02 aprile 2011
Rispetto per Lampedusa. Rispetto per l’Italia
Fa pena dover mettere a confronto la dignità della gente di Lampedusa con la buffoneria di Berlusconi. Tanto quelli mantengono un comportamento solidale coi migranti ma non prono all’ingiustizia di doverne sopportare da soli l’invasione, quanto il clown di Palazzo Chigi non perde l’occasione di prodursi nell’ennesimo show da avanspettacolo. «Anche io diventerò lampedusano. Sono andato su Internet e ho comprato una casa a Cala Francese, si chiama "Le Due Palme"», è arrivato a dire in faccia a quegli eroici isolani che vivono in mezzo alla sporcizia, esposti al rischio di epidemie, di giorno impegnati a dare una mano ai soccorsi e di sera tappati in casa per paura di furti e rapine da parte di stranieri affamati (fra i quali c’è, e non potrebbe essere altrimenti, anche qualche genuino delinquente). Non pago delle sue stomachevoli battute, si è prodigato nel consueto sfoggio di promesse che non manterrà: il Nobel per la Pace per l'isola, una moratoria fiscale, previdenziale e bancaria perché Lampedusa diventi zona franca, un piano per il turismo. Naturalmente ha già trovato il nome da far riecheggiare nell’etere propagandistico: operazione “Lampedusa pulita”. «Nelle prossime 48-60 ore l'isola sarà abitata solo dai lampedusani». Come a Napoli per la munnezza. Come il Patto con gli Italiani firmato in tv dal maggiordomo Vespa. Come l’incalcolabile trafila di balle rifilate all’Italia credulona in questi infiniti diciassette anni di “nuovi miracoli italiani”.
Ma dico io: a un tiro di schioppo da noi, nell’ex alleata Libia, si sta consumando una guerra civile a cui l’Occidente, avido di affari, ha pensato bene di sovrapporre una scellerata guerra di conquista, il suolo nazionale è investito da un esodo di fuggiaschi che non siamo preparati ad affrontare, il ministero degli Interni viene sbeffeggiato dalle Regioni che non ne vogliono sapere di accoglierli secondo il piano di spartizione, e il nostro capo del governo insiste e persiste nel fare di un momento così delicato e drammatico l’ennesimo comizio in vista delle prossime elezioni amministrative? D’accordo che ci ha abituato a tutto, ma prego e spero che i fieri lampedusani abbiano un ulteriore scatto d’orgoglio e anche se in queste ore la collaborazione con la Tunisia rendesse possibile lo svuotamento dell’isola, alzino ancora il tono della protesta che già aveva toccato picchi di tensione col blocco del porto da parte dei pescatori e con la catena umana delle donne per impedire altri sbarchi. Berlusconi è la politica che sputa sulla sofferenza, dei suoi compatrioti e dei disperati che vengono qui a sommare disperazione a disperazione.
Perché è inutile far finta che l’immigrazione sia un problema controllabile coi flussi burocratici, coi patti d’acciaio (e si è visto, l’acciaio) con dittatori ricattatori, o con le porte spalancate sempre e comunque e con chiunque. La migrazione di africani e asiatici, specialmente giovani (spesso istruiti e vogliosi d’integrarsi, come i tunisini stipati a Lampedusa), è un processo storico inarrestabile. Sempre che non si arresti il cammino della globalizzazione dei mercati e degli stili di vita, che induce popolazioni contaminate dal miraggio del “benessere” occidentale a trasferirsi in Europa. Oppure, al rovescio, sarebbe ora di rompere il tabù delle braccia aperte a tutti i costi e cominciare a dire la verità: siamo già troppi. Il nostro paese è sovrappopolato, trovare un lavoro decente è diventato un terno al lotto, imperversa una silenziosa e feroce guerra fra poveri in cui a farcela sono raccomandati, favorite e paggi del signore di turno, la maggior parte delle lauree non serve a un beneamato, l’economia non tira e quando lo fa – gli dei abbiano sempre in gloria i piccoli imprenditori, che a volte si suicidano per la vergogna di non poter pagare i dipendenti - è per grazia ricevuta dai vampiri delle banche, e con tutto ciò dovremmo fare gli incoscienti buoni samaritani condannando tutti, noi e i forestieri, a una miscela di disoccupazione, frustrazione e criminalità?
Eh no, non se ne può più. È vero che spesso i nostri ragazzi sono delle fighette laccate che disdegnano la fatica e il posto umile, ma è anche vero che questa è un preciso orientamento della società figlia della “innovazione” e della “conoscenza”, cioè della scomparsa della manifattura e dell’agricoltura soppiantate dalla metastasi del superfluo, dei “servizi” e della finanza. I colpevoli sono i loro genitori, che dopo il “boom” dei trent’anni gloriosi (anni ’50-’70) e il declino dei trent’anni accidiosi (anni ’80-2000), si sono adagiati sulla rendita di un modello economico-sociale che è crollato sotto i colpi del mercato unico mondiale. Il modello di vita, sparso in ogni angolo del pianeta grazie alle nuove tecnologie, ha fatto il resto e il risultato è quello che abbiamo sotto gli occhi: masse di poveri che premono ai nostri confini per essere un po’ meno poveri ma rendendoci tutti più miseri dal momento che il loro arrivo a frotte abbassa il costo della manodopera facendo la felicità dei padroni del vapore e l’infelicità dei lavoratori.
