunitense sarebbe quella di avere smascherato i veri e propri crimini degli Stati Uniti in Iraq e Afghanistan e la doppiezza di una politica estera i cui obiettivi e metodi sono tenuti nascosti alla gran parte dei cittadini americani.

La persecuzione di Bradley Manning appare in tutta la sua gravità a fronte di un’amministrazione come quella di Barack Obama che aveva promesso un cambiamento epocale. Al contrario, fino dall’inizio del suo mandato il presidente ha fatto di tutto per nascondere le responsabilità di chi lo ha preceduto negli eccessi della guerra al terrore e nello scatenare una guerra illegale in Iraq sulla base di menzogne somministrate impunemente ai propri cittadini.

L’atteggiamento odierno del governo americano è pressoché identico a quello tenuto da Richard Nixon nel 1971 al momento dell’esplosione del caso dei cosiddetti Pentagon Papers sulla guerra in Vietnam. Quando l’ex analista militare Daniel Ellsberg passò i documenti riservati al New York Times e al Washington Post, i media e l’opinione pubblica si mobilitarono in massa, finché la Corte Suprema finì per garantire il diritto alla pubblicazione, impedendo di fatto al governo di perseguire Ellsberg.

La situazione odierna appare tuttavia deteriorata e i principali giornali americani, controllati da grandi interessi economici e finanziari, risultano ormai docili di fronte al potere. Il New York Times, ad esempio, già baluardo del progressismo d’oltreoceano, poco dopo aver iniziato a diffondere i cablo diWikileaks ha pubblicato svariati editoriali nei quali ha preso le distanze dal sito di Assange, mentre il direttore Bill Keller è giunto ad ammettere candidamente di aver concordato con la Casa Bianca l’occultamento di determinate informazioni, dal momento che a suo dire la libertà di stampa consisterebbe nella libertà di non pubblicare ciò che il governo ritiene possa danneggiare la sicurezza nazionale.

In questo scenario inquietante s’inserisce anche il sostanziale silenzio sulla sorte di Bradley Manning da parte di quei gruppi della società civile che fino a poco più di due anni fa protestavano contro i metodi dell’amministrazione Bush e che ora assecondano colpevolmente quegli stessi eccessi solo perché a macchiarsene è un presidente democratico.

di Michele Paris

17 marzo 2011

La questione energetica fondamento di una economia sostenibile



https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEg_h8lnYfe4FpNLPS0tR4tti1t4JHIyZwswnFtqnmQhsDpy90pkt9-Bk-TjPRdMqsZTvTsL3dUI3cRxJ3r0QpjMLrq0SLLtusDGoZss78u2Au81cnnXOrPWDwO36jH1TIefr1k3Eg/s320/root-chakra-catherine-g-mcelroy.jpg

