21 aprile 2011

Privatizzazioni: lo scambio tra rendite politiche e rendite finanziarie



Ho iniziato a occuparmi di privatizzazioni venti anni fa, nel paese dove sono state inventate, la Gran Bretagna di Margaret Thatcher e John Mayor. Stavo trascorrendo un triennio di studio alla London School of Economics, per una ricerca sull’analisi costi-benefici degli investimenti pubblici, proprio mentre l’intervento pubblico veniva visibilmente smantellato dai governi conservatori. Nel giro di pochi anni passavano ai privati, generalmente attraverso collocamento in borsa, elettricità, acqua, gas, telecomunicazioni, ferrovie, autobus, porti, aeroporti, linee aeree, miniere, e molto altro

Ho raccolto in un libro (Privatizzazioni e interesse. Il caso britannico) i risultati della mia analisi critica di quella esperienza. Ho cercato di dimostrare che (a) i cittadini in genere hanno guadagnato poco o nulla dalle privatizzazioni, (b) le fasce di utenti più povere hanno pagato prezzi più alti, (c) i contribuenti ci hanno rimesso perché lo stato ha venduto a prezzi troppo bassi e in vari casi ha perso entrate, (d) la produttività delle imprese non è aumentata significativamente, (e) i maggiori beneficiari sono stati gli azionisti, gli intermediari finanziari, i consulenti (in una parola la City).

Mi sono anche occupato di privatizzazioni in Italia, in dieci edizioni del Rapporto sulla Finanza Pubblica e in altri interventi (tra i quali La sinistra e il fascino concreto delle privatizzazioni). La mia lettura del caso italiano è che le cose qui sono andate anche peggio che in Gran Bretagna. Sia i governi di centro-sinistra che quelli di centro-destra hanno cercato di fare cassa vendendo soprattutto banche, telecomunicazioni, autostrade, aziende del settore dell’energia, anche altro, ma con effetti del tutto irrilevanti o modesti sul piano dell’efficienza e del benessere degli utenti, e invece distribuendo rendite ad ambienti capitalistici più o meno parassitari. Mi sono convinto, soprattutto studiando il caso Telecom Italia (in I ritorni paralleli di Telecom Italia), che la vera origine delle privatizzazioni non sia il liberismo, anche se ovviamente i miti della libera concorrenza hanno avuto un peso nella retorica, ma uno scambio fra rendite politiche e finanziarie. La tesi che ho sostenuto (in Le privatizzazioni come mito riformista) è che in particolare la sinistra, oltre più ovviamente la destra, abbia cercato di accreditarsi presso i gestori della finanza offrendo loro in pasto delle attività perfette per montarvi operazioni speculative, garantite dalla dinamica nel tempo dei flussi di cassa. Il caso delle autostrade è in questo senso emblematico. Il rischio imprenditoriale è nullo, la rendita garantita, gli investimenti attuati minimi e neppure rispettati, le tariffe aumentano con e più dell’inflazione, il contribuente continua a farsi carico della spesa per la rete in aree meno ricche e più a rischio (vedi autostrada Salerno-Reggio Calabria e grande viabilità interregionale), mentre un ambiente imprenditoriale come quello dei Benetton e altri sono diventati dei concessionari, con tutto quello che questo implica di rapporti con la politica. In tutti i settori privatizzati le spese di ricerca e sviluppo sono diminuite, indebolendo il potenziale tecnologico.

Un buon esempio di dove si possa arrivare nello scambio di rendite politiche e finanziarie si ha in Russia, di cui pure mi sono occupato in occasione della crisi finanziaria del 1997 (in Economists, Privatization in Russia, and the Warning of the Washington Consensus). Più recentemente mi sono occupato della dimensione europea delle liberalizzazioni e privatizzazioni (ne L’esperienza delle privatizzazioni), in particolare di elettricità, gas, telefonia, giungendo a queste conclusioni per i quindici stati dell’Unione Europea prima dell’allargamento nel 2004: (a) soprattutto per l’elettricità le privatizzazioni hanno comportato aumenti dei prezzi per i consumatori; (b) la separazione delle reti dalla gestione (vedi Terna, Snam Rete Gas, ecc.) è spesso costosa e senza chiari vantaggi per la concorrenza; (c) l’introduzione della concorrenza peraltro ha mitigato ma non rovesciato in benefici mezzi questi effetti avversi; (d) indagini ufficiali dell’UE, come quelle di Eurobarometro, mostrano che i consumatori si dichiarano più soddisfatti nei paesi che hanno adottato meno le privatizzazioni; (e) dove c’è stata più privatizzazione è aumentato il numero di famiglie in difficoltà nel pagare le bollette.

Verso dove andiamo? Sono convinto, anche osservando l’esperienza degli Stati Uniti, che l’appetito illimitato del capitalismo finanziario, quindi il suo immettere nel gioco sempre nuove scommesse, condurrà alla privatizzazione dello stesso stato sociale, cioè sanità, istruzione, previdenza e persino assistenza; e forse anche di alcune funzioni classiche dello stato come difesa, ordine pubblico e giustizia. In altre parole lo scenario è quello dello “stato minimo”.