Se esistesse un’Unione Europa degna di tal nome, sua sarebbe la missione di regolamentare e gestire l’ingresso di extracomunitari secondo una regia unica. Ma per questo occorrerebbe che il continente europeo si desse una missione a monte: fondare un sistema di sviluppo interno il più possibile autonomo dalle cupole finanziarie e industriali che manovrano a tavolino le politiche economiche degli Stati. Per ora il consesso internazionale è talmente succube degli appetiti da business (vedi la Francia che sbava per mettere le mani sulla Libia) che giunge a calpestare ogni logica utilitaria e di buonsenso fino ad escludere in un consiglio di guerra la nazione più esposta e più interessata a sovrintendere al futuro di Tripoli, l’Italia, includendo invece la Germania che non partecipa neanche alle operazioni. Per uno schiaffo simile il nostro governo dovrebbe come minimo revocare l’uso delle basi aeree da cui decollano i voli di bombardamento.
Ma avercelo, un governo. In sua vece abbiamo un comico che dà spettacolo mentre è immerso fino al collo nel fango di processi gravissimi e umilianti per noi sudditi che ne subiamo le piazzate ogni santo giorno. E poi Napolitano osa anche venirci a parlare di patria e di coesione nazionale. Vada a dirlo a Lampedusa.
di Alessio Mannino
01 aprile 2011
Fora de ball
alcune regioni d'Italia tutte centro-meridionali ad eccezione della Liguria. A seguito delle veementi proteste decide di individuare altre sette tendopoli nel Nord finora escluso anche per obbedire all'editto di Bossi: "fora e ball" rivolto ai migranti. I quali migranti scappano da Manduria, attraversano l'Italia, giungono a Ventimiglia ma la Francia blocca il valico. I migranti improvvisano cortei di protesta. Tornano indietro. Non sanno dove stare. Un casino di cui nessuno riesce più a dipanarne la matassa aggrovigliata.
Spettacolo inverecondo offerto dal Governo vile e piagnucoloso, dal Parlamento che infierisce sulle ferite dell'Italia piuttosto che dichiarare l'Italia zona di pace chiudendo le basi militari alla Nato ed anche dalle Regioni che giocano tutte a rimpiattino con il Governo e tra di loro al fine di scaricare al più fesso (nel caso Vendola per Manduria o Lombardo per la Sicilia) l'arrivo e la sistemazione dei migranti. C'è intanto un enorme girotondo di navi, di aerei, di pulman di gente che va e gente che viene.....
Non siamo nè uno Stato nè una Nazione. Il governo non difende gli interessi nazionali
ma si preoccupa di non essere "posato" dalla signora Clinton e dal signor Obama. Cosa che questi signori hanno fatto, tanto fatto da ringraziare l'Italia per l'aiuto offerto agli alleati.
Non credo che USA, Gran Bretagna e Francia si ringraziino tra di loro. Si ringrazia l'Italia come la cameriera che è tanto tanto servizievole e brava e tanto masochista da spararsi sui piedi...
La prosperità della Libia ha impedito finora l'afflusso di migranti in Italia. La Libia ha assorbito inoltre migliaia e migliaia di nostri tecnici, ingegneri, specialisti che sono già tornati in Italia e sarà difficile trovare per loro del lavoro. Ora l'Italia sarà sommersa da una valanga umana. Il Canale di Sicilia sarà traversato da quanti cercheranno di sfuggire al dopo Gheddafi e quanti sono stati truffati dalle rivoluzioni con conclusione controrivoluzionaria della Tunisia e dell'Egitto. L'Italia potrebbe sfasciarsi sulla questione immigrazione assai di più che sul federalismo o altre cose. Intanto sebbene i discorsi di Napolitano all'ONU ed agli italo-americani vorrebbero dimostrare il contrario, l'Italia sta tornando ad essere una mera "espressione geografica".
di Pietro Ancona
31 marzo 2011
Non esistono persone che «amano troppo», ma solo persone che non sanno amare
Da quando, ventisei anni, fa la psicoterapista americana Robin Norwood ha pubblicato il suo libro «Donne che amano troppo», diventato rapidamente un bes-seller internazionale, l’immaginario collettivo delle donne, forse a dispetto delle intenzioni dell’autrice, ha trovato un nuovo strumento di vittimismo e di autocommiserazione.
L’idea, invero presente già nel titolo originale inglese («Women who love too much»), è che le donne, o almeno un buon numero di esse, sono portate ad amare molto, troppo; mentre gli uomini, si sa, non c’è pericolo che si mettano in un simile rischio: risultato, le donne soffrono per amore molto più degli uomini, e, quel che più conta, soffrono per aver amato troppo, ossia per una virtù che esse spingono fino all’eroismo, venendone mal ripagate.
Naturalmente non è questa la tesi del libro, e chi si prende la fatica di leggerlo, se ne rende conto ben presto; anzi, già da una lettura estremamente frettolosa, appare quanto l’autrice ritenga determinante, e deleterio, il rapporto di molte donne con le loro madri: un rapporto sbagliato, che le porta e replicare con gli uomini, quando passano dall’adolescenza all’età adulta, le stesse dinamiche distruttive che già le madri hanno sperimentato con i loro mariti o compagni e che poi, cariche di frustrazione, hanno riversato sulle figlie, senza tuttavia che queste imparassero minimamente la lezione.