La catastrofe giapponese ripropone tramite la discussione sul nucleare il tema dell'energia. Le risorse energetiche infatti sono l’elemento sostanziale per ogni interpretazione del modello di sviluppo economico. Quest’ultimo se si ritiene illimitato nell’espansione dei mercati per mezzo dell’allargamento dei consumi, non è dato in fisica giacché le risorse naturali per definizione sono scarse e limitate. In effetti, le flebili voci ambientaliste sembrano spesso ispirate più all’utopismo irrealistico, che ad una consapevolezza politica, fondata sulla contraddizione ingenerata tra la cultura e la natura dall’utilitarismo economicista e il pragmatismo tecnologico. D’altra parte le patologie prodotte dal modello di sviluppo industriale sono oggi di tale portata, che è credibile, finanche popolare, proporre un mutamento di paradigma capace di superare la modernità sul piano della sostenibilità ecologica e la responsabilità sociale e politica. Nella fattispecie, il sistema energetico italiano si fonda essenzialmente sulle fonti fossili: gas naturale, petrolio e suoi derivati, carbone. Ben il 67% dei 318 TWh di energia complessivamente consumati proviene, infatti, da centrali termoelettriche, equamente insediate nel territorio nazionale. Le fonti rinnovabili contribuiscono per il 16-17%. Prevalente è l’idroelettrica, prodotta soprattutto in centrali dell’Italia del Nord, che occupa una quota del 15%. Il residuo 2% viene dalla geotermia, dalle biomasse e dai rifiuti e, in misura minore, dall’eolico che fornisce, insieme al fotovoltaico, 1.183 GWh d’energia e che appare in crescita. A completare l’offerta ci sono infine le importazioni dirette di energia dai paesi confinanti, che pesano per un 16%. Il rifornimento avviene soprattutto da Francia e Svizzera, seguite da Austria, Slovenia e, in misura ridotta, Grecia. Dall’esame di questi sommari dati, spiccano agli occhi tre evidenze: l’elevato utilizzo di combustibili fossili, il ridotto apporto delle fonti pulite e rinnovabili, la notevole dipendenza dall’estero del nostro sistema energetico. Partiamo da quest’ultimo aspetto. Poveri di risorse tradizionali, siamo costretti ad approvvigionarci largamente dall’estero, acquistando sia combustibili sia elettricità. In tal senso, la localizzazione delle esigenze energetiche contribuirebbe ad un processo di consapevolezza ecologica delle fonti e responsabilizzazione sociale e politica dal basso verso l’alto, attivando un modello sussidiario e comunitario di autonomia e indipendenza che avrebbe un impatto virtuoso in efficienza ed efficacia economica. Altra evidenza, si è detto, è l’eccessivo utilizzo di fonti fossili. Escluse le importazioni di elettricità, ricorriamo per l’81% della nostra produzione alle fonti non rinnovabili, con pesanti conseguenze ambientali: è noto che, a livello mondiale, oltre il 75% dell’emissione di anidride carbonica (il principale gas responsabile del cosiddetto effetto serra) è imputabile alla combustione di fonti fossili (essenzialmente carbone e petrolio). Sappiamo delle controversie tra i paesi industrializzati occidentali e i Paesi emergenti sulla reale volontà di adottare la riduzione delle emissioni di gas serra, che ha visto recentemente a Copenhagen l’ultimo - ma non ultimo - atto internazionale. La tendenza, in effetti, è ad un continuo aumento della domanda di energia, anche se, in linea con gli altri paesi più industrializzati, negli ultimi anni il tasso di crescita si è stabilizzato su una media del 2-3%: merito sia di un uso più efficiente dell’energia, sia dello spostamento della nostra economia verso un terziario avanzato, a più bassa intensità energetica. Da questo punto di vista sarebbe auspicabile un mutamento di paradigma socio-economico. In un contesto di tarda o post-modernità, con una economia sempre più smaterializzata, declinare la tecnologia e le priorità socio-culturali su priorità in controtendenza - oggi percepite nell’opinione pubblica - incentrate sulla qualità della vita, la sua sacralità e quindi armonia naturale, è praticabile anche in termini di consenso diffuso.
Le fonti energetiche rinnovabili sono quelle fonti il cui utilizzo non ne comporta l’estinzione: sono quindi tendenzialmente infinite ed, in genere, pulite (la valutazione sull’impatto ambientale e salutare va fatta in relazione all’intero ciclo di vita). Sono il sole, il vento, l’energia idraulica, le maree, la geotermia e le biomasse. In Italia la miopia politica e culturale, indotta dai forti interessi economici dominanti, si è concentrata quasi completamente sulle fonti rinnovabili “convenzionali”, vale a dire energia idraulica, geotermica e da biomasse. Minoritario resta invece l’apporto di sole e vento (che solo in questi ultimi anni sta diffondendosi), inesistente quello dell’energia marina, mentre l’idrogeno resta ad uno stato ancora di studio con aspetti molto contraddittori in merito alle implicazioni ecologiche di tale prodotto energetico. Le speranze concrete per il futuro sono essenzialmente due: sole e vento. Sono fonti veramente rinnovabili, eterne, pulite, gratuite e senza padrone. Sebbene da secoli l’uomo sfrutti la potenza del vento, è solo negli ultimi decenni che ne riesce a trarne anche elettricità. Il potenziale mondiale è enorme: secondo gli studi, da 20 a 50mila TWh, ben al di sopra, quindi, dell’attuale fabbisogno globale del Pianeta.