Le ragioni di questa tendenza, di nuovo, non hanno molto a che vedere con efficienza e competizione. Non esiste alcuna evidenza empirica che possa sostenere che in generale la gestione privata di ospedali, consultori, asili nido, scuole, università, pensioni, ecc. consenta abbattimenti di costi. Dove li si osserva sono dovuti, in generale, a riduzioni reali di stipendio dei dipendenti o a condizioni di lavoro peggiori, spesso con abbassamento conseguente della qualità delle prestazioni, oppure al ricorso a personale immigrato.

Ovviamente, nel settore pubblico, ad esempio nelle università, si annidano aree anche ampie di parassitismo sociale: ma sarebbe molto meno costoso, e quindi più produttivo, motivare i dirigenti e sensibilizzare gli utenti dei servizi pubblici, eliminando così questa patologia attraverso un maggiore controllo democratico e un management di qualità. Viceversa, quello che ci attende è una tendenza a creare una “industria” della sanità, dell’educazione, della pensione complementare. Negli USA questi settori sono ben presenti in borsa o in altri circuiti finanziari, spremono alte rendite dagli utenti grazie al fatto che comunque, nonostante le apparenze, operano in mercati non competitivi, e soprattutto costituiscono formidabili lobby in grado di impedire, ad esempio, ad Obama di riformare efficacemente la disastrosa sanità statunitense.

Una volta che si creano gruppi che controllano i flussi di cassa derivanti dal controllo dell’energia, dell’acqua, della sanità, della previdenza, ecc., la stessa democrazia come la abbiamo conosciuta in Europa nella seconda metà del 900 è a rischio. La capacità dei gruppi finanziari che controllano gli ex servizi pubblici di influire sui governi e sulle stesse opposizioni parlamentari diviene così formidabile che, di fatto, diventa impossibile tornare alla gestione pubblica. Semplicemente diventa più facile comprare i governi, i parlamentari, i giornalisti, gli economisti, e il dissenso viene emarginato.

Il vero rischio delle privatizzazioni perciò non è la relativamente piccola perdita di benessere sociale (ma non trascurabile per i gruppi in fondo alla scala sociale), caso per caso, industria per industria, ma il rischio politico-economico per il sistema nel suo insieme. Questo aspetto è stato colto nell'ultimo scritto di Tony Judt, uno storico della New York University, recentemente scomparso. “Come nel diciottesimo secolo”, egli scrive, “così oggi: svuotando lo stato delle sue responsabilità e risorse, ne abbiamo ridimensionato la centralità nella vita pubblica. Ne risultano ‘comunità fortezza’, intese nelle varie accezioni dei termini: settori della società che considerano se stessi fondamentalmente indipendenti dai funzionari pubblici e dal resto della società. Se ci si abitua a trattare unicamente o principalmente con agenzie private, nel tempo la relazione con il settore pubblico perde di cogenza e significato. Non importa che il privato faccia le stesse cose, meglio o peggio, a un costo maggiore o minore. In ogni caso, si finisce per perdere il senso di fedeltà alle istituzioni e di comunanza con gli altri cittadini”.

E’ un processo ben descritto da Margaret Thatcher in persona. “La società non esiste affatto”, ella scrive: “esistono solo individui, uomini e donne, e famiglie”. Se non esiste la società, ma solo gli individui e uno stato che agisce da “guardiano notturno” (supervisionando da lontano attività alle quali non prende parte) che cosa ci tiene, e ci terrà, insieme? Abbiamo già accettato la formazione di polizie private, di servizi di posta privati, di agenzie private fornitrici dello stato in tempo di guerra e molto altro ancora. Abbiamo “privatizzato” esattamente quelle responsabilità che lo stato moderno aveva laboriosamente riunito sotto la propria cura nel corso del diciannovesimo e del ventesimo secolo, afferma sempre Judt.

La mia lettura di ciò che sta accadendo è quella di un rischio per la coesione sociale e per la qualità della democrazia. E’ questo l’effetto generale della distruzione del faticoso compromesso raggiunto in Europa dopo la catastrofe della seconda guerra mondiale fra la tendenza instabile e potenzialmente sempre autodistruttiva del capitalismo e un modo di produzione statale, che, con tutti i suoi limiti, sottrae una parte della società alle febbri speculative. In questo senso, il compromesso “socialdemocratico” europeo, il “modello sociale europeo” e la stessa costruzione dell’UE, nonostante ovviamente non siano un’alternativa al capitalismo, sono l’unica eccezione rimasta in campo al dilagare della finanza globale. Ed è un’eccezione oramai vicina ad essere travolta, anche per la fondamentale incomprensione di buona parte della sinistra europea dei processi in atto (quando non si tratta piuttosto di corruzione più o meno mascherata dei partiti e dei sindacati “riformisti”).