Ma allora, perché quel titolo ambiguo, che suggerisce una chiave di lettura scorretta e fuorviante? Forse per strizzare l’occhio al post-femminismo, per toccare le corde più lacrimose e sdolcinate dell’animo dei lettori, e specialmente delle lettrici?
C’è, in esso, un sottinteso non proprio limpido, non proprio onesto: che, in questa società egoista e crudele, amare sia una cosa meravigliosa, e amare troppo costituisca, sì, un errore, ma uno di quegli errori che non possono non strappare negli altri un moto di ammirazione, o almeno di profonda compassione, se non altro per il coraggio affettivo che esso implica, per la capacità di dedizione, in breve: per la disponibilità a mettersi interamente in gioco, senza paracadute e senza uscite d’emergenza.
Insomma è la solita vecchia storia di Francesca da Rimini: se perfino il gran padre Dante si turba, piange e sviene davanti al suo drammatico racconto (mentre, si badi, Paolo se ne resta in silenzio e fa la figura del perfetto idiota), bisogna proprio avere un cuore di pietra per non sentire che questo tipo di donna, la donna che ama troppo, è forse colpevole agli occhi del mondo, ma di certo è innocente agli occhi di chi sappia veramente cosa sia il cuore umano.
Ma le cose stanno ben altrimenti.
La verità è che non esistono donne, e nemmeno uomini, che amino “troppo”: che cosa vuole mai significare una espressione del genere? Sarebbe come dire che al mondo ci sono troppa bontà, o troppa verità, o troppa giustizia: una autentica sciocchezza. L’amore non è mai troppo, mai, mai; e chi è disposto a bersi una frottola del genere, vuol dire che è capace di digerire qualunque inverosimile stravaganza o deliberata menzogna gli si vogliano propinare.
Il problema non è mai quello di amare troppo, mai: piuttosto, il problema è quello di saper amare o di non saper amare.
E si faccia attenzione che non diciamo nemmeno: «il problema è quello di amare male», perché sarebbe una plateale contraddizione in termini: che cosa significa, infatti, dire di Tizia o di Sempronio che essi sono persone che «amano male»? Nessuno potrebbe amare male: se si ama veramente, si ama e basta; e l’amore è sempre una cosa buona, sempre.
Amare non è una singola azione, come dipingere, fare la spesa, pregare. Certo si può dipingere male, fare male la spesa, perfino pregare male: queste sono tutte azioni, sia pure di segno estremamente diversificato; e un’azione può essere compiuta bene oppure male.
Amare, invece, non è un’azione: è un modo dell’essere. Quando l’essere ama – ma diremmo meglio: se l’essere ama, se è capace di amare -, allora ama e basta: la sua disposizione, la sua apertura esistenziale si possono manifestare anche attraverso azioni, giuste o sbagliate, buone o cattive che siano; tuttavia, a monte di tali azioni, vi è un modo dell’essere, un movimento dell’anima e, al tempo stesso, un suo stato qualitativo.
Ora, l’essere è, per definizione, amore. Amore incondizionato, amore per la vita: se non altro, amore per la propria vita. Infatti, quando l’essere prende in odio il mondo e perfino se stesso, decide di sopprimersi: vuole togliere di mezzo quell’essere che ama, nonostante tutto, e che si ribella al rifiuto del’amore, proprio o altrui.
Questo significa non solo che siamo fatti per l’amore, ma che siamo amore in noi stessi: il nostro scopo, il nostro significato, la nostra ragione d’essere, sono l’amore: veniamo dall’amore e all’amore aspiriamo a ritornare.
Che le persone amino, dunque, è scontato: certo, da ciò non deriva che esse sappiano amare; al contrario, molte non sanno amare, o hanno paura di amare, o non osano amare, non si ritengono degne di amare e di essere amate.
È un problema dell’essere, non dell’amore.
Se non si sa amare, le cause possono essere molteplici, ma tutte riconducibili, in un modo o nell’altro, a un denominatore comune: l’insufficienza, l’inadeguatezza dell’essere. Essere vuol dire amare; ma, appunto, per amare bisogna che ci sia l’essere.
Se l’essere è in difetto, se non si è sviluppato ed evoluto, se non è nemmeno consapevole di se stesso e del mondo, allora non vi può essere amore. Alcuni, dall’esterno, sono portati, in questi casi, a parlare di «troppo amore», di «amore sbagliato»: ma sono tutte sciocchezze. L’amore non è mai troppo e non è mai sbagliato; piuttosto, il fatto è che l’amore non può albergare laddove vi sia carenza di essere.
Gli spiriti superficiali sono portati a dire: «Amo, dunque sono», ma è vero l’esatto contrario: «Sono, dunque amo»; per cui, se non si È, non si può nemmeno amare. Non è che si ami troppo, o in modo sbagliato; è che proprio non si sa amare, non si sa che cosa sia l’amore.
A differenza di quanto comunemente si crede, è possibile, possibilissimo, essere dei perfetti analfabeti dell’amore: non importa quanti anni si ha o quanta esperienza di vita, nel senso quantitativo: saper amare è innanzitutto un dono e solo in seconda battuta una conquista.
Il fatto è che le donne, e anche alcuni uomini, sono portati a caricarsi di amori impossibili, dai quali ricaveranno solo amarezza e dolore, per una serie di ragioni ben precise, che poco o nulla hanno a che fare con l’amare troppo e molto, invece, con la scarsa stima e lo scarso amore di se stessi. In altri termini, se si amano disperatamente delle persone egoiste, imprevedibili, cattive e perfino sadiche o violente, la ragione vera è in relazione con un segreto desiderio di autopunizione e, inoltre, con un doloroso bisogno di essere accettati.