La forte domanda si accompagna ad un progressivo affinamento della tecnologia eolica: dai primi generatori a due o anche una sola pala, siamo ormai assestati su quelli a tre pale, le cui dimensioni sono progressivamente aumentate. Ciò ha consentito un aumento della potenza (in 20 anni aumentata di 60 volte) ma non parallelamente dei costi (aumentati solo di 10 volte), grazie alle economie di scala. Caso esemplare dei vantaggi offerti dalle nuove FER anche a livello economico e occupazionale è quello della Danimarca. I danesi, che soddisfano con l’eolico il 20% del loro fabbisogno nazionale, hanno oggi il primato mondiale nel settore, con tre grandi imprese tra le prime dieci del pianeta ed una quota di mercato pari al 50% delle richieste mondiali. Quella eolica rappresenta oggi la prima industria della Danimarca, con 25.000 nuovi occupati. Interessante è anche il sistema di gestione degli impianti, affidati, sulla base di un azionariato popolare, a migliaia di piccoli investitori privati. In Italia gli impianti sono quasi tutti concentrati sui rilievi dell’Appennino centro-meridionale (Abruzzo, Molise, Puglia, Campania. Tra i limiti che ostacolano una maggiore diffusione degli aerogeneratori, oltre alla basilare diversa esposizione ai venti, ci sono le resistenze locali (spesso animate da un risentito provincialismo), dovute all’innegabile impatto paesaggistico, all’inquinamento acustico e alle interferenze elettromagnetiche. Ancor più del vento, infatti, è il Sole, fonte di vita per eccellenza, che potrà risolvere i nostri problemi energetici. Il potenziale teorico è sconfinato: a seconda degli studi, 10-15.000 volte l’attuale fabbisogno mondiale. Tutto sta nel riuscire a “catturare” le radiazioni solari e a trasformarle in energia: una sfida tecnologica che negli ultimi anni sta registrando crescenti successi. L’energia solare può essere utilizzata per produrre calore o elettricità. Il primo uso è quello del cosiddetto “solare termico”, con i collettori per l’acqua calda per usi sanitari e per il riscaldamento degli edifici. Nelle realizzazioni più avanzate, si accompagna ad un termico passivo, che cattura il calore solare grazie ad una buona progettazione degli edifici. Paradossalmente, la loro diffusione è maggiore in paesi con insolazione minore: Germania ed Austria, mentre l’Italia, inondata dal sole per almeno otto mesi all’anno, è in un incomprensibile ritardo. C’è poi il solare fotovoltaico, per produrre elettricità. Si fonda sulle celle solari a base di silicio che, esposte alle radiazioni solari, originano cariche elettriche. L’efficienza di conversione delle celle è oggetto di un continuo affinamento tecnologico. Elettricità dal sole è poi prodotta anche grazie agli impianti a concentrazione, che moltiplicano la temperatura delle radiazioni solari grazie alla concentrazione dei raggi su un unico punto, utilizzando il sistema degli specchi di Archimede.
L’efficienza dei vari sistemi è ancora da perfezionare. I costi economici, in particolare, non sono ancora competitivi, e restano più alti di quelli dell’energia prodotta con fonti fossili, ma la valutazione sulla convenienza va presa su parametri non riduttivamente economicistici, ovviamente. Con l’attuale tendenza alla riduzione dei costi unitari, si conta, ad esempio, sull’assoluta competitività entro un arco di 10 anni. Il solare, resta, indubbiamente, la grande speranza. È una fonte pulita, veramente rinnovabile, eterna, gratuita e largamente diffusa. Non presenta, inoltre, problemi di impatto, se non, per le grandi centrali, per lo spazio richiesto. Ma la sua vera diffusione non sembra legata ai grandi impianti, quanto invece a piccoli impianti, in grado di soddisfare le esigenze dei singoli nuclei abitativi. Ma il discorso sulle fonti rinnovabili va reso completo con una “settima fonte”, forse la più “strategica”: il risparmio energetico conseguente ad un uso razionale della risorsa. A differenza del risparmio da “sobrietà”, che è centrale nella logica di una scelta di stile di vita critico verso i consumi superflui, il risparmio da uso razionale dell’energia consente di disegnare un quadro di operatività economica sostenibile con un minore dispendio di risorse, grazie alla sensibilità culturale, imprenditoriale e l’indipendenza del “politico” dai ricatti dei gruppi d’interesse consolidati.
Fonti rinnovabili e contenimento dei consumi tramite una diversa consapevolezza e un uso razionale dell’energia sono la realistica alternativa alle centrali a fonti fossili. Sono obiettivi possibili, che richiedono una lugimirante volontà politica e consapevolezza sociale. Il territorio è il luogo naturale di questa grande battaglia, che coinvolge lo stile di vita individuale in un contesto comunitario e partecipativo, solidale perché sussidiario. Le ricadute, sarebbero positive non solo per la devastata salute del nostro pianeta, ma anche per i risvolti strategici, economici e occupazionali. Una vera rivoluzione fattuale, per mutare l’attuale modello di sviluppo.
di Eduardo Zarelli