Dunque la mia lettura della recente crisi globale (in Antologia della crisi globale) pone la questione della modifica strutturale dei rapporti di forza fra lavoro e capitale al centro della spiegazione di ciò che sta accadendo, e che trova nelle liberalizzazioni e privatizzazioni un elemento costitutivo. Solo una soggettività politica molto determinata potrebbe a questo punto invertire il processo.

di Massimo Florio - 20/04/2011

20 aprile 2011

Nucleare? No, grazie, avevamo scherzato


Dopo avere passato oltre un mese ad arrampicarsi sulle superfici di specchi troppo lisci, dopo avere mandato allo sbaraglio in Tv e sui giornali improbabili rappresentanti del mondo scientifico pervasi di cocente imbarazzo, dopo avere tentato di tergiversare laddove non esistevano spazi né margini, anche il governo italiano si è visto costretto a prendere atto del fatto che la catastrofe di Fukushima ha messo una definitiva pietra tombale sulla fallimentare esperienza della produzione energetica per mezzo del nucleare.
Pietra tombale la cui posa metterà in gravissima difficoltà tutti quegli stati che avevano sposato il nucleare e nei prossimi anni si ritroveranno costretti a smantellare decine e decine di centrali, senza avere il denaro per poterlo fare, dal momento che l'energia atomica è stata per decenni venduta a "basso costo" evitando di contabilizzare l'altissimo impegno finanziario derivante dallo smantellamento degli impianti, i cui costi erano stati demandati a "babbo morto".
Ora che il "babbo" è morto, l'Italia, grazie ai tanti "sovversivi e scellerati" che andarono a votare NO nel 1987, si ritrova in una posizione di assoluto privilegio, non vedendosi costretta nell'immediato futuro ad appesantire il proprio debito pubblico con i cospicui finanziamenti bancari ai quali dovranno giocoforza ricorrere tutti coloro che possiedono centrali nucleari da smantellare, ma non dispongono del denaro per poterlo fare.
Se la pretesa che gli antinuclearisti vengano pubblicamente ringraziati dai fan dell'atomo sulla via del pentimento....

suonerebbe eccessiva e un poco irriverente, appare al contrario indispensabile una politica energetica imperniata sulle fonti rinnovabili che miri a sfruttare la posizione di forza nella quale verremo a trovarci negli gli anni a venire.

Il ministro dell'Economia Tremonti, dopo i deliri in tema di occupazione esperiti qualche giorno fa, sembra esprimere qualche apertura in questa direzione, ventilando cospicui investimenti futuri nelle fonti rinnovabili, dopo essere stato tardivamente fulminato sulla via di Damasco, ma è ancora presto per valutare quanto possa esserci di vero e quanto di propagandistico in queste dichiarazioni.

Per il resto non ci resta che gioire moderatamente per la resa ampiamente prevedibile di un governo che aveva imboccato una strada dissennata e foriera di "cattivi presagi" per quanto concerne le elezioni imminenti.

Gioire moderatamente, perchè quello della politica è un viscido acquitrino, e occorrerà comprendere quanto questa decisione sia "sincera" e definitiva.
Nel frattempo tutto il carrozzone della politica è in grande fermento ed assume un atteggiamento interlocutorio nel reagire al dietrofront.

Il centrodestra tira un sospiro di sollievo, poichè la scelta, che pur brucia ai molti fan del nucleare, salverà con tutta probabilità la compagine di governo da una debacle elettorale cui avrebbe fatto seguito una ben più dura debacle referendaria, nella quale sarebbe stato messo a repentaglio anche il provvedimento sul legittimo impedimento.

Il centrosinistra che nella follia nucleare del governo aveva trovato linfa per sopperire alla propria inanità, si ritrova spiazzato, mentre già assaporava il gusto della vittoria e si vedrà costretto a produrre proposte politiche che non ha, se intende scendere nell'agone elettorale con qualche chanche di successo.

Antonio Di Pietro vede ridimensionarsi il suo ruolo di morigeratore della politica, agganciato per forze di cose alla grandissima visibilità che gli avrebbe portato in dono il referendum sul nucleare.

Una vittoria senza combattere lascia sempre il gusto di una vittoria a metà, soprattutto quando è forte la sensazione che in fondo possa trattarsi di un cavallo di Troia. Ciò nonostante tutti coloro che non difendono interessi politici di bottega non potranno che rallegrarsi per la decisione, pur con la prudenza e la moderazione che in questo caso s'impongono.
di Marco Cedolin

La forza delle cose e la debolezza dell'Europa

Foto di Giliola Chistè, www.giliolachiste.com


Qui, davvero, bisogna distinguere tra chi ha capito qualcosa della millenaria lezione della storia e chi non ne ha capito un accidente. Si obietterà che qui la storia non serve, che queste sono questioni pratiche, problemi seri: ma appunto questo è il punto. La storia è una disciplina serissima, che non è per nulla magistra vitae ma che tuttavia è essenziale e preziosa per comprendere il mondo nel quale ci stiamo movendo e le forze che vi si agitano.