È come se ciascuno di questi innamorati infelici, di questi buoni samaritani a oltranza, di queste crocerossine e di questi missionari dalla infinita capacità di sopportazione, dicessero, più o meno, ai loro amanti-carnefici: «Vedi di quanto amore sono capace, di quanta inesauribile dedizione, di quale spirito di sacrificio: come potresti non ricambiare il mio amore, come potresti non provare per me gratitudine eterna?».
Ma è evidente che le cose stanno altrimenti; che quelle persone non hanno fiducia in se stesse, non si ritengono degne di essere amate semplicemente per quello che sono, così come sono; è evidente che, caricandosi sulle spalle fardelli disumani, inghiottendo maltrattamenti e umiliazioni, sopportando stoicamente continue docce scozzesi di manifestazioni affettive contraddittorie, fino alle botte e alla violenza fisica, altro non stanno facendo che inseguire il miraggio di un impossibile perdono di se stessi, per qualche colpa che ritengono di aver commesso, magari nella lontana infanzia, o per placare il fantasma corrucciato di un genitore che li avrebbe voluti diversi e migliori, ossia, detto in parole semplici, più conformi ai propri desideri.
Questo non significa che amare una persona difficile implichi SEMPRE disistima e disamore di se stessi, né che avere una certa propensione a fare la crocerossina o il missionario scaturisca SEMPRE da un trauma infantile o da un rapporto problematico con il padre o la madre.
Sono equilibri complessi, delicatissimi: stabilire dove finisca un comportamento affettivo “normale”, qualunque cosa ciò significhi, e dove, invece, ne incominci uno di segno patologico, fondato sul masochismo, è cosa tutt’altro che semplice, e lasciamo volentieri alla psicologia il compito di vagliare caso per caso, alla ricerca di questa elusiva linea di frontiera.
A noi preme, piuttosto, indicare l’aspetto generale del problema e ciò da un punto di vista essenzialmente filosofico, tralasciando, cioè, problematiche strettamente individuali e puntando dritti al cuore della questione: ossia alla mancanza di significato di concetti come quello di «amare troppo» o di «amare male»; per ribadire che, in effetti, esistono solo due tipi di persone, beninteso con molte sfumature intermedie: coloro che sanno amare e coloro che non sanno.
Saper amare, significa innanzitutto sapere, potere e volere amare se stessi, comprese le proprie debolezze e insufficienze, senza per questo corteggiarle e farsene scudo allo scopo di evadere dalle proprie responsabilità; in secondo luogo, amare la vita, compresi gli aspetti difficili e, talvolta, dolorosi di essa; in terzo luogo, cercare di rispondere nel modo migliore e più limpido alla chiamata dell’Essere, facendo della propria vita il luogo di una incessante maturazione spirituale.
In ogni caso, come dicevamo prima, essere è già amare: per cui chi non sa amare affatto - e stiamo parlando di moltissime persone, probabilmente di una larga maggioranza di esse - è, in realtà, un individuo povero di essere: un manichino che solo da lontano può venire scambiato per un autentico essere umano.
Certo, questo è un concetto molto forte, molto duro da accettare: ce ne rendiamo perfettamente conto.
Equivale a dire che la maggior parte degli esseri umani non sono veramente tali; che sono soltanto delle misere contraffazioni, talvolta consapevoli, talaltra inconsapevoli, di ciò che un essere umano dovrebbe realmente essere.
È un’idea sgradevole, che fa venire i brividi; eppure, crediamo che in essa non vi sia nulla di esagerato.
Che fare, dunque?
Forse dovremmo ricordarci, ogni tanto, che noi possediamo l’essere, ma non siamo l’essere: per cui ciò che è impossibile a noi come individui finiti e soggetti ad immense limitazioni, diviene possibile allorché ci immergiamo nel fluire dell’Essere, allorché rivolgiamo un pensiero di umiltà e di consapevolezza a quell’Essere da cui proveniamo ed al quale ritorneremo.
Non siamo noi l’essere, ma soltanto una delle sue infinite manifestazioni; e, se ci rendiamo conto della nostra povertà di essere, faremmo bene, ogni tanto, a rivolgerci non solo a professionisti della psiche, che si fanno ben pagare i loro consigli e le loro terapie, ma anche a quella Sorgente infinita dalla quale scaturisce tutto ciò che esiste, tutto ciò che ha vita e tutto ciò che popola la realtà con le sue innumerevoli manifestazioni.
A quel punto, la nostra debolezza si tramuterebbe in forza; la nostra indigenza, in pienezza; la nostra infelicità e la nostra solitudine, in gioia e calore.
Ci piace pensare che ciò sia pressoché impossibile, per paura di farne l’esperienza; preferiamo rinchiuderci nelle nostre orgogliose certezze razionalistiche.
Certo, è una scelta e fa parte della nostra libertà: noi siamo liberi.
Siamo liberi anche di farci del male; di persistere lungo strade sbagliate, che non portano da nessuna parte; di attardarci nei deserti afosi della disperazione, quando potremmo affrettarci nei giardini fioriti dell’Essere.