16 marzo 2011

Fukushima: "mi dite che cazzo sta succedendo"



Non è il banale gusto del turpiloquio a suggerire il titolo di questo aggiornamento sulla crisi nucleare giapponese, ma la traduzione, forse un po’ brutale ma realistica, della frase che, riportano Kyodo News e un quotidiano svedese, il primo ministro nipponico Naoto Kan ha rivolto ai dirigenti della TEPCO, la società elettrica che gestisce la centrale di Fukushima. Kan è frustrato che ancora la situazione non si risolva, anzi vada peggiorando di ora in ora. Ma anche perché cominciano le reticenze interne e incrociate. Pare infatti che la notizia dell’ultima esplosione al reattore n.2 di Fukushima e di un incendio al reattore n.4 sia stata data al primo ministro con un’ora di ritardo. Comincia a saltare la catena comunicativa, insomma, ed è una pessima notizia.


Circa 250 dei 300 operatori attivi nella centrale sono stati evacuati. A gestire sei reattori in crisi di raffreddamento attualmente sono solo in 50. Lavoratori con aspirazioni da kamikaze probabilmente, affiancati, a quanto pare, anche da esperti americani. Nel frattempo si annuncia che l’incidente di Fukushima è stato promosso al livello 6, su una scala di 7 (record stabilito solo da Cernobyl). L’area di evacuazione è passata da 20 a 30 chilometri, e il sindaco di Tokio ha ufficializzato la presenza di radiazioni sulla città, però a un livello non dannoso alla salute. Ovviamente… Un’osservazione che contrasta con l’invito di tutte le ambasciate diretto ai propri dipendenti a lasciare quanto prima la capitale.

Ma tutto il quadro contrasta aspramente con il mantra che dal Giappone arriva insistentemente, rilanciato con forza da tutti i gruppi d’interesse legati al nucleare, con media asserviti al seguito: “Fukushima non è come Cernobyl”. Non ancora, risponde qualcuno. È peggio, osservano altri. Quello che appare chiaro già oggi è che l’evento di Fukushima avrà in comune con Cernobyl il ritardo con cui verranno finalmente scoperte le carte. Per chi non ha memoria: l’allora URSS tenne nascoste le reali proporzioni dell’incidente per giorni e giorni, ammettendo tutto solo davanti all’evidenza, quando ormai la nube si era diffusa in modo tale da renderne molto difficoltoso il monitoraggio.

Allora era l’orgoglio sovietico, sancito da un regime dittatoriale, a trattenere le informazioni. Oggi è un’altra forma di dittatura a tenere a freno a fatica il flusso informativo: la dittatura dell’industria e degli interessi legati al nucleare. Anche in questo caso, attendiamocelo, la reale proporzione sarà chiara solo quando l’evidenza sarà tale da non poter essere più negata. C’è chi ha fatto tesoro dell’esperienza sovietica, come i tedeschi, i cui boschi orientali sono ancora soggetti a divieti di raccolta di frutti o funghi per la presenza di radionuclidi persistenti nel terreno. Non a caso ieri ben 400 manifestazioni antinucleari si sono tenute in tutta la Germania. Altrove, come in Italia, si lascia ufficialmente il tema a una Prestigiacomo qualunque, terrea in volto nel parlare di cose che non sa.

Per il resto l’opposizione, da noi, viaggia ancora e sempre in Rete, dove si organizzano gruppi e si propongono manifestazioni, probabilmente destinate ad abortire a causa delle solite varie divisioni all’italiana, in questo caso fra i diversi gruppi antinuclearisti, ognuno convinto di avere l’unzione esclusiva per organizzare mobilitazioni popolari e indisponibile ad accodarsi a quelle di altri, pur di fronte a un interesse comune. Resta la difficoltà giornalistica a scrivere pezzi riguardanti situazioni così capaci di mutare da un momento all’altro. Mentre scrivo, la Reuters notifica che le radiazioni nella sala controllo del reattore n.4 di Fukushima sono troppo alte per permettere il lavoro degli operatori, e quindi verrà presto abbandonata. Ma in questo contesto non sono le notizie date ad angosciare, bensì quelle non date. In particolare, parafrasando Naoto Kan, qualcuno vuole dirci che cazzo sta succedendo alle barre irradiate presenti nelle vasche di raffreddamento e al combustibile di plutonio del reattore n.3?
di Davide Stasi

15 marzo 2011

Manning, la verità é torturata


La fonte dei 250 mila documenti diplomatici statunitensi che Wikileaks ha recentemente iniziato a pubblicare è con ogni probabilità il soldato americano Bradley Manning. 23 anni, ex analista dell’intelligence in Iraq, ha fornito un contributo di grandissimo valore alla conoscenza degli eccessi e dei crimini commessi da Washington in mezzo mondo nell’ultimo decennio. Per il governo americano, tuttavia, Bradley Manning rappresenta una grave minaccia, come dimostrano le condizioni disumane in cui è stato costretto in dieci mesi di carcere e le recenti pesantissime accuse sollevate nei suoi confronti che potrebbero addirittura sfociare in una condanna alla pena capitale.