La storia del pastore nomade Abele e del contadino stanziale Caino somiglia come una goccia d’acqua a quella dell’empio nomade Remo che non rispetta i limiti e i segni tracciati sul terreno e del saggio agricoltore e costruttore di citta Romolo che difende il solco tracciato con tutto il civile egoismo del quale la sua spada fratricida e capace. Pensateci. Perche dite quel che volete e pensate quel che vi pare, ma se ci dimentichiamo anche di Caino e Abele, anche di Romolo e Remo, allora sul serio non siamo piu nessuno. Per questo, non e il piccolo e tronfio signor Castelli, impettito e ben pettinato col suo panciotto, a sputazzare l’infamia tipo “Ai migranti per il momento non possiamo ancora sparare” (sottintendendo che sarebbe bello farlo, e che prima o poi lo faremo). Chi parla non è io ridicolo signor Castelli; come a pronunziare verità filosofiche dei profondita degne del Bar dello Sport del tipo “fuori da i’ ball”, non e l’allevatore di trote Bossi. No: chi parla è sempre l’eterna clava di Caino, è sempre l’empia spada di Romolo. E noi sappiamo che proprio perché il momento è difficile l’umanità e la ragione stanno da un’altra parte. E’ proprio nei momenti difficili che si deve restar fedeli all’umanità e alla ragione.

Sbarcano con tutti i mezzi, ormai. Carrette del mare, ex pescherecci che tengono il mare per miracolo (e per ottenere un posto in piedi sui quali si paga quanto su un transatlantico di lusso), gommoni: su di essi, poveracci stivati, carne umana che ricorda quella degli schiavi i quali, nelle stive dei bastimenti fino a un paio di secoli fa, con le loro povere vite hanno reso ricco l’Occidente. Ci sono delle donne anche incinte, donne che partoriscono; ci sono bambini che muoiono sul bagnasciuga o che aprono gli occhi fra quattro stracci, mentre qualcuno pietoso li lava con l’acqua contenuta in una tanica da benzina. Intanto, è fresca di giornata la notizia che le acciaierie Marcegaglia sbarcano in Cina: non vi dice nulla questo interessantissimo scambio di migranti? E’ di ieri la notizia che l’Europa non riesce a trovare una politica comune efficace per accogliere alcune migliaia di disperati e che tutti si preoccupano delle “nuove invasioni barbariche”, intanto pero i listini di stamattina parlavano dell’euro che vola e delle quotazioni delle imprese europee in borsa che s’impennano. Com’e che i ruoli al mondo sono cosi mai distribuiti? Che c’è chi rischia la pelle per passare il mare, poi e costretto perfino a cercar di evadere da campi di lavoro predisposti per lui, mentre nei paesi che “ospitano” (un verbo che fa quasi ridere…) questi disgraziati c’è, evidentemente, chi si dispera e protesta, e minaccia di sparare, e intanto esporta lavoro e tira su dei bei soldi?

Cacciatevi tre cose in testa, cristianucci europei. Primo: al mondo siamo sei miliardi, e stiamo tutti sulla stessa barca che si chiama terra, e qualcuno può anche aggrapparsi al bordo e rischiar di affogare mentre qualcun altro lo guarda con disprezzo dall’alto, sedendo al bar della prima Classe e sorseggiando un drink, ma alla fine o ci salviamo tutti o naufraghiamo insieme. Secondo: a parte i disagi di certe zone come Lampedusa (che è sacrosanto fare l’impossibile per aiutare: e lorsignori di Parigi e di Berlino debbono fare la loro parte, non fingere che si sia davanti a un’invasione di cavallette che riguarda quei terroni degli euromediterranei…), l’Europa è perfettamente in grado di ospitare alcune decine di migliaia di profughi: se ne arrivassero cinque milioni, sarebbero ancora l’1% della popolazione del continente, quindi ripartiamo spese e carichi e piantiamola di fare storie. Terzo: la ricreazione è finita, siamo alla vigilia delle vacche magre, qualcuno sta preparandoci i conti da pagare e la prosperità che abbiamo conosciuto noi occidentali non ci riguarderà piu nei prossimi decenni, mentre chi non l’ha mai conosciuta continuerà a non conoscerla mai (o pensate che di qui a trent’anni sarà immaginabile un mondo nel quale un miliardo e passa di cinesi possa consumare come hanno consumato europei occidentali e nordamericani, più o meno ottocento milioni di persone, nel secolo scorso?).