Siamo liberi anche di raccontarci delle pietose menzogne, per scusare il poco amore che abbiamo di noi stessi: come quella di essere indispensabili a qualcuno che non ci ama, che non ci stima, che non ci vuole.
di F. Lamendola
02 aprile 2011
Rispetto per Lampedusa. Rispetto per l’Italia
Fa pena dover mettere a confronto la dignità della gente di Lampedusa con la buffoneria di Berlusconi. Tanto quelli mantengono un comportamento solidale coi migranti ma non prono all’ingiustizia di doverne sopportare da soli l’invasione, quanto il clown di Palazzo Chigi non perde l’occasione di prodursi nell’ennesimo show da avanspettacolo. «Anche io diventerò lampedusano. Sono andato su Internet e ho comprato una casa a Cala Francese, si chiama "Le Due Palme"», è arrivato a dire in faccia a quegli eroici isolani che vivono in mezzo alla sporcizia, esposti al rischio di epidemie, di giorno impegnati a dare una mano ai soccorsi e di sera tappati in casa per paura di furti e rapine da parte di stranieri affamati (fra i quali c’è, e non potrebbe essere altrimenti, anche qualche genuino delinquente). Non pago delle sue stomachevoli battute, si è prodigato nel consueto sfoggio di promesse che non manterrà: il Nobel per la Pace per l'isola, una moratoria fiscale, previdenziale e bancaria perché Lampedusa diventi zona franca, un piano per il turismo. Naturalmente ha già trovato il nome da far riecheggiare nell’etere propagandistico: operazione “Lampedusa pulita”. «Nelle prossime 48-60 ore l'isola sarà abitata solo dai lampedusani». Come a Napoli per la munnezza. Come il Patto con gli Italiani firmato in tv dal maggiordomo Vespa. Come l’incalcolabile trafila di balle rifilate all’Italia credulona in questi infiniti diciassette anni di “nuovi miracoli italiani”.
Ma dico io: a un tiro di schioppo da noi, nell’ex alleata Libia, si sta consumando una guerra civile a cui l’Occidente, avido di affari, ha pensato bene di sovrapporre una scellerata guerra di conquista, il suolo nazionale è investito da un esodo di fuggiaschi che non siamo preparati ad affrontare, il ministero degli Interni viene sbeffeggiato dalle Regioni che non ne vogliono sapere di accoglierli secondo il piano di spartizione, e il nostro capo del governo insiste e persiste nel fare di un momento così delicato e drammatico l’ennesimo comizio in vista delle prossime elezioni amministrative? D’accordo che ci ha abituato a tutto, ma prego e spero che i fieri lampedusani abbiano un ulteriore scatto d’orgoglio e anche se in queste ore la collaborazione con la Tunisia rendesse possibile lo svuotamento dell’isola, alzino ancora il tono della protesta che già aveva toccato picchi di tensione col blocco del porto da parte dei pescatori e con la catena umana delle donne per impedire altri sbarchi. Berlusconi è la politica che sputa sulla sofferenza, dei suoi compatrioti e dei disperati che vengono qui a sommare disperazione a disperazione.
Perché è inutile far finta che l’immigrazione sia un problema controllabile coi flussi burocratici, coi patti d’acciaio (e si è visto, l’acciaio) con dittatori ricattatori, o con le porte spalancate sempre e comunque e con chiunque. La migrazione di africani e asiatici, specialmente giovani (spesso istruiti e vogliosi d’integrarsi, come i tunisini stipati a Lampedusa), è un processo storico inarrestabile. Sempre che non si arresti il cammino della globalizzazione dei mercati e degli stili di vita, che induce popolazioni contaminate dal miraggio del “benessere” occidentale a trasferirsi in Europa. Oppure, al rovescio, sarebbe ora di rompere il tabù delle braccia aperte a tutti i costi e cominciare a dire la verità: siamo già troppi. Il nostro paese è sovrappopolato, trovare un lavoro decente è diventato un terno al lotto, imperversa una silenziosa e feroce guerra fra poveri in cui a farcela sono raccomandati, favorite e paggi del signore di turno, la maggior parte delle lauree non serve a un beneamato, l’economia non tira e quando lo fa – gli dei abbiano sempre in gloria i piccoli imprenditori, che a volte si suicidano per la vergogna di non poter pagare i dipendenti - è per grazia ricevuta dai vampiri delle banche, e con tutto ciò dovremmo fare gli incoscienti buoni samaritani condannando tutti, noi e i forestieri, a una miscela di disoccupazione, frustrazione e criminalità?
Eh no, non se ne può più. È vero che spesso i nostri ragazzi sono delle fighette laccate che disdegnano la fatica e il posto umile, ma è anche vero che questa è un preciso orientamento della società figlia della “innovazione” e della “conoscenza”, cioè della scomparsa della manifattura e dell’agricoltura soppiantate dalla metastasi del superfluo, dei “servizi” e della finanza. I colpevoli sono i loro genitori, che dopo il “boom” dei trent’anni gloriosi (anni ’50-’70) e il declino dei trent’anni accidiosi (anni ’80-2000), si sono adagiati sulla rendita di un modello economico-sociale che è crollato sotto i colpi del mercato unico mondiale. Il modello di vita, sparso in ogni angolo del pianeta grazie alle nuove tecnologie, ha fatto il resto e il risultato è quello che abbiamo sotto gli occhi: masse di poveri che premono ai nostri confini per essere un po’ meno poveri ma rendendoci tutti più miseri dal momento che il loro arrivo a frotte abbassa il costo della manodopera facendo la felicità dei padroni del vapore e l’infelicità dei lavoratori.