I guai con la giustizia militare per il “Private First Class” (Pfc.) Bradley Manning erano iniziati nel maggio del 2010. L’arresto per lui era scattato in Iraq in seguito alle rivelazioni dell’ex hacker Adrian Lamo, il quale in una chat aveva raccolto alcune frasi dello stesso giovane soldato americano che indicavano la sua responsabilità nella pubblicazione di un video scottante. Il filmato in questione, scaricato senza autorizzazione dai terminali del Pentagono e pubblicato da Wikileaks nel mese di aprile con il titolo di “Collateral Murder”, riprendeva elicotteri americani che facevano fuoco su civili inermi a Baghdad nel 2007. In quella circostanza, furono assassinati anche due giornalisti della Reuters.

A Bradley Manning vennero contestati dodici capi d’accusa e per lui fu l’inizio di una detenzione in stato di isolamento che dura tutt’ora, nonostante nessuna condanna sia stata emessa né esista alcun precedente penale a suo carico. Presso una base dei Marines a Quantico, in Virginia, Manning è tenuto segregato per 23 ore al giorno, con una sola ora concessagli per qualche esercizio in una stanza vuota. I contatti con il mondo esterno sono severamente ristretti, così come l’accesso a qualsiasi materiale di lettura, mentre non gli è nemmeno consentito dormire durante il giorno.

Anche se nessun medico ha certificato tendenze suicide, Manning è poi imprigionato secondo procedure che dovrebbero impedirgli gesti autolesionisti. A partire dalla scorsa settimana, ad esempio, gli viene imposto di dormire completamente nudo. Una misura presa, secondo quanto scritto in un blog dal suo legale, avvocato David Coombs, in seguito ad un commento sarcastico fatto dallo stesso Manning sulla possibilità di tentare il suicidio utilizzando i propri indumenti intimi.

Quest’ultimo episodio rappresenta solo il più recente in una serie di trattamenti che sconfinano spesso nella tortura e appare mirato a debilitare la resistenza fisica e mentale di un giovane contro il quale il governo e i militari americani intendono vendicarsi in maniera esemplare.

Secondo alcuni, questi metodi servirebbero a convincere Manning ad accusare Julian Assange di complicità nell’impossessarsi dei documenti segreti pubblicati da Wikileaks, così da poter formulare una qualche accusa nei confronti di quest’ultimo e chiederne l’estradizione verso gli Stati Uniti. A dicembre dello scorso anno, infatti, il quotidiano britanno The Independent scrisse che il Dipartimento di Giustizia americano aveva proposto a Manning un accordo che prevedeva il suo trasferimento alla giustizia civile in cambio di un’accusa esplicita per coinvolgere il fondatore di Wikileaks.

Il caso di Bradley Manning ha suscitato le proteste di numerose organizzazioni a difesa dei diritti umani, mentre l’ONU sta conducendo un’indagine per stabilire se la giustizia militare statunitense abbia adottato metodi di tortura nei suoi confronti. Per il Pentagono, secondo le parole di una portavoce,” le condizioni di detenzione di Manning sono determinate dalla serietà delle accuse mossegli contro, dalla pena potenzialmente molto lunga che lo attende, dalle implicazioni per la sicurezza nazionale del suo caso e dal danno che potrebbe arrecare a se stesso o ad altri”.

In questi lunghi mesi di carcere, intanto, le sue energie sono state fiaccate e la sua lucidità appare seriamente compromessa. Uno dei pochi autorizzati a vistare Bradley Manning a Quantico è l’amico David House, ricercatore del MIT, il quale dopo un recente incontro ha detto alla stampa di avere l’impressione di assistere alla sua trasformazione “da giovane vivace e intelligente ad una persona a volte apatica e con serie difficoltà a sostenere una banale conversazione”.