Quindi, siete avvisati. Rimboccarsi le maniche, e aggiungere parecchi posti a tavola perché, volenti o nolenti, c’è un sacco di amici in più. O spartiamo il companatico, o saranno dolori. Uscite una buona volta dai centri commerciali, cristianucci ben nutriti e calzati adidas. E rientrate nella storia. Quella d’oggi. Questa.

di Franco Cardini

21 aprile 2011

Privatizzazioni: lo scambio tra rendite politiche e rendite finanziarie



Ho iniziato a occuparmi di privatizzazioni venti anni fa, nel paese dove sono state inventate, la Gran Bretagna di Margaret Thatcher e John Mayor. Stavo trascorrendo un triennio di studio alla London School of Economics, per una ricerca sull’analisi costi-benefici degli investimenti pubblici, proprio mentre l’intervento pubblico veniva visibilmente smantellato dai governi conservatori. Nel giro di pochi anni passavano ai privati, generalmente attraverso collocamento in borsa, elettricità, acqua, gas, telecomunicazioni, ferrovie, autobus, porti, aeroporti, linee aeree, miniere, e molto altro

Ho raccolto in un libro (Privatizzazioni e interesse. Il caso britannico) i risultati della mia analisi critica di quella esperienza. Ho cercato di dimostrare che (a) i cittadini in genere hanno guadagnato poco o nulla dalle privatizzazioni, (b) le fasce di utenti più povere hanno pagato prezzi più alti, (c) i contribuenti ci hanno rimesso perché lo stato ha venduto a prezzi troppo bassi e in vari casi ha perso entrate, (d) la produttività delle imprese non è aumentata significativamente, (e) i maggiori beneficiari sono stati gli azionisti, gli intermediari finanziari, i consulenti (in una parola la City).

Mi sono anche occupato di privatizzazioni in Italia, in dieci edizioni del Rapporto sulla Finanza Pubblica e in altri interventi (tra i quali La sinistra e il fascino concreto delle privatizzazioni). La mia lettura del caso italiano è che le cose qui sono andate anche peggio che in Gran Bretagna. Sia i governi di centro-sinistra che quelli di centro-destra hanno cercato di fare cassa vendendo soprattutto banche, telecomunicazioni, autostrade, aziende del settore dell’energia, anche altro, ma con effetti del tutto irrilevanti o modesti sul piano dell’efficienza e del benessere degli utenti, e invece distribuendo rendite ad ambienti capitalistici più o meno parassitari. Mi sono convinto, soprattutto studiando il caso Telecom Italia (in I ritorni paralleli di Telecom Italia), che la vera origine delle privatizzazioni non sia il liberismo, anche se ovviamente i miti della libera concorrenza hanno avuto un peso nella retorica, ma uno scambio fra rendite politiche e finanziarie. La tesi che ho sostenuto (in Le privatizzazioni come mito riformista) è che in particolare la sinistra, oltre più ovviamente la destra, abbia cercato di accreditarsi presso i gestori della finanza offrendo loro in pasto delle attività perfette per montarvi operazioni speculative, garantite dalla dinamica nel tempo dei flussi di cassa. Il caso delle autostrade è in questo senso emblematico. Il rischio imprenditoriale è nullo, la rendita garantita, gli investimenti attuati minimi e neppure rispettati, le tariffe aumentano con e più dell’inflazione, il contribuente continua a farsi carico della spesa per la rete in aree meno ricche e più a rischio (vedi autostrada Salerno-Reggio Calabria e grande viabilità interregionale), mentre un ambiente imprenditoriale come quello dei Benetton e altri sono diventati dei concessionari, con tutto quello che questo implica di rapporti con la politica. In tutti i settori privatizzati le spese di ricerca e sviluppo sono diminuite, indebolendo il potenziale tecnologico.

Un buon esempio di dove si possa arrivare nello scambio di rendite politiche e finanziarie si ha in Russia, di cui pure mi sono occupato in occasione della crisi finanziaria del 1997 (in Economists, Privatization in Russia, and the Warning of the Washington Consensus). Più recentemente mi sono occupato della dimensione europea delle liberalizzazioni e privatizzazioni (ne L’esperienza delle privatizzazioni), in particolare di elettricità, gas, telefonia, giungendo a queste conclusioni per i quindici stati dell’Unione Europea prima dell’allargamento nel 2004: (a) soprattutto per l’elettricità le privatizzazioni hanno comportato aumenti dei prezzi per i consumatori; (b) la separazione delle reti dalla gestione (vedi Terna, Snam Rete Gas, ecc.) è spesso costosa e senza chiari vantaggi per la concorrenza; (c) l’introduzione della concorrenza peraltro ha mitigato ma non rovesciato in benefici mezzi questi effetti avversi; (d) indagini ufficiali dell’UE, come quelle di Eurobarometro, mostrano che i consumatori si dichiarano più soddisfatti nei paesi che hanno adottato meno le privatizzazioni; (e) dove c’è stata più privatizzazione è aumentato il numero di famiglie in difficoltà nel pagare le bollette.

Verso dove andiamo? Sono convinto, anche osservando l’esperienza degli Stati Uniti, che l’appetito illimitato del capitalismo finanziario, quindi il suo immettere nel gioco sempre nuove scommesse, condurrà alla privatizzazione dello stesso stato sociale, cioè sanità, istruzione, previdenza e persino assistenza; e forse anche di alcune funzioni classiche dello stato come difesa, ordine pubblico e giustizia. In altre parole lo scenario è quello dello “stato minimo”.