Se esistesse un’Unione Europa degna di tal nome, sua sarebbe la missione di regolamentare e gestire l’ingresso di extracomunitari secondo una regia unica. Ma per questo occorrerebbe che il continente europeo si desse una missione a monte: fondare un sistema di sviluppo interno il più possibile autonomo dalle cupole finanziarie e industriali che manovrano a tavolino le politiche economiche degli Stati. Per ora il consesso internazionale è talmente succube degli appetiti da business (vedi la Francia che sbava per mettere le mani sulla Libia) che giunge a calpestare ogni logica utilitaria e di buonsenso fino ad escludere in un consiglio di guerra la nazione più esposta e più interessata a sovrintendere al futuro di Tripoli, l’Italia, includendo invece la Germania che non partecipa neanche alle operazioni. Per uno schiaffo simile il nostro governo dovrebbe come minimo revocare l’uso delle basi aeree da cui decollano i voli di bombardamento.
Ma avercelo, un governo. In sua vece abbiamo un comico che dà spettacolo mentre è immerso fino al collo nel fango di processi gravissimi e umilianti per noi sudditi che ne subiamo le piazzate ogni santo giorno. E poi Napolitano osa anche venirci a parlare di patria e di coesione nazionale. Vada a dirlo a Lampedusa.
di Alessio Mannino
01 aprile 2011
Fora de ball
alcune regioni d'Italia tutte centro-meridionali ad eccezione della Liguria. A seguito delle veementi proteste decide di individuare altre sette tendopoli nel Nord finora escluso anche per obbedire all'editto di Bossi: "fora e ball" rivolto ai migranti. I quali migranti scappano da Manduria, attraversano l'Italia, giungono a Ventimiglia ma la Francia blocca il valico. I migranti improvvisano cortei di protesta. Tornano indietro. Non sanno dove stare. Un casino di cui nessuno riesce più a dipanarne la matassa aggrovigliata.
Spettacolo inverecondo offerto dal Governo vile e piagnucoloso, dal Parlamento che infierisce sulle ferite dell'Italia piuttosto che dichiarare l'Italia zona di pace chiudendo le basi militari alla Nato ed anche dalle Regioni che giocano tutte a rimpiattino con il Governo e tra di loro al fine di scaricare al più fesso (nel caso Vendola per Manduria o Lombardo per la Sicilia) l'arrivo e la sistemazione dei migranti. C'è intanto un enorme girotondo di navi, di aerei, di pulman di gente che va e gente che viene.....
Non siamo nè uno Stato nè una Nazione. Il governo non difende gli interessi nazionali
ma si preoccupa di non essere "posato" dalla signora Clinton e dal signor Obama. Cosa che questi signori hanno fatto, tanto fatto da ringraziare l'Italia per l'aiuto offerto agli alleati.
Non credo che USA, Gran Bretagna e Francia si ringraziino tra di loro. Si ringrazia l'Italia come la cameriera che è tanto tanto servizievole e brava e tanto masochista da spararsi sui piedi...
La prosperità della Libia ha impedito finora l'afflusso di migranti in Italia. La Libia ha assorbito inoltre migliaia e migliaia di nostri tecnici, ingegneri, specialisti che sono già tornati in Italia e sarà difficile trovare per loro del lavoro. Ora l'Italia sarà sommersa da una valanga umana. Il Canale di Sicilia sarà traversato da quanti cercheranno di sfuggire al dopo Gheddafi e quanti sono stati truffati dalle rivoluzioni con conclusione controrivoluzionaria della Tunisia e dell'Egitto. L'Italia potrebbe sfasciarsi sulla questione immigrazione assai di più che sul federalismo o altre cose. Intanto sebbene i discorsi di Napolitano all'ONU ed agli italo-americani vorrebbero dimostrare il contrario, l'Italia sta tornando ad essere una mera "espressione geografica".
di Pietro Ancona
31 marzo 2011
Non esistono persone che «amano troppo», ma solo persone che non sanno amare
Da quando, ventisei anni, fa la psicoterapista americana Robin Norwood ha pubblicato il suo libro «Donne che amano troppo», diventato rapidamente un bes-seller internazionale, l’immaginario collettivo delle donne, forse a dispetto delle intenzioni dell’autrice, ha trovato un nuovo strumento di vittimismo e di autocommiserazione.
L’idea, invero presente già nel titolo originale inglese («Women who love too much»), è che le donne, o almeno un buon numero di esse, sono portate ad amare molto, troppo; mentre gli uomini, si sa, non c’è pericolo che si mettano in un simile rischio: risultato, le donne soffrono per amore molto più degli uomini, e, quel che più conta, soffrono per aver amato troppo, ossia per una virtù che esse spingono fino all’eroismo, venendone mal ripagate.
Naturalmente non è questa la tesi del libro, e chi si prende la fatica di leggerlo, se ne rende conto ben presto; anzi, già da una lettura estremamente frettolosa, appare quanto l’autrice ritenga determinante, e deleterio, il rapporto di molte donne con le loro madri: un rapporto sbagliato, che le porta e replicare con gli uomini, quando passano dall’adolescenza all’età adulta, le stesse dinamiche distruttive che già le madri hanno sperimentato con i loro mariti o compagni e che poi, cariche di frustrazione, hanno riversato sulle figlie, senza tuttavia che queste imparassero minimamente la lezione.