Come se non bastasse, settimana scorsa la giustizia militare ha formulato 22 nuovi capi d’accusa contro Bradley Manning. L’accusa più grave è quella di “collaborazione con il nemico”, secondo quanto contemplato dall’articolo 104 del codice militare, un crimine che può prevedere anche la pena di morte. Quale sia il nemico che Manning avrebbe favorito non è però specificato dai militari, tanto che potrebbe essere addirittura Wikileaks. Una designazione questa che esporrebbe lo stesso Julian Assange a possibili azioni, anche militari, da parte americana.

Se i nemici in questione fossero invece i Talebani oppure i membri di Al-Qaeda o altri gruppi estremisti, l’accusa sollevata contro Manning potrebbe essere facilmente estesa, non solo nuovamente a Wikileaks, ma anche agli stessi giornali (New York Times, Guardian, ecc.) che hanno pubblicato i cablo riservati delle ambasciate USA negli ultimi mesi.

I militari, da parte loro, hanno affermato di non riferirsi a Wikileaks ma continuano a non voler rivelare l’identità del “nemico” che avrebbe beneficiato del comportamento di Manning, poiché il caso in questione ha a che fare con la “sicurezza nazionale e, in tempo di guerra, rivelare questa informazione potrebbe compromettere le operazioni sul campo attualmente in corso”.

Molte delle altre recenti accuse, peraltro, si ripetono e sono soltanto formulate in maniera diversa, così da poter presentare un numero maggiore di imputazioni ed accentuare il presunto comportamento criminale di Bradley Manning. Tra di esse vi è anche l’accusa di aver utilizzato un software non autorizzato sui computer della Difesa per accedere a informazioni segrete.

Se è vero che l’accusa ha anticipato che non intende chiedere la pena di morte, la decisione finale su questo punto spetterà in ogni caso all’ufficiale incaricato di supervisionare il caso di Manning, generale Karl Horst. La corte marziale per Manning terrà l’udienza preliminare tra maggio e giugno e solo in quella sede sarà possibile conoscere con certezza tutti i capi d’accusa e la pena richiesta ufficialmente.

Gli abusi nei confronti di Bradley Manning rappresentano una chiara intimidazione verso chiunque intenda portare alla luce le atrocità commesse dal governo americano. La colpa del giovane militare statunitense sarebbe quella di avere smascherato i veri e propri crimini degli Stati Uniti in Iraq e Afghanistan e la doppiezza di una politica estera i cui obiettivi e metodi sono tenuti nascosti alla gran parte dei cittadini americani.

La persecuzione di Bradley Manning appare in tutta la sua gravità a fronte di un’amministrazione come quella di Barack Obama che aveva promesso un cambiamento epocale. Al contrario, fino dall’inizio del suo mandato il presidente ha fatto di tutto per nascondere le responsabilità di chi lo ha preceduto negli eccessi della guerra al terrore e nello scatenare una guerra illegale in Iraq sulla base di menzogne somministrate impunemente ai propri cittadini.

L’atteggiamento odierno del governo americano è pressoché identico a quello tenuto da Richard Nixon nel 1971 al momento dell’esplosione del caso dei cosiddetti Pentagon Papers sulla guerra in Vietnam. Quando l’ex analista militare Daniel Ellsberg passò i documenti riservati al New York Times e al Washington Post, i media e l’opinione pubblica si mobilitarono in massa, finché la Corte Suprema finì per garantire il diritto alla pubblicazione, impedendo di fatto al governo di perseguire Ellsberg.

La situazione odierna appare tuttavia deteriorata e i principali giornali americani, controllati da grandi interessi economici e finanziari, risultano ormai docili di fronte al potere. Il New York Times, ad esempio, già baluardo del progressismo d’oltreoceano, poco dopo aver iniziato a diffondere i cablo diWikileaks ha pubblicato svariati editoriali nei quali ha preso le distanze dal sito di Assange, mentre il direttore Bill Keller è giunto ad ammettere candidamente di aver concordato con la Casa Bianca l’occultamento di determinate informazioni, dal momento che a suo dire la libertà di stampa consisterebbe nella libertà di non pubblicare ciò che il governo ritiene possa danneggiare la sicurezza nazionale.

In questo scenario inquietante s’inserisce anche il sostanziale silenzio sulla sorte di Bradley Manning da parte di quei gruppi della società civile che fino a poco più di due anni fa protestavano contro i metodi dell’amministrazione Bush e che ora assecondano colpevolmente quegli stessi eccessi solo perché a macchiarsene è un presidente democratico.

di Michele Paris