Le ragioni di questa tendenza, di nuovo, non hanno molto a che vedere con efficienza e competizione. Non esiste alcuna evidenza empirica che possa sostenere che in generale la gestione privata di ospedali, consultori, asili nido, scuole, università, pensioni, ecc. consenta abbattimenti di costi. Dove li si osserva sono dovuti, in generale, a riduzioni reali di stipendio dei dipendenti o a condizioni di lavoro peggiori, spesso con abbassamento conseguente della qualità delle prestazioni, oppure al ricorso a personale immigrato.

Ovviamente, nel settore pubblico, ad esempio nelle università, si annidano aree anche ampie di parassitismo sociale: ma sarebbe molto meno costoso, e quindi più produttivo, motivare i dirigenti e sensibilizzare gli utenti dei servizi pubblici, eliminando così questa patologia attraverso un maggiore controllo democratico e un management di qualità. Viceversa, quello che ci attende è una tendenza a creare una “industria” della sanità, dell’educazione, della pensione complementare. Negli USA questi settori sono ben presenti in borsa o in altri circuiti finanziari, spremono alte rendite dagli utenti grazie al fatto che comunque, nonostante le apparenze, operano in mercati non competitivi, e soprattutto costituiscono formidabili lobby in grado di impedire, ad esempio, ad Obama di riformare efficacemente la disastrosa sanità statunitense.

Una volta che si creano gruppi che controllano i flussi di cassa derivanti dal controllo dell’energia, dell’acqua, della sanità, della previdenza, ecc., la stessa democrazia come la abbiamo conosciuta in Europa nella seconda metà del 900 è a rischio. La capacità dei gruppi finanziari che controllano gli ex servizi pubblici di influire sui governi e sulle stesse opposizioni parlamentari diviene così formidabile che, di fatto, diventa impossibile tornare alla gestione pubblica. Semplicemente diventa più facile comprare i governi, i parlamentari, i giornalisti, gli economisti, e il dissenso viene emarginato.

Il vero rischio delle privatizzazioni perciò non è la relativamente piccola perdita di benessere sociale (ma non trascurabile per i gruppi in fondo alla scala sociale), caso per caso, industria per industria, ma il rischio politico-economico per il sistema nel suo insieme. Questo aspetto è stato colto nell'ultimo scritto di Tony Judt, uno storico della New York University, recentemente scomparso. “Come nel diciottesimo secolo”, egli scrive, “così oggi: svuotando lo stato delle sue responsabilità e risorse, ne abbiamo ridimensionato la centralità nella vita pubblica. Ne risultano ‘comunità fortezza’, intese nelle varie accezioni dei termini: settori della società che considerano se stessi fondamentalmente indipendenti dai funzionari pubblici e dal resto della società. Se ci si abitua a trattare unicamente o principalmente con agenzie private, nel tempo la relazione con il settore pubblico perde di cogenza e significato. Non importa che il privato faccia le stesse cose, meglio o peggio, a un costo maggiore o minore. In ogni caso, si finisce per perdere il senso di fedeltà alle istituzioni e di comunanza con gli altri cittadini”.

E’ un processo ben descritto da Margaret Thatcher in persona. “La società non esiste affatto”, ella scrive: “esistono solo individui, uomini e donne, e famiglie”. Se non esiste la società, ma solo gli individui e uno stato che agisce da “guardiano notturno” (supervisionando da lontano attività alle quali non prende parte) che cosa ci tiene, e ci terrà, insieme? Abbiamo già accettato la formazione di polizie private, di servizi di posta privati, di agenzie private fornitrici dello stato in tempo di guerra e molto altro ancora. Abbiamo “privatizzato” esattamente quelle responsabilità che lo stato moderno aveva laboriosamente riunito sotto la propria cura nel corso del diciannovesimo e del ventesimo secolo, afferma sempre Judt.

La mia lettura di ciò che sta accadendo è quella di un rischio per la coesione sociale e per la qualità della democrazia. E’ questo l’effetto generale della distruzione del faticoso compromesso raggiunto in Europa dopo la catastrofe della seconda guerra mondiale fra la tendenza instabile e potenzialmente sempre autodistruttiva del capitalismo e un modo di produzione statale, che, con tutti i suoi limiti, sottrae una parte della società alle febbri speculative. In questo senso, il compromesso “socialdemocratico” europeo, il “modello sociale europeo” e la stessa costruzione dell’UE, nonostante ovviamente non siano un’alternativa al capitalismo, sono l’unica eccezione rimasta in campo al dilagare della finanza globale. Ed è un’eccezione oramai vicina ad essere travolta, anche per la fondamentale incomprensione di buona parte della sinistra europea dei processi in atto (quando non si tratta piuttosto di corruzione più o meno mascherata dei partiti e dei sindacati “riformisti”).