Ma allora, perché quel titolo ambiguo, che suggerisce una chiave di lettura scorretta e fuorviante? Forse per strizzare l’occhio al post-femminismo, per toccare le corde più lacrimose e sdolcinate dell’animo dei lettori, e specialmente delle lettrici?
C’è, in esso, un sottinteso non proprio limpido, non proprio onesto: che, in questa società egoista e crudele, amare sia una cosa meravigliosa, e amare troppo costituisca, sì, un errore, ma uno di quegli errori che non possono non strappare negli altri un moto di ammirazione, o almeno di profonda compassione, se non altro per il coraggio affettivo che esso implica, per la capacità di dedizione, in breve: per la disponibilità a mettersi interamente in gioco, senza paracadute e senza uscite d’emergenza.
Insomma è la solita vecchia storia di Francesca da Rimini: se perfino il gran padre Dante si turba, piange e sviene davanti al suo drammatico racconto (mentre, si badi, Paolo se ne resta in silenzio e fa la figura del perfetto idiota), bisogna proprio avere un cuore di pietra per non sentire che questo tipo di donna, la donna che ama troppo, è forse colpevole agli occhi del mondo, ma di certo è innocente agli occhi di chi sappia veramente cosa sia il cuore umano.
Ma le cose stanno ben altrimenti.
La verità è che non esistono donne, e nemmeno uomini, che amino “troppo”: che cosa vuole mai significare una espressione del genere? Sarebbe come dire che al mondo ci sono troppa bontà, o troppa verità, o troppa giustizia: una autentica sciocchezza. L’amore non è mai troppo, mai, mai; e chi è disposto a bersi una frottola del genere, vuol dire che è capace di digerire qualunque inverosimile stravaganza o deliberata menzogna gli si vogliano propinare.
Il problema non è mai quello di amare troppo, mai: piuttosto, il problema è quello di saper amare o di non saper amare.
E si faccia attenzione che non diciamo nemmeno: «il problema è quello di amare male», perché sarebbe una plateale contraddizione in termini: che cosa significa, infatti, dire di Tizia o di Sempronio che essi sono persone che «amano male»? Nessuno potrebbe amare male: se si ama veramente, si ama e basta; e l’amore è sempre una cosa buona, sempre.
Amare non è una singola azione, come dipingere, fare la spesa, pregare. Certo si può dipingere male, fare male la spesa, perfino pregare male: queste sono tutte azioni, sia pure di segno estremamente diversificato; e un’azione può essere compiuta bene oppure male.
Amare, invece, non è un’azione: è un modo dell’essere. Quando l’essere ama – ma diremmo meglio: se l’essere ama, se è capace di amare -, allora ama e basta: la sua disposizione, la sua apertura esistenziale si possono manifestare anche attraverso azioni, giuste o sbagliate, buone o cattive che siano; tuttavia, a monte di tali azioni, vi è un modo dell’essere, un movimento dell’anima e, al tempo stesso, un suo stato qualitativo.
Ora, l’essere è, per definizione, amore. Amore incondizionato, amore per la vita: se non altro, amore per la propria vita. Infatti, quando l’essere prende in odio il mondo e perfino se stesso, decide di sopprimersi: vuole togliere di mezzo quell’essere che ama, nonostante tutto, e che si ribella al rifiuto del’amore, proprio o altrui.
Questo significa non solo che siamo fatti per l’amore, ma che siamo amore in noi stessi: il nostro scopo, il nostro significato, la nostra ragione d’essere, sono l’amore: veniamo dall’amore e all’amore aspiriamo a ritornare.
Che le persone amino, dunque, è scontato: certo, da ciò non deriva che esse sappiano amare; al contrario, molte non sanno amare, o hanno paura di amare, o non osano amare, non si ritengono degne di amare e di essere amate.
È un problema dell’essere, non dell’amore.
Se non si sa amare, le cause possono essere molteplici, ma tutte riconducibili, in un modo o nell’altro, a un denominatore comune: l’insufficienza, l’inadeguatezza dell’essere. Essere vuol dire amare; ma, appunto, per amare bisogna che ci sia l’essere.
Se l’essere è in difetto, se non si è sviluppato ed evoluto, se non è nemmeno consapevole di se stesso e del mondo, allora non vi può essere amore. Alcuni, dall’esterno, sono portati, in questi casi, a parlare di «troppo amore», di «amore sbagliato»: ma sono tutte sciocchezze. L’amore non è mai troppo e non è mai sbagliato; piuttosto, il fatto è che l’amore non può albergare laddove vi sia carenza di essere.
Gli spiriti superficiali sono portati a dire: «Amo, dunque sono», ma è vero l’esatto contrario: «Sono, dunque amo»; per cui, se non si È, non si può nemmeno amare. Non è che si ami troppo, o in modo sbagliato; è che proprio non si sa amare, non si sa che cosa sia l’amore.
A differenza di quanto comunemente si crede, è possibile, possibilissimo, essere dei perfetti analfabeti dell’amore: non importa quanti anni si ha o quanta esperienza di vita, nel senso quantitativo: saper amare è innanzitutto un dono e solo in seconda battuta una conquista.
Il fatto è che le donne, e anche alcuni uomini, sono portati a caricarsi di amori impossibili, dai quali ricaveranno solo amarezza e dolore, per una serie di ragioni ben precise, che poco o nulla hanno a che fare con l’amare troppo e molto, invece, con la scarsa stima e lo scarso amore di se stessi. In altri termini, se si amano disperatamente delle persone egoiste, imprevedibili, cattive e perfino sadiche o violente, la ragione vera è in relazione con un segreto desiderio di autopunizione e, inoltre, con un doloroso bisogno di essere accettati.