Dunque la mia lettura della recente crisi globale (in Antologia della crisi globale) pone la questione della modifica strutturale dei rapporti di forza fra lavoro e capitale al centro della spiegazione di ciò che sta accadendo, e che trova nelle liberalizzazioni e privatizzazioni un elemento costitutivo. Solo una soggettività politica molto determinata potrebbe a questo punto invertire il processo.

di Massimo Florio - 20/04/2011

20 aprile 2011

Nucleare? No, grazie, avevamo scherzato


Dopo avere passato oltre un mese ad arrampicarsi sulle superfici di specchi troppo lisci, dopo avere mandato allo sbaraglio in Tv e sui giornali improbabili rappresentanti del mondo scientifico pervasi di cocente imbarazzo, dopo avere tentato di tergiversare laddove non esistevano spazi né margini, anche il governo italiano si è visto costretto a prendere atto del fatto che la catastrofe di Fukushima ha messo una definitiva pietra tombale sulla fallimentare esperienza della produzione energetica per mezzo del nucleare.
Pietra tombale la cui posa metterà in gravissima difficoltà tutti quegli stati che avevano sposato il nucleare e nei prossimi anni si ritroveranno costretti a smantellare decine e decine di centrali, senza avere il denaro per poterlo fare, dal momento che l'energia atomica è stata per decenni venduta a "basso costo" evitando di contabilizzare l'altissimo impegno finanziario derivante dallo smantellamento degli impianti, i cui costi erano stati demandati a "babbo morto".
Ora che il "babbo" è morto, l'Italia, grazie ai tanti "sovversivi e scellerati" che andarono a votare NO nel 1987, si ritrova in una posizione di assoluto privilegio, non vedendosi costretta nell'immediato futuro ad appesantire il proprio debito pubblico con i cospicui finanziamenti bancari ai quali dovranno giocoforza ricorrere tutti coloro che possiedono centrali nucleari da smantellare, ma non dispongono del denaro per poterlo fare.
Se la pretesa che gli antinuclearisti vengano pubblicamente ringraziati dai fan dell'atomo sulla via del pentimento....

suonerebbe eccessiva e un poco irriverente, appare al contrario indispensabile una politica energetica imperniata sulle fonti rinnovabili che miri a sfruttare la posizione di forza nella quale verremo a trovarci negli gli anni a venire.

Il ministro dell'Economia Tremonti, dopo i deliri in tema di occupazione esperiti qualche giorno fa, sembra esprimere qualche apertura in questa direzione, ventilando cospicui investimenti futuri nelle fonti rinnovabili, dopo essere stato tardivamente fulminato sulla via di Damasco, ma è ancora presto per valutare quanto possa esserci di vero e quanto di propagandistico in queste dichiarazioni.

Per il resto non ci resta che gioire moderatamente per la resa ampiamente prevedibile di un governo che aveva imboccato una strada dissennata e foriera di "cattivi presagi" per quanto concerne le elezioni imminenti.

Gioire moderatamente, perchè quello della politica è un viscido acquitrino, e occorrerà comprendere quanto questa decisione sia "sincera" e definitiva.
Nel frattempo tutto il carrozzone della politica è in grande fermento ed assume un atteggiamento interlocutorio nel reagire al dietrofront.

Il centrodestra tira un sospiro di sollievo, poichè la scelta, che pur brucia ai molti fan del nucleare, salverà con tutta probabilità la compagine di governo da una debacle elettorale cui avrebbe fatto seguito una ben più dura debacle referendaria, nella quale sarebbe stato messo a repentaglio anche il provvedimento sul legittimo impedimento.

Il centrosinistra che nella follia nucleare del governo aveva trovato linfa per sopperire alla propria inanità, si ritrova spiazzato, mentre già assaporava il gusto della vittoria e si vedrà costretto a produrre proposte politiche che non ha, se intende scendere nell'agone elettorale con qualche chanche di successo.

Antonio Di Pietro vede ridimensionarsi il suo ruolo di morigeratore della politica, agganciato per forze di cose alla grandissima visibilità che gli avrebbe portato in dono il referendum sul nucleare.

Una vittoria senza combattere lascia sempre il gusto di una vittoria a metà, soprattutto quando è forte la sensazione che in fondo possa trattarsi di un cavallo di Troia. Ciò nonostante tutti coloro che non difendono interessi politici di bottega non potranno che rallegrarsi per la decisione, pur con la prudenza e la moderazione che in questo caso s'impongono.
di Marco Cedolin

La forza delle cose e la debolezza dell'Europa

Foto di Giliola Chistè, www.giliolachiste.com


Qui, davvero, bisogna distinguere tra chi ha capito qualcosa della millenaria lezione della storia e chi non ne ha capito un accidente. Si obietterà che qui la storia non serve, che queste sono questioni pratiche, problemi seri: ma appunto questo è il punto. La storia è una disciplina serissima, che non è per nulla magistra vitae ma che tuttavia è essenziale e preziosa per comprendere il mondo nel quale ci stiamo movendo e le forze che vi si agitano.

La storia del pastore nomade Abele e del contadino stanziale Caino somiglia come una goccia d’acqua a quella dell’empio nomade Remo che non rispetta i limiti e i segni tracciati sul terreno e del saggio agricoltore e costruttore di citta Romolo che difende il solco tracciato con tutto il civile egoismo del quale la sua spada fratricida e capace. Pensateci. Perche dite quel che volete e pensate quel che vi pare, ma se ci dimentichiamo anche di Caino e Abele, anche di Romolo e Remo, allora sul serio non siamo piu nessuno. Per questo, non e il piccolo e tronfio signor Castelli, impettito e ben pettinato col suo panciotto, a sputazzare l’infamia tipo “Ai migranti per il momento non possiamo ancora sparare” (sottintendendo che sarebbe bello farlo, e che prima o poi lo faremo). Chi parla non è io ridicolo signor Castelli; come a pronunziare verità filosofiche dei profondita degne del Bar dello Sport del tipo “fuori da i’ ball”, non e l’allevatore di trote Bossi. No: chi parla è sempre l’eterna clava di Caino, è sempre l’empia spada di Romolo. E noi sappiamo che proprio perché il momento è difficile l’umanità e la ragione stanno da un’altra parte. E’ proprio nei momenti difficili che si deve restar fedeli all’umanità e alla ragione.

Sbarcano con tutti i mezzi, ormai. Carrette del mare, ex pescherecci che tengono il mare per miracolo (e per ottenere un posto in piedi sui quali si paga quanto su un transatlantico di lusso), gommoni: su di essi, poveracci stivati, carne umana che ricorda quella degli schiavi i quali, nelle stive dei bastimenti fino a un paio di secoli fa, con le loro povere vite hanno reso ricco l’Occidente. Ci sono delle donne anche incinte, donne che partoriscono; ci sono bambini che muoiono sul bagnasciuga o che aprono gli occhi fra quattro stracci, mentre qualcuno pietoso li lava con l’acqua contenuta in una tanica da benzina. Intanto, è fresca di giornata la notizia che le acciaierie Marcegaglia sbarcano in Cina: non vi dice nulla questo interessantissimo scambio di migranti? E’ di ieri la notizia che l’Europa non riesce a trovare una politica comune efficace per accogliere alcune migliaia di disperati e che tutti si preoccupano delle “nuove invasioni barbariche”, intanto pero i listini di stamattina parlavano dell’euro che vola e delle quotazioni delle imprese europee in borsa che s’impennano. Com’e che i ruoli al mondo sono cosi mai distribuiti? Che c’è chi rischia la pelle per passare il mare, poi e costretto perfino a cercar di evadere da campi di lavoro predisposti per lui, mentre nei paesi che “ospitano” (un verbo che fa quasi ridere…) questi disgraziati c’è, evidentemente, chi si dispera e protesta, e minaccia di sparare, e intanto esporta lavoro e tira su dei bei soldi?

Cacciatevi tre cose in testa, cristianucci europei. Primo: al mondo siamo sei miliardi, e stiamo tutti sulla stessa barca che si chiama terra, e qualcuno può anche aggrapparsi al bordo e rischiar di affogare mentre qualcun altro lo guarda con disprezzo dall’alto, sedendo al bar della prima Classe e sorseggiando un drink, ma alla fine o ci salviamo tutti o naufraghiamo insieme. Secondo: a parte i disagi di certe zone come Lampedusa (che è sacrosanto fare l’impossibile per aiutare: e lorsignori di Parigi e di Berlino debbono fare la loro parte, non fingere che si sia davanti a un’invasione di cavallette che riguarda quei terroni degli euromediterranei…), l’Europa è perfettamente in grado di ospitare alcune decine di migliaia di profughi: se ne arrivassero cinque milioni, sarebbero ancora l’1% della popolazione del continente, quindi ripartiamo spese e carichi e piantiamola di fare storie. Terzo: la ricreazione è finita, siamo alla vigilia delle vacche magre, qualcuno sta preparandoci i conti da pagare e la prosperità che abbiamo conosciuto noi occidentali non ci riguarderà piu nei prossimi decenni, mentre chi non l’ha mai conosciuta continuerà a non conoscerla mai (o pensate che di qui a trent’anni sarà immaginabile un mondo nel quale un miliardo e passa di cinesi possa consumare come hanno consumato europei occidentali e nordamericani, più o meno ottocento milioni di persone, nel secolo scorso?).

Quindi, siete avvisati. Rimboccarsi le maniche, e aggiungere parecchi posti a tavola perché, volenti o nolenti, c’è un sacco di amici in più. O spartiamo il companatico, o saranno dolori. Uscite una buona volta dai centri commerciali, cristianucci ben nutriti e calzati adidas. E rientrate nella storia. Quella d’oggi. Questa.

di Franco Cardini