È come se ciascuno di questi innamorati infelici, di questi buoni samaritani a oltranza, di queste crocerossine e di questi missionari dalla infinita capacità di sopportazione, dicessero, più o meno, ai loro amanti-carnefici: «Vedi di quanto amore sono capace, di quanta inesauribile dedizione, di quale spirito di sacrificio: come potresti non ricambiare il mio amore, come potresti non provare per me gratitudine eterna?».
Ma è evidente che le cose stanno altrimenti; che quelle persone non hanno fiducia in se stesse, non si ritengono degne di essere amate semplicemente per quello che sono, così come sono; è evidente che, caricandosi sulle spalle fardelli disumani, inghiottendo maltrattamenti e umiliazioni, sopportando stoicamente continue docce scozzesi di manifestazioni affettive contraddittorie, fino alle botte e alla violenza fisica, altro non stanno facendo che inseguire il miraggio di un impossibile perdono di se stessi, per qualche colpa che ritengono di aver commesso, magari nella lontana infanzia, o per placare il fantasma corrucciato di un genitore che li avrebbe voluti diversi e migliori, ossia, detto in parole semplici, più conformi ai propri desideri.
Questo non significa che amare una persona difficile implichi SEMPRE disistima e disamore di se stessi, né che avere una certa propensione a fare la crocerossina o il missionario scaturisca SEMPRE da un trauma infantile o da un rapporto problematico con il padre o la madre.
Sono equilibri complessi, delicatissimi: stabilire dove finisca un comportamento affettivo “normale”, qualunque cosa ciò significhi, e dove, invece, ne incominci uno di segno patologico, fondato sul masochismo, è cosa tutt’altro che semplice, e lasciamo volentieri alla psicologia il compito di vagliare caso per caso, alla ricerca di questa elusiva linea di frontiera.
A noi preme, piuttosto, indicare l’aspetto generale del problema e ciò da un punto di vista essenzialmente filosofico, tralasciando, cioè, problematiche strettamente individuali e puntando dritti al cuore della questione: ossia alla mancanza di significato di concetti come quello di «amare troppo» o di «amare male»; per ribadire che, in effetti, esistono solo due tipi di persone, beninteso con molte sfumature intermedie: coloro che sanno amare e coloro che non sanno.
Saper amare, significa innanzitutto sapere, potere e volere amare se stessi, comprese le proprie debolezze e insufficienze, senza per questo corteggiarle e farsene scudo allo scopo di evadere dalle proprie responsabilità; in secondo luogo, amare la vita, compresi gli aspetti difficili e, talvolta, dolorosi di essa; in terzo luogo, cercare di rispondere nel modo migliore e più limpido alla chiamata dell’Essere, facendo della propria vita il luogo di una incessante maturazione spirituale.
In ogni caso, come dicevamo prima, essere è già amare: per cui chi non sa amare affatto - e stiamo parlando di moltissime persone, probabilmente di una larga maggioranza di esse - è, in realtà, un individuo povero di essere: un manichino che solo da lontano può venire scambiato per un autentico essere umano.
Certo, questo è un concetto molto forte, molto duro da accettare: ce ne rendiamo perfettamente conto.
Equivale a dire che la maggior parte degli esseri umani non sono veramente tali; che sono soltanto delle misere contraffazioni, talvolta consapevoli, talaltra inconsapevoli, di ciò che un essere umano dovrebbe realmente essere.
È un’idea sgradevole, che fa venire i brividi; eppure, crediamo che in essa non vi sia nulla di esagerato.
Che fare, dunque?
Forse dovremmo ricordarci, ogni tanto, che noi possediamo l’essere, ma non siamo l’essere: per cui ciò che è impossibile a noi come individui finiti e soggetti ad immense limitazioni, diviene possibile allorché ci immergiamo nel fluire dell’Essere, allorché rivolgiamo un pensiero di umiltà e di consapevolezza a quell’Essere da cui proveniamo ed al quale ritorneremo.
Non siamo noi l’essere, ma soltanto una delle sue infinite manifestazioni; e, se ci rendiamo conto della nostra povertà di essere, faremmo bene, ogni tanto, a rivolgerci non solo a professionisti della psiche, che si fanno ben pagare i loro consigli e le loro terapie, ma anche a quella Sorgente infinita dalla quale scaturisce tutto ciò che esiste, tutto ciò che ha vita e tutto ciò che popola la realtà con le sue innumerevoli manifestazioni.
A quel punto, la nostra debolezza si tramuterebbe in forza; la nostra indigenza, in pienezza; la nostra infelicità e la nostra solitudine, in gioia e calore.
Ci piace pensare che ciò sia pressoché impossibile, per paura di farne l’esperienza; preferiamo rinchiuderci nelle nostre orgogliose certezze razionalistiche.
Certo, è una scelta e fa parte della nostra libertà: noi siamo liberi.
Siamo liberi anche di farci del male; di persistere lungo strade sbagliate, che non portano da nessuna parte; di attardarci nei deserti afosi della disperazione, quando potremmo affrettarci nei giardini fioriti dell’Essere.
Siamo liberi anche di raccontarci delle pietose menzogne, per scusare il poco amore che abbiamo di noi stessi: come quella di essere indispensabili a qualcuno che non ci ama, che non ci stima, che non ci vuole.
di F. Lamendola